La Resistenza Islamica in Iraq (vignetta di Latuff)
A prima vista pareva un personaggio piuttosto improbabile: ecco un borghese intellettuale egiziano, col suo retroterra di villaggio tradizionale e di pericolanti fortune familiari, catapultato nella vita cittadina moderna. Era un intellettuale -a Londra, avrebbe potuto aspirare a far parte della scena di Bloomsbury- uno scrittore di poesie ed un critico letterario in ascesa; era un uomo sensibile, un po’ moralista e finanche un po’ bacchettone; era un uomo che aspirava ad un amore romantico, la cui unica storia d’amore si trasformò in un doloroso disastro. Come poté questa solitaria e spigolosa figura diventare fonte di ispirazione per un’intera generazione di rivoluzionari e finire, da sconfitto, sulla forca al Cairo nell’agosto del 1966.
La morte di Sayyd Qutb per mano del potere egiziano fu subìta come un oltraggio dai musulmani di tutto il mondo. I suoi molti libri ed opuscoli, e soprattutto il suo famoso libretto Pietre miliari lungo il cammino1 che esponeva il suo pensiero rivoluzionario, influenzarono una generazione intera di rivoluzionari sia sunniti che sciiti.
Il periodo compreso tra il 1919 ed il 1952 fu quello in cui si formò il pensiero di Sayyid Qutb. Il processo di occidentalizzazione, che era cominciato all’inizio del XIX secolo, negli anni più tardi della sua vita si era manifestato con piena evidenza in tutti gli aspetti della vita egiziana. Vi dominava un sistema educativo laicizzato che allargava il baratro presente tra quanti avevano un’educazione laica e quanti ne avevano una religiosa.
Qutb era un uomo intrappolato tra le sue radici, quelle di un’educazione religiosa tradizionale centrata sulla vita di villaggio, ed il modernismo urbano laico della realtà in cui emigrò successivamente. La sua crisi, e la sua risposta ad essa, sono un riflesso irrefutabile delle istanze politiche e culturali del suo tempo. Il colonialismo, la crescente occidentalizzazione della società musulmana scatenata dall’abolizione del califfato voluta da Mustafa Kemal,. Nonché il forzato annichilimento culturale dell’Islam in Turchia e la sua demonizzazione, avevano avuto il loro impatto. In tempi più recenti, la disillusione provata a fronte del comportamento e del razzismo mostrati dai soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale aveva aperto la via per un uomo che tornava ai valori della sua giovinezza ed al Corano, una volta constatata la propria non appartenenza alla società che lo circondava.
L’esperienza che Qutb fece dell’influenza occidentale aveva già suscitato in lui una risposta severamente moralista, anche prima che le sue non certo radicali critiche nei confronti della politica egiziana e della sua corruzione irritassero gravemente il potere. Venne “esiliato” nel 1948, con la scusa di un periodo di studio, negli Stati Uniti, dove le esperienze vissute rafforzarono ancora di più la sua sensazione che il liberalismo laico occidentale avesse creato una società vuota e disumana che sarebbe presto implosa. “La civiltà dell’uomo bianco ha già dato fondo alle proprie limitate prospettive”2. La spinta a ventilare qualche radicale cambiamento nella sua società fu rafforzata dall’esperienza fatta in Occidente, e quest’uomo, che era tutto sommato perfino conformista, si trovò a dover affrontare rabbia e risentimento in patria, piuttosto che ammirazione generale, per le sue piazzate contro la società egiziana del tempo, schiava del materialismo occidentale e caduta nella trappola dell’ingiustizia sociale.
La sua frustrazione davanti alla freddezza dell’élite egiziana e di tutta la società in generale nei confronti delle sue ammonizioni, e davanti a quella che considerava un’ostinata chiusura mentale nei confronti delle conseguenze sociali e morali dell’occidentalizzazione lo condusse a farsi coinvolgere in prima persona dal movimento degli Ufficiali Liberi e dai Fratelli Musulmani. Un coinvolgimento che lo condusse infine a trascorrere quasi dieci anni in carcere, tra il novembre 1954 ed il maggio 1964.
Non è troppo difficile immaginare che effetto psicologico possa aver avuto un decennio in carcere per un uomo come Qutb. Un uomo di un lindore ai limiti della rigidezza -una foto del 1950 lo mostra baffuto e vestito in giacca e cravatta mentre sorride sicuro di sé- uno che frequentava i circoli letterari, un poeta ed un laureato; ecco quant’era pericoloso un uomo che dovette affrontare gli orrori dei maltrattamenti e della tortura, che era comune nelle carceri egiziane.
Riferiamo soltanto di un caso su tutti, quello in cui nel 1957 ventuno appartenenti ai Fratelli Musulmani vennero uccisi d’arbitrio per aver rifiutato di presentarsi per il loro duro lavoro quotidiano di spaccatura pietre. Qutb, come abbiamo spiegato, inorridiva per la barbarie dei carcerieri nei confronti di altri esseri umani. Possiamo immaginare quale impatto avessero un episodio del genere e la tortura elevata a routine quotidiana su un uomo della sua sensibilità. Rimase inorridito e sconvolto per questo violento e demenziale attacco a delle idee, e non è da meravigliarsi che abbia deciso che le armi della persuasione intellettuale non avevano efficacia alcuna contro l’orrore di un sistema che stroncava il dissenso e che aveva fatto a meno di ogni traccia di umanità. Qutb decise di abbattere i pilastri del tempio, e divenne un rivoluzionario.
Qutb si radicalizzò a causa dell’esperienza del carcere. Era convinto che l’umanità si stesse avviando verso il “profondo ed orribile precipizio della distruzione”3 a meno che una determinata avanguardia musulmana non si fosse fatta carico della lotta. In questo contesto, jihad significava lo sforzo compiuto da ogni musulmano per diffondere la fede nell’Islam con le parole, con il cuore, con la mano o con la spada contro la moderna versione di quella ristrettezza mentale e di quella rigidità in origine chiamata jahiliya che, durante i primi anni dell’esistenza della prima comunità musulmana, si aggrappò tenacemente ai ristretti interessi tribali e non prestò ascolto alla rivelazione del Profeta.
Per veicolare le proprie idee in modo più deciso, Qutb modificò il significato originale del vocabolo jahiliya perché indicasse anche un suo equivalente moderno, presente nelle società musulmane. Con il recupero del vocabolo jahiliya, Qutb indicò un qualcosa di a lui contemporaneo, fatto di quel materialismo e di quell’esaurirsi in se stessa tipici della società occidentale, che ha disconosciuto la sovranità di Dio sull’essere umano. Secondo Qutb, è la presenza di. questa disastrosa jahiliya moderna il motivo per chiamare alla difesa dell’Islam.
La morte di Sayyd Qutb per mano del potere egiziano fu subìta come un oltraggio dai musulmani di tutto il mondo. I suoi molti libri ed opuscoli, e soprattutto il suo famoso libretto Pietre miliari lungo il cammino1 che esponeva il suo pensiero rivoluzionario, influenzarono una generazione intera di rivoluzionari sia sunniti che sciiti.
Il periodo compreso tra il 1919 ed il 1952 fu quello in cui si formò il pensiero di Sayyid Qutb. Il processo di occidentalizzazione, che era cominciato all’inizio del XIX secolo, negli anni più tardi della sua vita si era manifestato con piena evidenza in tutti gli aspetti della vita egiziana. Vi dominava un sistema educativo laicizzato che allargava il baratro presente tra quanti avevano un’educazione laica e quanti ne avevano una religiosa.
Qutb era un uomo intrappolato tra le sue radici, quelle di un’educazione religiosa tradizionale centrata sulla vita di villaggio, ed il modernismo urbano laico della realtà in cui emigrò successivamente. La sua crisi, e la sua risposta ad essa, sono un riflesso irrefutabile delle istanze politiche e culturali del suo tempo. Il colonialismo, la crescente occidentalizzazione della società musulmana scatenata dall’abolizione del califfato voluta da Mustafa Kemal,. Nonché il forzato annichilimento culturale dell’Islam in Turchia e la sua demonizzazione, avevano avuto il loro impatto. In tempi più recenti, la disillusione provata a fronte del comportamento e del razzismo mostrati dai soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale aveva aperto la via per un uomo che tornava ai valori della sua giovinezza ed al Corano, una volta constatata la propria non appartenenza alla società che lo circondava.
L’esperienza che Qutb fece dell’influenza occidentale aveva già suscitato in lui una risposta severamente moralista, anche prima che le sue non certo radicali critiche nei confronti della politica egiziana e della sua corruzione irritassero gravemente il potere. Venne “esiliato” nel 1948, con la scusa di un periodo di studio, negli Stati Uniti, dove le esperienze vissute rafforzarono ancora di più la sua sensazione che il liberalismo laico occidentale avesse creato una società vuota e disumana che sarebbe presto implosa. “La civiltà dell’uomo bianco ha già dato fondo alle proprie limitate prospettive”2. La spinta a ventilare qualche radicale cambiamento nella sua società fu rafforzata dall’esperienza fatta in Occidente, e quest’uomo, che era tutto sommato perfino conformista, si trovò a dover affrontare rabbia e risentimento in patria, piuttosto che ammirazione generale, per le sue piazzate contro la società egiziana del tempo, schiava del materialismo occidentale e caduta nella trappola dell’ingiustizia sociale.
La sua frustrazione davanti alla freddezza dell’élite egiziana e di tutta la società in generale nei confronti delle sue ammonizioni, e davanti a quella che considerava un’ostinata chiusura mentale nei confronti delle conseguenze sociali e morali dell’occidentalizzazione lo condusse a farsi coinvolgere in prima persona dal movimento degli Ufficiali Liberi e dai Fratelli Musulmani. Un coinvolgimento che lo condusse infine a trascorrere quasi dieci anni in carcere, tra il novembre 1954 ed il maggio 1964.
Non è troppo difficile immaginare che effetto psicologico possa aver avuto un decennio in carcere per un uomo come Qutb. Un uomo di un lindore ai limiti della rigidezza -una foto del 1950 lo mostra baffuto e vestito in giacca e cravatta mentre sorride sicuro di sé- uno che frequentava i circoli letterari, un poeta ed un laureato; ecco quant’era pericoloso un uomo che dovette affrontare gli orrori dei maltrattamenti e della tortura, che era comune nelle carceri egiziane.
Riferiamo soltanto di un caso su tutti, quello in cui nel 1957 ventuno appartenenti ai Fratelli Musulmani vennero uccisi d’arbitrio per aver rifiutato di presentarsi per il loro duro lavoro quotidiano di spaccatura pietre. Qutb, come abbiamo spiegato, inorridiva per la barbarie dei carcerieri nei confronti di altri esseri umani. Possiamo immaginare quale impatto avessero un episodio del genere e la tortura elevata a routine quotidiana su un uomo della sua sensibilità. Rimase inorridito e sconvolto per questo violento e demenziale attacco a delle idee, e non è da meravigliarsi che abbia deciso che le armi della persuasione intellettuale non avevano efficacia alcuna contro l’orrore di un sistema che stroncava il dissenso e che aveva fatto a meno di ogni traccia di umanità. Qutb decise di abbattere i pilastri del tempio, e divenne un rivoluzionario.
Qutb si radicalizzò a causa dell’esperienza del carcere. Era convinto che l’umanità si stesse avviando verso il “profondo ed orribile precipizio della distruzione”3 a meno che una determinata avanguardia musulmana non si fosse fatta carico della lotta. In questo contesto, jihad significava lo sforzo compiuto da ogni musulmano per diffondere la fede nell’Islam con le parole, con il cuore, con la mano o con la spada contro la moderna versione di quella ristrettezza mentale e di quella rigidità in origine chiamata jahiliya che, durante i primi anni dell’esistenza della prima comunità musulmana, si aggrappò tenacemente ai ristretti interessi tribali e non prestò ascolto alla rivelazione del Profeta.
Per veicolare le proprie idee in modo più deciso, Qutb modificò il significato originale del vocabolo jahiliya perché indicasse anche un suo equivalente moderno, presente nelle società musulmane. Con il recupero del vocabolo jahiliya, Qutb indicò un qualcosa di a lui contemporaneo, fatto di quel materialismo e di quell’esaurirsi in se stessa tipici della società occidentale, che ha disconosciuto la sovranità di Dio sull’essere umano. Secondo Qutb, è la presenza di. questa disastrosa jahiliya moderna il motivo per chiamare alla difesa dell’Islam.
