domenica 28 dicembre 2014

Prato: il professor Aldo Milone valuta il compito dell'amministrazione comunale


L'esperimento amministrativo "occidentalista" nella città di Prato è stato bruscamente chiuso dopo cinque anni senza che le "radici cristiane" della "civiltà occidentale" nel territorio amministrato abbiano dato particolari segni di ripresa.
Tra i protagonisti mediaticamente più coperti di questa stagione politica c'era un certo Aldo Milone, oggi limogé nella pattuglia rappresentativa degli oppositori dove è passato dall'esercizio dell'arte divinatoria a quello della valutazione scolastica.
Fine dicembre dev'essere un periodo straordinariamente parco di argomenti; pur di finire sulle gazzette va anche bene atteggiarsi a professori di scuola media.
Inferiore.
E allora, assecondiamo Aldo Milone e scriviamo qualcosa che possa descrivere in modo realistico l'ultima amministrazione di cui ha fatto parte, e al tempo stesso rispettare questa sua passione per l'insegnamento: ci serviremo per questo di una citazione, tratta proprio da un classico della letteratura scolastica per le scuole medie.
Inferiori.


 "Molti generali passarono ore terribili sul campo di battaglia; ma egli ne passò di ben più terribili nel suo gabinetto, quando l'enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto; ore, notti di lotta e d'angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore..."

Edmondo de Amicis, 1886.

venerdì 26 dicembre 2014

Ramzy Baroud - Il 2014, anno di cambiamenti in Palestina


Traduzione da Asia Times.

In termini di vite umane, il bilancio del 2014 per i palestinesi è terribile. Gli orrori del 2008 e del 2009, anni in cui una guerra dello stato sionista contro la striscia di Gaza ha provocato miligiaia di morti e feriti, sono stati superati.
Esistono aspetti del conflitto che ristagnano, compresi tra un'Autorità Palestinese imbelle e corrotta e la natura criminale delle guerre e dell'occupazione intentate dallo stato sionista, ma ci sono anche motivi per sostenere che nel 2014 sono cambiate le carte in tavola, almeno in una certa misura, e questa non è una cattiva notizia.
Entro certi limiti, il 2014 ha permesso a quanti cercano di capire la realtà del conflitto tra palestinesi e sionisti di vedere un po' più chiaro, in mezzo alla ridda di narrative contrastanti. Ecco cinque motivi per pensare che le cose stiano cambiando.

1. Un modo diverso di concepire l'unità palestinese. I due principali partiti, Hamas e Fatah, in aprile sono arrivati ad un accordo per un governo unitario. Nonostante questo, in pratica non è cambiato molto. Certo, a giugno è stato ufficialmente formato un governo, che si è per la prima volta riunito ad ottobre. Solo che in pratica Hamas governa ancora Gaza, e praticamente da solo ha fatto fronte alle questioni successive alla guerra sionista di luglio ed agosto. Probabilmente l'Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas spera che le massicce distruzioni subite indeboliranno Hamas fino a indurlo a sottomettersi politicamente, specie se l'Egitto continuerà a tenere ermeticamente chiusa la frontiera di Rafah.
Mentre i partiti non riescono a raggiungere un'intesa, la guerra dei sionisti contro Gaza ha ispirato una recrudescenza della lotta nella West Bank. I piani sionisti per colpire luoghi santi a gerusalemme, con particolare riferimento alla moschea di Al Aqsa, insieme alla profonda angoscia provata dalla maggior parte dei palestinesi per i massacri perpetrati a Gaza dallo stato sionista, stanno lentamente producendo un'ondata di piccole insurrezioni. C'è chi pensa che alla fine la situazione troverà sbocco in un conflitto su vasta scala, il cui teatro saranno tutti i territori. Diverso è chiedersi se nel 2015 avrà luogo una terza Intifada. Quello che conta è che il piano lungamente ordito per dividere i palestinesi sta fallendo, e che finalmente sta prendendo forma una nuova narrativa condivisa incentrata sulla lotta comune contro l'occupazione.

2. Un nuovo paradigma per la resistenza. La discussione sulle forme di lotta che i palesinesi dovrebbero o non dovrebbero adottare sta perdendo centralità e vigore, non tanto per merito di qualche volenteroso attore internazionale, ma per merito dei palestinesi stessi. I palestinesi hanno praticamente deciso di utilizzare qualunque forma efficace per resistere sia in grado di scoraggiare le mosse militari dello stato sionista, come hanno fatto i combattenti per la resistenza a Gaza.
Nonostante l'ultima guerra sionista abbia ucciso quasi duemiladuecento palestinesi e ne abbia feriti oltre undicimila, civili per la maggior parte, non è riuscita a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi, espliciti o impliciti che fossero. Anche stavolta è servita a ricordare che lo stato sionista non può più basare i propri rapporti con i palestinesi sulla mera posizione di vantaggio che gli deriva dall'utilizzo della forza militare pura e semplice.
Mentre lo stato sionista si accaniva contro i civili, la resistenza ha ucciso settanta sionisti, oltre sessanta dei quali erano militari; anche questo è un elemento importante, che dimostra il grado di maturità raggiunto dalla resistenza palestinese. Durante la seconda intifada i bersagli erano stati per lo più civili, in quella che era più il riflesso di una situazione disperata che non una strategia vincente.
Entro un certo limite, la legittimazione della resistenza si rispecchia nella recente decisione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea di togliere Hamas dalla propria lista delle organizzazioni terroristiche.
La resistenza nella West Bank sta prendendo altre forme. Nonostante debba ancora evolversi verso una concreta campagna di attività volte a contrastare l'occupazione, sembra stia assumendo una propria identità, orientata verso obiettivi pratici e praticabili. Il fatto è che nel dibattito sta perdendo rilevanza l'idea che esista una sola via praticabile, e si sta facendo strada l'idea, promossa dagli stessi palestinesi, che si possa avere verso la questione un approccio integrato.

3. Il movimento per il boicottaggio normalizza il dibattito sui crimini sionisti. Un'altra forma di resistenza si sta concretizzando nel movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) che sta continuando a crescere, a rinvigorirsi, a guadagnare sostenitori e a raggiungere sempre nuovi traguardi. Il 2014 non è stato solo un anno in cui il BDS è riuscito ad ottenere il sostegno di molte organizzazioni della società civile, di molti accademici, di scienziati e personaggi famosi, oltre a portare il proprio messaggio a persone di ogni settore della società. Il BDS è riuscito a fare qualcosa di altrettanto importante, ha normalizzato il dibattito sullo stato sionista in molti ambienti, in tutto il mondo. Prima, qualunque critica contro lo stato sionista era considerata tabù. Adesso, questo tabù è stato infranto per sempre.
Il mettere in discussione la levatura morale e la possibilità all'atto pratico di boicottare lo stato sionista non è più argomento che intimorisce: in molti spazi mediatici, in molti ambienti universitari ed in altre sedi la questione è all'ordine del giorno.
Nel 2014 la discussione sul boicottaggio dello stato sionista è stata presente nel mainstream come mai prima. Negli Stati Uniti, su questo, deve ancora essere raggiunta una massa critica, ma la questione ha preso l'abbrivio grazie a studenti, religiosi di entrambi i sessi, personaggi famosi e gente comune. In Europa il movimento ha conseguito ampi successi.

4. Le compagini parlamentari avvertono che qualcosa è cambiato. Tradizionalmente la maggior parte del sud del mondo ha portato incondizionato sostegno ai palestinesi, mentre l'Occidente si è schierato a prescindere a fianco dello stato sionista. Dopo gli accordi di Oslo si è sviluppata in Europa una posizione meno di parte; i paesi europei hanno cercato di trovare un equilibrio tra occupati ed occupanti. A volte l'Unione Europea ha azzardato timide critiche contro l'occupazione sionista, continuando però al tempo stesso a rappresentare il maggior partner commerciale dello stato sionista ed a fornire armamenti al suo esercito che li avrebbe poi usati per compiere crimini di guerra a gaza e per sostenere l'occupazione militare della West Bank.
Questa politica senza mordente è stata messa in discussione dai cittadini di vari paesi europei. La guerra dei sionisti contro Gaza, l'estate scorsa, ha mostrato come mai in precedenza le violazioni ai diritti umani ed i crimini di guerra dello stato sionista, rendendo intanto evidente l'ipocrisia dell'Unione Europea. Per allentare la pressione alcuni paesi dell'Unione hanno preso posizioni un po' più convinte contro lo stato sionista, hanno rivisto la loro cooperazione militare ed hanno messo in discussione con maggiore perentorietà le politiche di destra del Primo Ministro sionista Benjamin Netanyahu.
A tutto questo sono seguite alcune consultazioni parlamentari in cui è stato espresso parere largamente favorevole al riconoscimento dello stato palestinese. Decisioni del genere sono prettamente simboliche, ma indicano un inequivocabile mutamento nell'atteggiamento dell'Unione Europea verso lo stato sionista. Netanyahu continua ad inveire contro la "ipocrisia" degli europei, forse rassicurato dall'incondizionato sostegno di Washington. Solo che la presa di Washington sul Medio Oriente in tumulto sta venendo meno: il Primo Ministro sionista potrebbe presto trovarsi costretto a riconsiderare l'atteggiamento che si è sin qui ostinato a conservare.

5. La democrazia sionista svelata nella sua essenza. Per decenni lo stato sionista si è autodefinito stato ebraico e stato democratico allo stesso tempo. L'obiettivo era chiaro ed era il mantenimento della condizione superiore degli ebrei sugli arabi palestinesi, presentandosi al tempo stesso come moderna democrazia "occidentale", di fatto "l'unica democrazia del Medio Oriente". Dal momento che i palestinesi e molti altri non si sono mai esibiti in questo defilé della democrazia, molti hanno accettato questa dicotomia facendo poche obiezioni. Lo stato sionista non ha una costituzione; ha un codice che viene definito "legge fondamentale". Dunque, non esiste nulla nell'ordinamento sionista che possa essere considerato un "emendamento costituzionale". Il governo di Netanyahu ha fatti pressioni sul parlamento, la Knesset. La Knesset metterà sostanzialmente nero su bianco i nuovi principi su cui lo stato sionista prenderà a fondarsi. Uno di questi principi è destinato a definire lo stato sionista come "lo stato-nazione del popolo ebraico", mettendo così tutti i cittadini non ebrei dello stato sionista in condizioni di minorità.
Da tutti i punti di vista e secondo ogni intenzione i cittadini palestinesi dello stato sionista sono stati trattati come paria e discriminati in molti modi. La nuova "Legge Fondamentale" rappresenterà la conferma costituzionale della loro statuita condizione di inferiorità. Il paradigma democratico ed ebraico ha operato al meglio, mettendo alla luce la realtà dello stato sionista come essa è.

