J.M. Coetzee, il famoso scrittore sudafricano, fa una metafora della società sudafricana descrivendo le traversie di un magistrato di provincia, un pubblico ufficiale dal comportamento responsabile, un po’ corrotto ma non brutale, che trascorre le sue giornate di servizio agli estremi confini dell’Impero, vicino ad alcune tribù barbare che si recano nella sua città solo per commerciare o per curarsi1.
Nell’epilogo il magistrato si trova davanti il colonnello Joll, un burocrate mandato dai servizi segreti dell’Impero, che afferma che i barbari stanno preparando una ribellione. Il colonnello guida una spedizione a caccia di ribelli, e ritorna con un gruppo di nomadi in catene, ammutoliti e terrorizzati. Nonostante il magistrato dica chiaramente che gli sembrano inoffensivi, i prigionieri vengono torturati secondo i metodi di quella “psicologia moderna” che rappresenta un po’ la firma dei servizi segreti del nostro tempo. La possibilità che i barbari non fossero colpevoli di alcun complotto rivoluzionario viene puramente e semplicemente tolta di mezzo, a giudicare dal modo in cui il colonnello descrive il sistema da lui utilizzato per condurre un interrogatorio. “Dapprincipio ottengo solo bugie, vedete, ecco come succede. Prima bugie, poi si fa pressione sull’interrogato, quindi arrivano altre bugie, quindi si fa ancora pressione, e alla fine arriva “la rottura”: si fa ancora pressione, ed ecco che arriva la verità”. Oppure, secondo la sarcastica riformulazione che il magistrato fa delle convinzioni del torturatore: “Il dolore è verità. Tutto il resto è suscettibile di dubbio”2 .
Impossibilitato a controllare o ad influire sugli eventi, il magistrato tenta di dissociarsi dal colonnello, anche se in tutta onestà deve ammettere di rappresentare egli stesso un prodotto della medesima identità coloniale. Non diventa un critico dell’imperialismo o un romantico difensore dei barbari: vuole semplicemente continuare a comportarsi nel modo indolente che gli è sempre stato proprio, trascorrendo le giornate in “vecchi passatempi”, tenendo una ragazza barbara “per il mio letto” e leggendo i classici durante le serate.
I prigionieri barbari vengono stroncati a forza di torture, e poi rilasciati. Uno di essi tuttavia, una impassibile ragazza con gli occhi nerissimi e dai lisci capelli scuri rimane indietro, e viene accolta dal magistrato che cerca di curarle le ferite e alla fine decide, in seguito ai confusi sentimenti di colpevolezza che la brutalità del colonnello ha risvegliato in lui, di riaccompagnarla alla sua tribù.
Rientrato a casa, il magistrato viene accusato di tradimento e di “intelligenza col nemico”. Viene imprigionato nella stessa baracca in cui venivano interrogati i barbari e viene ridotto, da umiliazioni e tormenti, ad una condizione subumana. Apprende così la grande lezione del XX secolo, e riflette così:
Quando i torturatori mi hanno riportato qui la prima volta… Mi chiedevo quanto dolore un uomo in là con gli anni, agiato e bene in carne avrebbe potuto sopportare in nome delle sue poco usuali convinzioni sul come l’Impero avrebbe dovuto comportarsi. Ma ai miei torturatori non interessava graduare il dolore. A loro interessava soltanto dimostrarmi cosa volesse dire vivere in un corpo che può conservare nozione di cosa sia la giustizia solo fino a quando è integro e sta bene, ma che se ne dimentica molto, molto presto quando gli viene presa la testa, gli viene cacciato un tubo già per la gola e gli vengono versate dentro pinte e pinte di acqua salata… Arrivarono in cella per mostrarmi “il significato della parola umanità”, e nel tempo di un’ora riuscirono a darmene un’idea veramente esauriente”3.
Il punto centrale nella storia di J.M. Coetzee, in cui la popolazione mista e nera del Sud Africa viene raffigurata sotto il leggero camuffamento dei “barbari” che vivono ai margini dell’Impero bianco era, come il professor Eagleton ha scritto in un altro contesto, costituito da una storia in cui “la razionalità, nel suo aspetto esteriore, viene raffigurata come demenziale perché cerca di controllare il mondo intero, e per far questo deve sconfiggere una realtà che continua a sfuggirle”. Ma proprio questa realtà che essa tenta di sconfiggere, alla fine, “si ribella scopertamente ai progetti paranoici avanzati dalla razionalità”4.
I vecchi costrutti psicologici non sono stati spazzati completamente via, il Medio Oriente non è stato “scioccato e disorientato” per diventare un satellite filooccidentale, ed il capitalismo globale mostra nuovamente i segni della sua innata tendenza allo squilibrio ed alle crisi.
Secondo Terry Eagleton “sarebbe semplicemente assennato riconoscere questa follia, e sarebbe da pazzi pensare che una follia simile potrebbe semplicemente essere rimessa al suo posto dalla ragione”. Le differenze tra il colonnello Joll di oggi ed i “barbari” islamici non sono mai destinate a fare da base per un dialogo, ma soltanto a servire per una guerra psicologica destinata a durare fino all’esaurimento. Uno Joll crede, allo stesso modo di molte altre sue controparti moderne, che i barbari siano capaci solo di cospirare o di balbettare, a meno che la purezza chiarificatrice di un intenso dolore non li conduca verso la verità.
Alla fine, ovviamente, la realtà fa irruzione nel mondo di Joll e dell’Impero, e vi irrompe con il suo resistere ai diritti speciali che si pretenderebbero per “i bianchi”, e con il suo resistere al razzismo del loro club all’antica destinato alle persone civili, che esclude i barbari ammassandoli dall’altro lato del muro del giardino.
Le convergenti forze della realtà in piena rivalsa rappresentano una sfida anche per la tranquillità di molti occidentali che corrispondono alla figura del magistrato, per i quali i colonnelli Joll rappresentano un’intrusione foriera di guai ma che al tempo stesso dirigono altrove il proprio spiazzamento, preferendo consolarsi la coscienza in altri modi e trascorrere le loro giornate in vecchi passatempi.
Al primo affacciarsi della realtà nell’Impero metaforico di Coetzee, il magistrato non intraprende un percorso “per difendere la causa della giustizia a vantaggio dei barbari”5. Eppure in conclusione, in modo pur confuso, un “atto di resistenza” finisce per verificarsi. E si tratta di qualcosa che non proviene dai barbari, ma simbolicamente dal cuore stesso dell’Impero: il magistrato, che ha accettato un’identità che è essa stessa parte dell’Impero, si mette comunque in cammino per riaccompagnare la ragazza barbara torturata alla sua tribù. Un piccolo atto di cortesia, che per Joll e per i suoi pari è invece un atto di sovversione dalle conseguenze molto più gravi perché simboleggia un atto di censura che viene direttamente dalla élite; una rottura, una piccola ma minacciosa crepa nel muro della determinazione collettiva.
I vecchi costrutti psicologici non sono stati spazzati completamente via, il Medio Oriente non è stato “scioccato e disorientato” per diventare un satellite filooccidentale, ed il capitalismo globale mostra nuovamente i segni della sua innata tendenza allo squilibrio ed alle crisi.
Secondo Terry Eagleton “sarebbe semplicemente assennato riconoscere questa follia, e sarebbe da pazzi pensare che una follia simile potrebbe semplicemente essere rimessa al suo posto dalla ragione”. Le differenze tra il colonnello Joll di oggi ed i “barbari” islamici non sono mai destinate a fare da base per un dialogo, ma soltanto a servire per una guerra psicologica destinata a durare fino all’esaurimento. Uno Joll crede, allo stesso modo di molte altre sue controparti moderne, che i barbari siano capaci solo di cospirare o di balbettare, a meno che la purezza chiarificatrice di un intenso dolore non li conduca verso la verità.
Alla fine, ovviamente, la realtà fa irruzione nel mondo di Joll e dell’Impero, e vi irrompe con il suo resistere ai diritti speciali che si pretenderebbero per “i bianchi”, e con il suo resistere al razzismo del loro club all’antica destinato alle persone civili, che esclude i barbari ammassandoli dall’altro lato del muro del giardino.
Le convergenti forze della realtà in piena rivalsa rappresentano una sfida anche per la tranquillità di molti occidentali che corrispondono alla figura del magistrato, per i quali i colonnelli Joll rappresentano un’intrusione foriera di guai ma che al tempo stesso dirigono altrove il proprio spiazzamento, preferendo consolarsi la coscienza in altri modi e trascorrere le loro giornate in vecchi passatempi.
Al primo affacciarsi della realtà nell’Impero metaforico di Coetzee, il magistrato non intraprende un percorso “per difendere la causa della giustizia a vantaggio dei barbari”5. Eppure in conclusione, in modo pur confuso, un “atto di resistenza” finisce per verificarsi. E si tratta di qualcosa che non proviene dai barbari, ma simbolicamente dal cuore stesso dell’Impero: il magistrato, che ha accettato un’identità che è essa stessa parte dell’Impero, si mette comunque in cammino per riaccompagnare la ragazza barbara torturata alla sua tribù. Un piccolo atto di cortesia, che per Joll e per i suoi pari è invece un atto di sovversione dalle conseguenze molto più gravi perché simboleggia un atto di censura che viene direttamente dalla élite; una rottura, una piccola ma minacciosa crepa nel muro della determinazione collettiva.