La narrazione del jihad
Il concetto di difesa dell’Islam ha le sue radici nel Corano. Alcuni dei suoi elementi come i musulmani li intendono oggi si sono materializzati già mentre il Profeta Muhammad era in vita (tra il 570 circa ed il 632 d.C.), ma il jihad come dottrina propriamente sviluppata non cominciò ad esistere che in un tempo successivo, verso la fine dell’ottavo secolo. Da quei tempi e fino alla ripresa del concetto da parte di Qutb, cui seguirono le rielaborazioni del pensiero di uno studioso del tredicesimo secolo chiamato Ibn Taymiyya operate da un ristretto gruppo di studiosi islamiche, il concetto di difesa dell’Islam e di jihad ebbero un significato molto chiaro e preciso.
Questo significato primitivo è lo stesso fatto proprio ancor oggi dalla grande maggioranza degli islamici, ivi compresi i movimenti armati come Hamas, Hezbollah e la maggior parte dei gruppi della Jihad Islamica. In Occidente in generale il concetto di jihad nel linguaggio dei mass media ha solitamente un significato indissolubilmente legato agli attacchi con le bombe contro i civili compiuti da quanti fanno proprio il pensiero associato con al Qaeda, che ne rappresenterebbero praticamente l’essenza. Attribuire questo specifico significato di jihad a tutti gli islamici che imbracciano le armi per difendere l’Islam significa non comprendere né la tradizione islamica né le dottrine sulla difesa dell’Islam.
L’Islam è nato in un ambiente in cui la guerra, o quantomeno la violenza armata caratterizzata da un certo grado di organizzazione e di pianificazione, facevano parte della vita di ogni giorno: minacce del genere non erano mai troppo lontane, specialmente nelle regioni della penisola araba che confinavano con i grandi imperi del tempo. Il suo ruolo di importante componente della vita si riflette nella poesia preislamica e nelle canzoni di glorificazione, alcune delle quali interamente dedicate alle gioie ed ai dolori del combattimento. In queste prime opere in testa alla lista dei valori sta la virtù militare, seguita a ruota dalla generosità. Non è sorprendente dunque che si trovino riferimenti alla guerra e al combattimento nel Sacro Corano, ma in Occidente c’è una diffusa mancanza di comprensione sul come il Corano affronta l’argomento.
Il Corano resta la fonte di ispirazione di ogni dottrina e di ogni pratica dello jihad, ma non rappresenta l’unica autorità in questo campo. Il Corano non tenta di rappresentare uno schematico manuale di istruzioni in grado di coprire ogni possibile circostanza della vita. I passi che hanno a che fare con la guerra e con il jihad non sono numerosi, ed alcuni dei temi che lo riguardano sono sparsi in varie parti del libro. Questi passi possono anche essere vivaci e memorabili, ma non compendiano un’intera dottrina. Inoltre alcuni dei brani appaiono contraddittori, e difficili da accordare tra di loro.
Esistono versetti che sembrano appoggiare la violenza contro i non musulmani (gli spesso citati “versetti della spada”). Ma ne esistono anche altri che disapprovano chiaramente ed in maniera specifica la guerra contro i non musulmani, a meno che il nemico non sia il primo a fare uso della violenza. Ed ai musulmani, anche quando sono vittima di un attacco, è richiesta moderazione; il Corano incita alla riconciliazione ed alla pace nei confronti dei “popoli del Libro” (i cristiani e gli ebrei).
Il Corano è il più completo, diretto ed ultimativo messaggio inviato agli uomini da Dio, ed è la fonte primaria della legge divina. Al tempo stesso il Corano storico come si presenta oggi è il prodotto di un complesso processo di edizione che ha avuto luogo tra il 644 ed il 656, eseguito secondo principi in larga parte oscuri per i moderni studiosi. I versi, spesso in prosa ritmica, raramente in poesia, sono ordinati in capitoli, ma l’ordine dei capitoli e la disposizione dei versi all’interno di un singolo capitolo non si presentano secondo una logica di facile comprensione. Quello che pare certo è che i versetti come li si legge oggi non sono disposti nell’ordine in cui si pensa siano stati rivelati a Muhammad4.
I giuristi islamici hanno tentato di affrontare questi dati all’apparenza inconciliabili, come hanno fatto gli studiosi cristiani con la narrazione cristiana, riordinando i passi in senso cronologico e poi tentando di collocare i passi nel contesto della narrazione e degli eventi che provenivano dalla vita del Profeta. La dottrina della difesa dell’Islam si è evoluta più tardi, prendendo forma definitiva nell’ottavo secolo.
L’Islam ha trasformato la coscienza dei suoi primi aderenti attraverso il suo messaggio spirituale e morale; ma ha anche trasformato loro, attraverso l’attività del lottare in nome del messaggio stesso.
La parola araba jihad non significa guerra santa o guerra giusta. Significa, alla lettera, impegno. Quando viene seguita dall’espressione fi sabil Allah, che spesso resta non detta ma considerata implicita, significa letteralmente “lotta in nome d’Iddio”. L’impellenza ed il messaggio appassionato di generosità, di carità e di cura per i meno favoriti, nel Corano si accompagnano al dover lottare per la giustizia e contro gli abusi di potere.
Jihad era più di una mera dottrina legale: un manuale generale classico di legge comprendeva di solito una sezione intitolata “libro del jihad” che copriva tutti gli aspetti del diritto di guerra. Jihad era anche un potente strumento di mobilitazione popolare. I primi poemi arabi esprimono un ideale eroico, in cui il coraggio e la determinazione di pochi individui illuminano un mondo oscuro e violento. Molte di queste narrazioni pongono l’accento sulle nobili intenzioni del combattente, sulla sua pietà e sul suo impegnarsi (jihad) in nome d’Iddio, nonché sul suo scegliere volontariamente una vita di sacrificio e di ascetismo.
Nei primi anni dell’Islam, alla frontiera con l’impero bizantino, questi concetti si incarnarono nell’emergere di quelli che furono chiamati “studiosi combattenti”: studiosi dell’Islam e filosofi che prendevano volontari le armi durante il giorno per difendere l’Islam, mentre la notte si trasformavano in pii insegnanti per i fedeli. Era una vita di disciplina e di durezze, oltre che di studio. Nessuno di questi studiosi combattenti, nei primi anni dell’Islam, veniva retribuito. L’essenziale stava proprio nel fatto di essere dei volontari: dei volontari a servizio della lotta per Dio.
Quando l’Islam si espanse su una vasta area geografica, queste società acquisirono delle caratteristiche comuni. Una di queste era il fenomeno dato da uomini dediti allo studio della religione che si facevano personalmente carico del jihad. Uno di costoro, l’iraniano Abdallah ibn al-Mubarak, (morto nel 797) cercò di ricreare la primitiva comunità di Medina com’era ivi ed allora, interiorizzando le norme di comportamento che si riflettevano nell’esistenza della prima comunità musulmana, e poi collegando queste norme ai ruoli dei suoi compagni. Il suo punto di forza è dato dalla narrativa del martirio degli eroi nelle prime guerre combattute dall’Islam. Molte di queste narrazioni enfatizzano le intenzioni con cui un combattente prendeva parte al jihad. In questo modo, la congrega di al-Mubarak prende forma di comunità “giusta” facendo proprie le regole dell’impegno e del volontariato nella causa del servizio verso la comunità e verso Dio5. Oggi è possibile osservarne la controparte moderna nella “cultura della resistenza” di Hezbollah, e nei valori che essa cerca di emulare e di promuovere.
La vocazione degli studiosi combattenti echeggiava nell’enfasi posta dal Corano sulla generosità e sulla reciprocità: il dono di Dio agli esseri umani non potrà mai essere contraccambiato in modo reciproco: è impossibile pensare che il dono di Dio possa essere ricambiato anche in minima parte. Però, nel contesto delle relazioni umane, quello che Dio ha fatto può essere considerato un esempio da seguire: le azioni compiute per spirito di servizio o per generosità non dovrebbero attendersi alcuna ricompensa diretta dai destinatari, e dovrebbero anzi essere intraprese proprio nell’attesa di non riceverne alcuna. In una comunità islamica un servigio o un dono offerti vengono restituiti indirettamente, attraverso l’accumularsi dell’insieme di atti individuali di generosità, che prima o poi fa ritorno al donatore.
Da questo breve resoconto risulta chiaro che la tradizione islamica del jihad è diversa dal concetto cristiano di “guerra santa”. L’ingegnarsi della teologia cristiana per riconciliare “amore” e guerra, qui è del tutto assente. La narrativa cristiana della passività e della non violenza nell’Islam è sostituita dalla mobilitazione e dall’attivismo. Invece dei soldati di Dio metaforici del cristianesimo, qui abbiamo dei combattenti che, alla lettera, si offrono volontari per prendere le armi ed usarle. I testi musulmani giuridici e tradizionali affermano ripetutamente che i martiri sono coloro che muoiono mentre combattono per la loro fede. E i martiri vengono ricompensati col perdono delle loro colpe e con il passaggio diretto in paradiso.
Gli europei hanno spesso faticato per capire come l’Islam, che è sorto in una delle più povere regioni del mondo, abbia potuto agire sulla storia come un sì potente fattore di trasformazione. Come ha potuto un popolo che era vissuto ai margini del mondo per tanto tempo, levarsi improvvisamente e sconfiggere le due superpotenze dell’epoca, Roma e la Persia? Come erano radunati gli eserciti? Perché il mondo ha ricevuto da questi eventi una così potente scarica di energia e di mobilitazione?
Laddove i musulmani attribuiscono all’Islam e a Dio le loro motivazioni, i cristiani medievali ed i bizantini annessi al mondo islamico cercarono ovviamente altre ragioni per questa catastrofe per la cristianità che si era abbattuta su di loro. Generalmente, spiegarono i primi successi islamici come la volontà di un Dio vendicativo infuriato al cospetto dei cedimenti dei cristiani, ma si concentrarono anche sul crudeli ritratti a tinte vili del Profeta, da essi considerato la causa prima della loro sventura. Soprattutto sottolinearono, sempre per quanto riguarda queste spiegazioni, la passione per la violenza dei musulmani. E qui iniziò un fraintendimento sopravvissuto fino ad oggi.
I critici dell’Islam di oggi continuano a dire che il concetto di jihad è di per sé una prova della violenza che dell’Islam sarebbe costituente essenziale. Ma sostenere questo significa attribuire al jihad nell’Islam un posto che esso non ha. L’Islam, e soprattutto l’Islam sciita, possiede una tradizione di resistenza e di ribellione contro l’oppressione di cui il cristianesimo non prende parte; ma isolare il prendere le armi e censurarlo, senza afferrare l’argomento cardine rappresentato dalla purezza delle intenzioni, dalla lotta contro la tirannia e dalla tradizione dei “pochi individui il cui coraggio e la cui determinazione illuminano un mondo oscuro e violento”6 significherebbe operare una distorsione. Certo, non tutti coloro che affermano di darsi al jihad oggi possiedono una profonda conoscenza dell’Islam o sono dotati di intenzioni immacolate; ma gli individui di questo genere rappresentano una minoranza ampiamente condannata, e prima di ogni altro a condannarla è proprio il grosso degli islamici.
Questo significato primitivo è lo stesso fatto proprio ancor oggi dalla grande maggioranza degli islamici, ivi compresi i movimenti armati come Hamas, Hezbollah e la maggior parte dei gruppi della Jihad Islamica. In Occidente in generale il concetto di jihad nel linguaggio dei mass media ha solitamente un significato indissolubilmente legato agli attacchi con le bombe contro i civili compiuti da quanti fanno proprio il pensiero associato con al Qaeda, che ne rappresenterebbero praticamente l’essenza. Attribuire questo specifico significato di jihad a tutti gli islamici che imbracciano le armi per difendere l’Islam significa non comprendere né la tradizione islamica né le dottrine sulla difesa dell’Islam.
L’Islam è nato in un ambiente in cui la guerra, o quantomeno la violenza armata caratterizzata da un certo grado di organizzazione e di pianificazione, facevano parte della vita di ogni giorno: minacce del genere non erano mai troppo lontane, specialmente nelle regioni della penisola araba che confinavano con i grandi imperi del tempo. Il suo ruolo di importante componente della vita si riflette nella poesia preislamica e nelle canzoni di glorificazione, alcune delle quali interamente dedicate alle gioie ed ai dolori del combattimento. In queste prime opere in testa alla lista dei valori sta la virtù militare, seguita a ruota dalla generosità. Non è sorprendente dunque che si trovino riferimenti alla guerra e al combattimento nel Sacro Corano, ma in Occidente c’è una diffusa mancanza di comprensione sul come il Corano affronta l’argomento.
Il Corano resta la fonte di ispirazione di ogni dottrina e di ogni pratica dello jihad, ma non rappresenta l’unica autorità in questo campo. Il Corano non tenta di rappresentare uno schematico manuale di istruzioni in grado di coprire ogni possibile circostanza della vita. I passi che hanno a che fare con la guerra e con il jihad non sono numerosi, ed alcuni dei temi che lo riguardano sono sparsi in varie parti del libro. Questi passi possono anche essere vivaci e memorabili, ma non compendiano un’intera dottrina. Inoltre alcuni dei brani appaiono contraddittori, e difficili da accordare tra di loro.