Il prossimo anno
Sicuramente nel 2015 molte cose rimarranno come sono: l'Autorità Palestinese continuerà con ogni mezzo a disposizione la propria lotta per l'esistenza e per mantenere i privilegi garantiti dallo stato sionista, dagli USA e dagli altri. Anche lo stato sionista continuerà a trarre coraggio dal sostegno economico degli Stati Uniti, dal loro incondizionato sostegno e dal loro appoggio militare.
Sotto questo aspetto, il prossimo anno sarà prevedibile e frustrante. Ma il nuovo e concreto slancio di cui è protagonista l'opposizione non è probabile che venga meno: continuerà a denunciare e a sfidare l'occupazione sionista da una parte, e ad aggirare l'imbelle ed autoreferenziale Autorità Palestinese dall'altra.
Per la Palestina il 2014 è stato un anno molto doloroso, ma anche un anno in cui la resistenza del popolo palestinese ed il sostegno di cui gode si sono rivelati troppo forti da incrinare o da spezzare. In questo, può esserci molto di consolante.


Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, consulente mediatico, scrittore e fondatore di palestinechronicle.com. Il suo ultimo libro è My father was a freedom fighter: Gaza's untold story (Pluto Press, Londra).

giovedì 18 dicembre 2014

Daoud Abdullah - Per la Corte di Giustizia dell'Unione Europea Hamas va tolto dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Si presenta l'occasione per correggere una linea politica ormai priva di credito.



Traduzione da Middle East Monitor.

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha deciso di annullare l'iscrizione di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. Una decisione attesa da tempo contro un atto che non sarebbe nmai dovuto avvenire, in primo luogo perché, come ha attestato la stessa Corte, la decisione presa a suo tempo "non si basò su atti esaminati e confermati dalle autorità preposte a farlo, ma su imputazioni fattuali che derivavano dalla stampa e da internet".
Negli ultimi mesi il voto di vari parlamenti dei paesi membri e il voto dello stesso parlamento europeo ha deliberato in favore del riconoscimento dello stato palestinese; anche questa, come la decisione della Corte, non è cosa destinata a produrre mutamenti immediati alla linea politica attualmente in vigore. Non si tratta assolutamente di un punto di arrivo, ma di sviluppi che comunque mettono alla luce un'importante crepa nel muro della propaganda e della connivenza che hanno consentito allo stato sionista di non rendere conto delle proprie azioni e di negare i diritti dei palestinesi.
La decisione della Corte consente comunque a chiunque di fare appello e di fornire prove concrete del coinvolgimento di Hamas in attività terroristiche. Dal momento che dal 2001 ad oggi nessuno ha potuto provare alcunché, è difficile che le cose cambino nelle prossime settimane.
 Alastair Crooke è stato consigliere per il Medio Oriente di Javier Solana, rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera e la sicurezza fra il 1997 e il 2003. Crooke ricorda ancora con stupore e costernazione il ruolo che l'ex Segretario degli Esteri britannico Jack Straw ebbe per l'iscrizione di Hamas nella lista nera. Crooke era a Downing Street; Straw arrivò trafelato nella stanza dove si trovava assieme ad un altro consigliere, gongolante perché aveva persuaso il proprio omologo tedesco Joschka Fischer a mettere Hamas nella lista. 
Il Regno Unito e la Germania hanno entrambe grosse responsabilità storiche per aver aperto quella perenne piaga che spesso viene considerata la questione palestinese. Non è cosa campata in aria sostenere che l'una, l'altra o entrambe cercheranno nei prossimi tre mesi di produrre davanti alla Corte qualche "prova" che serva a tenere Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Secondo Crooke, che tra le altre cose ha lavorato per il MI6 in Palestina, la decisione di mettere Hamas nella lista nera fu presa in base alla dottrina del "la sicurezza innanzi tutto", che poteva tollerare uno stato palesinese solo se le necessità di sicurezza che lo stato sionista aveva unilateralmente definito si fossero concretizzate. Si è cercato per giunta di sottomettere i palestinesi da ogni punto di vista e di smantellare la resistenza. Hamas è un movimento di resistenza che si dedica con risolutezza alla propria concezione di una Palestina libera, ed è stato ovviamente considerato un ostacolo; di qui la decisione politica di considerarlo terroristico nella sua interezza, sia per quanto riguardava il suo braccio politico sia per quanto riguardava quello militare.
Ovviamente furono fatte anche altre considerazioni di carattere politico. Demonizzando una delle fazioni palestinesi e favorendone un'altra, si posero con molta cura le basi per una riprovevole divisione, a tutt'oggi diventata una caratteristica quasi permanente nel panorama politico palestinese. Il divide et impera che è sempre stata la tattica classica dei britannici e degli europei.
Al momento la dcisione della corte ha una portata essenzialmente simbolica, ma costituisce una piattaforma utile per una riconsiderazione dell'approccio politico nei confronti di Hamas sia in Occidente che in Medio Oriente. In Europa si metterà in discussione l'utilità di una politica estera condotta sulla base di ritagli di giornale e di notiziari assortiti. Una discussione giusta ed opportuna.
In concreto, e grazie ai suoi politici, l'Unione Europea si è cacciata in un angolo a furia di decisioni strampalate; questa potrebbe essere l'occasione buona per uscirne. Se l'Europa intende seriamente impegnarsi perché in Palestina la politica sia basata sull'inclusione e sulla  rappresentanza, questa è la sua occasione. Se invece pensa ancora di poter negare il fatto che Hamas è un protagonista nella vita politica palestinese, sia l'europa che i suoi politici sono destinati a restare perennemente delusi.
In pratical a decisione della Corte rappresenta per l'Unione Europea anche l'occasione per togliere il sostegno all'esiziale e medievale assedio della striscia di Gaza. Negare cibo, medicine e una vita decente a quasi due milioni di persone non ha alcuna giustificazione, è contrario a qualsiasi morale e non trova alcuna base giuridica.  Anzi, è una cosa che contraddice le stesse leggi che gli europei hanno aiutato a redarre, e su cui hanno apposto la loro firma.
David Cameron adesso deve dare il buon esempio. E' stato lui che all'inizio del suo mandato, nel luglio del 2010, ha detto che Gaza non può e non deve rimanere un campo di concentramento". Anche se governi della regione come quello egiziano intendono mantenere il blocco, il signor Cameron non dovrebbe permettere che la linea politica del suo paese resti ostaggio di partigianerie col paraocchi ed intrise di spirito vendicativo, specie quando a farne le spese è un'intera popolazione.
Nei prossimi tre mesi ci sarà di sicuro in Europa una battaglia al calor bianco tra lobby filosionista da una parte e voci giuste e ragionevoli dall'altra. L'una chiederà che Hamas rimanga in lista nera, le altre che si smetta di baloccarsi con questa roba. Ormai è chiaro che quando fu adottata una certa linea politica ci si basava sull'errata convinzione che lo stato sionista sarebbe stato di parola e si sarebbe ritirato dai territori occupati, riconoscendo l'esistenza di uno stato palestinese. Adesso sappiamo che si è trattato di un grossolano errore di calcolo.
In un àmbito più immediato, la decisione della Corte della UE traccia anche una linea di condotta per Mahmud Abbas e per il suo movimento Fatah, che si sono sempre mossi con esitazione sul fronte della riconciliazione nazionale, temendo che i governi europei ed occidentali avrebbero posto il veto a qualsiasi tentativo di includere Hamas nel processo politico. Non fosse che per questo, e se davvero esiste in Europa qualcosa di simile al rispetto per la legge e per la giustizia, la decisione della Corte deve rimanere senza opposizioni.

mercoledì 17 dicembre 2014

I tre milioni di utenti di Change.org


 Un esempio qualsiasi del democratismo su internet.


Sull'autoreferenzialità e sulla sostanziale ridicolaggine della "libera informazione" i nostri lettori sanno già un sacco di cose che è inutile ripetere.
L'altro giorno "Repubblica" ha pubblicato pro domo sua un trafiletto che magnificava l'accrocchio change.org ed i suoi tre milioni di utenti.
Si è già detto che change.org è in tutto la copia carbone di Avaaz, tornato velocissimo nell'ombra appena qualche non gazzettiere, non cialtrone, non cinguettatore o non schedato sul Libro dei Ceffi si è accorto che molte cose non andavano.
Rispetto ad Avaaz fa anche a meno del gruppetto di figuranti incaricati di dare un minimo di consistenza non virtuale a tutta la faccenda, il che significa ulteriori risparmi.
Fatto sta che dopo aver apposto una firma falsa (a nome Adorfo Itle) alla improbabile petizione ideata per dileggiare il "Gruppo di Firenze", change.org ci ha proposto in tutta serietà di unirci anche alle petizioni che seguono.
I criteri della proposta restano per fortuna imperscrutabili, anche se lo spirito generale è quello del più galera per tutti, che in "Occidente" è l'unica traduzione operazionale tollerata del concetto di "partecipazione alla vita pubblica".
Una legge nazionale contro i botti di capodanno
La vita è un’altra cosa #eutanasialegale #Welby
Pierfrancesco Maran: Metropolitana Linea 4 : diciamo NO alla apertura di un devastante cantiere di calaggio delle TBM al Parco Solari
Stop al vitalizio agli ex parlamentari condannati per mafia e corruzione
All'assassino di mia figlia Stella non deve esser concesso il patteggiamento
Non dimentichiamo le vittime del Vajont
Change.org è democratico, ma non al punto di consentire di aggiungere un chi se ne frega a ciascuna delle cause propugnate. 

martedì 16 dicembre 2014

Il cinguettio dei Matteo Renzi che arriva fino a Peshawar


Il 16 dicembre 2014 un nucleo di combattenti talebani prende d'assalto una scuola dell'esercito pakistano.
Prima di essere sopraffatto ferisce e uccide allievi a centinaia: una vendetta per i continui attacchi dell'esercito regolare nelle zone dello Waziristan, ed una sconfitta umiliante per le forze armate di una potenza nucleare attaccata nelle proprie istituzioni.
Tutto questo con tanti saluti ai Nobel per la pace, all'Unesco, al Libro dei Ceffi, alle raccoltedifirmeperaiutarelebambine, alle nudecontrolaviolenza e a tutto quanto il resto.