La resistenza dall’interno
Coetzee mostra un magistrato che non è certamente una persona dalla moralità superiore: non è un ideologo e non è nemmeno un rivoluzionario che si oppone all’Impero: si trovava troppo bene a vivere come viveva, per considerare desiderabile qualche cambiamento radicale. Tuttavia il suo quieto interrogarsi sul senso e sulla giustezza di quanto veniva fatto in nome dell’Impero, e la sua consapevolezza istintiva che ci fosse qualcosa di profondamente storto risultavano sufficienti, in questa tutto sommato trascurabile esternazione di dubbi, ad aprire una crepa.
Nell’introduzione di questo libro abbiamo citato il religioso iraniano che affermava che il modo islamico ed il modo occidentale di considerare che cosa costituisse l’essenza dell’essere umano erano ormai qualcosa di troppo distante perché dei politici potessero intavolare un dialogo costruttivo, a meno che non succedessero due cose. Innanzitutto, dovrebbe iniziare a cadere dagli occhi dell’Occidente la benda che impedisce ad esso di considerare le rovine prodotte negli ultimi trecento anni dal pensiero scientifico strumentale. In secondo luogo, i pensatori occidentali dovrebbero cominciare a considerare come sia potuto succedere che questo tipo di pensiero abbia dato origine ad una simile lista di tragedie, che vanno dal genocidio alla scienza razzista, fino alla “dottrina dello shock”, intanto che loro rimanevano sinceramente (e su questo vocabolo il religioso iraniano poneva enfasi) convinti di star agendo per il meglio, nell’interesse dell’umanità.
Oggi sembra una cieca assurdità il rifarsi alla scienza razziale del XIX secolo, i tempi in cui antropologi come John Beddoes potevano mettere a punto un indice di “nigriscenza” per classificare gli abitanti delle Isole Britanniche in base alle loro caratteristiche razziali. Dapprincipio gli antropologi avevano concepito le “classi inferiori” come caratterizzate da un’autentica distinzione razziale rispetto alle classi medie e a quelle dell’alta società; anche gli irlandesi vennero letteralmente classificati come “scuri di pelle”. Le ricerche di John Beddoes evidenziavano che la “nigriscenza” cresceva tra i rappresentanti delle classi inferiori a causa della presenza di immigrati irlandesi, da lui descritti come “africanidi”6.
Oggi possiamo anche storcere il naso davanti a simili assurdità; ma sono davvero tanto diverse, quanto a completo disprezzo per le sofferenze e per le sventure umane che toccano alle vittime di “scienze” del genere, da quelle di scienze sociali contemporanee che hanno visto gli esperimenti di Pinochet in Cile nel 1973 condotti in nome dell’economia neoliberista, o la distruzione dell’Iraq trent’anni dopo, condotta in nome della concezione americana della democrazia? Che cosa ha provocato una tale distorsione della scienza e dell’empirismo? Che cosa è stato nell’ossessione dei protestanti e del modernismo laico verso la dimostrazione della loro utopia, e nel voler ad ogni costo dimostrare la non necessità di una religione collettiva, a indurre nell’Occidente un’amnesia di massa lunga trecento anni verso le conseguenze di tutto questo in termini di sofferenze umane?
Il religioso iraniano insisteva sul fatto che l’Occidente dovrebbe riflettere su tutto questo. Diceva che quello che soprattutto serve è che si faccia caso ai processi cognitivi. Sperava che da una riflessione del genere sarebbe stato possibile trovare un terreno comune su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano e sui suoi valori, e che sarebbe stato possibile un esame del passato a partire da questa base.
Abbiamo citato anche, in modo analogo, il pensiero di Michel Foucault: l’Occidente deve capire che la sua visione del mondo ha generato ovunque una crescente ostilità e che i musulmani la avevano semplicemente scavalcata e superata per pensare al proprio futuro. Foucault ha detto anche che ogni civiltà deve affrontare circostanze, nel corso della propria storia, in cui ha bisogno di trovare nuove energie per superare i limiti dell’ideologia consolidata e per rinnovare il proprio modo di pensare.
J.M. Coetzee, nel suo racconto su un Impero basato sulla convinzione che i bianchi siano detentori di diritti esclusivi, ha mostrato in modo pungente come possa iniziare un processo di rinnovamento: un rivoluzionario assolutamente improbabile, un magistrato, inizia a rimuginare dubbi sulla necessità o sull’utilità di trattare le tribù vicine come barbari che minacciano l’esistenza dell’Impero e che possono essere persuasi a mondarsi della loro antipatia nei confronti di esso soltanto tramite la purificatrice esperienza del dolore puro. J.M. Coetzee ha suggerito che questi pochi dubbi, ed un interrogarsi argomentato sulla mentalità del colonnello di per sé costituiscono nientemeno che la base per un cambiamento.
Il magistrato non si è unito ai barbari, non si è immedesimato coi nativi al punto di prendere le armi contro l’impero. Ma ha cominciato, dopo un lungo periodo di piacevole sonnolenza, a pensare di nuovo in modo critico. E si è reso protagonista di un cruciale e simbolico atto di solidarietà umana.
Nell’introduzione di questo libro abbiamo citato il religioso iraniano che affermava che il modo islamico ed il modo occidentale di considerare che cosa costituisse l’essenza dell’essere umano erano ormai qualcosa di troppo distante perché dei politici potessero intavolare un dialogo costruttivo, a meno che non succedessero due cose. Innanzitutto, dovrebbe iniziare a cadere dagli occhi dell’Occidente la benda che impedisce ad esso di considerare le rovine prodotte negli ultimi trecento anni dal pensiero scientifico strumentale. In secondo luogo, i pensatori occidentali dovrebbero cominciare a considerare come sia potuto succedere che questo tipo di pensiero abbia dato origine ad una simile lista di tragedie, che vanno dal genocidio alla scienza razzista, fino alla “dottrina dello shock”, intanto che loro rimanevano sinceramente (e su questo vocabolo il religioso iraniano poneva enfasi) convinti di star agendo per il meglio, nell’interesse dell’umanità.
Oggi sembra una cieca assurdità il rifarsi alla scienza razziale del XIX secolo, i tempi in cui antropologi come John Beddoes potevano mettere a punto un indice di “nigriscenza” per classificare gli abitanti delle Isole Britanniche in base alle loro caratteristiche razziali. Dapprincipio gli antropologi avevano concepito le “classi inferiori” come caratterizzate da un’autentica distinzione razziale rispetto alle classi medie e a quelle dell’alta società; anche gli irlandesi vennero letteralmente classificati come “scuri di pelle”. Le ricerche di John Beddoes evidenziavano che la “nigriscenza” cresceva tra i rappresentanti delle classi inferiori a causa della presenza di immigrati irlandesi, da lui descritti come “africanidi”6.
Oggi possiamo anche storcere il naso davanti a simili assurdità; ma sono davvero tanto diverse, quanto a completo disprezzo per le sofferenze e per le sventure umane che toccano alle vittime di “scienze” del genere, da quelle di scienze sociali contemporanee che hanno visto gli esperimenti di Pinochet in Cile nel 1973 condotti in nome dell’economia neoliberista, o la distruzione dell’Iraq trent’anni dopo, condotta in nome della concezione americana della democrazia? Che cosa ha provocato una tale distorsione della scienza e dell’empirismo? Che cosa è stato nell’ossessione dei protestanti e del modernismo laico verso la dimostrazione della loro utopia, e nel voler ad ogni costo dimostrare la non necessità di una religione collettiva, a indurre nell’Occidente un’amnesia di massa lunga trecento anni verso le conseguenze di tutto questo in termini di sofferenze umane?
Il religioso iraniano insisteva sul fatto che l’Occidente dovrebbe riflettere su tutto questo. Diceva che quello che soprattutto serve è che si faccia caso ai processi cognitivi. Sperava che da una riflessione del genere sarebbe stato possibile trovare un terreno comune su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano e sui suoi valori, e che sarebbe stato possibile un esame del passato a partire da questa base.
Abbiamo citato anche, in modo analogo, il pensiero di Michel Foucault: l’Occidente deve capire che la sua visione del mondo ha generato ovunque una crescente ostilità e che i musulmani la avevano semplicemente scavalcata e superata per pensare al proprio futuro. Foucault ha detto anche che ogni civiltà deve affrontare circostanze, nel corso della propria storia, in cui ha bisogno di trovare nuove energie per superare i limiti dell’ideologia consolidata e per rinnovare il proprio modo di pensare.
J.M. Coetzee, nel suo racconto su un Impero basato sulla convinzione che i bianchi siano detentori di diritti esclusivi, ha mostrato in modo pungente come possa iniziare un processo di rinnovamento: un rivoluzionario assolutamente improbabile, un magistrato, inizia a rimuginare dubbi sulla necessità o sull’utilità di trattare le tribù vicine come barbari che minacciano l’esistenza dell’Impero e che possono essere persuasi a mondarsi della loro antipatia nei confronti di esso soltanto tramite la purificatrice esperienza del dolore puro. J.M. Coetzee ha suggerito che questi pochi dubbi, ed un interrogarsi argomentato sulla mentalità del colonnello di per sé costituiscono nientemeno che la base per un cambiamento.
Il magistrato non si è unito ai barbari, non si è immedesimato coi nativi al punto di prendere le armi contro l’impero. Ma ha cominciato, dopo un lungo periodo di piacevole sonnolenza, a pensare di nuovo in modo critico. E si è reso protagonista di un cruciale e simbolico atto di solidarietà umana.