Esistono versetti che sembrano appoggiare la violenza contro i non musulmani (gli spesso citati “versetti della spada”). Ma ne esistono anche altri che disapprovano chiaramente ed in maniera specifica la guerra contro i non musulmani, a meno che il nemico non sia il primo a fare uso della violenza. Ed ai musulmani, anche quando sono vittima di un attacco, è richiesta moderazione; il Corano incita alla riconciliazione ed alla pace nei confronti dei “popoli del Libro” (i cristiani e gli ebrei).
Il Corano è il più completo, diretto ed ultimativo messaggio inviato agli uomini da Dio, ed è la fonte primaria della legge divina. Al tempo stesso il Corano storico come si presenta oggi è il prodotto di un complesso processo di edizione che ha avuto luogo tra il 644 ed il 656, eseguito secondo principi in larga parte oscuri per i moderni studiosi. I versi, spesso in prosa ritmica, raramente in poesia, sono ordinati in capitoli, ma l’ordine dei capitoli e la disposizione dei versi all’interno di un singolo capitolo non si presentano secondo una logica di facile comprensione. Quello che pare certo è che i versetti come li si legge oggi non sono disposti nell’ordine in cui si pensa siano stati rivelati a Muhammad4.
I giuristi islamici hanno tentato di affrontare questi dati all’apparenza inconciliabili, come hanno fatto gli studiosi cristiani con la narrazione cristiana, riordinando i passi in senso cronologico e poi tentando di collocare i passi nel contesto della narrazione e degli eventi che provenivano dalla vita del Profeta. La dottrina della difesa dell’Islam si è evoluta più tardi, prendendo forma definitiva nell’ottavo secolo.
L’Islam ha trasformato la coscienza dei suoi primi aderenti attraverso il suo messaggio spirituale e morale; ma ha anche trasformato loro, attraverso l’attività del lottare in nome del messaggio stesso.
La parola araba jihad non significa guerra santa o guerra giusta. Significa, alla lettera, impegno. Quando viene seguita dall’espressione fi sabil Allah, che spesso resta non detta ma considerata implicita, significa letteralmente “lotta in nome d’Iddio”. L’impellenza ed il messaggio appassionato di generosità, di carità e di cura per i meno favoriti, nel Corano si accompagnano al dover lottare per la giustizia e contro gli abusi di potere.
Jihad era più di una mera dottrina legale: un manuale generale classico di legge comprendeva di solito una sezione intitolata “libro del jihad” che copriva tutti gli aspetti del diritto di guerra. Jihad era anche un potente strumento di mobilitazione popolare. I primi poemi arabi esprimono un ideale eroico, in cui il coraggio e la determinazione di pochi individui illuminano un mondo oscuro e violento. Molte di queste narrazioni pongono l’accento sulle nobili intenzioni del combattente, sulla sua pietà e sul suo impegnarsi (jihad) in nome d’Iddio, nonché sul suo scegliere volontariamente una vita di sacrificio e di ascetismo.
Nei primi anni dell’Islam, alla frontiera con l’impero bizantino, questi concetti si incarnarono nell’emergere di quelli che furono chiamati “studiosi combattenti”: studiosi dell’Islam e filosofi che prendevano volontari le armi durante il giorno per difendere l’Islam, mentre la notte si trasformavano in pii insegnanti per i fedeli. Era una vita di disciplina e di durezze, oltre che di studio. Nessuno di questi studiosi combattenti, nei primi anni dell’Islam, veniva retribuito. L’essenziale stava proprio nel fatto di essere dei volontari: dei volontari a servizio della lotta per Dio.
Quando l’Islam si espanse su una vasta area geografica, queste società acquisirono delle caratteristiche comuni. Una di queste era il fenomeno dato da uomini dediti allo studio della religione che si facevano personalmente carico del jihad. Uno di costoro, l’iraniano Abdallah ibn al-Mubarak, (morto nel 797) cercò di ricreare la primitiva comunità di Medina com’era ivi ed allora, interiorizzando le norme di comportamento che si riflettevano nell’esistenza della prima comunità musulmana, e poi collegando queste norme ai ruoli dei suoi compagni. Il suo punto di forza è dato dalla narrativa del martirio degli eroi nelle prime guerre combattute dall’Islam. Molte di queste narrazioni enfatizzano le intenzioni con cui un combattente prendeva parte al jihad. In questo modo, la congrega di al-Mubarak prende forma di comunità “giusta” facendo proprie le regole dell’impegno e del volontariato nella causa del servizio verso la comunità e verso Dio5. Oggi è possibile osservarne la controparte moderna nella “cultura della resistenza” di Hezbollah, e nei valori che essa cerca di emulare e di promuovere.
La vocazione degli studiosi combattenti echeggiava nell’enfasi posta dal Corano sulla generosità e sulla reciprocità: il dono di Dio agli esseri umani non potrà mai essere contraccambiato in modo reciproco: è impossibile pensare che il dono di Dio possa essere ricambiato anche in minima parte. Però, nel contesto delle relazioni umane, quello che Dio ha fatto può essere considerato un esempio da seguire: le azioni compiute per spirito di servizio o per generosità non dovrebbero attendersi alcuna ricompensa diretta dai destinatari, e dovrebbero anzi essere intraprese proprio nell’attesa di non riceverne alcuna. In una comunità islamica un servigio o un dono offerti vengono restituiti indirettamente, attraverso l’accumularsi dell’insieme di atti individuali di generosità, che prima o poi fa ritorno al donatore.
Da questo breve resoconto risulta chiaro che la tradizione islamica del jihad è diversa dal concetto cristiano di “guerra santa”. L’ingegnarsi della teologia cristiana per riconciliare “amore” e guerra, qui è del tutto assente. La narrativa cristiana della passività e della non violenza nell’Islam è sostituita dalla mobilitazione e dall’attivismo. Invece dei soldati di Dio metaforici del cristianesimo, qui abbiamo dei combattenti che, alla lettera, si offrono volontari per prendere le armi ed usarle. I testi musulmani giuridici e tradizionali affermano ripetutamente che i martiri sono coloro che muoiono mentre combattono per la loro fede. E i martiri vengono ricompensati col perdono delle loro colpe e con il passaggio diretto in paradiso.
Gli europei hanno spesso faticato per capire come l’Islam, che è sorto in una delle più povere regioni del mondo, abbia potuto agire sulla storia come un sì potente fattore di trasformazione. Come ha potuto un popolo che era vissuto ai margini del mondo per tanto tempo, levarsi improvvisamente e sconfiggere le due superpotenze dell’epoca, Roma e la Persia? Come erano radunati gli eserciti? Perché il mondo ha ricevuto da questi eventi una così potente scarica di energia e di mobilitazione?
Laddove i musulmani attribuiscono all’Islam e a Dio le loro motivazioni, i cristiani medievali ed i bizantini annessi al mondo islamico cercarono ovviamente altre ragioni per questa catastrofe per la cristianità che si era abbattuta su di loro. Generalmente, spiegarono i primi successi islamici come la volontà di un Dio vendicativo infuriato al cospetto dei cedimenti dei cristiani, ma si concentrarono anche sul crudeli ritratti a tinte vili del Profeta, da essi considerato la causa prima della loro sventura. Soprattutto sottolinearono, sempre per quanto riguarda queste spiegazioni, la passione per la violenza dei musulmani. E qui iniziò un fraintendimento sopravvissuto fino ad oggi.
I critici dell’Islam di oggi continuano a dire che il concetto di jihad è di per sé una prova della violenza che dell’Islam sarebbe costituente essenziale. Ma sostenere questo significa attribuire al jihad nell’Islam un posto che esso non ha. L’Islam, e soprattutto l’Islam sciita, possiede una tradizione di resistenza e di ribellione contro l’oppressione di cui il cristianesimo non prende parte; ma isolare il prendere le armi e censurarlo, senza afferrare l’argomento cardine rappresentato dalla purezza delle intenzioni, dalla lotta contro la tirannia e dalla tradizione dei “pochi individui il cui coraggio e la cui determinazione illuminano un mondo oscuro e violento”6 significherebbe operare una distorsione. Certo, non tutti coloro che affermano di darsi al jihad oggi possiedono una profonda conoscenza dell’Islam o sono dotati di intenzioni immacolate; ma gli individui di questo genere rappresentano una minoranza ampiamente condannata, e prima di ogni altro a condannarla è proprio il grosso degli islamici.
“La libertà dell’uomo dalla schiavitù verso altri uomini”
La soluzione di Sayyid Qutb per la situazione dei musulmani suoi contemporanei fu quella di prospettare un’avanguardia cui sarebbe spettato il compito di combattere contro la jahilliyya di oggi, quella del materialismo e dell’egocentrismo; cui sarebbe spettato il compito di portare il messaggio di un Islam inteso come sistema completo e bilanciato su cui basare la vita moderna, che si avvale della tecnologia moderna per i propri fini, ma che resta rispettoso delle vere necessità umane. Qutb afferma che “esistono molti ostacoli di ordine pratico per chi intenda stabilire il ruolo guida di Dio sulla terra, come il potere dello stato, il sistema sociale e le tradizioni e, più in generale, l’ambiente umano inteso nel suo complesso”7.
E' evidente che Qutb considerava tutto questo come una lotta rivoluzionaria per cambiare la natura della società ed anche del modo di governarla. Ma la sua innovazione, che pure avrebbe influenzato una ridotta ma cruciale minoranza di rivoluzionari, è rappresentata dalla critica nei confronti delle autorità islamiche che avevano cercato di far sì che i musulmani intendessero la guerra soltanto come difensiva. Qutb considerò disfattista questo atteggiamento8. Il ruolo del "jihad fatto con la spada" è quello di "aprire la strada all'impegno che passa dalla preghiera". L'Islam non è un "movimento di difesa", ma una "proclamazione, con valore universale, della libertà dell'uomo dalla servitù nei confronti di altri uomini... e la fine dell'arroganza e del bastare a se stessi"9.
Quest'ultimo aspetto è quello veramente radicale. Affermando l'impossibilità di vivere in società arabe corrotte ed irrecuperabilmente dominate dal materialismo e dall'occidentalizzazione, Qutb vibrava un formidabile colpo metaforico contro mille e quattrocento anni di coesione sociale di stampo sunnita. Dopo l'assassinio del quarto califfo Ali, genero del Profeta e suo cugino, nel 661 d.C., i musulmani sunniti lasciarono che colui che all'epoca era governatore di Damasco assumesse la carica di califfo. Iniziava in questo modo la dinastia degli Omayyadi, re e conquistatori assai più dediti al potere temporale piuttosto che custodi delle rivelazioni del Profeta.
Accettando la dinastia ereditaria degli Omayyadi, i sunniti stipularono un loro storico compromesso col potere, rifiutato e respinto in blocco dagli sciiti. Sottomettendosi alla leadership Omayyade di Damasco, l'Islam sunnita ha accettato di avere come califfo un "Cesare" legato al mondo temporale sorvolando paradigmaticamente su ogni comportamento non islamico esibito dalla famiglia dinastica ed interessandosi soltanto al fatto che questo leader mantenesse l'ordine, proteggesse i territori islamici e delegasse la teologia agli ulema (gli studiosi esperti).
Secondo Qutb, l'arrivo sulla ribalta di leader musulmani secolarizzanti ed occidentalizzati come Ataturk, lo Shah dell'Iran e re Faruk d'Egitto costituiva un problema più serio di un re o di un califfo mondani e corrotti; il modernismo laico portava una minaccia all'esistenza stessa dell'Islam.
Qutb notò che adottare il modernismo laico svuotava l'Islam di ogni essenza. Il fine politico dell'impegno per una società giusta ed equa intesa come scopo per la vita dei musulmani era reso impossibile dal fatto che il liberalismo economico pretendeva la soppressione di ogni vincolo politico e sociale al libero mercato;comprese anche che i principi occidentali dell'individualismo e del rapporto individuale col divino eliminavano alla base la possibilità di ricostruire l'unico percorso attraverso il quale un musulmano potesse arrivare a Dio, che consiste nel vivere in una società che rifletta il modo in cui Dio aveva voluto che gli uomini vivessero.