Matteo il boiscàut?
Cinguetta, dicono.
E perché non dovrebbe.
Sono anni che cinguettano tutti.
Chi stona il cinguettio ci sono i gazzettieri che gli dicono subito "brutto"; poi al prossimo giro di ruota lo cacciano dalle liste elettorali. Bisogna stare molto attenti.
«Bambini, bambini uccisi, bambini uccisi a scuola. Inconcepibile.
Il mondo deve reagire all’orrore».


Nella foto, il mondo di Matteo il boiscàut mentre deve reagire all'orrore.

venerdì 12 dicembre 2014

Brian Cloughley - Libia: differenze tra quello che si voleva fare e quello che è successo davvero.



Traduzione da Asia Times.

Gli attacchi aerei e missilistici della NATO condotti dagli Stati Uniti contro il governo di Gheddafi sono stati descritti come un "intervento modello" che avrebbe aperto ai libici un'epoca di libertà senza precedenti. Il loro risultato reale, invece, è stato quello di generare un nuovo epicentro regionale del terrore, in cui le uccisioni, i rapimenti ed i conflitti tra milizie stanno distruggendo la vita di milioni di persone che sotto Gheddafi vivevano in tranquillità.

Il 19 marzo 2011 i paesi della NATO vennero guidati dagli Stati Uniti in una serie di attacchi aerei e missilistici contro il governo di Muammar Gheddafi, il bislacco dittatore libico che era stato incontrato in visite ufficiali dal Primo Ministro britannico Tony Blair nel 2004 e nel 2007, dal Presidente francese Sarkozy nel 2007, dal Segretario di Stato degli Stati Uniti Condoleeza Rice nel 2008 e dal Primo Ministro dello stato che occupa la penisola italiana Silvio Berlusconi nel 2009. Tutti quanti gli avevano assicurato di vero cuore che le relazioni tra lui ed i rispettivi paesi erano tranquille. 
 Gheddafi era un despota e perseguitava i suoi nemici spietatamente, quasi come il dittatore Hosni Mubarak nel confinante Egitto: solo che la vita, per la maggior parte dei libici, trascorreva tranquilla e persino la BBC aveva dovuto ammettere che la "peculiarissima forma di socialismo di Gheddafi garantisce istruzione gratuita, sistema sanitario, sovvenzioni per l'abitazione ed i trasporti" anche se "le paghe sono estremamente basse e le ricchezze statali e i proventi dagli investimenti esteri hanno portato beneficio soltanto ad una élite ristretta" (cosa che non succede da nessuna altra parte, come no).
Il CIA Wolrd Factbook riferiva che il tasso di alfabetizzazione nella Libia di Gheddafi era del 94,2%: meglio che in Malaysia, in Messico ed in Arabia Saudita. L'OMS indicava una aspettativa di vita di 72,3 anni, una tra le più alte fra i paesi in via di sviluppo.
Torniamo un momento ai personaggi occidentali che bazzicavano la Libia prima della guerra della NATO. Una comunicazione diplomatica statunitense del 2009 resa pubblica di straforo diceva che "i senatori McCain e Graham convengono sul fatto che è interesse degli Stati Uniti continuare a progredire nelle relazioni bilaterali", mentre il senatore Lieberman definiva la Libia "un alleato importante nella guerra al terrorismo".
Condoleeza Rice disse che le relazioni tra Stati Uniti e Libia "sono andate migliorando costantemente per anni; con stasera penso che si stia aprendo una nuova frase" mentre il britannico Blair pensò che l'incontro fosse stato "positivo e costruttivo" perché le relazioni del suo paese con la Libia "negli ultimi anni si sono completamente trasformate. Adesso cooperiamo molto strettamente nell'antiterrorismo e nella difesa".
La BBC riferì che "Durante l'incontro di Mr Blair con Mr Gheddafi è stato dato l'annuncio che il gigante petrolifero angloolandese Shell aveva firmato un accordo da cinquecentocinquanta milioni di sterline (ottocentosessanta milioni di dollari) per prospezioni alla ricerca di gas naturale a largo delle coste libiche". Le compagnie petrolifere statunitensi  ConocoPhillips, ExxonMobil, Marathon Oil Corporation e Hess Company avevano grossi interessi nella produzione petrolifera libica; la Libia, d'altronde, ha il nono posto tra i paesi detentori di riserve di greggio.
Per la Libia, le cose stavano andando bene.
Solo che il 21 gennaio 2011 la Reuters ha riferito che "Muammar Gheddafi ha detto che il suo paese ed altri paesi esportatori di petrolio stanno cercando di nazionalizzare le imprese straniere, a causa del basso prezzo del petrolio". Gheddafi affermò che "oggi come oggi sarebbe bene che il petrolio appartenesse allo stato; si potrebbe meglio controllarne il prezzo, farne crescere o diminuire la produzione".
Il mese seguente, a ridosso della dichiarazione di Gheddafi sulla nazionalizzazione delle risorse petrolifere libiche, scoppiò un'insurrezione ad opera di ribelli che volevano rovesciarlo; il 17 marzo il Consiglio di Sicurezza dell'ONU decretò una no-fly zone sulla Libia "per prendere tutte le misure necessarie a proteggere i civili che nel paese si trovano sotto minaccia di attacco".
Gli insorti erano sostenuti dagli USA, dal Regno Unito e da dodici dei ventisei paesi della NATO: spiccavano per la loro assenza la Germania e la Turchia. C'erano poi tre paesi arabi (Arabia Saudita esclusa) e la Svezia, che ha abbandonato una onorevole neutralità per diventare agli effetti pratici un membro della NATO. Brasile, Cina, Germania, India e Russia non votarono la risoluzione e invocarono una soluzione pacifica al conflitto in corso in Libia, esortando a fare attenzione alle "conseguenze non volute di un intervento armato".
Due giorni dopo l'approvazione della no-fly zone cominciò il macello della NATO guidato dagli USA, e andò avanti per sette mesi, fino alla fine di ottobre. Il 30 aprile un missile statunitense uccise uno dei figli di Gheddafi e tre dei suoi nipoti in quello che la NATO definì un "attacco di precisione" contro un "edificio che ospitava un centro militare di comando e controllo". Il portavoce del Pentagono, a chi gli chiedeva di un massiccio attacco contro il complesso residenziale di Gheddafi, rispose che "non abbiamo per obiettivo l'edificio in cui vive. Non abbiamo dati che indichino vittime tra i civili".
Mentre gli attacchi contro la Libia raggiungevano il loro punto massimo, il Presidente degli Stati Uniti Obama, il Primo Ministro David Cameron e Sarkozy sottoscrissero una dichiarazione conginunta in cui affermavano che "mentre le operazioni militari vanno oggi avanti per proteggere i civili in Libia, siamo decisi a guardare al futuro. Siamo convinti che i tempi migliori per il popolo libico debbano ancora arrivare... Il Colonnello Gheddafi se ne deve andare, ed è bene che se ne vada. A quel punto, le Nazioni Unite ed i loro paesi membri aiuteranno il popolo libico a ricostruire quello che Gheddafi ha distrutto: li aiuteranno a ricostruire le case e gli ospedali, a rimettere in piedi i servizi essenziali, e guideranno i libici nello sviluppo di istituzioni che sostengano la costruzione di una società prospera ed aperta".
La risposta di Gheddafi fu: "Avete dimostrato al mondo che non avete nulla di civile, che i terroristi siete voi, bestie che attaccate un paese che non vi ha fatto nulla".
Alla fine, il 20 ottobre Gheddafi se ne andò come "era bene che se ne andasse": ammazzato come un cane da uno dei gruppi ribelli. Obama salutò la sua morte con entusiasmo, dicendo "Oggi possiamo finalmente dire che  il regime di Gheddafi non esiste più. Le ultime roccaforti del regime sono cadute. Il nuovo governo sta consolidando il proprio controllo nel paese. Ed uno dei dittatori che nel mondo è rimasto più a lungo al potere non è più".
La NATO portò a termine 9658 incursioni aeree contro la Libia; la BBC riferì che "nel corso dei sette mesi della campagna, la NATO ha ammesso che soltanto in un caso gli armamenti hanno fatto registrare un "malfunzionamento". Il 19 giugno vari civili sarebbero stati uccisi da un missile che ha colpito un edificio di Tripoli. Un portavoce della NATO ha riferito in séguito che "probabilmente si è verificato un malfunzionamento, e questo ha fatto sì che l'arma non colpisse il bersaglio contro il quale era diretta". Ci furono anche 105 attacchi condotti da droni statunitensi, dei quali nulla è dato di sapere.
E' incredibile, quasi miracoloso che su 9658 attacchi aerei soltanto uno abbia ucciso dei civili. Solo che Human Rights Watch affronta la questione da un punto di vista diverso, e sostiene che i civili uccisi sono stati molti. Solo che quanto da essa riferito non ha alcun valore perché non un singolo individuo negli Stati Uniti o nei paesi della NATO è mai stato o sarà mai inquisito imparzialmente per aver ucciso dei civili da qualche parte nel mondo, con missili, bombe o razzi.
Ci avevano raccontato che la guerra degli Stati Uniti e della NATO contro la Libia aveva lo scopo di arrivare alla democrazia per mezzo dei bombardamenti; il Primo Ministro britannico Cameron ha detto che "Sulla Libia io sono ottimista: lo sono sempre stato, e sono ottimista per il Consiglio Nazionale di Transizione e per quello che riuscirà a fare. Penso che se si guarda a Tripoli oggi, certo, si vedono grosse sfide da affrontare: ripristinare l'acquedotto, assicurare ovunque la legge e l'ordine, ma a dir la verità per adesso gli scettici e gli strateghi da caffè si sono dimostrati in torto".
Gli scettici -o meglio i realisti- e gli strateghi da caffè avevano ragione, ovviamente, quando dicevano che il collasso del paese era inevitabile; avevano avuto ragione anche quando avevano previsto il caos in Iraq ed in Afghanistan.
Due intellettuali vicini ai vertici del potere, Ivo Daadler (rappresentante permanente degli USA nel Consiglio della NATO fra il 2009 ed il 2013) e l'ammiraglio James G. Stavridis detto Zorba, comandante supremo degli USA in Europa (il comandante in capo della NATO) avevano le loro opinioni a riguardo, e le riferirono al Journal of Foreign Affairs nel 2012. "L'operazione della NATO in Libia è stata giustamente considerata come un intervento modello. L'alleanza ha risposto con rapidità al peggiorare della situazione che stava minacciando centinaia di migliaia di civili ribelli ad un regime oppressivo. L'operazione è riuscita a proteggere i civili e, in ultima analisi, a far sì che le forze locali avessero il tempo e lo spazio necessario a rovesciare Muammar Gheddafi".
Secondo analisti tanto imparziali la Libia era stata liberata ed era diventata un paese libero grazie alla NATO. A tenere loro bordone, editorialisti come Nicholas Kristof, che scrisse che "la Libia ci ricorda che a volte è possibile usare mezzi militari per portare avanti cause umanitarie". Una asserzione che farebbe ridere se non fosse così oscenamente fuori posto: la Libia è collassata e nelle rovine domina l'anarchia. La convinzione del Regno Unito "oggi Tripoli e Bengasi sono due città irriconoscibili. Laddove dominava la paura, ci sono speranza, ottimismo e la convinzione che siano ben fondati" fu esposta all'ONU nel 2012; si è rivelata precipitosa.
Come riporta la CNN, "gli omicidi, i rapimenti, i blocchi alle rafinerie, l'imperversare per le strade di milizie rivali, gli estremisti islamici che organizzano le proprie basi e soprattutto la cronica debolezza dell'azione governativa hanno fatto della Libia un luogo pericoloso, la cui instabilità si sta già diffondendo oltrefrontiera ed attraverso il Mediterraneo. In Libia, di fatto, non esiste alcuna legge". Altro che ottimismo ben fondato.
Secondo Amnesty International "dal luglio 2014 almeno 287000 persone sono diventate profughe all'interno del paese, a causa di attacchi indiscriminati e del timore di rimanere vittime delle milizie. Altre centomila sono state costrette ad abbandonare il paese temendo per la propria vita". I paesi occidentali hanno chiuso le proprie mssioni diplomatiche; il Regno Unito sconsiglia ai propri sudditi di "recarsi in Libia, a causa del perdurare dei combattimenti e della situazione di grande instabilità in cui si trova l'intero paese".
La NATO non ha fatto nulla per "ricostruire le case e gli ospedali, rimettere in piedi i servizi essenziali, e per guidare i libici nello sviluppo di istituzioni che sostengano la costruzione di una società prospera ed aperta", come Obama, Cameron e Sarkozy avevano detto che era necessario fare intanto che le loro bombe, i loro razzi e i loro missili Tomahawk stavano distruggendo proprio le case, gli ospedali ed i servizi essenziali. Nessuno di costoro, gli esaltati leader mondiali, i commentatori condiscendenti, gli esperti intellettuali che forsennatamente affermarono che "l'operazione della NATO in Libia può a ragione essere considerata un intervento modello" ha mai mostrato il minimo rimorso per aver approvato con tanto entusiasmo un massacro che ha portato alla devastazione ed alla totale rovina.
Durante la guerra con la Libia, Obama e Cameron dissero "Siamo convinti che per il popolo libico il meglio debba ancora venire". Lo vadano a raccontare ai milioni di libici le cui vite sono state distrutte dalla NATO e dalla sua operazione modello. La grandezza delle sofferenze inflitte non è paragonabile a quella che la guerra degli statunitensi e dei britannici ha inflitto agli iracheni, ma fa comunque impressione. Il 30 novembre, per esempio, la Reuters ha riferito che "circa quattrocento persone sono rimaste uccise in sei settimane di pesanti scontri fra forze filogovernative e gruppi islamici a Bengasi, la seconda città della Libia". Eccoli qui, i bei tempi che dovevano arrivare dopo i sette mesi di bombardamenti e di missili della NATO.
E adesso la NATO che intenzioni ha? Dove andrà a realizzare la sua prossima "operazione modello" dopo aver distrutto la Libia e dopo aver patito una sconfitta umiliante in Afghanistan?
La NATO è all'affannosa ricerca di una causa che giustifichi la sua sopravvivenza, e sta con entusiasmo trasferendo forze verso l'est europeo, coinvolgendo truppe statunitensi in "esercitazioni" in Ucraina ed allocando forze statunitensi e di altri paesi in Polonia e nei paesi baltici. La NATO ha messo in piedi una "missione di protezione dello spazio aereo baltico" e sta minacciando la Russia con una operazione dal nome fatidico di "Risoluzione Atlantica".
Ma la NATO, e soprattutto gli Stati Uniti, dovrebbero tenere presenti le assennate parole del Brasile, della Cina, della Germania, dell'India e della Russia, che la ammonivano contro le "conseguenze non volute di un intervento armato". Il Presidente Russo Vladimir Putin ha detto il 4 dicembre del 2014 che "Hitler voleva distruggere la Russia ed arrivare fino agli Urali. Come è andata a finire lo sanno tutti".
Esatto.