Foucault e l’essenza del cambiamento
Un atto come questo, pensa Foucault, mette sulla strada giusta per scoprire le risorse necessarie a sfuggire all’autorità e per limitare l’influenza di un paradigma di pensiero dominante, consentendo al pensiero di raggiungere campi in cui è necessario il ragionamento critico. Certamente si deve far riferimento a processi molto più remoti nel passato, se vogliamo capire in che modo siamo rimasti prigionieri della nostra stessa storia7.
Foucault pensa che qualcuno possa sfuggire ai ricatti del pensiero consolidato e della propria storia tramite “un cambiamento che egli stesso produce in se stesso”8. L’essenza di questo cambiamento è costituita dall’avere “il coraggio e l’audacia di sapere”: una sorta di illuminazione che va considerata sia un processo in cui gli uomini prendono parte collettivamente, sia come un atto di coraggio che ciascuno deve compiere per proprio conto9.
Foucault fa l’esempio della scoperta dei principi della genetica, compiuta da Gregor Mendel nel 1865:
Foucault pensa che qualcuno possa sfuggire ai ricatti del pensiero consolidato e della propria storia tramite “un cambiamento che egli stesso produce in se stesso”8. L’essenza di questo cambiamento è costituita dall’avere “il coraggio e l’audacia di sapere”: una sorta di illuminazione che va considerata sia un processo in cui gli uomini prendono parte collettivamente, sia come un atto di coraggio che ciascuno deve compiere per proprio conto9.
Foucault fa l’esempio della scoperta dei principi della genetica, compiuta da Gregor Mendel nel 1865:
La gente si è spesso chiesta in che diavolo di modo i botanici e i biologi del XIX secolo riuscirono a non ammettere la verità delle affermazioni di Mendel. Ma questo è successo esattamente perché Mendel parlava di cose, usava metodi e collocava il suo lavoro all’interno di una prospettiva teorica che era totalmente aliena alla biologia dei suoi tempi.
L’opera di Mendel, che suggeriva che i tratti ereditari costituissero un oggetto di studio completamente nuovo per la biologia, venne ignorata ed osteggiata fino all’inizio del XX secolo, quando venne riscoperta. A questo punto divenne possibile una riconciliazione:
Mendel aveva detto la verità, ma non era dans le vrai [incluso nel contesto del vero] rispetto alla biologia dei suoi tempi: semplicemente non era attraverso linee come questa che gli oggetti e i concetti delle scienze biologiche venivano concepiti. Occorreva un vasto mutamento di scala, il dispiego di una gamma totalmente nuova di oggetti di studio, perché Mendel potesse essere incluso nel contesto del vero e le sue affermazioni apparissero per la maggior parte esatte. Mende era un autentico mostro, al punto che la scienza non disponeva del modo di parlarne in maniera adeguata10.
E alla sua morte i suoi scritti vennero bruciati.
Nel Sud Africa autentico, inteso come contrapposto all’Impero metaforico di Coetzee, la resistenza c’era comunque. C’era una resistenza armata, capeggiata dall’African National Congress (ANC) e c’era una resistenza non armata fatta di sindacati, di attivisti e di movimenti religiosi. E di tutto il processo faceva parte anche un attore meno scontato. Si trattava di una presenza che insieme alle altre costituenti, e nonostante il fatto che si trattasse di qualcosa di solitamente escluso dai conti, ebbe un ruolo fondamentale in quello che nel linguaggio di Foucault è “il cambiamento che qualcuno produce in se stesso”.
La élite bianca era rimasta impelagata nell’ideologia dei diritti d’eccezione riservati ai bianchi, nonostante il montare della resistenza armata e non. Ma pochi eminenti uomini d’affari bianchi, dall’interno del cerchio della élite, cominciarono a porsi qualche domanda sulla vita operativa e sulla razionalità che c’erano nell’intenzione dei loro stessi consimili di voler conservare questi diritti d’eccezione.
Si chiesero come sarebbe stato il mondo ai tempi dei loro nipoti, e cominciarono ad avanzare dubbi e critiche, ma da una piattaforma interna e propria del loro stesso gruppo. Videro che non si poteva tenere tanto a lungo a freno una realtà riluttante a farsi dominare e riconobbero la resistenza. Videro così l’ANC come una realtà che non sarebbe scomparsa solo perché veniva etichettata come terrorista.
Cominciarono ad esprimere concetti come questi, ed iniziarono a costruire dei collegamenti con gli attivisti che stavano al di fuori della loro élite, e che da molto tempo affermavano le stesse cose. Questi attivisti, proprio come Mendel, avevano detto la verità, ma dapprincipio essa non aveva trovato posto nell’àmbito dei concetti ammessi. Quello che avevano affermato, come le teorie genetiche di Mendel, all’inizio aveva provocato soltanto rabbia e indignazione. Ma gli Oppenheimer e gli angloamericani, come quel rivoluzionario improbabile che era il magistrato di Coetzee, iniziarono ad esibirsi in piccoli ma simbolicamente importanti “atti di resistenza”. La crepa era aperta.
Questa gente esibiva i propri tranquilli “atti di resistenza” nella convinzione che una società potesse diventare prigioniera del modo in cui presentava la propria storia e del proprio modo di pensare, in questo caso dal continuare ad invocare diritti eccezionali per i bianchi in Sud Africa, in una regione che già da molto tempo aveva guadagnato la propria indipendenza da cose come questa.
Questi uomini d’affari si accorsero che la realtà, rappresentata in questo caso dalla resistenza, non poteva essere annullata in eterno e che soltanto avanzando una critica che suonasse come una sfida all’interno dell’ambiente dominato da questo modo di pensare, soltanto col rifiutarsi di sottostare a quelle condizioni di volontà che ci fanno accettare l’autorità altrui era possibile rompere il ricatto perpetrato da questa pietrificata categoria del pensiero. Fu quindi dall’interno, dalla fortezza stessa dell’establishment bianco, che partì la mobilitazione resistenziale che avrebbe innescato il cambiamento.
Foucault aveva previsto che una critica, all’inizio, si imbatte sempre in qualche difficoltà perché si scontra con i limiti consolidati e generalmente condivisi imposti da anni di pensiero condizionato, di convenzioni stabilite e di una quasi impercettibile influenza conformista imposta dalle istituzioni e dall’ambiente in cui ci si trova ad operare. Ogni atto di libertà e di protesta deve per forza contemplare una deliberata infrazione di questi limiti11.
Gli uomini d’affari sudafricani che violarono le norme comunemente accettate dalla élite conservatrice bianca a cui appartenevano aiutarono la società a superare i propri limiti e le proprie angustie. La aiutarono a spostarsi al di là della prospettiva del sanguinoso futuro di conflitto sociale che in molti prevedevano per il Sud Africa.
Non vogliamo con questo suggerire che la situazione del Sud Africa di allora possa costituire un parallelo diretto alla situazione dell’Islam di oggi. Le cose non stanno in questo modo. Quello che stiamo cercando di esporre è il tipo di processo che Foucault può aver avuto presente quando scriveva di quanto aveva visto in Iran, e sulle sue implicazioni per il pensiero occidentale. E’ il processo di rottura con il passato che è avvenuto in Sud Africa, più che la situazione politica in se stessa, a poter servire da parallelo.
Coloro che in Occidente condividono le preoccupazioni del magistrato su quanto viene fatto in nome dell’Impero, e che si trovano a disagio davanti alla limitata prospettiva con cui il colonnello Joll concepisce il corretto trattamento dei barbari, possono anche darsi da fare in qualche modo. L’improbabile magistrato e la punta di diamante rappresentata dai businessmen sudafricani hanno levato le loro voci in segno di critica contro la prevalente ortodossia rappresentata dalla normalizzazione dell’ingiustizia. Si levarono in nome del rifiuto, anziché accettare come un fatto normale il comportamento dei colonnelli Joll e di considerarlo parte del normale susseguirsi degli eventi in quello che è l’ordinaria amministrazione della politica perfettamente depoliticizzata. Il magistrato ha compiuto un atto di solidarietà umana, gli uomini d’affari sono diventati parte della resistenza portata avanti dagli attivisti e dai loro movimenti sociali. Ma soprattutto hanno avanzato dei dubbi, si sono posti delle domande.
Nel Sud Africa autentico, inteso come contrapposto all’Impero metaforico di Coetzee, la resistenza c’era comunque. C’era una resistenza armata, capeggiata dall’African National Congress (ANC) e c’era una resistenza non armata fatta di sindacati, di attivisti e di movimenti religiosi. E di tutto il processo faceva parte anche un attore meno scontato. Si trattava di una presenza che insieme alle altre costituenti, e nonostante il fatto che si trattasse di qualcosa di solitamente escluso dai conti, ebbe un ruolo fondamentale in quello che nel linguaggio di Foucault è “il cambiamento che qualcuno produce in se stesso”.
La élite bianca era rimasta impelagata nell’ideologia dei diritti d’eccezione riservati ai bianchi, nonostante il montare della resistenza armata e non. Ma pochi eminenti uomini d’affari bianchi, dall’interno del cerchio della élite, cominciarono a porsi qualche domanda sulla vita operativa e sulla razionalità che c’erano nell’intenzione dei loro stessi consimili di voler conservare questi diritti d’eccezione.
Si chiesero come sarebbe stato il mondo ai tempi dei loro nipoti, e cominciarono ad avanzare dubbi e critiche, ma da una piattaforma interna e propria del loro stesso gruppo. Videro che non si poteva tenere tanto a lungo a freno una realtà riluttante a farsi dominare e riconobbero la resistenza. Videro così l’ANC come una realtà che non sarebbe scomparsa solo perché veniva etichettata come terrorista.