Qutb si accorse del fatto che il modernismo laico era incompatibile con ogni principio islamico in fatto di politica, di giustizia sociale e di economia e, da studioso particolarmente versato nel campo della cultura islamica, da poeta e da critico letterario, non poteva essere d'aiuto se non detestando questa influenza occidentalizzante "che inganna con il suo abbagliare, con il suo rumore, con il suo coinvolgimento dei sensi; in cui ogni anima soffoca; in cui soccombe la coscienza, mentre gli istinti ed i sensi si intossicano, si imbaldanziscono e si eccitano"10. Anche la cultura usciva svuotata e depoliticizzata da questa ricerca "del piacere e del divertimento"11, da questo vivido "desiderio di piacere". In breve, la cultura veniva privata della propria componente politica e degradata.
Qutb definì questo esito in Egitto ed in altre società musulmane come jahilyya, ed invocò contro di essa il ruolo di Dio piuttosto che quello di un qualunque Cesare del mondo manifestato. Avvicinò l'Islam sunnita alle pretese di giustizia sociale tipiche di quello sciita e comprese l'instaurazione di un governo giusto, ossia di un governo islamico, tra i doveri dei credenti.
Qutb accettò il principio secondo il quale un'avanguardia armata avrebbe potuto trovarsi nella necessità di usare la spada perché la jahillyya avesse fine. Per completare questo abbattimento dei “pilastri del tempio”, come Martin Lutero aveva negato al sacerdote il ruolo di mediatore tra uomo e Dio, Qutb cestina per intero la gerarchia clericale sunnita e tutta la sovrastruttura dell’Islam, affermando che il Corano deve essere accessibile a tutti. L’intervento di uno studioso competente, per interpretarlo o per mediare, non serve; né esso andava letto soltanto attraverso il secco prisma dei commentari tradizionali.
Proponendo questi rivoluzionari cambiamenti Qutb, va letteralmente sotto processo, sia pure in modo postumo, perché in questo caso deve assumersi la responsabilità di aver gettato le basi affinché gli jihadisti radicali potessero emergere, per mezzo della sua teorizzazione di uno jihad offensivo contro la jahilliyya. Adnan Musallam, nella sua biografia di Qutb12, arriva a concludere che l’esecuzione di Qutb nel 1966 abbia anticipato ogni definitivo giudizio sulla questione perché ha impedito che le sue intenzioni potessero essere a tutti gli effetti chiarite. I suoi ammiratori hanno sostenuto che i jihadisti hanno distorto il suo concetto di jahilliyya giustificando la guerra contro quei compagni musulmani che essi stessi avevano scelto di etichettare come “miscredenti”.
L’analisi di Musallam fa pensare che Qutb può non aver consapevolmente prodotto una simile elaborazione dello jihadismo, nonostante sia facile osservare che un simile passo può esser sembrato logico a petto della violenta repressione e delle crudeltà inflitte ai primi sostenitori di Qutb, che si sarebbero chiesti come altri musulmani avessero potuto reprimere e maltrattare in quel modo dei compagni musulmani che stavano tentando di liberare l’uomo dal senso di completezza in se stesso e dal materialismo.
Ad ogni modo il retaggio lasciato da Qutb non andrebbe considerato come centrato su questo argomento, per quanto importante esso possa essere. Qutb, tramite il gran numero di opere prodotte, letteralmente divorate dagli islamici di tutto il mondo, può in fin dei conti aver dato il suo più importante contributo al filone principale dell’islamismo tramite il suo attivismo diretto. Il suo messaggio è stato fatto proprio non soltanto da quanti dovevano vedersela con la jahilliyya, ma anche da quanti avevano a che fare con l’imposizione di una “modernità” laica intesa come l’unica forma considerata adeguata ad un ordine mondiale in piena evoluzione. Restarsene passivi non è abbastanza; la costruzione di un ordine mondiale improntato alla giustizia richiede una lotta di carattere più assertivo e quasi tutti gli islamici sarebbero d’accordo con Qutb su questo punto. Da questo punto di vista, egli è il padre della rivoluzione.
Le idee di Qutb sulla resistenza sono quelle che gli sono valse le maggiori attenzioni; ma Sayyid Qutb ha anche elaborato le linee generali di una ideologia islamica. Scrisse di giustizia sociale ponendo l’enfasi sul concetto islamico secondo il quale un individuo non è responsabile in via esclusiva del proprio benessere individuale e che anzi deve assumersi anche la responsabilità del benessere degli altri componenti della comunità, allo stesso modo in cui la comunità nel suo complesso deve addossarsi la responsabilità del suo benessere personale. Qutb evidenziò anche le linee di principio di un sistema politico basato sul concetto di una leadership imparziale e giusta, e descrisse un sistema economico subordinato all’obiettivo dell’equità e libero dalla subordinazione di ogni individuo dal dominio e dallo sfruttamento altrui.
In fin dei conti, fu principalmente a causa del suo scritto intitolato Pietre miliari che Qutb finì impiccato. Era il suo scritto sull’importanza della ‘umma, redatto seguendo le idee dei primi islamici che nel 1926 avevano avanzato l’idea di una comunità de-territorializzata su cui egli aveva lavorato fino ad approdare alla definizione di essa come comunità resistente. Un concetto che fu evidenziato tutto a suo danno dalla pubblica accusa, nel corso del processo in Egitto nel 1966.
Qutb aveva definito la ‘umma in questi termini:
E' evidente che Qutb considerava tutto questo come una lotta rivoluzionaria per cambiare la natura della società ed anche del modo di governarla. Ma la sua innovazione, che pure avrebbe influenzato una ridotta ma cruciale minoranza di rivoluzionari, è rappresentata dalla critica nei confronti delle autorità islamiche che avevano cercato di far sì che i musulmani intendessero la guerra soltanto come difensiva. Qutb considerò disfattista questo atteggiamento8. Il ruolo del "jihad fatto con la spada" è quello di "aprire la strada all'impegno che passa dalla preghiera". L'Islam non è un "movimento di difesa", ma una "proclamazione, con valore universale, della libertà dell'uomo dalla servitù nei confronti di altri uomini... e la fine dell'arroganza e del bastare a se stessi"9.
Quest'ultimo aspetto è quello veramente radicale. Affermando l'impossibilità di vivere in società arabe corrotte ed irrecuperabilmente dominate dal materialismo e dall'occidentalizzazione, Qutb vibrava un formidabile colpo metaforico contro mille e quattrocento anni di coesione sociale di stampo sunnita. Dopo l'assassinio del quarto califfo Ali, genero del Profeta e suo cugino, nel 661 d.C., i musulmani sunniti lasciarono che colui che all'epoca era governatore di Damasco assumesse la carica di califfo. Iniziava in questo modo la dinastia degli Omayyadi, re e conquistatori assai più dediti al potere temporale piuttosto che custodi delle rivelazioni del Profeta.
Accettando la dinastia ereditaria degli Omayyadi, i sunniti stipularono un loro storico compromesso col potere, rifiutato e respinto in blocco dagli sciiti. Sottomettendosi alla leadership Omayyade di Damasco, l'Islam sunnita ha accettato di avere come califfo un "Cesare" legato al mondo temporale sorvolando paradigmaticamente su ogni comportamento non islamico esibito dalla famiglia dinastica ed interessandosi soltanto al fatto che questo leader mantenesse l'ordine, proteggesse i territori islamici e delegasse la teologia agli ulema (gli studiosi esperti).
Secondo Qutb, l'arrivo sulla ribalta di leader musulmani secolarizzanti ed occidentalizzati come Ataturk, lo Shah dell'Iran e re Faruk d'Egitto costituiva un problema più serio di un re o di un califfo mondani e corrotti; il modernismo laico portava una minaccia all'esistenza stessa dell'Islam.
Qutb notò che adottare il modernismo laico svuotava l'Islam di ogni essenza. Il fine politico dell'impegno per una società giusta ed equa intesa come scopo per la vita dei musulmani era reso impossibile dal fatto che il liberalismo economico pretendeva la soppressione di ogni vincolo politico e sociale al libero mercato;comprese anche che i principi occidentali dell'individualismo e del rapporto individuale col divino eliminavano alla base la possibilità di ricostruire l'unico percorso attraverso il quale un musulmano potesse arrivare a Dio, che consiste nel vivere in una società che rifletta il modo in cui Dio aveva voluto che gli uomini vivessero.
Qutb si accorse del fatto che il modernismo laico era incompatibile con ogni principio islamico in fatto di politica, di giustizia sociale e di economia e, da studioso particolarmente versato nel campo della cultura islamica, da poeta e da critico letterario, non poteva essere d'aiuto se non detestando questa influenza occidentalizzante "che inganna con il suo abbagliare, con il suo rumore, con il suo coinvolgimento dei sensi; in cui ogni anima soffoca; in cui soccombe la coscienza, mentre gli istinti ed i sensi si intossicano, si imbaldanziscono e si eccitano"10. Anche la cultura usciva svuotata e depoliticizzata da questa ricerca "del piacere e del divertimento"11, da questo vivido "desiderio di piacere". In breve, la cultura veniva privata della propria componente politica e degradata.
Qutb definì questo esito in Egitto ed in altre società musulmane come jahilyya, ed invocò contro di essa il ruolo di Dio piuttosto che quello di un qualunque Cesare del mondo manifestato. Avvicinò l'Islam sunnita alle pretese di giustizia sociale tipiche di quello sciita e comprese l'instaurazione di un governo giusto, ossia di un governo islamico, tra i doveri dei credenti.
Qutb accettò il principio secondo il quale un'avanguardia armata avrebbe potuto trovarsi nella necessità di usare la spada perché la jahillyya avesse fine. Per completare questo abbattimento dei “pilastri del tempio”, come Martin Lutero aveva negato al sacerdote il ruolo di mediatore tra uomo e Dio, Qutb cestina per intero la gerarchia clericale sunnita e tutta la sovrastruttura dell’Islam, affermando che il Corano deve essere accessibile a tutti. L’intervento di uno studioso competente, per interpretarlo o per mediare, non serve; né esso andava letto soltanto attraverso il secco prisma dei commentari tradizionali.
Proponendo questi rivoluzionari cambiamenti Qutb, va letteralmente sotto processo, sia pure in modo postumo, perché in questo caso deve assumersi la responsabilità di aver gettato le basi affinché gli jihadisti radicali potessero emergere, per mezzo della sua teorizzazione di uno jihad offensivo contro la jahilliyya. Adnan Musallam, nella sua biografia di Qutb12, arriva a concludere che l’esecuzione di Qutb nel 1966 abbia anticipato ogni definitivo giudizio sulla questione perché ha impedito che le sue intenzioni potessero essere a tutti gli effetti chiarite. I suoi ammiratori hanno sostenuto che i jihadisti hanno distorto il suo concetto di jahilliyya giustificando la guerra contro quei compagni musulmani che essi stessi avevano scelto di etichettare come “miscredenti”.
L’analisi di Musallam fa pensare che Qutb può non aver consapevolmente prodotto una simile elaborazione dello jihadismo, nonostante sia facile osservare che un simile passo può esser sembrato logico a petto della violenta repressione e delle crudeltà inflitte ai primi sostenitori di Qutb, che si sarebbero chiesti come altri musulmani avessero potuto reprimere e maltrattare in quel modo dei compagni musulmani che stavano tentando di liberare l’uomo dal senso di completezza in se stesso e dal materialismo.
Ad ogni modo il retaggio lasciato da Qutb non andrebbe considerato come centrato su questo argomento, per quanto importante esso possa essere. Qutb, tramite il gran numero di opere prodotte, letteralmente divorate dagli islamici di tutto il mondo, può in fin dei conti aver dato il suo più importante contributo al filone principale dell’islamismo tramite il suo attivismo diretto. Il suo messaggio è stato fatto proprio non soltanto da quanti dovevano vedersela con la jahilliyya, ma anche da quanti avevano a che fare con l’imposizione di una “modernità” laica intesa come l’unica forma considerata adeguata ad un ordine mondiale in piena evoluzione. Restarsene passivi non è abbastanza; la costruzione di un ordine mondiale improntato alla giustizia richiede una lotta di carattere più assertivo e quasi tutti gli islamici sarebbero d’accordo con Qutb su questo punto. Da questo punto di vista, egli è il padre della rivoluzione.
Le idee di Qutb sulla resistenza sono quelle che gli sono valse le maggiori attenzioni; ma Sayyid Qutb ha anche elaborato le linee generali di una ideologia islamica. Scrisse di giustizia sociale ponendo l’enfasi sul concetto islamico secondo il quale un individuo non è responsabile in via esclusiva del proprio benessere individuale e che anzi deve assumersi anche la responsabilità del benessere degli altri componenti della comunità, allo stesso modo in cui la comunità nel suo complesso deve addossarsi la responsabilità del suo benessere personale. Qutb evidenziò anche le linee di principio di un sistema politico basato sul concetto di una leadership imparziale e giusta, e descrisse un sistema economico subordinato all’obiettivo dell’equità e libero dalla subordinazione di ogni individuo dal dominio e dallo sfruttamento altrui.