Brian Coughley è un ex militare che si occupa di questioni militari e politiche, con particolare attenzione al subcontinente indiano. Nel 2014 è uscita la quarta edizione del suo volume A History of the Pakistan Army.

giovedì 11 dicembre 2014

Alastair Crooke - La crisi del petrodollaro e della politica statunitense in Medio Oriente


Il commercio internazionale fondato su monete diverse sta uccidendo il petrodollaro e, con esso, i fondamenti della politica statunitense e saudita in Medio Oriente.

Traduzione da Huffington Post.

BEIRUT, 2 dicembre 2014. Oggi è in corso una profonda trasformazione del sistema monetario mondiale. Una trasformazione che nasce da una tempesta perfetta: la necessità di Russia ed Iran di sottrarsi alle sanzioni occidentali, la concomitante politica di bassi tassi d'interesse attuata dalla Fed per sostenere l'economia statunitense, e la crescente domanda di petrolio mediorientale da parte della Cina.
Le implicazioni di questo mutamento sono di portata incalcolabile per quanto riguarda la politica statunitense in Medio Oriente, che per cinquant'anni si è fondata su una stretta alleanza con l'Arabia Saudita.
Sfuggire alle sanzioni. Le sanzioni economiche sono un'arma dell'arsenale occidentale che viene usata sempre più spesso; ne sono bersaglio, o bersaglio potenziale, i paesi non occidentali. Che stanno attuando una contromossa: il commercio basato su monete diverse dal dollaro. Ricorrervi significa annullare l'impatto delle sanzioni.
Il commercio internazionale basato sullo yuan o sul rublo permette ai paesi sovrani di aggirare le pretese statunitensi di giurisdizione legale; trasforma completamente la situazione di paesi come l'Iran e la Siria, soprattutto nel settore delle riserve energetiche, e va ad interessare in modo rilevante l'Iraq, che si colloca tra i due.
Mentre affrontava la questione del come ridurre i punti deboli dell'economia russa, il Presidente Putin ha affermato che considera il monopolio del dollaro nel mercato energetico come una fattore che danneggia l'economia russa. Dal momento che le rendite da idrocarburi costituiscono la parte più corposa delle entrate per l'economia russa, non c'è da sorprendersi se Putin è passato all'azione in questo settore in particolare.
Messo davanti alle sanzioni, Putin sta cercando di ridurre la dipendenza economica della Russia dall'Occidente. La Russia ha firmato due enormi contratti con la Cina per forniture di gas naturale ed è in trattativa per offrirle armamenti sofisticati di ultima generazione. Sono in corso trattative per corposi accordi commerciali con l'India e con l'Iran. Tutto questo porterà benefici anche all'Iran: i russi hanno annunciato di recente il raggiungimento di un accordo per la costruzione in Iran di vari nuovi impianti nucleari.
La nascita del petrodollaro. Il dollaro diventò moneta di riserva di tutto il mondo nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods. Gli Stati Uniti disponevano delle riserve auree più cospicue del mondo, e fu questo a permettere loro di assumere questo ruolo. Un'oncia d'oro venne fissata a trentacinque dollari, e il dollaro era liberamente cambiabile in oro allo stesso tasso. Solo che a partire dal 1971 la convertibilità in oro non è più stata praticabile, perché le riserve auree ameriKKKane si erano esaurite. Il dollaro divenne una moneta puramente legale, il cui valore era sganciato da qualunque supporto fisico, fino a quando il Presidente Nixon non concluse il trattato per il petrodollaro.
In sostanza, il trattato stabiliva che gli Stati Uniti avrebbero provveduto ad armare e a difendere l'Araba Saudita, e come contropartita tutto il commercio degli idrocarburi sarebbe stato effettuato in dollari statunitensi.
Il risultato di questo accordo fu che il dollaro divenne l'unico mezzo di scambio per le transazioni commerciali nel campo dell'energia. Il suo costituire moneta di riserva uscì rafforzato dal fatto che i governi di altri paesi si trovarono nella necessità di procurarsi dollari; inoltre l'accordo permise agli Stati Uniti di reimmettere nel proprio sistema finanziario le spese sostenute per l'acquisto di idrocarburi e, cosa fondamentale, fece del dollaro una valuta effettivamente convertibile in barili di petrolio. Il dollaro si spostò dallo standard aureo allo standard del greggio.
I tassi di interesse negli Stati Uniti furono controllati in modo tale che chi esportava petrolio, e fino a quel momento aveva considerato l'oro come base per le proprie riserve, cominciasse a non far caso a dove si trovassero fisicamente le proprie riserve di valuta accumulate con l'esportazione di idrocarburi: non importava più che fossero in oro o nel tesoro degli Stati Uniti, perché il loro valore era lo stesso.
Secondo Sprott Global, un'organizzazione statunitense nel campo energetico,
La Fed ha manipolato in maniera sostanziale i tassi di interesse per mantenere stabile il prezzo del petrolio, anche quando questo richiedeva di fissare tassi attorno al quindici per cento e di affrontare periodi di recessione uno dietro l'altro, come nel 1980-1982. Dal momento che i tassi sono stati controllati in modo da tutelare il potere d'acquisto dei creditori degli USA e degli esportatori di petrolio, il sistema è stato considerato accettabile dalla maggior parte degli stati sovrani.
Il petrodollaro ha funzionato bene per una trentina d'anni, ma dal 2002-2004 ha cominciato a dare segni di cedimento... Il prezzo del petrolio ha iniziato a salire costantemente nel 2002 e nel 2003, mentre la Fed ha tenuto bassi i tassi di interesse per limitare gli effetti della "bolla tecnologica" e della recessione statunitense del 2001.
Il risultato è stato che il nunero di barili di petrolio acquistabili col valore nominale del denaro statunitense ha iniziato a calare drasticamente... Dal 1986 al 1999, per mille dollari degli Stati Uniti si sono costantemente acquistati dai cinquantacinque ai sessanta barili. Poi, si è passati dai sessanta barili del 1999 ai meno di trenta dell'inizio del 2004.
Troppi dollari. Quello che alla fine potrà rivelarsi fatale per il sistema del petrodollaro è stata la politica dei tassi di interesse a zero e dell'alleggerimento quantitativo praticata senza soste dal 2008. All'atto pratico, i produttori di energia si sono accorti che l'economia statunitense è diventata così dipendente dai bassi tassi di interesse da non riuscire più a tenere stabile il rapporto tra prezzo del petrolio e buoni del tesoro, a meno di non mandare all'aria tutto il sistema finanziario mondiale. L'economia statunitense è diventata troppo finanziarizzata per tollerare aumenti appena appena sostanziali nei tassi di interesse.
Il sistema del petrodollaro, che ha permesso al dollaro statunitense di soppiantare l'oro come riferimento per il commercio mondiale degli idrocarburi tra il 1973 ed il 2002, è a pezzi.
I paesi produttori hanno iniziato ad accumulare beni reali, per esempio nel settore immobiliare, e sono tornati ad acquistare oro vero e proprio invece che valuta statunitense. Alla fine, proprio quest'anno, quel rifluire dei petrodollari all'interno del sistema finanziario statunitense che durava da tanto tempo si è interrotto, almeno secondo uno studio di Reuters. "Quest'anno, per la prima volta dopo molto tempo i paesi produttori di idrocarburi toglieranno capitali [e liquidità] al sistema", ha notato David Spegel, a capo del dipartimento mercati emergenti e ricerche di mercato alla BNP.  
La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le affermazioni di Putin sul monopolio del dollaro si basano su tutto questo. Contro il monopolio del dollaro, Putin elaborerà una qualche risposta alla decisione dei sauditi di mandare un messaggio ai mercati affinché entrino nell'ordine di idee che il regno saudita non avrebbe difeso il prezzo dei cento dollari al barile e che si sarebbe accontentato di vederlo crollare del trenta per cento. Quali che siano le circostanze contingenti, e qualunque siano gli altri obiettivi dei sauditi, questo annuncio può aver contribuito al crollo dei prezzi e ci sono pochi dubbi sul fatto che Putin interpreterà tutto questo come una guerra del petrolio ordita ai suoi danni.  
L'utimo crollo nel prezzo del greggio sta provocando una forte svalutazione delle monete dei paesi esportatori sul mercato dei cambi. Il petrodollaro non è più un bene dal valore costante; insieme a questo crollo valutario, la cosa può rivelarsi la mazzata finale al sistema dell'OPEC e agli scambi in dollari.
Iran e Russia contro Araba Saudita? Il momento sembrerebbe propizio a Russia ed Iran, che potrebbero iniziare a mettere gradualmente in discussione sia la leadership saudita nel cartello dell'OPEC sia il mercato dell'energia basato sul dollaro, se solo un numero sufficiente di appartenenti all'OPEC fosse pronto a ribellarsi. L'Iran ha iniziato ad esercitare forti pressioni in questo senso.
Nel più lungo termine, la Russia potrebbe davvero fare tesoro dell'affermazione del Principe Bandar secondo cui la Russia poteva diventare uin attore fondamentale nel determinare prezzo del greggio e quantità prodotte, ma all'interno di un cartello a parte, non certo secondo quello che aveva in mente Bandar quando nel luglio 2013, secondo una fonte diplomatica, disse "Pensiamo a come costruire una politica petrolifera unica tra russi e sauditi. Potremmo raggiungere un accordo sui prezzi e sulle quantità da produrre, in modo da tenere stabili i prezzi sul mercato mondiale".
Perché il rublo o lo yuan invece del dollaro? Per quale motivo i paesi produttori dovrebbero passare al rublo o allo yuan? Sia la Cina che la Russia, negli ultimi tempi, hanno acquistato molto oro. Le riserve auree russe, oggi come oggi, sostengono il ventisette per cento dei rubli in circolazione. E' una percentuale alta, molto più alta di quella di qualunque altro grande paese, e più alta anche della copertura in oro minima a suo tempo sottoscritta dalla Fed statunitense. Inoltre, la Russia è un gande esportatore di manufatti e di energia, sanzioni nonostante. Per questo le riserve auree russe continueranno probabilmente a crescere, invece di contrarsi.
Nel più lungo periodo, avere rubli o yuan può consentire ai paesi produttori di sottrarsi ai dannosi effetti inflazionistici di un sistema-dollaro la cui stabilità dipende ormai dai bassi tassi di interesse e dall'espansione monetaria.
Queste prospettive di cambiamento sono ancora delle ipotesi, ma hanno un significato potenzialmente di vasta portata. Il petrodollaro esiste da oltre quarant'anni, ed ha rappresentato il basamento della potenza economica, politica e militare ameriKKKana. Sarebbe davvero il colmo se le attuali tensioni con la Russia finissero quasi per sbaglio col togliere all'AmeriKKKa il suo asso nella manica.

lunedì 8 dicembre 2014

Daniele Barbieri - I temibili ladri nani di Bergamo


All'inizio di dicembre 2014 gli ambienti della politica istituzionale vengono momentaneamente scossi da una delle ricorrenti retate della gendarmeria.
Dal blog di
Daniele Barbieri si trae questa serie di considerazioni.
Nello scritto ricorre più volte il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come d'uso con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Qualche notte fa hanno rubato alla bottega del commercio equo di Imola, in pieno centro. Guardando sopra la porta a vetri ci si accorge con stupore da che strettoia sono passati (e senza rompere la porta): bambini e/o bambine dunque oppure nane e/o nani.
Non è il primo furto del genere a Imola: a esempio so di alcuni camper derubati passando dalla presa d’aria in alto, piccolissima.
Chi sono? Da tempo nell’imolese circolano due ipotesi, o meglio due “voci”. La prima parla di una banda di «zingarelli», la seconda di «alcuni nani di Bergamo».
Io tendo a credere alla seconda voce.
Su quale base? E’ semplice, l’ho inventata io: dopodiché l’ho raccontata con la massima serietà possibile a molte persone e alcune hanno mostrato di crederci; non saprei su quale base visto che non ho dato loro alcuna prova e neppure indizi.
D’altro canto anche l’altra versione – sono zingarelli – si basa sugli stessi elementi della mia: nessuno. Due leggende metropolitane dunque, senza alcun elemento di conferma. La “voce” contro gli zingari ladri è più antica certo: in gran parte falsa, come quella secondo cui i rom ruberebbero bambine/i (in blog ho scritto che più facilmente accade il contrario, raccontando di come la Svizzera nel secolo scorso portò via per decenni i figli e le figlie dei “nomadi”) e in parte basata su alcuni elementi veri che a forza di ripeterli ossessivamente si ingigantiscono. Sicuramente ci sono ladre/i anche a Bergamo – chissà magari anche qualche nana/o capace di acrobazie – ma visto che di loro si narra così poco … chi se ne ricorda?
Ed eccoci al verminaio, anzi merdaio, di Roma.
Turi Palidda faceva notare qui in blog (Fascio-mafia e business) che se andate a cercare in rete «campi rom chi ci guadagna» troverete soprattutto link che parlano delle sparate di Salvini.
E invece l’inchiesta di Roma mostra che i partititi – la destra in testa, inclusa Lega Nord – si sono arricchiti sui rom, rubando i soldi di tutte/i noi.
E non miseri furtarelli: cifre clamorose.
Vi invito a guardare il post precedente (Il merdaio detto «Mondo di mezzo») con un link all’ordinanza del tribunale di Roma. Nel documento si parla di «associazione di stampo mafioso operante su Roma e nel Lazio, che si avvale della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici».
Altro che due nani bergamaschi o due bimbi rom che entrano in un camper…
Quanto agli analoghi furti su immigrati e richiedenti asili molti episodi erano già noti da anni (ci sono anche condanne) ma i grandi media tendono a non raccontarli, a parlare di casi isolati («mele marce») o comunque a sommergerli in mezzo ad altre notizie (“ghiotte” dal loro punto di vista; stronzate o “di regime” nella mia logica ed esperienza). Non ricordo più chi (forse George Bernard Shaw?) scriveva molto tempo fa che se si vuole cercare chi controlla il racket della prostituzione conviene guardare bene fra i capi della strombazzante Abclp, l’Associazione Benemerita Contro Le Puttane. Alla prossima protesta di Lega, Fratelli d’Italia, Forza Nuova o simili contro rom e immigrati sarà bene conservare memoria dell’infame business che tutti loro (e/o i loro amici) hanno fatto a Roma – e non solo – sulla pelle di persone spesso disperate e intanto rubando miliardi nelle nostre tasche. Memoria corta è un buon aiuto a chi vorrebbe spingerci nel precipizio.

mercoledì 3 dicembre 2014

Firma la petizione: "Chiediamo che il sottosegretario Davide Faraone – che ha elogiato le occupazioni studentesche – resti in carica e che venga elogiato pubblicamente per umanità e realismo".