Cominciarono ad esprimere concetti come questi, ed iniziarono a costruire dei collegamenti con gli attivisti che stavano al di fuori della loro élite, e che da molto tempo affermavano le stesse cose. Questi attivisti, proprio come Mendel, avevano detto la verità, ma dapprincipio essa non aveva trovato posto nell’àmbito dei concetti ammessi. Quello che avevano affermato, come le teorie genetiche di Mendel, all’inizio aveva provocato soltanto rabbia e indignazione. Ma gli Oppenheimer e gli angloamericani, come quel rivoluzionario improbabile che era il magistrato di Coetzee, iniziarono ad esibirsi in piccoli ma simbolicamente importanti “atti di resistenza”. La crepa era aperta.
Questa gente esibiva i propri tranquilli “atti di resistenza” nella convinzione che una società potesse diventare prigioniera del modo in cui presentava la propria storia e del proprio modo di pensare, in questo caso dal continuare ad invocare diritti eccezionali per i bianchi in Sud Africa, in una regione che già da molto tempo aveva guadagnato la propria indipendenza da cose come questa.
Questi uomini d’affari si accorsero che la realtà, rappresentata in questo caso dalla resistenza, non poteva essere annullata in eterno e che soltanto avanzando una critica che suonasse come una sfida all’interno dell’ambiente dominato da questo modo di pensare, soltanto col rifiutarsi di sottostare a quelle condizioni di volontà che ci fanno accettare l’autorità altrui era possibile rompere il ricatto perpetrato da questa pietrificata categoria del pensiero. Fu quindi dall’interno, dalla fortezza stessa dell’establishment bianco, che partì la mobilitazione resistenziale che avrebbe innescato il cambiamento.
Foucault aveva previsto che una critica, all’inizio, si imbatte sempre in qualche difficoltà perché si scontra con i limiti consolidati e generalmente condivisi imposti da anni di pensiero condizionato, di convenzioni stabilite e di una quasi impercettibile influenza conformista imposta dalle istituzioni e dall’ambiente in cui ci si trova ad operare. Ogni atto di libertà e di protesta deve per forza contemplare una deliberata infrazione di questi limiti11.
Gli uomini d’affari sudafricani che violarono le norme comunemente accettate dalla élite conservatrice bianca a cui appartenevano aiutarono la società a superare i propri limiti e le proprie angustie. La aiutarono a spostarsi al di là della prospettiva del sanguinoso futuro di conflitto sociale che in molti prevedevano per il Sud Africa.
Non vogliamo con questo suggerire che la situazione del Sud Africa di allora possa costituire un parallelo diretto alla situazione dell’Islam di oggi. Le cose non stanno in questo modo. Quello che stiamo cercando di esporre è il tipo di processo che Foucault può aver avuto presente quando scriveva di quanto aveva visto in Iran, e sulle sue implicazioni per il pensiero occidentale. E’ il processo di rottura con il passato che è avvenuto in Sud Africa, più che la situazione politica in se stessa, a poter servire da parallelo.
Coloro che in Occidente condividono le preoccupazioni del magistrato su quanto viene fatto in nome dell’Impero, e che si trovano a disagio davanti alla limitata prospettiva con cui il colonnello Joll concepisce il corretto trattamento dei barbari, possono anche darsi da fare in qualche modo. L’improbabile magistrato e la punta di diamante rappresentata dai businessmen sudafricani hanno levato le loro voci in segno di critica contro la prevalente ortodossia rappresentata dalla normalizzazione dell’ingiustizia. Si levarono in nome del rifiuto, anziché accettare come un fatto normale il comportamento dei colonnelli Joll e di considerarlo parte del normale susseguirsi degli eventi in quello che è l’ordinaria amministrazione della politica perfettamente depoliticizzata. Il magistrato ha compiuto un atto di solidarietà umana, gli uomini d’affari sono diventati parte della resistenza portata avanti dagli attivisti e dai loro movimenti sociali. Ma soprattutto hanno avanzato dei dubbi, si sono posti delle domande.
La sensibilizzazione politica
W.G. Sebald, che scrisse in merito a Jean Améry e al suo doversi confrontare con il trauma dei campi di concentramento, fa notare il senso di rabbia che è possibile riconoscere in molte delle sue opere. Améry giustificava questa emozione considerandola essenziale per vedere il passato in modo veramente critico: è lo stimolo della rabbia ad inchiodare ciascuno al suo passato distrutto12.
La sensibilizzazione della coscienza -e la visione critica del passato a cui essa apre la porta- è ciò che offre lo stimolo in risposta al quale ci si muove verso un nuovo modo di pensare sul piano politico, proprio come il religioso iraniano aveva accennato.
Il problema è che le emozioni legate alla rabbia e la sensibilizzazione della coscienza sono cose di difficile accesso nella politica di oggi, autopacificata ed eretta a stile di vita, che non si presenta più come una lotta nel contesto di quella che è un’esistenza sempre più povera di imprevisti e sempre più anemica. Non è facile ripoliticizzare la politica o la cultura, in un’epoca in cui la maggior parte della popolazione in Occidente vive in modo piacevole, sicuro e privo di dolori.
In questo senso è possibile condividere il pessimismo del religioso iraniano circa i risultati di un dialogo politico, pur notando che un cambiamento radicale fatto di nuovo modo di pensare e di nuovo linguaggio potrebbe essere prossimo, se solo quanti vivono in Occidente si mobilitassero ed iniziassero ad elevare critiche. Non col gusto puro e semplice di criticare, ma con il chiedere concreto ed incessante quali siano adesso gli scopi della potenza occidentale, e quali siano esattamente i valori su cui esso si fonda attualmente.
Non si tratta più di trovarsi dalla parte sbagliata del discorso “vero”, come si venne a trovare Gregor Mendel nella seconda parte del XIX secolo; il progetto di plasmare i costumi mediorientali e l’ordine mondiale emergente sulla base dell’immagine occidentale si sta rapidamente sfilacciando, ed in questa situazione il continuo porre freni e limiti tipico del pensiero securitarista occidentale dei nostri giorni rispecchia, come Jean Paul Sartre potrebbe aspramente constatare, quello dei colonnelli Joll di un’epoca ormai passata:
La sensibilizzazione della coscienza -e la visione critica del passato a cui essa apre la porta- è ciò che offre lo stimolo in risposta al quale ci si muove verso un nuovo modo di pensare sul piano politico, proprio come il religioso iraniano aveva accennato.
Il problema è che le emozioni legate alla rabbia e la sensibilizzazione della coscienza sono cose di difficile accesso nella politica di oggi, autopacificata ed eretta a stile di vita, che non si presenta più come una lotta nel contesto di quella che è un’esistenza sempre più povera di imprevisti e sempre più anemica. Non è facile ripoliticizzare la politica o la cultura, in un’epoca in cui la maggior parte della popolazione in Occidente vive in modo piacevole, sicuro e privo di dolori.
In questo senso è possibile condividere il pessimismo del religioso iraniano circa i risultati di un dialogo politico, pur notando che un cambiamento radicale fatto di nuovo modo di pensare e di nuovo linguaggio potrebbe essere prossimo, se solo quanti vivono in Occidente si mobilitassero ed iniziassero ad elevare critiche. Non col gusto puro e semplice di criticare, ma con il chiedere concreto ed incessante quali siano adesso gli scopi della potenza occidentale, e quali siano esattamente i valori su cui esso si fonda attualmente.
Non si tratta più di trovarsi dalla parte sbagliata del discorso “vero”, come si venne a trovare Gregor Mendel nella seconda parte del XIX secolo; il progetto di plasmare i costumi mediorientali e l’ordine mondiale emergente sulla base dell’immagine occidentale si sta rapidamente sfilacciando, ed in questa situazione il continuo porre freni e limiti tipico del pensiero securitarista occidentale dei nostri giorni rispecchia, come Jean Paul Sartre potrebbe aspramente constatare, quello dei colonnelli Joll di un’epoca ormai passata:
Ha già perso, ma non l’ha capito; non sa che i “nativi” sono dei “nativi” falsi. Deve farli soffrire, dice lui, per reprimere il male che hanno dentro loro stessi… Com’è possibile che non riesca a vedere che è la sua stessa crudeltà, adesso, a ritorcerglisi contro? Com’è possibile che non riesca a vedere la sua stessa ferocia di colonialista nella ferocia di coloro che opprime? La risposta è semplice: questo individuo arrogante, cui hanno dato alla testa tanto il potere e l’autorità quanto la paura di perderli, ha difficoltà a ricordare di essere stato, una volta, un uomo13.
Argomenti affrontati in Resistenza
La resistenza islamica è nata dal trauma dell’ingegneria sociale, della pulizia etnica, del sovvertimento dei sistemi politici, della repressione e dei massacri che sono stati la diretta conseguenza dell’esperimento occidentale che è consistito nell’esportare nelle società musulmane una visione della vita basata su un’economia di mercato liberata da ogni controllo politico e sociale. L’occidentalizzazione e la laicizzazione forzate della Turchia, e la brutalità del suo diventare stato nazione, simboleggiano i peggiori aspetti del modernismo laico. Il primo argomento toccato da Resistenza è stato questo.