In fin dei conti, fu principalmente a causa del suo scritto intitolato Pietre miliari che Qutb finì impiccato. Era il suo scritto sull’importanza della ‘umma, redatto seguendo le idee dei primi islamici che nel 1926 avevano avanzato l’idea di una comunità de-territorializzata su cui egli aveva lavorato fino ad approdare alla definizione di essa come comunità resistente. Un concetto che fu evidenziato tutto a suo danno dalla pubblica accusa, nel corso del processo in Egitto nel 1966.
Qutb aveva definito la ‘umma in questi termini:
La patria del musulmano, in cui egli vive e che egli difende, non è un pezzo di terra; la nazionalità del musulmano, dalla quale egli viene identificato, non è una nazionalità determinata da un governo; la famiglia di un musulmano, in cui trova sostegno e che egli difende non è fatta di relazioni di sangue; la bandiera di un musulmano, che egli onora e sotto la quale egli subisce il martirio non è la bandiera di un paese sovrano; e la vittoria di un musulmano, quella che egli celebra e per la quale è grato a Dio, non è una vittoria militare13.
Coloro che lo criticavano si lamentavano del fatto che gli scritti di Qutb fossero immaginifici e che le sue idee mancassero di razionalità. Negli anni tra il 1939 ed il 1947 il suo isolamento crebbe, sotto i colpi di attacchi sempre crescenti ed egli finì per approdare a toni aspramente moralistici, ma non è tutto qui. Nonostante avesse sostenuto che i suoi lavori derivavano esclusivamente dal Corano e dalla Tradizione del Profeta, e che avesse affermato che egli stesso considerava le sue opere appena come ombre di quelle dei filosofi greci, si trovò ad essere ascritto, probabilmente con sua stessa sorpresa, alla forte corrente del misticismo islamico. Le sue opere sulla giustizia sociale riflettono lo stesso forte richiamo alla compassione che echeggia nella poesia e nel pensiero di Ibn Arabi, che era morto nel 1240.
Le voci dissidenti del salafismo
La corrente di pensiero di Qutb non era certo la principale. Il movimento cui egli aveva formalmente aderito era la venerabile Fratellanza Musulmana d’Egitto, che era stata fondata alla fine del diciannovesimo secolo. I Fratelli Musulmani invece rappresentavano, e rappresentano a tutt’oggi, proprio la principale corrente di pensiero. Al contrario dei gruppi che avrebbero in seguito rivendicato di ispirarsi a Qutb, esso rappresentava un Islam essenzialmente “non militante”. Anche se alcune correnti del pensiero egiziano avrebbero fatto proprio l’avanguardismo armato, al punto di arrivare ad assassinare il presidente Sadat nel 1981, i Fratelli Musulmani –che erano e sono il principale movimento islamico del mondo- erano e sono essenzialmente un movimento sociale ed educativo, che crede che un cambiamento possa soltanto essere realizzato per gradi, tramite un lento processo di educazione all’Islam ed attraverso programmi di sostegno sociale. Questa prevalente corrente di pensiero non ha mai dovuto affrontare seri contrasti politici, né in genere è approdata a sbocchi violenti.
Dopo la morte di Qutb, come d’altronde già prima di essa, la rivoluzione islamica si divise in un certo numero di filoni diversi: i Fratelli continuarono ad intraprendere le loro pazienti politiche fatte di opere di bene e di predicazione dell’Islam, mentre l’avanguardismo armato ebbe in Egitto una breve stagione rigogliosa prima di essere soppresso dal successore di Sadat, il Presidente Mubarak; due furono i suoi ideologi fondamentali, che poi sarebbero approdati ad al’Qaeda: il dottor Abdallah Azzam ed Ayman al-Zawahiri; entrambi riconobbero i loro debiti intellettuali nei confronti di Qutb.
Mentre i Fratelli Musulmani restano a tutt’oggi in larga parte non propensi allo scontro frontale e non violenti, a partire dai tardi anni Cinquanta si sviluppò in Iraq un movimento caratterizzato da un orientamento più attivo politicamente, associato alla figura di Mohammed Baqir Sadr, e che è oggetto di trattazione nel terzo capitolo. Anche questo gruppo all’inizio si basò sul pensiero sunnita di Qutb, ma poi lo declinò in modo diverso, secondo le istanze dell’islam sciita. Questa corrente funse poi da punto di unione tra pensatori islamici e convogliò idee prima in Iran, contribuendo alla rivoluzione, e poi in Libano, contribuendo all’ideologia di Hezbollah. Questo suo ultimo sviluppo è oggetto del prossimo capitolo.
I movimenti islamici sunniti della Palestina, Hamas e la Jihad Islamica palestinese, sono entrambi gemmazioni dei Fratelli Musulmani sviluppatesi dopo la rivoluzione in Iran. Entrambi i movimenti hanno adottato un atteggiamento maggiormente improntato all’attivismo ed al confronto diretto rispetto a quello dei Fratelli Musulmani. Né l’uno né l’altro hanno però seguito Qutb nel suo ambiguo rifiuto della dottrina classica sulla “difesa dell’Islam”, e neppure quella linea di pensiero che avrebbe portato all’offensiva jihadista armata contro l’Occidente o quella di quei leader delle società musulmane o di quei singoli musulmani che non hanno fatto propria l’idea dello jihad offensivo.
Tutti questi movimenti, che siano armati oppure non violenti, aderiscono al concetto di “difesa dell’Islam” come viene classicamente inteso. Non si considerano “in guerra con l’Occidente” e non approvano gli attacchi contro di esso. L’Iran, Hezbollah ed Hamas sono stati tra i primi a condannare gli attacchi dell’Undici Settembre contro il World Trade Center.
Tutto questo nonostante, una piccola corrente di pensatori salafiti ha iniziato a porre con insistenza l’accento sull’ostilità occidentale nei confronti del risveglio islamico e sull’occupazione delle terre musulmane da parte dell’Occidente. Questo movimento subisce l’influenza di una particolare versione “puritana” dell’Islam, l’orientamento wahabita all’interno del salafismo, e quella dello studioso del tredicesimo secolo chiamato Ibn Taymiyya, che abbiamo già conosciuto come una delle prime voci dissidenti nei confronti della dottrina della “difesa dell’Islam”.
Il disaccordo di Ibn Taymiyya affondava le sue radici nella reviviscenza sannita che si era sviluppata parallelamente alle cosiddette “controcrociate”, e riuniva il jihad ad una viva intolleranza nei confronti di ogni convinzione eterodossa. Ibn Taymiyya era uno studioso siriano morto nel 1328 ed aveva sviluppato un odio particolare nei confronti dei dominatori mongoli che dopo aver saccheggiato Baghdad nel 1258, uccidendo il califfo ed usurpandone il titolo, avevano intrapreso ripetute scorrerie in Siria ed in Egitto, che avevano rappresentato anche un possente rinforzo della lotta contro i crociati.
Ibn Taymiyya fu uno studioso combattente in ogni senso. Gli eserciti siro-egiziani avevano sconfitto i mongoli più volte. Taymiyya aveva predicato il jihad in scritti di vario genere, ma secondo lui jihad significava essenzialmente la soppressione degli eretici, vocabolo con cui indicava correntemente gli sciiti, la riduzione delle pratiche eterodosse come la visita alle tombe ed il tenere con fermezza al loro posto i non musulmani. Il suo essere un dissidente sta nella sua visione secondo la quale i dominatori mongoli che si erano convertiti all’Islam con la presa di Baghdad erano musulmani solo in apparenza. Rimanevano i pagani che erano sempre stati, ed il loro dominio era parte della jahiliyya14.
Non è difficile tracciare un parallelo tra l’aspro conservatorismo di Taymiyya ed il suo odio per gli invasori stranieri e per gli sciiti e quello dei salafiti di oggi, ancora una volta alle prese con le incursioni occidentali nelle loro terre, che nel caso dell’occupazione dell’Iraq hanno avuto come risultato il fatto che vicini territori sunniti sono caduti sotto la dominazione sciita.
Il pensiero di Taymiyya ed il suo pregiudizio nei confronti degli sciiti sono stati riscoperti e trasmessi da Abd-al Wahhab (morto nel 1792), fondatore dello wahabismo, a sua volta la forma maggioritaria dell’Islam in Arabia Saudita che costituisce al tempo stesso un orientamento tutto particolare, che qualcuno definirebbe ultra conservatore, all’interno del salafismo. Il salafismo è una scuola di pensiero che cerca di purificare l’Islam dalle successive ed “impure” concrezioni che sono andate accumulandovisi fin dai tempi della prima comunità islamica. Il vocabolo salaf può essere inteso come “pio antenato”. I salafiti dunque sono coloro che modellano se stessi sulla base dei loro pii antenati, ovvero della comunità islamica primitiva. Questo piccolo gruppo, generalmente tenuto in poco conto all’interno del salafismo, arrivò alla conclusione che l’Occidente non avrebbe mai acconsentito all’insediamento di un governo islamico, non importa se propriamente eletto dal popolo oppure no. Questo significava che la costruzione di una comunità o di uno stato autenticamente islamici era semplicemente impossibile. A fronte dell’ostruzionismo occidentale che sottometteva ogni altro potere e che dominava l’ordine internazionale, essi pensarono che la struttura delle relazioni di potere controllata dall’Occidente dovesse essere distrutta ed il sistema bruciato. L’impresa coloniale doveva cessare completamente: soltanto dopo la fenice islamica, una vera società islamica emendata dalle proprie impurezze, sarebbe risorta dalle sue ceneri.
Ecco come un salafita descrive la cosa:
Dopo la morte di Qutb, come d’altronde già prima di essa, la rivoluzione islamica si divise in un certo numero di filoni diversi: i Fratelli continuarono ad intraprendere le loro pazienti politiche fatte di opere di bene e di predicazione dell’Islam, mentre l’avanguardismo armato ebbe in Egitto una breve stagione rigogliosa prima di essere soppresso dal successore di Sadat, il Presidente Mubarak; due furono i suoi ideologi fondamentali, che poi sarebbero approdati ad al’Qaeda: il dottor Abdallah Azzam ed Ayman al-Zawahiri; entrambi riconobbero i loro debiti intellettuali nei confronti di Qutb.
Mentre i Fratelli Musulmani restano a tutt’oggi in larga parte non propensi allo scontro frontale e non violenti, a partire dai tardi anni Cinquanta si sviluppò in Iraq un movimento caratterizzato da un orientamento più attivo politicamente, associato alla figura di Mohammed Baqir Sadr, e che è oggetto di trattazione nel terzo capitolo. Anche questo gruppo all’inizio si basò sul pensiero sunnita di Qutb, ma poi lo declinò in modo diverso, secondo le istanze dell’islam sciita. Questa corrente funse poi da punto di unione tra pensatori islamici e convogliò idee prima in Iran, contribuendo alla rivoluzione, e poi in Libano, contribuendo all’ideologia di Hezbollah. Questo suo ultimo sviluppo è oggetto del prossimo capitolo.
I movimenti islamici sunniti della Palestina, Hamas e la Jihad Islamica palestinese, sono entrambi gemmazioni dei Fratelli Musulmani sviluppatesi dopo la rivoluzione in Iran. Entrambi i movimenti hanno adottato un atteggiamento maggiormente improntato all’attivismo ed al confronto diretto rispetto a quello dei Fratelli Musulmani. Né l’uno né l’altro hanno però seguito Qutb nel suo ambiguo rifiuto della dottrina classica sulla “difesa dell’Islam”, e neppure quella linea di pensiero che avrebbe portato all’offensiva jihadista armata contro l’Occidente o quella di quei leader delle società musulmane o di quei singoli musulmani che non hanno fatto propria l’idea dello jihad offensivo.
Tutti questi movimenti, che siano armati oppure non violenti, aderiscono al concetto di “difesa dell’Islam” come viene classicamente inteso. Non si considerano “in guerra con l’Occidente” e non approvano gli attacchi contro di esso. L’Iran, Hezbollah ed Hamas sono stati tra i primi a condannare gli attacchi dell’Undici Settembre contro il World Trade Center.
Tutto questo nonostante, una piccola corrente di pensatori salafiti ha iniziato a porre con insistenza l’accento sull’ostilità occidentale nei confronti del risveglio islamico e sull’occupazione delle terre musulmane da parte dell’Occidente. Questo movimento subisce l’influenza di una particolare versione “puritana” dell’Islam, l’orientamento wahabita all’interno del salafismo, e quella dello studioso del tredicesimo secolo chiamato Ibn Taymiyya, che abbiamo già conosciuto come una delle prime voci dissidenti nei confronti della dottrina della “difesa dell’Islam”.