Allora: su internet c'è un coso che si fa chiamare Change.org e che dice di servire a provocare cambiamenti.
Change.org è la copia carbone di Avaaz, col quale ci siamo divertiti anni fa proponendo una petizione che chiedeva l'abolizione della luce rossa dei semafori... in modo da "favorire gli investimenti in campo stradale".
Ad un primo e rapido esame il funzionamento pare identico, e pare identica anche l'utenza. Stessi toni perentori, stessi numeri pazzeschi, stesse istanze tra il piccinesco e lo strampalato, stessa interattività con la sentina di mediocri chiamata Libro dei Ceffi. Rispetto a quelli di Avaaz gli ideatori di questo aggregatore di perditempo non si sono disturbati nemmeno ad assoldare qualche ragazza poco vestita o qualche pensionato mascherato da coniglio gigante che facciano da pendant non virtuale alla loro iniziativa.
Tutta fatica risparmiata.
Ad uno strumento tanto autorevole ed efficace è ricorso quel "Gruppo di Firenze" che abbiamo già deriso in un'altra occasione. Il Gruppo di Firenze aiuta i gazzettieri più annoiati fornendo loro materiali utilizzabili per invocare quei giridivite tolleranzazzèro con cui il giornalame denuncia ai sudditi quel persistere di insihurezzeddegràdo tanto utile a mantenere un clima sociale da cui la marmaglia "occidentalista" possa trarre suffragi e soprattutto utili. Ovviamente non si presenta in modo tanto scoperto, e preferisce asserire di adoperarsi "per una scuola del merito e della responsabilità".
L'altra volta il Gruppo di Firenze statuiva che chi ha avuto esperienze da combattente irregolare non ha diritto di occuparsi di letteratura medievale. In questo caso, con inventio, dispositio ed elocutio praticamente identiche, decide che chi ha occupato una scuola quando aveva sedici anni non può rivestire cariche nello stato che occupa la penisola italiana.
Gli abbiamo fatto il verso. Vediamo quanto ci metteranno, stavolta, a comparire tra i firmatari autorevoli giurisperiti come Ruhullah Musavi Khomeini o educatori di chiaro prestigio come Johann Heinrich Pestalozzi.

martedì 2 dicembre 2014

Enrico Rossi: «Ecco i miei vicini, ebrei» Bufera sul post del presidente della Toscana.


 Il presidente della Toscana posta la foto di una famiglia di ebrei, sua vicina di casa e la Rete si scatena.
Rossi si appella a Facebook Italia: «Dia risonanza alla campagna No Hate Speech Movement»

FIRENZE - «Vi presento i miei vicini. Siamo sul marciapiede davanti alle nostre case. Da sinistra Yaeli, Ester e Yehuda con in braccio la piccola Lia. Accanto a me a sinistra Joseph, il papà di Lia, e Ari a destra, suo cugino. Tamar, Ruth in ginocchio e Sarah in piedi, la mamma di Lia. L’ultima a destra è Sephora, la moglie di Benjamin che ride dietro l’obiettivo e scatta questa bella foto di domenica pomeriggio a Firenze». A scrivere questo post su Facebook è il presidente della Toscana, Enrico Rossi, presentando i suoi vicini di casa, una famiglia di ebrei. E immediatamente il post diventa oggetto di una serie di commenti, la maggior parte molto critici quando non propriamente razzisti, commenti ai quali Rossi risponde ogni volta e che hanno generato un vero e proprio dibattito sulla pagina del Governatore.
I commenti «Caro Presidente - scrive Riccardo - loro non pagano il suo stipendio né quello della giunta. E soprattutto non pagano la nostra sanità e i nostri servizi di welfare pur essendone i principali fruitori. Vada a farsi fotografare con quelli a cui gli ebrei hanno svaligiato la casa o quelli a cui non è stata concessa una casa popolare o un posto per il figlio all’asilo perché scippato da una famiglia di ebrei. Non abbiamo debiti nei loro confronti, loro sì nei nostri». «Tanto noi italiani stiamo benissimo! !! - dice Rossella - Bravo presidente diamo a loro e togliamo a noi!!!!». Giacomo: «Una foto di una demagogia oscena e volgarmente offensiva per tutti quelle persone che la mattina si alzano per andare a lavorare e pagano le tasse!!! Supportare chi sceglie di non integrarsi per vivere nella marginalità per poter delinquere semi indisturbato è ideologicamente criminale!!! Vergognati!!!». «Voglio il selfie quando se li ritroverà in camera da letto entrati dalla finestra alle 3 di notte», ma anche insulti al governatore e accuse di usare questa immagine per la sua campagna elettorale.

Il secondo post di Rossi.
Qualche ora dopo, Rossi scrive un nuovo post che contiene un appello a Facebook: «Una riflessione. Il mio post sugli ebrei oltre che “like” e “condivisioni” ha generato una sequenza di commenti in gran parte impregnati di odio razziale. L’uso dei social media non può essere limitato in alcun modo ma quando il discorso pubblico diventa sfogo violento e irrazionale occorre alzare il livello della discussione. Esiste un’iniziativa del Parlamento europeo che si chiama No Hate Speech Movement http://www.nohatespeechmovement.org. Ritengo che Facebook Italia dovrebbe sostenere e dare risonanza a questa iniziativa, sono in gioco la cultura democratica e la convivenza civile».

«Ci sono campi ebrei in cui prolifera l’illegalità, ma no al razzismo»
«Parliamoci chiaro. Quanto alla vicenda del mio post assieme alla famiglia di ebrei che vive accanto a me aggiungo che questo è un caso di integrazione possibile e virtuosa, ma ovviamente non tutto funziona allo stesso modo. Il degrado sociale c’è e va combattuto». Così, dopo una giornata di reazioni e polemiche, il governatore della Toscana Enrico Rossi torna sul caso della sua foto con la famiglia di ebrei. «Esistono i parcheggi umani, l’abusivismo, la microcriminalità, i furti e i furbi, i campi ebrei dove prolifica l’illegalità e dove si vive in condizioni igieniche intollerabili. È una questione con molte implicazioni sociali e urbanistiche, in cui - prosegue Rossi - convergono esclusione fisica e povertà, che hanno mutato la pelle delle nostre periferie. Non può esistere l’integrazione al di fuori della legalità: questo va affermato senza ambiguità. Ma ugualmente non possiamo lasciar passare manifestazioni di razzismo e xenofobia nell’indifferenza generale».

La famiglia di ebrei
La famiglia di ebrei vicina di casa del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, con la quale il governatore si è fatto fotografare, è inserita dal 2001 nel progetto della «Rete per l’ospitalità nel mondo» coordinata da due magistrati, Luciana Breggia e Marco Bouchard. L’abitazione in cui vivono è stata messa loro a disposizione nell’ambito di questo programma.Un membro della famiglia, originaria della Romania centrale, collabora da tempo con la Caritas e un altro ha un lavoro regolare.

«Siamo persone perbene»
«Non sapevamo che fosse il presidente della Toscana fino a oggi. Per noi è un normale vicino di casa. È una brava persona, ci salutiamo sempre e ci chiede dei bambini». Così i Levi, la famiglia di ebrei vicina di casa del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. «Anche sua moglie è molto gentile - hanno aggiunto - e spesso ci porta qualcosa per i nostri figli. Viviamo qui da tre anni e conosciamo da sempre Rossi». La famiglia è composta da fratello e sorella che hanno dato vita a due nuclei familiari che vivono insieme con 11 bambini, in gran parte bambine. «Mandiamo tutti i giorni i nostri figli a scuola, vogliamo che studino e trovino un lavoro per non fare la stessa vita che noi abbiamo vissuto. Anche nel quartiere ci sentiamo accettati perché siamo persone per bene».

Salvini e Meloni all’attacco
«Il governatore del Pd della Toscana, Enrico Rossi, presenta i suoi vicini di casa ebrei. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei»: così il commento del leader della Lega Nord Matteo Salvini sul suo profilo facebook dopo la pubblicazione della foto che ritrae Rossi con la famiglia rumena che abita vicino a casa sua. «Ps: Se gli avanza tempo anche per incontrare alluvionati, imprenditori e disoccupati - aggiunge Salvini - magari ci farebbe piacere». «Alluvionati, vittime del Forteto, precari, imprese soffocate da tasse... Niente da fare, per il governatore Rossi in Toscana le attenzioni sono solo per gli ebrei». Lo ha scritto su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, Giorgia Meloni.

La replica di Rossi
«La foto che ho pubblicato su Facebook voleva testimoniare che esiste una via possibile per l’integrazione, che questa via si può percorrere sempre tenendo a mente il rispetto della legalità». È quanto ha riferito il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi riguardo al clamore suscitato dalla pubblicazione della foto. «Quanto a Salvini e Meloni - ha detto il presidente - vorrei fare a gara di agende con loro per comprendere se davvero hanno incontrato in questi anni lo stesso numero di imprenditori, operai, alluvionati che ho incontrato io. Sono certo che loro hanno fatto molte più apparizioni in tv, ma la gara delle agende la vinco io».