Il secondo è stato che il mito occidentale del libero mercato, che si comporterebbe in modo da conciliare le scelte individualistiche ed egoriferite di uomini e donne, operando attraverso una mano invisibile per produrre le migliori condizioni di benessere umano, è semplicemente inconciliabile con l’Islam, e rappresenta una minaccia alla sua stessa esistenza. Si tratta di una visione costruita sui miti rappresentati dalla mano invisibile e dall’ordine che spontaneamente e per natura emergerebbe dal disordine della contesa egoistica e competitiva. Lo stato nazione di tipo occidentale, la dottrina dei diritti umani e le istituzioni della democrazia occidentale derivano tutti da questi stessi miti.
Il terzo tema affrontato in Resistenza è quello delle diverse introspezioni religiose che sottostanno al conflitto, quello dei temi religiosi cristiani che stanno alla base del pensiero occidentale in materia di economia, di stato nazionale e dei principi attorno ai quali si organizza una società. Si tratta nella sua essenza di un conflitto che tocca sensibilità religiose profonde, che trova poi una sua sintesi nel modernismo laico.
Non è, invece, un confronto schietto tra Islam e cristianesimo. La tradizione anglosassone, incarnata dall’America, è nata da una lunga lotta tra quanto c’è di personalizzato, di fondato sulla libera impresa e dall’accettazione del cambiamento così com’è esemplificata da Abramo all’interno del protestantesimo, e la religiosità a base comunitaria tipica del cattolicesimo. Queste tematiche, originariamente protestanti, si possono vedere oggi riflesse nel linguaggio che l’Occidente utilizza nei confronti dell’Islam.
Un quarto argomento è dato dal fatto che in fondo l’intera disputa può essere ridotta a due punti di vista contrapposti su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano.
In Resistenza si sostiene che sia successo qualcosa di importante nell’evoluzione dell’ideologia islamica. Gli islamici, che sono stati angustiati dal pensiero scientifico strumentale dell’Occidente allo stesso modo di molta gente nei secoli diciannovesimo e ventesimo, si sono improvvisamente liberati. L’importanza cruciale della Rivoluzione Iraniana è in questo fatto: essa ha liberato gli islamici dai limiti autoimposti che derivavano loro dall’egemonia del pensiero utilitarista. E questo è stato il quinto argomento.
L’ideologia che si è evoluta è dinamica e sostanziale. L’Islam sta acquisendo caratteristiche tipiche delle società aperte, unite ad una matrice di pensiero dinamica ed in evoluzione, mentre l’Occidente sta acquisendo alcune delle caratteristiche tipiche delle società chiuse. Questo fenomeno rappresenta un’inversione di quanto percepito a livello popolare in Occidente, ed è anche il sesto grande tema affrontato da Resistenza. Le componenti sociali ed economiche dell’Islam rappresentano la restituzione ideologica di una dimensione autenticamente politica sia alla cultura che alla politica vera e propria. Sono strumenti per la mobilitazione sociale di massa, piuttosto che scelte di vita che contrassegnano gli ambiti personali del singolo individuo.
Il sistema islamico ha poco senso, se analizzato semplicemente come competitore del sistema occidentale e giudicato per l’efficacia con cui esso riesce a raggiungere obiettivi stabiliti con criteri occidentali. L’economia islamica può essere compresa in modo adeguato soltanto partendo dall’aspirazione di regolare l’ambito personale all’interno del contesto di una società collettiva ed ispirata a criteri di giustizia.
A differenza del progetto occidentale, quello islamico non ha caratteristiche utopiche: rappresenta un sistema che viene predicato partendo da una considerazione realistica della natura umana. Non ha l’obiettivo di trasformare gli esseri umani tramite l’azione umana, ma crede che il comportamento venga influenzato dall’esperienza di vita compiuta in una comunità ispirata a giustizia e compassione, e da esseri umani che si comportano gli uni con gli altri come Dio ha ordinato.
Il settimo tema affrontato in Resistenza è che il principale filone della resistenza islamica è espressione della mentalità umana in condizioni di avversità, e rappresenta un’evoluzione naturale di eventi che possono essere spiegati e compresi dal punto di vista storico.
La resistenza è un mezzo per facilitare le soluzioni politiche perché costituisce un aiuto alla correzione degli squilibri asimmetrici, e perché costringe l’Occidente a riconoscere l’importanza dei principi di base necessari alla ricerca di una qualunque soluzione. In Resistenza si distingue tra la pratica di emancipazione di movimenti come Hamas e Hezbollah, la filosofia di “distruggere il sistema per costruire di nuovo” tipica di AlQaeda ed i propositi escatologici di certi gruppi salafiti. Si sostiene qui che il fallimento dell’Occidente nel compiere simili distinzioni rafforzi i movimenti più estremi, a tutte spese del filone principale.
Come ottava questione in, Resistenza si asserisce che la resistenza islamica non ha i caratteri di un “capriccio divino” più di quanto non li abbia la violenza sistematica messa in atto dagli stati occidentali e chiamata “legittimo uso della forza”. Entrambi hanno radici in temi religiosi. Si sostiene che la reazione dell’Occidente alla resistenza islamica ha tirato la volata ad un’ulteriore chiusura delle possibilità di dare spiegazioni storiche e razionali a questa resistenza, e ad interdire ad essa tutti i mezzi di comunicazione. Questo fatto rappresenta un riemergere delle vecchie tematiche protestanti e laiche tese a dimostrare che gli esseri umani dell’epoca contemporanea non hanno bisogno degli aspetti della religione che si vivono a livello comunitario.
Il nono argomento è che la demonizzazione dell’Islam non è il risultato di una scarsa comprensione di esso o un legittimo, ma in fin dei conti distorto, esercizio di capacità critiche. La demonizzazione dell’Islam rappresenta il frutto di una deliberata operazione ideologica che tra i suoi obiettivi ha quello di indebolire ovunque nel mondo il liberalismo, per rafforzare il potere americano di arrogarsi il diritto ad “azioni decisive”, e quello di giustificare un’accresciuta intromissione americana in Medio Oriente nel perseguire gli obiettivi previsti dall’agenda neoliberista. Gli islamici sono state in un certo senso le pedine di obiettivi strategici conservatori, centrati sull’assicurare una sconfitta irreversibile per il liberalismo ed il rafforzamento dell’egemonia globale americana.
Il decimo tema affrontato da Resistenza è che il perseguimento di questi obiettivi è stato fallimentare, e che questo fallimento va addebitato ad un modo di pensare che ha prodotto mucchi di macerie per tre secoli, e che negli ultimi anni ha aggiunto un’altra incredibile montagna di detriti a spese del mondo musulmano; un lascito che perseguiterà l’Occidente negli anni che verranno.
Il secondo è stato che il mito occidentale del libero mercato, che si comporterebbe in modo da conciliare le scelte individualistiche ed egoriferite di uomini e donne, operando attraverso una mano invisibile per produrre le migliori condizioni di benessere umano, è semplicemente inconciliabile con l’Islam, e rappresenta una minaccia alla sua stessa esistenza. Si tratta di una visione costruita sui miti rappresentati dalla mano invisibile e dall’ordine che spontaneamente e per natura emergerebbe dal disordine della contesa egoistica e competitiva. Lo stato nazione di tipo occidentale, la dottrina dei diritti umani e le istituzioni della democrazia occidentale derivano tutti da questi stessi miti.
Il terzo tema affrontato in Resistenza è quello delle diverse introspezioni religiose che sottostanno al conflitto, quello dei temi religiosi cristiani che stanno alla base del pensiero occidentale in materia di economia, di stato nazionale e dei principi attorno ai quali si organizza una società. Si tratta nella sua essenza di un conflitto che tocca sensibilità religiose profonde, che trova poi una sua sintesi nel modernismo laico.
Non è, invece, un confronto schietto tra Islam e cristianesimo. La tradizione anglosassone, incarnata dall’America, è nata da una lunga lotta tra quanto c’è di personalizzato, di fondato sulla libera impresa e dall’accettazione del cambiamento così com’è esemplificata da Abramo all’interno del protestantesimo, e la religiosità a base comunitaria tipica del cattolicesimo. Queste tematiche, originariamente protestanti, si possono vedere oggi riflesse nel linguaggio che l’Occidente utilizza nei confronti dell’Islam.
Un quarto argomento è dato dal fatto che in fondo l’intera disputa può essere ridotta a due punti di vista contrapposti su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano.
In Resistenza si sostiene che sia successo qualcosa di importante nell’evoluzione dell’ideologia islamica. Gli islamici, che sono stati angustiati dal pensiero scientifico strumentale dell’Occidente allo stesso modo di molta gente nei secoli diciannovesimo e ventesimo, si sono improvvisamente liberati. L’importanza cruciale della Rivoluzione Iraniana è in questo fatto: essa ha liberato gli islamici dai limiti autoimposti che derivavano loro dall’egemonia del pensiero utilitarista. E questo è stato il quinto argomento.
L’ideologia che si è evoluta è dinamica e sostanziale. L’Islam sta acquisendo caratteristiche tipiche delle società aperte, unite ad una matrice di pensiero dinamica ed in evoluzione, mentre l’Occidente sta acquisendo alcune delle caratteristiche tipiche delle società chiuse. Questo fenomeno rappresenta un’inversione di quanto percepito a livello popolare in Occidente, ed è anche il sesto grande tema affrontato da Resistenza. Le componenti sociali ed economiche dell’Islam rappresentano la restituzione ideologica di una dimensione autenticamente politica sia alla cultura che alla politica vera e propria. Sono strumenti per la mobilitazione sociale di massa, piuttosto che scelte di vita che contrassegnano gli ambiti personali del singolo individuo.