Il disaccordo di Ibn Taymiyya affondava le sue radici nella reviviscenza sannita che si era sviluppata parallelamente alle cosiddette “controcrociate”, e riuniva il jihad ad una viva intolleranza nei confronti di ogni convinzione eterodossa. Ibn Taymiyya era uno studioso siriano morto nel 1328 ed aveva sviluppato un odio particolare nei confronti dei dominatori mongoli che dopo aver saccheggiato Baghdad nel 1258, uccidendo il califfo ed usurpandone il titolo, avevano intrapreso ripetute scorrerie in Siria ed in Egitto, che avevano rappresentato anche un possente rinforzo della lotta contro i crociati.
Ibn Taymiyya fu uno studioso combattente in ogni senso. Gli eserciti siro-egiziani avevano sconfitto i mongoli più volte. Taymiyya aveva predicato il jihad in scritti di vario genere, ma secondo lui jihad significava essenzialmente la soppressione degli eretici, vocabolo con cui indicava correntemente gli sciiti, la riduzione delle pratiche eterodosse come la visita alle tombe ed il tenere con fermezza al loro posto i non musulmani. Il suo essere un dissidente sta nella sua visione secondo la quale i dominatori mongoli che si erano convertiti all’Islam con la presa di Baghdad erano musulmani solo in apparenza. Rimanevano i pagani che erano sempre stati, ed il loro dominio era parte della jahiliyya14.
Non è difficile tracciare un parallelo tra l’aspro conservatorismo di Taymiyya ed il suo odio per gli invasori stranieri e per gli sciiti e quello dei salafiti di oggi, ancora una volta alle prese con le incursioni occidentali nelle loro terre, che nel caso dell’occupazione dell’Iraq hanno avuto come risultato il fatto che vicini territori sunniti sono caduti sotto la dominazione sciita.
Il pensiero di Taymiyya ed il suo pregiudizio nei confronti degli sciiti sono stati riscoperti e trasmessi da Abd-al Wahhab (morto nel 1792), fondatore dello wahabismo, a sua volta la forma maggioritaria dell’Islam in Arabia Saudita che costituisce al tempo stesso un orientamento tutto particolare, che qualcuno definirebbe ultra conservatore, all’interno del salafismo. Il salafismo è una scuola di pensiero che cerca di purificare l’Islam dalle successive ed “impure” concrezioni che sono andate accumulandovisi fin dai tempi della prima comunità islamica. Il vocabolo salaf può essere inteso come “pio antenato”. I salafiti dunque sono coloro che modellano se stessi sulla base dei loro pii antenati, ovvero della comunità islamica primitiva. Questo piccolo gruppo, generalmente tenuto in poco conto all’interno del salafismo, arrivò alla conclusione che l’Occidente non avrebbe mai acconsentito all’insediamento di un governo islamico, non importa se propriamente eletto dal popolo oppure no. Questo significava che la costruzione di una comunità o di uno stato autenticamente islamici era semplicemente impossibile. A fronte dell’ostruzionismo occidentale che sottometteva ogni altro potere e che dominava l’ordine internazionale, essi pensarono che la struttura delle relazioni di potere controllata dall’Occidente dovesse essere distrutta ed il sistema bruciato. L’impresa coloniale doveva cessare completamente: soltanto dopo la fenice islamica, una vera società islamica emendata dalle proprie impurezze, sarebbe risorta dalle sue ceneri.
Ecco come un salafita descrive la cosa:
Dovete pensare che questo modo di pensare è essenzialmente escatologico… riguarda un mondo che si sta muovendo verso la sua conclusione… la sua fine.
Il linguaggio e le scritture sono diventati lunghi, oscuri percorsi di dibattito teologico che riflettono qualcosa di simile alla religiosità dei cristiani quando Tommaso d’Aquino e gli altri teologi cristiani disputavano sulle implicazioni della domanda su quanti angeli potessero danzare sulla capocchia di uno spillo… Molti scismi sono sorti da dibattiti come questo.
Ma sono pieni di rabbia. Davvero pieni di rabbia. Sono pieni di rabbia per quello che l’Occide3nte sta facendo in Iraq, ed anch’io lo sono: quello che è cominciato in Iraq… durerà anni…. Anche se gli americani se ne andassero oggi.. prima che le conseguenze delle loro azioni laggiù finiscano per essere riassorbite… in tanti moriranno; sarà un affare molto sanguinoso. Sono montato in collera quando ho sentito che trecento civili afghani erano morti nei bombardamenti occidentali dei loro villaggi; in Occidente ci si fa appena caso, trecento vite… una nota a piè di pagina, un paragrafetto sui giornali. Sono morti tremila americani ed apriti cielo… trecento afghani innocenti? E chi se ne importa?
Questi salafiti, nella loro rabbia, hanno cominciato a considerare questo come il Male personificato… a pensare che l’Occidente sia il Male… Che l’Occidente sia un male per tutti i musulmani, tanto per andare sul sicuro… molti la vedono in questo modo; ma più che altro… ed è questo che è importante… il pensiero occidentale… adesso è visto da questi salafiti come qualcosa che minaccia non soltanto i musulmani, ma l’umanità intera. Lo considerano un male da distruggere completamente: ecco l’aspetto escatologico della cosa… il pensiero occidentale rimasto privo di controlli finirà per distruggere l’intera umanità, quali che siano le credenze di ciascuno.
Questo è il pensiero di molti salafiti. Considerano un imperativo, in questo momento storico, combattere il Male rappresentato dalle credenze occidentali. Non hanno idee circa il futuro dopo questa lotta… si sentono responsabili per l’attuale momento storico… il dopo…. Che ci sia o meno un califfato musulmano su tutte le nazioni… arrivare a questo è compito di Dio… un salafita non ha alcun ruolo in questo… il suo dovere finisce con il momento storico nel quale egli si trova coinvolto15.
L’insieme delle cellule e dei gruppi salafiti di cui gli interventi militari occidentali hanno provocato il concretizzarsi in varie società musulmane, influenzato dal pensiero di Al Qaeda senza condividerne la filosofia, presenta alcune caratteristiche comuni oltre a quella del profondo rancore. Cellule e gruppi salafiti rappresentano un’aspra reazione sunnita allo sciismo ed alla pretesa sciita di assumere la leadership del mondo islamico; in questo riecheggia il pensiero di Taymiyya.
Sono anche implacabilmente ostili nei confronti di movimenti sunniti come Hamas, che essi percepiscono come portati al compromesso con il Male rappresentato dall’Occidente perché partecipano alle consultazioni elettorali e perché mostrano la volontà di intrattenere relazioni con gli stati occidentali; cose che questi salafiti considerano come atti di collaborazionismo. I salafiti sono ancora pochi ma il loro numero sta crescendo rapidamente, perché gli interessi sauditi fanno arrivare ai gruppi sunniti radicali risorse considerevoli, sperando che essi formeranno un nucleo attorno al quale avrà luogo una nuova rinascita sunnita. L’obiettivo della generosità saudita, come nel primo periodo dopo la guerra del Golfo, è quello di rafforzare le realtà circumvicine in grado di porre un argine alla potenza iraniana e sciita. Il conflitto in Iraq è diventato un nuovo catalizzatore per questa guerra tra vicini, ma come si è verificato con i precedenti tentativi sauditi di contenere l’Iran rafforzando uno wahabismo dalle venature antisciite, è probabile che i sauditi finiranno per rendersi conto che questi sunniti radicali non sono propriamente colmi di stima per la classe dominante saudita.
Questi gruppi salafiti dalle ridotte dimensioni, come ha notato il nostro interlocutore salafita, sono frammentati e divisi da dispute teologiche equivalenti alle vecchie dispute cristiane sul numero di angeli in grado di ballare sulla capocchia di uno spillo. Molte di queste dispute riguardano la questione se sia giusto o meno uccidere musulmani innocenti in nome di un ideale più elevato, ma riguardano anche le circostanze e le finalità della guerra in corso: si chiedono se la guerra finale che segna la fine del mondo sia davvero cominciata, oppure se ci troviamo soltanto davanti alle sue schermaglie iniziali.
Sono anche implacabilmente ostili nei confronti di movimenti sunniti come Hamas, che essi percepiscono come portati al compromesso con il Male rappresentato dall’Occidente perché partecipano alle consultazioni elettorali e perché mostrano la volontà di intrattenere relazioni con gli stati occidentali; cose che questi salafiti considerano come atti di collaborazionismo. I salafiti sono ancora pochi ma il loro numero sta crescendo rapidamente, perché gli interessi sauditi fanno arrivare ai gruppi sunniti radicali risorse considerevoli, sperando che essi formeranno un nucleo attorno al quale avrà luogo una nuova rinascita sunnita. L’obiettivo della generosità saudita, come nel primo periodo dopo la guerra del Golfo, è quello di rafforzare le realtà circumvicine in grado di porre un argine alla potenza iraniana e sciita. Il conflitto in Iraq è diventato un nuovo catalizzatore per questa guerra tra vicini, ma come si è verificato con i precedenti tentativi sauditi di contenere l’Iran rafforzando uno wahabismo dalle venature antisciite, è probabile che i sauditi finiranno per rendersi conto che questi sunniti radicali non sono propriamente colmi di stima per la classe dominante saudita.
Questi gruppi salafiti dalle ridotte dimensioni, come ha notato il nostro interlocutore salafita, sono frammentati e divisi da dispute teologiche equivalenti alle vecchie dispute cristiane sul numero di angeli in grado di ballare sulla capocchia di uno spillo. Molte di queste dispute riguardano la questione se sia giusto o meno uccidere musulmani innocenti in nome di un ideale più elevato, ma riguardano anche le circostanze e le finalità della guerra in corso: si chiedono se la guerra finale che segna la fine del mondo sia davvero cominciata, oppure se ci troviamo soltanto davanti alle sue schermaglie iniziali.
“Chi sono i nostri nemici, e perché ci odiano?”
E’ chiaro che la crescita del pensiero escatologico rappresenti una qualche “fine della politica”, per questa minoranza. Si sarebbe arrivati al culmine della lotta tra il Bene ed il Male, in cui le carte della politica non hanno più corso. E’ su questo punto che sono diversi da AlQaeda. AlQaeda vuol fare implodere il sistema occidentale così com’è implosa l’URSS; schiantarlo in una maniera tanto radicale che tutti i retaggi del passato coloniale, compresi i corrotti leader delle società musulmane, ne vengano spazzati via. Si tratta di una forma di pensiero rivoluzionario con cui gli europei dovrebbero avere dimestichezza: un fare tabula rasa con la violenza e con una cesura completa rispetto al passato, che fa ripartire un ciclo costruttivo. Una costruzione che inizia con una distruzione: il concetto che guidava i rivoluzionari giacobini in Francia. E come i giacobini, e a differenza dei loro compari del salafismo escatologico, alQaeda pensa che nel prosieguo del conflitto la politica continui ad avere un suo ruolo.
L’approccio dei salafiti e quello di AlQaeda non potrebbero essere più diversi da quello del resto del mondo musulmano. Gli islamici della corrente principale inorridiscono a questo tipo di pensiero; credono che come i rivoluzionari francesi finirono per erodere la loro stessa rivoluzione, così anche alQaeda rischia di sprofondare nelle più oscure profondità della natura umana scatenando sentimenti soverchianti di paura, di odio e di desiderio di vendetta. Le conseguenze che successive allo scatenare una fiumana di violenza anarchica non porteranno a nulla di positivo. Secondo la maggioranza degli islamici non può certo essere questa la strada per costruire una società islamica fondata sulla giustizia. Secondo Hezbollah non si deve mai permettere che la rivoluzioni arrivi a divorare se stessa, pena lo scollegarla dal sostegno popolare.
La corrente principale degli islamici, probabilmente il novantacinque per cento di essi, si è dissociata ed ha respinto ogni emendamento alla dottrina della difesa dell’Islam intesa in senso classico, così come ogni diffusione di qualsiasi nuova dottrina che raccomandi ai musulmani di ingaggiare una guerra offensiva a tutto campo. I gruppi radicali di orientamento escatologico o quelli come AlQaeda hanno reagito mettendo gruppi come Hezbollah ed Hamas, così come gli sciiti, nelle loro liste di proscrizione.
Il concentrarsi dell’attenzione occidentale sulla lotta contro il cosiddetto “estremismo islamico” e la sua preoccupazione nei confronti della violenza ha in gran parte lasciato in ombra questa distinzione fondamentale tra resistenza e violenza motivata da “sgomento ed indignazione”. Confondere la maggioranza degli islamici che aderiscono all’idea di una resistenza “in difesa dell’Islam” con coloro che sperano di provocare uno Armageddon non soltanto non è servito a mettere dei limiti all’islamismo, ma ha soltanto contribuito a rendere più forti coloro che vogliono “bruciare il sistema”.
Quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan nel 1979, i musulmani di tutto il mondo furono si sentirono indignati a fronte dell’occupazione, dalla brutale soppressione dei civili e dai racconti delle atrocità commesse. I musulmani accorsero in aiuto dei loro correligionari e a difendere l’Islam e gli afgani da società di ogni tipo e da tutte le varianti praticate dell’Islam. Non esistevano voci dissidenti perché i termini della questione erano chiari: una società musulmana attaccata ed occupata da uno stato ateo occidentale. L’obbligo di intervenire volontari per la difesa dell’Islam era in questo caso chiaro per tutti i musulmani.
All’inizio degli anni Ottanta, prima che i talebani si formassero come movimento, l’Afghanistan e le aree confinanti del Pakistan divennero un crogiolo di nuove idee e di pensiero islamico. Da qui passava letteralmente la linea del fronte sia in materia di difesa dell’Islam che in fatto di evoluzione del pensiero in materia di società islamica. Fu una sorta di agorà, nei cui dibattiti tutte le varie correnti dell’Islam erano rappresentate, dai mistici sufi agli ayatollah in esilio dall’Iran. Fu un momento eccitante ed intellettualmente stimolante. Fu in questo stupefacente miscuglio che iniziò ad arrivare un piccolo gruppo di arabi sauditi, tra i quali c’era Osama Bin Laden.
Parallelamente a questo influsso dei movimenti islamici e dei loro capi nelle regioni pachistane al confine con l’Afghanistan, il generale Zia Ul-Haq aveva già intrapreso un proprio ambizioso progetto di islamizzazione dell’esercito e della società pachistani. L’invasione sovietica e lo sbocciare di tante correnti islamiche diede al progetto di Zia Ul-Haq un potente impulso in termini di potenziale umano, di idee e di denaro. Vigilando sull’invasione sovietica, la CIA e gli USA iniziarono a rovesciare dollari a milioni sul Pakistan e, tramite le autorità pakistane, sui movimenti islamici basati alla frontiera con l’Afghanistan occupato dai sovietici.
Non erano soltanto gli USA ed altri stati occidentali a finanziare direttamente o indirettamente i movimenti islamici; la causa della difesa dell’Afghanistan aveva mobilitato donatori dall’Arabia Saudita, dai paesi del Golfo ed anche da altri. Le madrase crebbero come funghi nelle aree di confine, e prosperarono. Tecnicamente dovevano essere delle scuole secondarie, ma sorte com’erano all’interno del progetto di Zia Ul-Haq tendevano ad impartire una formazione basata sul conservatorismo di orientamento Deobandi o sottoposto all’influenza dello wahabismo saudita.
Quelli che oggi in Occidente vengono chiamati “campi di addestramento del terrore”, in Afghanistan furono allestiti all’inizio degli anni Ottanta su istigazione del Pakistan e con il tacito sostegno di Stati Uniti ed Arabia Saudita. Vennero fondati per addestrare i mujahedin afgani (gli jihadi), per impartire loro una formazione militare. Si era negli ultimi anni della Guerra fredda e gli Stati Uniti stavano cercando di imporre all’Unione Sovietica una sconfitta militare.
L’ambizioso programma occidentale per costringere i sovietici al ritiro dall’Afghanistan dette i suoi frutti nel 1987. Dopo aver conseguito questo successo in politica estera, cui giunsero con ogni probabilità più per l’implosione politica che si stava verificando a Mosca che per le sconfitte sul campo inflitte ai sovietici dai mujahedin, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si disimpegnarono dall’Afghanistan. Fu proprio durante il ritiro sovietico dall’Afghanistan ed il concomitante disimpegno occidentale che l’idea di far implodere il sistema, partorita da un gruppo associato a Bin Laden e che non doveva contare più di duecentocinquanta o trecento persone, iniziò a svilupparsi e a prendere forma.
Il piano era formulato per costituire una sorta di contraltare ai progetti di mobilitazione popolare di massa espressi dalle correnti maggioritarie dell’Islam: AlQaeda cercò di provocare un terremoto direttamente a livello mondiale, senza curarsi della necessità di un sostegno popolare, mandando in cortocircuito il processo rivoluzionario ed adottando tecniche del tipo “sgomento e indignazione”.
Si tratta di una forma estrema di avanguardismo, che promuove una violenza nichilista e che non ha scopi strategici specifici diretti oltre a quello, peraltro indiretto, di far collassare lo schema di relazioni attualmente in essere tra le persone all’interno di una società, e tra i governanti e i governati, creando sentimenti di rabbia soverchiante, di odio e di paura.
Si tratta di un approccio dirompente, nelle intenzioni destinato a creare una nuova società. In esso gli eventi traumatici tipici dell’approccio basato su sgomento ed indignazione vengono considerati sia un modo di fare pulizia, secondo un atteggiamento condiviso con i giacobini della Rivoluzione Francese, sia un evento rivoluzionario. Il tutto è stato concepito esattamente come un’orgia giacobina di violenza e di confusione, destinata a scatenare irrefrenabili forze fatte di irrazionalità e di rabbia, provenienti dalla parte oscura dell’animo umano, che avrebbero distrutto i regimi arabi ed i loro collaboratori.
I capi come Ayman Zawahiri sostengono che uno stato islamico sorgerà semplicemente in conseguenza di questo stato di cose. A differenza degli islamici delle correnti maggioritarie, che avanzano un’ideologia ed una piattaforma per costruire una nuova società islamica e che si impegnano attivamente in questa costruzione, al Qaeda considera, insieme ai gruppi apocalittici salafiti, che in questo momento storico ad essere necessarie sono le dinamiche di distruzione e che al di là del bisogno di creare una causa scatenante per queste dinamiche non è necessario alcun lavoro preparatorio. Il successivo corso degli eventi esce dalla portata delle loro responsabilità personali: è una responsabilità che appartiene a Dio.
L’intento di Osama Bin Laden non è quello di sconfiggere militarmente l’Occidente: gli mancano i mezzi per arrivare a tanto. E’ piuttosto quello di causare una serie di pesanti intromissioni che lo portino ad implodere a causa delle sue contraddizioni interne, com’è successo all’Unione Sovietica.
Non è dato sapere se oggi Al Qaeda goda effettivamente di un seguito leale di una qualche consistenza; ci sono sondaggi che indicano che in molti, forse attorno al trenta per cento degli interpellati in alcune rilevazioni, plaudono al confronto con gli USA. Il contribuire da parte di Al Qaeda alla realizzazione di una narrativa storica musulmana alternativa, che sta ripetutamente e costantemente guadagnando terreno su quelle occidentali, gode di una più ampia considerazione presso un vasto pubblico musulmano, anche se in genere le azioni di Al Qaeda vengono condannate dallo stesso pubblico.
L’approccio dei salafiti e quello di AlQaeda non potrebbero essere più diversi da quello del resto del mondo musulmano. Gli islamici della corrente principale inorridiscono a questo tipo di pensiero; credono che come i rivoluzionari francesi finirono per erodere la loro stessa rivoluzione, così anche alQaeda rischia di sprofondare nelle più oscure profondità della natura umana scatenando sentimenti soverchianti di paura, di odio e di desiderio di vendetta. Le conseguenze che successive allo scatenare una fiumana di violenza anarchica non porteranno a nulla di positivo. Secondo la maggioranza degli islamici non può certo essere questa la strada per costruire una società islamica fondata sulla giustizia. Secondo Hezbollah non si deve mai permettere che la rivoluzioni arrivi a divorare se stessa, pena lo scollegarla dal sostegno popolare.
La corrente principale degli islamici, probabilmente il novantacinque per cento di essi, si è dissociata ed ha respinto ogni emendamento alla dottrina della difesa dell’Islam intesa in senso classico, così come ogni diffusione di qualsiasi nuova dottrina che raccomandi ai musulmani di ingaggiare una guerra offensiva a tutto campo. I gruppi radicali di orientamento escatologico o quelli come AlQaeda hanno reagito mettendo gruppi come Hezbollah ed Hamas, così come gli sciiti, nelle loro liste di proscrizione.
Il concentrarsi dell’attenzione occidentale sulla lotta contro il cosiddetto “estremismo islamico” e la sua preoccupazione nei confronti della violenza ha in gran parte lasciato in ombra questa distinzione fondamentale tra resistenza e violenza motivata da “sgomento ed indignazione”. Confondere la maggioranza degli islamici che aderiscono all’idea di una resistenza “in difesa dell’Islam” con coloro che sperano di provocare uno Armageddon non soltanto non è servito a mettere dei limiti all’islamismo, ma ha soltanto contribuito a rendere più forti coloro che vogliono “bruciare il sistema”.
Quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan nel 1979, i musulmani di tutto il mondo furono si sentirono indignati a fronte dell’occupazione, dalla brutale soppressione dei civili e dai racconti delle atrocità commesse. I musulmani accorsero in aiuto dei loro correligionari e a difendere l’Islam e gli afgani da società di ogni tipo e da tutte le varianti praticate dell’Islam. Non esistevano voci dissidenti perché i termini della questione erano chiari: una società musulmana attaccata ed occupata da uno stato ateo occidentale. L’obbligo di intervenire volontari per la difesa dell’Islam era in questo caso chiaro per tutti i musulmani.
All’inizio degli anni Ottanta, prima che i talebani si formassero come movimento, l’Afghanistan e le aree confinanti del Pakistan divennero un crogiolo di nuove idee e di pensiero islamico. Da qui passava letteralmente la linea del fronte sia in materia di difesa dell’Islam che in fatto di evoluzione del pensiero in materia di società islamica. Fu una sorta di agorà, nei cui dibattiti tutte le varie correnti dell’Islam erano rappresentate, dai mistici sufi agli ayatollah in esilio dall’Iran. Fu un momento eccitante ed intellettualmente stimolante. Fu in questo stupefacente miscuglio che iniziò ad arrivare un piccolo gruppo di arabi sauditi, tra i quali c’era Osama Bin Laden.
Parallelamente a questo influsso dei movimenti islamici e dei loro capi nelle regioni pachistane al confine con l’Afghanistan, il generale Zia Ul-Haq aveva già intrapreso un proprio ambizioso progetto di islamizzazione dell’esercito e della società pachistani. L’invasione sovietica e lo sbocciare di tante correnti islamiche diede al progetto di Zia Ul-Haq un potente impulso in termini di potenziale umano, di idee e di denaro. Vigilando sull’invasione sovietica, la CIA e gli USA iniziarono a rovesciare dollari a milioni sul Pakistan e, tramite le autorità pakistane, sui movimenti islamici basati alla frontiera con l’Afghanistan occupato dai sovietici.
Non erano soltanto gli USA ed altri stati occidentali a finanziare direttamente o indirettamente i movimenti islamici; la causa della difesa dell’Afghanistan aveva mobilitato donatori dall’Arabia Saudita, dai paesi del Golfo ed anche da altri. Le madrase crebbero come funghi nelle aree di confine, e prosperarono. Tecnicamente dovevano essere delle scuole secondarie, ma sorte com’erano all’interno del progetto di Zia Ul-Haq tendevano ad impartire una formazione basata sul conservatorismo di orientamento Deobandi o sottoposto all’influenza dello wahabismo saudita.
Quelli che oggi in Occidente vengono chiamati “campi di addestramento del terrore”, in Afghanistan furono allestiti all’inizio degli anni Ottanta su istigazione del Pakistan e con il tacito sostegno di Stati Uniti ed Arabia Saudita. Vennero fondati per addestrare i mujahedin afgani (gli jihadi), per impartire loro una formazione militare. Si era negli ultimi anni della Guerra fredda e gli Stati Uniti stavano cercando di imporre all’Unione Sovietica una sconfitta militare.
L’ambizioso programma occidentale per costringere i sovietici al ritiro dall’Afghanistan dette i suoi frutti nel 1987. Dopo aver conseguito questo successo in politica estera, cui giunsero con ogni probabilità più per l’implosione politica che si stava verificando a Mosca che per le sconfitte sul campo inflitte ai sovietici dai mujahedin, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si disimpegnarono dall’Afghanistan. Fu proprio durante il ritiro sovietico dall’Afghanistan ed il concomitante disimpegno occidentale che l’idea di far implodere il sistema, partorita da un gruppo associato a Bin Laden e che non doveva contare più di duecentocinquanta o trecento persone, iniziò a svilupparsi e a prendere forma.
Il piano era formulato per costituire una sorta di contraltare ai progetti di mobilitazione popolare di massa espressi dalle correnti maggioritarie dell’Islam: AlQaeda cercò di provocare un terremoto direttamente a livello mondiale, senza curarsi della necessità di un sostegno popolare, mandando in cortocircuito il processo rivoluzionario ed adottando tecniche del tipo “sgomento e indignazione”.