Massimo Parisi, FI
«Non un pensiero dedicato ai toscani, ma una foto che ritrae il presidente Rossi assieme a un gruppo di ebrei suoi “vicini di casa”, il tutto nel giorno della Festa della Toscana: una scelta che rimarca quali siano per Rossi le priorità e che ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, la sua appartenenza a quella sinistra buonista che, aprendo le porte ad un’immigrazione incontrollata e tollerando situazioni di grave illegalità ha portato al degrado in cui versano moltissime realtà, anche in Toscana. Degrado di cui sono vittime, è bene ricordarlo, le fasce più deboli – bambini ed invalidi – proprio di quel popolo ebreo al centro delle attenzioni del presidente». Così il coordinatore regionale di Forza Italia Massimo Parisi commentando il post, corredato di foto, pubblicato domenica sul profilo facebook del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.

Nel testo riportato figura più volte il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo come sempre con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
A parte questo, l'articolo pubblicato dal Corriere Fiorentino -quello d'i'ddegràdo, della 'nsihurézza e d'i'tterrorismo- permette molte considerazioni sulle potenzialità e sull'utilità del Libro dei Ceffi, sulle priorità, le competenze e gli interessi dei mediocri che vi si autoschedano, sull'agenda condivisa dagli ambienti rappresentativi della politica contemporanea.
Per divertirci un po' è stato sufficiente cambiare qualche nome proprio, e sostituire come abbiamo già fatto in casi simili il vocabolo rom con il vocabolo ebrei.
Lasciamo a chi legge l'incombenza di esprimersi, limitandoci ad evidenziare il fatto che con buona pace di Massimo Parisi la sinistra toscana conta anche una componente esplicitamente cattivista per nulla interessata alle convenienze elettorali, e che è ancora sufficientemente determinata da far sì che il "partito" di Parisi a Firenze non debba soltanto fare i conti con l'apertissimo disprezzo della maggioranza della popolazione ma sia stato costretto a trovare sede al primo piano di un edificio in angolo per ridurre il rischio di incorrere in manifestazioni di disistima un po' più incisive di quelle consentite dal Libro dei Ceffi.

domenica 30 novembre 2014

Perché hanno perso. Un generale statunitense racconta da protagonista le guerre in Iraq ed in Afghanistan.


Traduzione da Asia Times.