Il sistema islamico ha poco senso, se analizzato semplicemente come competitore del sistema occidentale e giudicato per l’efficacia con cui esso riesce a raggiungere obiettivi stabiliti con criteri occidentali. L’economia islamica può essere compresa in modo adeguato soltanto partendo dall’aspirazione di regolare l’ambito personale all’interno del contesto di una società collettiva ed ispirata a criteri di giustizia.
A differenza del progetto occidentale, quello islamico non ha caratteristiche utopiche: rappresenta un sistema che viene predicato partendo da una considerazione realistica della natura umana. Non ha l’obiettivo di trasformare gli esseri umani tramite l’azione umana, ma crede che il comportamento venga influenzato dall’esperienza di vita compiuta in una comunità ispirata a giustizia e compassione, e da esseri umani che si comportano gli uni con gli altri come Dio ha ordinato.
Il settimo tema affrontato in Resistenza è che il principale filone della resistenza islamica è espressione della mentalità umana in condizioni di avversità, e rappresenta un’evoluzione naturale di eventi che possono essere spiegati e compresi dal punto di vista storico.
La resistenza è un mezzo per facilitare le soluzioni politiche perché costituisce un aiuto alla correzione degli squilibri asimmetrici, e perché costringe l’Occidente a riconoscere l’importanza dei principi di base necessari alla ricerca di una qualunque soluzione. In Resistenza si distingue tra la pratica di emancipazione di movimenti come Hamas e Hezbollah, la filosofia di “distruggere il sistema per costruire di nuovo” tipica di AlQaeda ed i propositi escatologici di certi gruppi salafiti. Si sostiene qui che il fallimento dell’Occidente nel compiere simili distinzioni rafforzi i movimenti più estremi, a tutte spese del filone principale.
Come ottava questione in, Resistenza si asserisce che la resistenza islamica non ha i caratteri di un “capriccio divino” più di quanto non li abbia la violenza sistematica messa in atto dagli stati occidentali e chiamata “legittimo uso della forza”. Entrambi hanno radici in temi religiosi. Si sostiene che la reazione dell’Occidente alla resistenza islamica ha tirato la volata ad un’ulteriore chiusura delle possibilità di dare spiegazioni storiche e razionali a questa resistenza, e ad interdire ad essa tutti i mezzi di comunicazione. Questo fatto rappresenta un riemergere delle vecchie tematiche protestanti e laiche tese a dimostrare che gli esseri umani dell’epoca contemporanea non hanno bisogno degli aspetti della religione che si vivono a livello comunitario.
Il nono argomento è che la demonizzazione dell’Islam non è il risultato di una scarsa comprensione di esso o un legittimo, ma in fin dei conti distorto, esercizio di capacità critiche. La demonizzazione dell’Islam rappresenta il frutto di una deliberata operazione ideologica che tra i suoi obiettivi ha quello di indebolire ovunque nel mondo il liberalismo, per rafforzare il potere americano di arrogarsi il diritto ad “azioni decisive”, e quello di giustificare un’accresciuta intromissione americana in Medio Oriente nel perseguire gli obiettivi previsti dall’agenda neoliberista. Gli islamici sono state in un certo senso le pedine di obiettivi strategici conservatori, centrati sull’assicurare una sconfitta irreversibile per il liberalismo ed il rafforzamento dell’egemonia globale americana.
Il decimo tema affrontato da Resistenza è che il perseguimento di questi obiettivi è stato fallimentare, e che questo fallimento va addebitato ad un modo di pensare che ha prodotto mucchi di macerie per tre secoli, e che negli ultimi anni ha aggiunto un’altra incredibile montagna di detriti a spese del mondo musulmano; un lascito che perseguiterà l’Occidente negli anni che verranno.
Spiragli sul futuro
Gli argomenti affrontati in Resistenza fanno pensare che è probabile che ci si trovi in un altro dei momenti cruciali della storia: sono state tragedie del genere, diffuse dalla frenesia ottocentesca e novecentesca per gli stati nazione prima e dalla moda del libero mercato poi, a far nascere la resistenza islamica e la Rivoluzione Iraniana. Quello che i musulmani hanno passato negli ultimi trent’anni in termini di ideologia occidentale, occupazione militare e tentate trasformazioni a mezzo di “terapie d’urto” sembra una spaventosa ripetizione dei disastri del ventesimo secolo, per giunta in forma concentrata.
Questo recente atto dello spettacolo di lunga data rappresentato dal progetto utopistico euroamericano è probabilmente foriero di vaste conseguenze, anche se ancora troppo presto per identificare con chiarezza i suoi potenziali sbocchi.
Certamente esistono grosse differenze rispetto agli anni attorno al 1920; in quel periodo, l’Islam sunnita era disorientato e sotto shock. Il crollo del califfato aveva inferto un colpo psicologico ad una narrativa che già doveva pensare a difendersi, ed i cui studiosi stavano cercando di tagliare l’identità islamica a misura del pensiero occidentale. Il marxismo stava rodendo la base della comunità dei credenti, e i governanti di orientamento laico stavano svuotando la cultura e le tradizioni di tutto il loro contenuto islamizzato.
Possiamo ricordare che questo avveniva subito dopo che l’egemonia dell’utilitarismo scientifico occidentale aveva raggiunto il suo apice, e con esso anche una certa fase dell’ideologia del libero mercato. Già la marea rifluiva: i progetti di ingegneria sociale basati sul libero mercato realizzati in Europa nel XIX secolo avevano portato tensioni e sconvolgimenti politici arrivati al limite della rivoluzione in tutti i sistemi sociali delle grandi potenze continentali, in un processo che era stato dominato, e condotto verso altre direzioni, soltanto dallo sconvolgimento anche più grande rappresentato dalla prima guerra mondiale. Attorno al 1930 il capitalismo occidentale era piombato nella Grande Depressione, ed in ulteriori sconvolgimenti sociali.
L’atto dello spettacolo che si sta attualmente dipanando sembra seguire il copione del secolo trascorso almeno in un aspetto importante: l’America ed i suoi alleati hanno perseguito il loro progetto con gli stessi velenosi propositi, in questo caso particolare con l’aggiunta di un ingrediente extra rappresentato da una bella dose di millenarismo di stampo protestante. In questo caso però si sono imbattuti in una resistenza sempre più organizzata che sembra, almeno fino a questo momento, aver avuto successo.
Una differenza chiara tra allora ed oggi, a parte la pressoché totale mancanza di resistenza all’epoca, è che ai tempi industrializzazione e commercializzazione di massa erano fenomeni in ascesa, mentre oggi la loro credibilità è in larga parte svanita.
Sotto altri aspetti i paralleli con la storia dei primi decenni del XX secolo sembrano funzionare: lo scontento sta montando in Europa ed in America, ed in Europa ed in America la crisi finanziaria ed economica da lungo tempo attesa sta avanzando a grandi passi. Come successo ai tempi, questa combinazione di fattori fa presagire seri rovesci politici. Fa pensare anche che ci troviamo sull’orlo di un mutamento significativo, e con esso anche degli sconvolgimenti che i mutamenti significativi spesso comportano.
E’ possibile intravedere un rovesciamento dei ruoli in queste due fasi, da una parte rispetto alla situazione e alle condizioni dei popoli europei e dall’altra parte rispetto alle condizioni dei corrispettivi musulmani che vivono nel mondo islamico. Nel corso degli ultimi cento anni sono stati i musulmani a vedere distrutta la continuità politica e le strutture del loro mondo: le loro società sono state individualizzate e nel complesso anestetizzate dal punto di vista politico. Riemergere da questa situazione ha richiesto del tempo, ma alla fine sono tornati sia la resistenza sia la fiducia in se stessi e l’autostima degli islamici. L’Islam ha attraversato un periodo cupo e ne è emerso con nuovo vigore, come una forza dinamica in grado di opporsi al neoliberismo.
Curiosamente, l’impatto del neoliberismo in America ed in paesi come il Regno Unito ha lasciato molti dei cittadini nelle stesse condizioni in cui si sono trovati i musulmani alle prese con i progetti di grande laicizzazione e di modernizzazione del passato secolo: ha indebolito e danneggiato le strutture sociali, commerciali e professionali; ha individualizzato la società, indebolito la classe operaia e la classe media, infranto la capacità di autoregolarsi delle comunità ed eroso i sistemi di sostegno comunitari. Ha lasciato gli europei e gli americani in condizioni di alienazione, a vivere in condizioni economicamente dolorose che si traducono in un’afflizione recondita e che isola dagli altri, ed alle prese con poca possibilità di azione politica contro una élite dagli interessi consolidati: un quadro molto simile a quello dei musulmani nei tempi di occidentalizzazione forzata che seguirono la fine del califfato.
Tutto questo costituisce una sorta di inversione dei ruoli: i cittadini europei sembra stiano provando, come risultato di aver fatto da cavia per un rinnovato esperimento neoliberista, un po’ quello che hanno provato i musulmani nel corso dell’ultimo secolo, anche se chiaramente gli europei non hanno dovuto passare gli orrori del massacro e della pulizia etnica intesi come parte dell’esperimento in corso. Sarebbe interessante chiedersi, ma la cosa esula dall’argomento del libro, se la risposta dei popoli europei a tutto questo si tradurrà in un rinnovamento della politica ed in azioni di protesta, come è successo per i musulmani.
Nelle società musulmane i tempi della protesta non sono certo finiti. Il progetto occidentale può anche trovarsi in una fase di caos, ma l’Occidente rimane molto potente in termini di forza militare. La sua “grande narrazione” può aver perso mordente o aver perso di legittimazione per la maggior parte del mondo, ma il prevalere della potenza di fuoco sull’autorità morale sta lì a ricordare che i poteri imperiali non hanno mai abbandonato le proprie posizioni di supremazia rapidamente o facilmente.