Si tratta di una forma estrema di avanguardismo, che promuove una violenza nichilista e che non ha scopi strategici specifici diretti oltre a quello, peraltro indiretto, di far collassare lo schema di relazioni attualmente in essere tra le persone all’interno di una società, e tra i governanti e i governati, creando sentimenti di rabbia soverchiante, di odio e di paura.
Si tratta di un approccio dirompente, nelle intenzioni destinato a creare una nuova società. In esso gli eventi traumatici tipici dell’approccio basato su sgomento ed indignazione vengono considerati sia un modo di fare pulizia, secondo un atteggiamento condiviso con i giacobini della Rivoluzione Francese, sia un evento rivoluzionario. Il tutto è stato concepito esattamente come un’orgia giacobina di violenza e di confusione, destinata a scatenare irrefrenabili forze fatte di irrazionalità e di rabbia, provenienti dalla parte oscura dell’animo umano, che avrebbero distrutto i regimi arabi ed i loro collaboratori.
I capi come Ayman Zawahiri sostengono che uno stato islamico sorgerà semplicemente in conseguenza di questo stato di cose. A differenza degli islamici delle correnti maggioritarie, che avanzano un’ideologia ed una piattaforma per costruire una nuova società islamica e che si impegnano attivamente in questa costruzione, al Qaeda considera, insieme ai gruppi apocalittici salafiti, che in questo momento storico ad essere necessarie sono le dinamiche di distruzione e che al di là del bisogno di creare una causa scatenante per queste dinamiche non è necessario alcun lavoro preparatorio. Il successivo corso degli eventi esce dalla portata delle loro responsabilità personali: è una responsabilità che appartiene a Dio.
L’intento di Osama Bin Laden non è quello di sconfiggere militarmente l’Occidente: gli mancano i mezzi per arrivare a tanto. E’ piuttosto quello di causare una serie di pesanti intromissioni che lo portino ad implodere a causa delle sue contraddizioni interne, com’è successo all’Unione Sovietica.
Non è dato sapere se oggi Al Qaeda goda effettivamente di un seguito leale di una qualche consistenza; ci sono sondaggi che indicano che in molti, forse attorno al trenta per cento degli interpellati in alcune rilevazioni, plaudono al confronto con gli USA. Il contribuire da parte di Al Qaeda alla realizzazione di una narrativa storica musulmana alternativa, che sta ripetutamente e costantemente guadagnando terreno su quelle occidentali, gode di una più ampia considerazione presso un vasto pubblico musulmano, anche se in genere le azioni di Al Qaeda vengono condannate dallo stesso pubblico.
Destrutturazione e ricostruzione dell’Islam
La narrativa storica presente nei discorsi di Bin Laden e su dei siti web ha aperto ai musulmani in Occidente modi innovativi per concepire un Islam futuro. Bin Laden ha raggiunto con notevole successo questo obiettivo togliendo di mezzo la vecchia narrativa fatta di autorità clericali, mistiche ed anche fondamentaliste, insieme alle organizzazioni che le caratterizzavano, e ricomponendo in nuove concezioni tutti questi elementi decontestualizzati.
I giovani musulmani che vivono in Occidente, come i loro omologhi nelle società mussulmane, sono stati colpiti da quanto si è verificato negli ultimi duecento anni di storia; parallelamente però sono stati rinfrancati ed hanno ricevuto nuove energie da questa profusione di nuove idee e di nuovo pensiero che ha accompagnato la rinascita islamica. Al centro di questa rinascita c’è stato il tentativo di superare i limiti e i fallimenti del recente passato rivalutando le radici dell’Islam, cercandovi ciò che infuse energia al mondo e lo trasformò, all’epoca del Messaggio portato dal Profeta Muhammad.
Sarebbe stato segno di accuratezza iniziare questo libro con le vicende legate alla nascita di una resistenza islamica alla fine del diciannovesimo secolo, quando i pensatori islamici iniziarono per la prima volta a prendere in considerazione il problema del come mantenere la propria identità islamica di gruppo minoritario nell’India dell’induismo; ma come abbiamo indicato nell’introduzione questo libro non vuol essere una storia dell’islamismo. Il punto che ho cercato di mettere in luce fissando l’inizio della resistenza islamica con l’egiziano Sayyd Qutb e con il richiamo di Mohammed Baqir Sadr compiuto a Najaf da al Da’wa sta nel fatto che fu la “modernizzazione” della Turchia, seguita dalla modernizzazione laica di altre società musulmane, a rendere più facile la trasformazione di quello che alla fine del XIX ed all’inizio del XX secolo era stato una sorta di genere letterario apologetico in trattazioni resistenziali vere e proprie.
Paradossalmente sono stati proprio i kemalisti e la trasformazione da loro messa in atto in Turchia, cioè qualcosa che gli occidentali ammirano tanto, non conoscendone le implicazioni, che facendo dell’Islam una cultura popolare, di strada e di moschea, e rescindendo i legami con la sovrastruttura che aveva garantito millequattrocento anni di stabilità, hanno creato le condizioni perché l’Islam potesse cambiare volto e potesse evolversi in un movimento rivoluzionario. E’ stato tutto questo, insieme alla brutalità della repressione che gli islamici dovettero soffrire, a far sì che le basi per una più ampia resistenza venissero gettate.
I kemalisti avevano davvero rescisso ogni legame che tenesse insieme l’Islam come viene praticato dai musulmani in generale con la sovrastruttura della cultura islamica, i suoi commentari, le sue scuole di legge, il suo linguaggio esoterico che richiedeva venticinque anni di studio prima di affrontare l’interpretazione dei testi sacri. Questi legami avevano tenuto insieme l’Islam di per sé e la sua dottrina, che avevano costituito un tutto per oltre mille anni: furono smantellati, marginalizzati o messi in condizioni di inefficacia come parte della manomorta del servizio civile.
Questo smantellare il corpo unico costituito dall’Islam e dalle sue strutture ha inavvertitamente concesso spazio a nuovi pensatori come Qutb, ed a pensatori e a leader sciiti (Sayyed Baqir Sadr e l’Imam Khomeini tra gli altri) che sfidano l’ortodossia in un modo radicale come quello di Martin Lutero nel contesto cristiano. Ha permesso, va da sé, anche ad un Bin Laden di decontestualizzare e poi rimettere insieme in altro modo le varie componenti dell’Islam. Bin Laden, comportandosi come un vero e proprio imprenditore dell’identità e della tradizione, è anche riuscito a frammentare l’autorità nell’Islam sunnita in modo tanto grave che essa, allo stato attuale delle cose, è probabilmente irreperibile. Una conseguenza non voluta di questo fatto è che la leadership collegiale degli sciiti rappresenta oggi l’unico organo istituzionale rimasto intatto.
I vari ideologi islamici, di tutti i diversi orientamenti, hanno ben accolto questo periodo di rinnovamento e di relativa fluidità della situazione, in cui mettere a punto una base ideologica per l’Islam rivoluzionario. Il Sacro Corano è stato reso accessibile all’uomo comune perché costituisca per lui o per lei una guida ed una base per la vita corrente senza che ci sia bisogno della mediazione di uno studioso. Questo fatto può rappresentare un cambiamento importante come lo fu, nel quindicesimo secolo per gli europei, la diffusione delle versioni tradotte della Bibbia; un fatto che all’epoca diede vita a moti in tutta la cristianità.
I giovani musulmani che vivono in Occidente, come i loro omologhi nelle società mussulmane, sono stati colpiti da quanto si è verificato negli ultimi duecento anni di storia; parallelamente però sono stati rinfrancati ed hanno ricevuto nuove energie da questa profusione di nuove idee e di nuovo pensiero che ha accompagnato la rinascita islamica. Al centro di questa rinascita c’è stato il tentativo di superare i limiti e i fallimenti del recente passato rivalutando le radici dell’Islam, cercandovi ciò che infuse energia al mondo e lo trasformò, all’epoca del Messaggio portato dal Profeta Muhammad.
Sarebbe stato segno di accuratezza iniziare questo libro con le vicende legate alla nascita di una resistenza islamica alla fine del diciannovesimo secolo, quando i pensatori islamici iniziarono per la prima volta a prendere in considerazione il problema del come mantenere la propria identità islamica di gruppo minoritario nell’India dell’induismo; ma come abbiamo indicato nell’introduzione questo libro non vuol essere una storia dell’islamismo. Il punto che ho cercato di mettere in luce fissando l’inizio della resistenza islamica con l’egiziano Sayyd Qutb e con il richiamo di Mohammed Baqir Sadr compiuto a Najaf da al Da’wa sta nel fatto che fu la “modernizzazione” della Turchia, seguita dalla modernizzazione laica di altre società musulmane, a rendere più facile la trasformazione di quello che alla fine del XIX ed all’inizio del XX secolo era stato una sorta di genere letterario apologetico in trattazioni resistenziali vere e proprie.
Paradossalmente sono stati proprio i kemalisti e la trasformazione da loro messa in atto in Turchia, cioè qualcosa che gli occidentali ammirano tanto, non conoscendone le implicazioni, che facendo dell’Islam una cultura popolare, di strada e di moschea, e rescindendo i legami con la sovrastruttura che aveva garantito millequattrocento anni di stabilità, hanno creato le condizioni perché l’Islam potesse cambiare volto e potesse evolversi in un movimento rivoluzionario. E’ stato tutto questo, insieme alla brutalità della repressione che gli islamici dovettero soffrire, a far sì che le basi per una più ampia resistenza venissero gettate.
I kemalisti avevano davvero rescisso ogni legame che tenesse insieme l’Islam come viene praticato dai musulmani in generale con la sovrastruttura della cultura islamica, i suoi commentari, le sue scuole di legge, il suo linguaggio esoterico che richiedeva venticinque anni di studio prima di affrontare l’interpretazione dei testi sacri. Questi legami avevano tenuto insieme l’Islam di per sé e la sua dottrina, che avevano costituito un tutto per oltre mille anni: furono smantellati, marginalizzati o messi in condizioni di inefficacia come parte della manomorta del servizio civile.
Questo smantellare il corpo unico costituito dall’Islam e dalle sue strutture ha inavvertitamente concesso spazio a nuovi pensatori come Qutb, ed a pensatori e a leader sciiti (Sayyed Baqir Sadr e l’Imam Khomeini tra gli altri) che sfidano l’ortodossia in un modo radicale come quello di Martin Lutero nel contesto cristiano. Ha permesso, va da sé, anche ad un Bin Laden di decontestualizzare e poi rimettere insieme in altro modo le varie componenti dell’Islam. Bin Laden, comportandosi come un vero e proprio imprenditore dell’identità e della tradizione, è anche riuscito a frammentare l’autorità nell’Islam sunnita in modo tanto grave che essa, allo stato attuale delle cose, è probabilmente irreperibile. Una conseguenza non voluta di questo fatto è che la leadership collegiale degli sciiti rappresenta oggi l’unico organo istituzionale rimasto intatto.
I vari ideologi islamici, di tutti i diversi orientamenti, hanno ben accolto questo periodo di rinnovamento e di relativa fluidità della situazione, in cui mettere a punto una base ideologica per l’Islam rivoluzionario. Il Sacro Corano è stato reso accessibile all’uomo comune perché costituisca per lui o per lei una guida ed una base per la vita corrente senza che ci sia bisogno della mediazione di uno studioso. Questo fatto può rappresentare un cambiamento importante come lo fu, nel quindicesimo secolo per gli europei, la diffusione delle versioni tradotte della Bibbia; un fatto che all’epoca diede vita a moti in tutta la cristianità.
1 Sayyid Qutb, Milestones (Traduzione inglese), Kuwait: Islamic Federation of Student Organisations, 1977.
2 Sayyid Qutb, Islam, the Religion of the Future (Traduzione inglese), Kuwait: Islamic Federation of Student Organisations, 1977,p. 61.
3 Ibid., p. 63.
4 Michael Bonner, Jihad in Islamic History: Doctrines and Practice, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006, p. 23.
5 Ibid., p. 100.
6 Ibid., p. 7.
7 Sayyid Qutb, Milestones, pp. 137–39.
8 Ibid., p. 100.
9 Ibid., pp. 110–111.
10 Sayyid Qutb, ‘Hadhihi hiya Faransa’, Al-Risalah 624 (June), 1945.
11 Sayyid Qutb, Al-Islam wa-mushkilat Al-Hadarah, Beirut, 1978, pp. 82–84.
12 Adnan Musallam, From Secularism to Jihad: Sayyid Qutb and the Foundations of Radical Islamism, Westport, CT: Praeger, 2005.
13 Sayyid Qutb, Milestones, pp. 16–18.
14 Michael Bonner, Jihad in Islamic History, pp. 143–44.
15 In una conversazione con l'autore, 2007.
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