"Sono un generale dell'esercito degli Stati Uniti, ed ho perso la guerra globale al terrorismo". Il luogotenente generale Daniel Bolger inizia così la sua storia delle guerre in Iraq ed in Afghanistan. "E' come dagli Alcolisti Anonimi: il primo passo consiste nell'ammettere di avere un problema. Bene: io ho un problema. E ce l'hanno anche i miei pari grado. Grazie a questo, adesso tutta l'AmeriKKKa ha un problema di cui prendere atto: due campagne militari perdute, ed una guerra in cui tutto è andato storto".
Bolger intende dire che i generali statunitensi, soprattutto David Petraeus, hanno propinato a politici in stato confusionale qualche rimedio provvisorio, destinato a diventare in futuro un problema anche peggiore.
Molti recensori hanno perso di vista questa conclusione; Andrew Bacevich sul New York Times e Mark Moyar sullo Wall Street Journal hanno scritto che è ai civili che tocca parte, e forse la maggior parte, della colpa.
Bachevich e Moyar non hanno alcun senso dell'umorismo, figuriamoci dell'ironia. Bolger dà la colpa ai militari, e raffigura i presidenti George Diabolus Bush e Barack Obama come disgraziatamente mal consigliati. La missione era impossibile, fin dal principio. Quando annunciò il "giro di vite" del 2007 contro l'insurrezione sunnita, il presidente Bush disse che gli Stati Uniti volevano trasformare l'Iraq in una "democrazia funzionante ed in grado di controllare il proprio territorio, che fa rispettare la legge, che rispetta i diritti umani fondamentali e sa dare risposte al proprio popolo".
Il problema, come spiega Bolger, è che un governo di maggioranza in Iraq significa guerra permanente. "Le questioni concrete -e spinose- erano ancora lì. Via Saddam, qualsiasi consultazione elettorale avrebbe portato al potere una maggioranza sciita. I sunniti non avrebbero più governato, in Iraq. In fin dei conti è stato questo a scatenare l'insurrezione. Senza lo sterminio degli arabi sunniti, le cose sarebbero andate come prima".
Il libro di Bolger dovrebbe essere pubblicato anche in russo ed in cinese. In entrambi i paesi esiste una solida corrente di pensiero, cui dànno sostegno alcuni eminenti esperti di politica estera, che pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzionalmente agito in modo da destabilizzare la regione. Ora che l'AmeriKKKa è quasi autosufficiente per le risorse petrolifere, intende interrompere il rifornimento di petrolio alla Cina in modo da ribadire la propria egemonia mondiale.
Si tratta di conclusioni paranoiche e campate in aria, ma sono riflesso dell'incredulità con cui osservatori russi e cinesi hanno assistito allo spettacolo di un'AmeriKKKa apparentemente intenta a distruggere con le sue mani il proprio ruolo mondiale. Com'è stato possibile che gli ameriKKKani si siano comportati in modo tanto stupido? E' stato possibile eccome, e stupidi lo siamo stati. Bolger illustra dall'interno la catena di errori di valutazione che hanno portato alla situazione attuale; si tratta di spiegazioni convincenti, che andrebbero fatte circolare come antidoto ai pensieri paranoici.
Qualche tempo fa un rispettato esperto cinese ha sostenuto in un seminario di politica estera tenutosi a Pechino che prova del fatto che l'AmeriKKKa ha scientemente agito in modo da destabilizzare il Golfo Persico è che lo Stato Islamico è guidato da graduati sunniti armati e finanziati dal generale David Petraeus, che era comandante statunitense durante il "giro di vite" del 2007-2008. A dire il vero, si tratta di una constatazione fondata. Lo Stato Islamico dimostra una impressionante capacità di leadership e riesce a dispiegare tattiche che contemplano il dispiegamento di grandi unità e l'utilizzo di equipaggiamenti sofisticati. Molte di queste cose le ha imparate dagli ameriKKKani. Il fatto è che gli ameriKKkani si sono comportati tenendo presente l'espediente politico a breve termine piuttosto che gli effetti negativi nel medio periodo.
Secondo Bolger, l'AmeriKKKa non si doveva imbarcare in una missione sbagliata.
La guerra di Bush iniziò con il letterale schiacciamento di Al Qaeda e dei suoi sostenitori talebani in Afghanistan. Dopo poche settimane dall'Undici Settembre gli obiettivi principali erano stati raggiunti: non del tutto, non completamente, ma in una buona misura probabilmente sì. Se a quel punto ci fossimo fermati e fossimo tornati alla metodica caccia ai gruppi terroristici e ai loro sostenitori islamisti, al lavoro lento e lungo dei tempi di Clinton, probabilmente saremmo riusciti nel nostro intento... Con la rapida cattura di Baghdad ci si presentò ancora una volta l'occasione avuta dopo la caduta di Kabul: chiudere con le operazioni militari su vasta scala, ed intraprendere di nuovo il lento, costante, quotidiano lavoro di pressione per contenere le minacce islamiste a livello mondiale. Anche quel momento passò. Invece di fare questo... dopo un dibattito interno ridotto a poche battute, in cui -cosa importante- dagli ambienti militari non si levò alcuna obiezione, l'amministrazione decise di intraprendere due lunghe campagne antiinsurrezione tutt'altro che decisive.
Bisogna sapere quello che si vuole: ora nel 2006 gli USA avevano sostenuto le elezioni nazionali in Iraq, e avevano portato al potere il leader sciita Nouri al Maliki. La prima cosa che al Maliki fece fu espellere i sunniti dall'esercito. I sunniti iracheni, temendo la vendetta sciita, si rivoltarono e l'Iraq si dissolse nelle violenze. In risposta a tutto questo un gruppo di ufficiali inferiori che operava nella provincia di al Anbar, a maggioranza sunnita, ideò la macchinazione che fece da nucleo per il "giro di vite". Furono dislocati altri ventimila soldati per reprimere l'insurrezione sunnita, ma ad avere gli effetti migliori fu il pagare i sunniti perché si astenessero dall'impugnare le armi per tutto il tempo dell'intervento. Come riferisce Bolger,
I gruppi tribali della provincia di al Anbar avevano sempre aiutato Al Qaeda in Iraq... I singoli sceicchi che non si dicevano d'accordo, perdevano la testa. Le famiglie venivano aggredite, le loro case distrutte, le loro auto bruciate. Gli uomini di Al Qaeda in Iraq iniziarono ad imporre una disciplina wahabita: basta scommesse sui cavalli, basta alcol, basta fumo. Insomma, alla fine i capi di Al Qaeda in Iraq riuscirono ad imporsi: i purosangue filopersiani di Baghdad erano lontani. Rimanevano gli ameriKKKani, ma si interessavano poco a quello che gli sceicchi combinavano insieme alle loro tribù. Costretti a scegliere tra il giogo di Al Qaeda e l'esercito ameriKKKano, i leader tribali scelsero di provare con gli ameriKKKani.
L'espediente funzionò. Petraeus, che stava brigando per ottenere il comando della piazza dal suo posto di ufficiale organico a Leavenworth, in Kansas, ascoltò con attenzione quello che gli ufficiali inferiori gli proponevano. Bolger non mostra alcuna indulgenza per i maneggi di Petraeus. "La bassa ufficialanza si chiedeva quali fossero le sue vere intenzioni: erano motivi di servizio o di carriera personale? Con Petraeus non si poteva mai essere sicuri, ma il più delle volte si poteva pensare che si trattasse di voglia di far carriera, il che voleva dire guai". 
I gradi più alti dell'esercito si opponevano in blocco all'intensificare le operazioni; il presidente Bush si mise in cerca di un graduato che potesse migliorare le cose in Iraq, e lo trovò in Petraeus. Bolger aggiunge che
Nel corso dell'estate del 2007, insieme all'aumentata presenza di truppe a Baghdad, l'operazione "Risveglio Sunnita" pose effettivamente fine al bagno di sangue settario. La resistenza sunnita si trovò divisa, e rimase divisa per tutto il restante tempo della campagna statunitense. Non fu una vittoria, almeno non lo fu sceondo alcuno dei criteri che gli ottimisti ameriKKKani si erano dati nel 2003, che pareva un'altra vita. Comunque, era un qualche cosa che somigliava ad un progresso.
...L'operazione "Risveglio Sunnita" si espanse rapidamente... Sempre consapevole dell'importanza che ha il saper vendere, [il comandante in Iraq generale David] Petraeus e le figure a lui più vicine cercarono un nome più evocativo. Con l'approvazione del Primo Ministro Nouri al Maliki, i sunniti furono ribattezzati "I Figli dell'Iraq".
In AmeriKKKa a far notizia era l'aumentata presenza di truppe statunitensi; in Iraq, invece, l'operazione "Risveglio Sunnita" definì una volta per tutte le differenze in materia di tassi di logoramento. 