Sembra probabile che l’Occidente dovrà preoccuparsi, nei prossimi anni, della propria crisi economica e che inevitabilmente questo determinerà un restringersi del sostegno per una politica estera basata sull’interventismo. L’America ha attraversato circostanze di questo genere alla vigilia del fallimento in Vietnam, ma anziché intervenire direttamente per proteggere il vantaggio americano dai contendenti decise di incoraggiare le forze schierate dalla stessa parte e di promuovere movimenti frontali in paesi dell’Africa, ad esempio, per continuare così a combattere la sua guerra fredda contro l’Unione Sovietica.
Nel Medio Oriente continueranno ad esistere e a minacciare di sfociare in guerra aperta tensioni dinamiche strategiche di fondamentale importanza, soprattutto tra uno stato d’Israele apparentemente incapace di raggiungere la pace con i paesi confinanti ed un Iran in ascesa che sfida il dominio militare israeliano nella regione. I fallimenti della politica occidentale hanno lasciato alcuni politici musulmani allo scoperto e passibili di subire minacce: alcuni stanno già rispondendo tentando di incoraggiare l’azione delle forze reazionarie dei salafiti radicali, per contrastare l’influenza sciita. Questo sta già minacciando di introdurre elementi di instabilità settaria in alcune zone della regione.
Ancora più importanti nei prossimi anni saranno le conseguenze economiche e sociali di tre elementi separati ma ricchi di legami tra loro. Uno è la crisi economica iniziata in Occidente; il secondo è la crescita del prezzo delle derrate alimentari, che ha cause strutturali proprie oltre al premere dell’inflazione della moneta, ed il terzo è la probabilità che gli alti costi dell’energia danneggino tutti i settori dell’economia.
Questa perversa combinazione di prezzi crescenti e di crisi economica piomba su una regione il cui tessuto sociale è stato stirato fino a diventare trasparente. In Occidente le economie del Medio Oriente vengono dipinte come contesti che sono stati in grado di trarre dei vantaggi dalla globalizzazione economica, ma questo è un mito: i super ricchi della regione hanno di sicuro conosciuto ulteriore prosperità, ma la grandissima parte dei quattrocento milioni di abitanti della regione ha trascorso un decennio di redditi reali in sensibilissima diminuzione, con l’assottigliamento delle classi medie.
Significative e crescenti percentuali della popolazione musulmana adesso vivono in condizioni di assoluta povertà, laddove gli appartenenti alla élite dominante sono diventati sensibilmente più ricchi e ancora più distaccati dalle comunità cui pure risalgono le loro origini, preferendo aggregarsi alla carovana dei super ricchi che si sposta per le sedi di cui dispone in tutto il mondo ed in cui i suoi appartenenti possono godere ciascuno della compagnia dell’altro.
La crescita dei prezzi, insieme al diminuire dell’occupazione, si andrà ad aggiungere alla miseria dei molti musulmani che già vivono come lavoratori immigrati in condizioni che ricordano più la schiavitù legalizzata che non le costruite credenze occidentali nei benefici della libertà economica del capitalismo globalizzato. Il prezzo in forte crescita delle derrate alimentari che si è già verificato e che continuerà a verificarsi nei prossimi anni significa l’indigenza per coloro che già vivono in povertà: non soltanto il fare un nuovo buco alla cintura dei pantaloni, come molti potrebbero pensare. Dobbiamo attenderci una crescita del radicalismo politico e, con il crescere del disagio, un rivolgersi all’Islam.
Il successo dei movimenti islamici dipenderà in larga parte dal loro avere successo nell’offrire ai settori sociali disagiati ed impoveriti un chiaro modello alternativo a quello occidentale, sul piano economico e sul piano sociale. E’ probabile che il terreno dello scontro ideologico dei prossimi anni sia proprio questo.
Il miscuglio costituito dalla prolungata permanenza militare statunitense nelle società musulmane, di tumulti sociali e politici che nascono dalla crisi economica e dall’incremento demografico, dalle dinamiche delle tensioni strategiche che si traducono nel favorire le lotte condotte per procura a livello locale è potenzialmente letale; questo significa che è possibile che si stia entrando in un periodo di concreta fluidità, di concreta tensione e di veri cambiamenti.
Se il primo atto del progetto occidentale nell’ultimo secolo ha causato la nascita dell’ideologia islamica, sembra che questo secondo atto produrrà nel corso del suo dispiegarsi cambiamenti politici di vasta portata. E’ possibile che le forze distruttive, a doppio taglio e potenzialmente anarcoidi liberate dagli sconvolgimenti economici possano mettere in moto fenomeni al di là del possibile controllo di qualsiasi movimento politico; questo è un rischio reale, ma probabilmente anche uno scenario troppo pessimistico.
L’evento più significativo che è emerso dalla Rivoluzione Islamica è rappresentato dalla liberazione del pensiero dalla lunga tutela cui lo ha sottoposto la tirannia dell’utilitarismo. “Siamo liberi di utilizzare di nuovo la ragione, in tutta la sua pienezza”, ha notato il capo di Hezbollah. Gli ultimi anni hanno introdotto una corrente di nuove idee nel mondo musulmano, come abbiamo cercato di dimostrare negli ultimi capitoli di questo Resistenza. Raymond Williams concludeva il suo Cultura e società, 1780-1950 con questo commento:
Questo recente atto dello spettacolo di lunga data rappresentato dal progetto utopistico euroamericano è probabilmente foriero di vaste conseguenze, anche se ancora troppo presto per identificare con chiarezza i suoi potenziali sbocchi.
Certamente esistono grosse differenze rispetto agli anni attorno al 1920; in quel periodo, l’Islam sunnita era disorientato e sotto shock. Il crollo del califfato aveva inferto un colpo psicologico ad una narrativa che già doveva pensare a difendersi, ed i cui studiosi stavano cercando di tagliare l’identità islamica a misura del pensiero occidentale. Il marxismo stava rodendo la base della comunità dei credenti, e i governanti di orientamento laico stavano svuotando la cultura e le tradizioni di tutto il loro contenuto islamizzato.
Possiamo ricordare che questo avveniva subito dopo che l’egemonia dell’utilitarismo scientifico occidentale aveva raggiunto il suo apice, e con esso anche una certa fase dell’ideologia del libero mercato. Già la marea rifluiva: i progetti di ingegneria sociale basati sul libero mercato realizzati in Europa nel XIX secolo avevano portato tensioni e sconvolgimenti politici arrivati al limite della rivoluzione in tutti i sistemi sociali delle grandi potenze continentali, in un processo che era stato dominato, e condotto verso altre direzioni, soltanto dallo sconvolgimento anche più grande rappresentato dalla prima guerra mondiale. Attorno al 1930 il capitalismo occidentale era piombato nella Grande Depressione, ed in ulteriori sconvolgimenti sociali.
L’atto dello spettacolo che si sta attualmente dipanando sembra seguire il copione del secolo trascorso almeno in un aspetto importante: l’America ed i suoi alleati hanno perseguito il loro progetto con gli stessi velenosi propositi, in questo caso particolare con l’aggiunta di un ingrediente extra rappresentato da una bella dose di millenarismo di stampo protestante. In questo caso però si sono imbattuti in una resistenza sempre più organizzata che sembra, almeno fino a questo momento, aver avuto successo.
Una differenza chiara tra allora ed oggi, a parte la pressoché totale mancanza di resistenza all’epoca, è che ai tempi industrializzazione e commercializzazione di massa erano fenomeni in ascesa, mentre oggi la loro credibilità è in larga parte svanita.
Sotto altri aspetti i paralleli con la storia dei primi decenni del XX secolo sembrano funzionare: lo scontento sta montando in Europa ed in America, ed in Europa ed in America la crisi finanziaria ed economica da lungo tempo attesa sta avanzando a grandi passi. Come successo ai tempi, questa combinazione di fattori fa presagire seri rovesci politici. Fa pensare anche che ci troviamo sull’orlo di un mutamento significativo, e con esso anche degli sconvolgimenti che i mutamenti significativi spesso comportano.
E’ possibile intravedere un rovesciamento dei ruoli in queste due fasi, da una parte rispetto alla situazione e alle condizioni dei popoli europei e dall’altra parte rispetto alle condizioni dei corrispettivi musulmani che vivono nel mondo islamico. Nel corso degli ultimi cento anni sono stati i musulmani a vedere distrutta la continuità politica e le strutture del loro mondo: le loro società sono state individualizzate e nel complesso anestetizzate dal punto di vista politico. Riemergere da questa situazione ha richiesto del tempo, ma alla fine sono tornati sia la resistenza sia la fiducia in se stessi e l’autostima degli islamici. L’Islam ha attraversato un periodo cupo e ne è emerso con nuovo vigore, come una forza dinamica in grado di opporsi al neoliberismo.
Curiosamente, l’impatto del neoliberismo in America ed in paesi come il Regno Unito ha lasciato molti dei cittadini nelle stesse condizioni in cui si sono trovati i musulmani alle prese con i progetti di grande laicizzazione e di modernizzazione del passato secolo: ha indebolito e danneggiato le strutture sociali, commerciali e professionali; ha individualizzato la società, indebolito la classe operaia e la classe media, infranto la capacità di autoregolarsi delle comunità ed eroso i sistemi di sostegno comunitari. Ha lasciato gli europei e gli americani in condizioni di alienazione, a vivere in condizioni economicamente dolorose che si traducono in un’afflizione recondita e che isola dagli altri, ed alle prese con poca possibilità di azione politica contro una élite dagli interessi consolidati: un quadro molto simile a quello dei musulmani nei tempi di occidentalizzazione forzata che seguirono la fine del califfato.