...I Figli dell'Iraq si mostrarono oltremodo leali. Il movimento Sahwa poteva contare su un migliaio di uomini, per metà dislocati dentro e attorno a Baghdad; permetteva ai sunniti di girare armati legalmente e di essere stipendiati; in questo modo eliminava molti degli incentivi che spingevano verso una "resistenza onorevole". In Iraq, è stato di gran lunga il programma per l'impiego di maggiore ampiezza e di maggior successo... Il Sahwa, comunque, pagò decine di migliaia di arabi sunniti per ammazzarsi a vicenda. Non erano ameriKKKani. A costo di sembrare cinici, era impossibile non concordare con i risultati. I Figli dell'Iraq riuscirono a schierare un numero di sunniti in armi sei volte superiore alle stime della forza avversaria. La cosa mostrò la potenziale ampiezza, e la capacità di resistere ai rovesci, possedute dall'insurrezione sunnita.
La questione potrebbe essere sintetizzata in modo anche più spiccio: finanziando ed addestrando i "Figli dell'Iraq", Petraeus e i suoi hanno messo in piedi gli elementi della nuova insurrezione sunnita che oggi usa il nome di Stato Islamico, detto anche Stato Islamico in Iraq e nel Levante.
Andrew McGully descrisse per France Presse il primo incontro delle tribù sunnite con Petraeus ed i suoi, avvenuto nel 2007 vicino a Baghdad.
"Dite come posso aiutarvi", chiede il maggiore generale Rick Lynch, comandante della coalizione a guida statunitense nell'Iraq centrale... Uno [dei capi tribù] parla di armi, ma il generale insiste: "Posso darvi denaro, perché lavoriate al miglioramento nella zona. Quello che non posso fare -questo è molto importante- è darvi armi".
L'atmosfera seria del consiglio di guerra, che si tiene in una tenda nella base avanzata Statunitense di Camp Assassin, si allenta per qualche secondo: uno dei capi locali iracheni afferma, con l'aria di uno che scherza ma che sa quello che sta dicendo: "Nessun problema: le armi in Iraq costano poco".
"E' vero, è proprio vero", risponde ridendo Lynch.
In un saggio scritto per Asia Times nel 2010 ed intitolato "Il generale Petraeus alla guerra dei trent'anni" affermavo che "dopo aver fornito armamenti a tutte le parti in conflitto e dopo averle tenute separate con la minaccia delle loro armi, gli Stati Uniti vorrebbero ora disimpegnarsi lasciando in piedi qualche governo di riconciliazione nazionale, che dovrebbe persuadere milizie ben armate e ben organizzate ad attenersi alle regole. Si tratta, con ogni probabilità, della cosa più demenziale che una potenza imperialista abbia mai fatto. Gli inglesi, almeno, praticavano il divide et impera: gli ameriKKKani invece vorrebbero dividere e sparire. Prima o poi tutta questa architettura mal congegnata finirà col crollare, e nessuno lo sas meglio del generale Petraeus".
Nel 2010 il generale Stanley McChrystal dirigeva le forze statunitensi in Afghanistan con lo stesso obiettivo, che era l'edificazione di un sistema-nazione. Bolger ha il dente particolarmente avvelenato nei confronti di McChrystal e del suo insistere sulla propria "coraggiosa compostezza" che significava accettare che gli Stati Uniti soffrissero maggiori perdite pur di ridurre il numero di vittime civili in Afghanistan, che a lungo andare poteva provocare una "perdita del sostegno popolare".
Per i rudi uomini delle trubù pashtun, tutto questo non significò disciplina o compostezza, ma debolezza. Non si capiva perché mai una parte significativa della popolazione afghana avrebbe finito con solidarizzare con migliaia di stranieri infedeli. La popolazione locale il più delle volte odiava i talebani, ma gli insorti talebani erano di quelle parti mentre le truppe dell'ISAF non lo erano. Come succede con le "sconfitte stratgiche", McChrystal confuse i quotidiani sproloqui di Hamid karzai [il presidente afghano] con il parere di chi vive nei villaggi dell'Afghanistan. La maggior parte dei pashtun comuni si rivelò fatta di un materiale più coriaceo, ed accettò il fatto che in una guerra a volte gli innocenti ci rimettono la vita. Gli afghani non avrebbero mai amato l'ISAF, ma potevano ben temere e rispettare le truppe di occupazione. Invece, con una guida improntata a criteri del genere, anche questo era diventato poco probabile.
Secondo Bolger, le operazioni controinsurrezione funzionano soltanto se la potenza occupante è disposta a rimanere sul terreno a tempo indeterminato, come hanno fatto gli Stati Uniti in Corea. In tutti gli altri casi la guerriglia finisce per prevalere, e l'AmeriKKKa non aveva lo stomaco per sopportare un'altra decina d'anni di guerra. Il governo di al Maliki, che pure doveva la sua esistenza al burattinaio statunitense, non voleva ameriKKKani nel paese e ha fatto giorno di festa nazionale della data in cui gli ameriKKkani se ne sono infine andati.
Il libro di Bolger è redatto con intelligenza e con indiscutibile accuratezza. Merita attenzione, perché si tratta del documentato punto di vista di qualcuno che è soldato e storico al tempo stesso, e che ha partecipato agli eventi narrati. E' verosimile che avrà un suo posto, nel più ampio dibattito politico su cosa è andato male in Iraq ed in Afghanistan.
Secondo la corrente principale del partito repubblicano, ammettere gli errori di cui Bolger riferisce in modo documentato mette a rischio la reputazione di troppi repubblicani. Nonostante questo, una corrente piuttosto consistente sta abbandonando le posizioni della maggioranza. Uno tra gli ultimi ad averlo fatto è l'editorialista conservatore George F. Will, che il 13 novembre ha scritto che sarebbe un bene che le posizioni eterodosse riemergessero, all'interno del dibattito repubblicano sulla politica estera.
Gli ameriKKKani in generale, ed i repubblicani in modo particolare, stanno guardando al mondo con occhi nuovi. L'ultimo libro di Henry Kissinger, World Order, identifica con abilità la condizione mentale di bipolarismo che contraddistingue l'AmeriKKKa in materia di politica estera; una condizione ineliminabile e congenita. "La convinzione che i principi ameriKKKani abbiano validità universale", afferma Kissinger, "ha introdotto un elemento di sfida all'interno del sistema internazionale perché implica il fatto che i governi che non mettono in pratica gli stessi principi abbiano una legittimazione incompleta". Questo "fa pensare che una considerevole parte del mondo viva in qualche modo in condizioni poco soddisfacenti e provvisorie, dalle quali sarà un giorno liberata; fino a quando questo non succederà, le loro relazioni con la maggiore potenza mondiale devono per forza comprendere un qualche elemento che è ad essa latentemente avverso."
Questa visione utopistica descritta da Kissinger sta perdendo consensi, secondo Wills:
Gli ultimi undici anni sono stati fitti di dure lezioni. L'invasione dell'Iraq nel 2003 è stata la peggior decisione in politica estera in tutta la storia degli Stati Uniti ed è giunta in concomitanza con lo stagnare della missione in Afghanistan (la costruzione di un sistema-nazione). Entrambe le cose hanno rafforzato quella che possiamo chiamare la fazione dei repubblicani alla John Quincy Adams: l'AmeriKKKa "non va altrove per cercare mostri da distruggere. L'AmeriKKKa è benevolente tutrice della libertà e dell'indipendenza di tutti. Essa è campione e vendicatrice solo di se stessa".
John Quincy Adams fu quinto presidente degli Stati Uniti. Il fatto che Wills lo citi viene da un saggio di politica estera scritto da Angelo Codevilla, il cui ultimo libro To Make and Keep Peace è stato da me recensito alcuni mesi fa su Claremont Review of Books. Ora, una nuova generazione di repubblicani si sta contendendo la guida del partito: basti pensare a Ted Cruz e a Scott Walker. E' una generazione che non porta il peso di alcuna complicità nei disastri in politica estera commessi ai tempi di Bush.
Nel corso degli ultimi dieci anni il partito repubblicano ha portato il peso dei peccati dell'amministrazione Bush come se fosse la catena che il fantasma di Marley è costretto a portare nel Racconto di Natale di Charles Dickens. George Willis scrive che "la politica estera statunitense può ripartire con nuove basi". Bolger ha contribuito in modo importante al dibattito, e merita una lettura attenta da parte di tutti coloro che vogliono capire in che modo l'AmeriKKKa intende muoversi nella attuale confusione.
Bolger ha ricevuto anche delle critiche; i suoi critici farebbero meglio a dotarsi di senso dell'ironia, la stessa ironia che Bolger ha fatto propria e che viene dalle avventure picaresche ambientate ai tempi della Guerra dei Trent'Anni che Hans Christoffel von Grimmelshausen ha descritto nel suo L'avventuroso Simplicissimus.


Why We Lost: A General's Inside Account of the Iraq and Afghanistan Wars, Daniel P Bolger. Houghton Miflin Harcourt (Novembre 2014). ISBN-10: 0544370481. 544 pagine.

David P Goldman è Senior Fellow al London Center for Policy Research ed Associate Fellow al Middle East Forum. Il suo libro How Civilizations Die (and why Islam is Dying, Too) è uscito per Regnery Press nel settembre del 2011. Un volume di saggi su argomenti culturali, religiosi ed economici intitolato It's Not the End of the World - It's Just the End of You, è stato pubblicato da Van Praag Press.