Tutto questo costituisce una sorta di inversione dei ruoli: i cittadini europei sembra stiano provando, come risultato di aver fatto da cavia per un rinnovato esperimento neoliberista, un po’ quello che hanno provato i musulmani nel corso dell’ultimo secolo, anche se chiaramente gli europei non hanno dovuto passare gli orrori del massacro e della pulizia etnica intesi come parte dell’esperimento in corso. Sarebbe interessante chiedersi, ma la cosa esula dall’argomento del libro, se la risposta dei popoli europei a tutto questo si tradurrà in un rinnovamento della politica ed in azioni di protesta, come è successo per i musulmani.
Nelle società musulmane i tempi della protesta non sono certo finiti. Il progetto occidentale può anche trovarsi in una fase di caos, ma l’Occidente rimane molto potente in termini di forza militare. La sua “grande narrazione” può aver perso mordente o aver perso di legittimazione per la maggior parte del mondo, ma il prevalere della potenza di fuoco sull’autorità morale sta lì a ricordare che i poteri imperiali non hanno mai abbandonato le proprie posizioni di supremazia rapidamente o facilmente.
Sembra probabile che l’Occidente dovrà preoccuparsi, nei prossimi anni, della propria crisi economica e che inevitabilmente questo determinerà un restringersi del sostegno per una politica estera basata sull’interventismo. L’America ha attraversato circostanze di questo genere alla vigilia del fallimento in Vietnam, ma anziché intervenire direttamente per proteggere il vantaggio americano dai contendenti decise di incoraggiare le forze schierate dalla stessa parte e di promuovere movimenti frontali in paesi dell’Africa, ad esempio, per continuare così a combattere la sua guerra fredda contro l’Unione Sovietica.
Nel Medio Oriente continueranno ad esistere e a minacciare di sfociare in guerra aperta tensioni dinamiche strategiche di fondamentale importanza, soprattutto tra uno stato d’Israele apparentemente incapace di raggiungere la pace con i paesi confinanti ed un Iran in ascesa che sfida il dominio militare israeliano nella regione. I fallimenti della politica occidentale hanno lasciato alcuni politici musulmani allo scoperto e passibili di subire minacce: alcuni stanno già rispondendo tentando di incoraggiare l’azione delle forze reazionarie dei salafiti radicali, per contrastare l’influenza sciita. Questo sta già minacciando di introdurre elementi di instabilità settaria in alcune zone della regione.
Ancora più importanti nei prossimi anni saranno le conseguenze economiche e sociali di tre elementi separati ma ricchi di legami tra loro. Uno è la crisi economica iniziata in Occidente; il secondo è la crescita del prezzo delle derrate alimentari, che ha cause strutturali proprie oltre al premere dell’inflazione della moneta, ed il terzo è la probabilità che gli alti costi dell’energia danneggino tutti i settori dell’economia.
Questa perversa combinazione di prezzi crescenti e di crisi economica piomba su una regione il cui tessuto sociale è stato stirato fino a diventare trasparente. In Occidente le economie del Medio Oriente vengono dipinte come contesti che sono stati in grado di trarre dei vantaggi dalla globalizzazione economica, ma questo è un mito: i super ricchi della regione hanno di sicuro conosciuto ulteriore prosperità, ma la grandissima parte dei quattrocento milioni di abitanti della regione ha trascorso un decennio di redditi reali in sensibilissima diminuzione, con l’assottigliamento delle classi medie.
Significative e crescenti percentuali della popolazione musulmana adesso vivono in condizioni di assoluta povertà, laddove gli appartenenti alla élite dominante sono diventati sensibilmente più ricchi e ancora più distaccati dalle comunità cui pure risalgono le loro origini, preferendo aggregarsi alla carovana dei super ricchi che si sposta per le sedi di cui dispone in tutto il mondo ed in cui i suoi appartenenti possono godere ciascuno della compagnia dell’altro.
La crescita dei prezzi, insieme al diminuire dell’occupazione, si andrà ad aggiungere alla miseria dei molti musulmani che già vivono come lavoratori immigrati in condizioni che ricordano più la schiavitù legalizzata che non le costruite credenze occidentali nei benefici della libertà economica del capitalismo globalizzato. Il prezzo in forte crescita delle derrate alimentari che si è già verificato e che continuerà a verificarsi nei prossimi anni significa l’indigenza per coloro che già vivono in povertà: non soltanto il fare un nuovo buco alla cintura dei pantaloni, come molti potrebbero pensare. Dobbiamo attenderci una crescita del radicalismo politico e, con il crescere del disagio, un rivolgersi all’Islam.
Il successo dei movimenti islamici dipenderà in larga parte dal loro avere successo nell’offrire ai settori sociali disagiati ed impoveriti un chiaro modello alternativo a quello occidentale, sul piano economico e sul piano sociale. E’ probabile che il terreno dello scontro ideologico dei prossimi anni sia proprio questo.
Il miscuglio costituito dalla prolungata permanenza militare statunitense nelle società musulmane, di tumulti sociali e politici che nascono dalla crisi economica e dall’incremento demografico, dalle dinamiche delle tensioni strategiche che si traducono nel favorire le lotte condotte per procura a livello locale è potenzialmente letale; questo significa che è possibile che si stia entrando in un periodo di concreta fluidità, di concreta tensione e di veri cambiamenti.
Se il primo atto del progetto occidentale nell’ultimo secolo ha causato la nascita dell’ideologia islamica, sembra che questo secondo atto produrrà nel corso del suo dispiegarsi cambiamenti politici di vasta portata. E’ possibile che le forze distruttive, a doppio taglio e potenzialmente anarcoidi liberate dagli sconvolgimenti economici possano mettere in moto fenomeni al di là del possibile controllo di qualsiasi movimento politico; questo è un rischio reale, ma probabilmente anche uno scenario troppo pessimistico.
L’evento più significativo che è emerso dalla Rivoluzione Islamica è rappresentato dalla liberazione del pensiero dalla lunga tutela cui lo ha sottoposto la tirannia dell’utilitarismo. “Siamo liberi di utilizzare di nuovo la ragione, in tutta la sua pienezza”, ha notato il capo di Hezbollah. Gli ultimi anni hanno introdotto una corrente di nuove idee nel mondo musulmano, come abbiamo cercato di dimostrare negli ultimi capitoli di questo Resistenza. Raymond Williams concludeva il suo Cultura e società, 1780-1950 con questo commento:
Esistono idee e modi di pensiero che possiedono al loro interno il seme della vita, mentre ce ne sono altri, probabilmente profondamente riposti nella nostra mente, che possiedono invece i semi di una morte generale. La nostra capacità di riconoscerli e di dare loro un nome, rendendo possibile a tutti di riconoscerli a loro volta, può forse fornire letteralmente la misura del nostro futuro14.
Il magistrato di servizio alle estreme frontiere dell’Impero, turbato da quanto si stava facendo in nome dell’Impero stesso e per reazione ai distorti valori umani del colonnello Joll, aveva riconosciuto e dato un nome a quelle idee, a quel modo demenziale di pensare che aveva al suo interno i semi di una serie di tragedie; nel suo modo confuso, ma istintivamente giusto, combatteva la sua guerra fatta di piccoli atti ribelli di umana solidarietà. Riaccompagnò alla sua tribù la ragazza barbara torturata e ferita.
Come sarà il nostro futuro può dipendere da quanti altri in Occidente proveranno di essere pronti a criticare, a compiere lo stesso gesto simbolico di solidarietà compiuto dal magistrato, e a seguire gli uomini d’affari sudafricani che capirono che era necessario riconoscere la loro situazione e, come l’ateniese citato da Platone, si misero al lavoro per riportare la politica verso la sicurezza della terra ferma.
Come sarà il nostro futuro può dipendere da quanti altri in Occidente proveranno di essere pronti a criticare, a compiere lo stesso gesto simbolico di solidarietà compiuto dal magistrato, e a seguire gli uomini d’affari sudafricani che capirono che era necessario riconoscere la loro situazione e, come l’ateniese citato da Platone, si misero al lavoro per riportare la politica verso la sicurezza della terra ferma.
1 J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians, London: Penguin, 1982.
2 Ibid., p. 5.
3 Ibid., p. 115.
4 Terry Eagleton, Holy Terror, Oxford: Oxford University Press, 2005, p. 11.
5 J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians, p. 108.
6 Citato da Arun Kundnani, The End of Tolerance, London: Pluto Press, 2007, p. 12.
7 Michel Foucault, ‘Qu-est-ce que les Lumières?’, in Paul Rabinow (ed.), The Foucault Reader, London: Penguin Books, 1991,pp. 32–50.
8 Ibid.
9 Ibid.
10 Michel Foucault, The Archaeology of Knowledge and the Discourse on Language, New York: Pantheon, 1972, p. 224.
11 Michel Foucault, ‘Qu’est-ce que les Lumières?’
12 Citato da Slavoj Žižek, Violence, London: Profi le Books, 2008, p. 160.
13 Jean-Paul Sartre, nella pretazione a Frantz Fanon. The Wretched of the Earth, New York: Grove Press, 2004, p. 11.
14 Raymond Williams, Culture and Society 1780–1950, London: Penguin, 1985, pagina conclusiva.
Nessun commento:
Posta un commento