07 novembre 2025

Alastair Crooke - La politica estera degli USA è in discussione; Trump può accordarsi con la Cina... ma non con la Russia o con l'Iran

 


Traduzione da
Strategic Culture, 3 novembre 2025.

La politica estera degli Stati Uniti è intrisa dell'arroganza che deriva loro dall'aver vinto la Guerra Fredda militarmente (in Afghanistan), economicamente (libero mercato) e anche culturalmente (Hollywood). Questo farebbe loro meritare a buon diritto, come dice Trump, di "divertirsi" a "governare sia il Paese che il mondo".
Ecco: adesso, quella politica è per la prima volta in discussione.
La cosa avrà una qualche importanza?
Questo mese la RAND Organization, un istituto che da tempo influenza la politica estera statunitense, ha messo in discussione l'atteggiamento arrogante dalla Guerra Fredda tenuto nei confronti della Cina.
Sebbene il rapporto della RAND sia focalizzato sui timori degli Stati Uniti per la minacciosa ascesa della Cina, le implicazioni della messa in discussione della dottrina per cui non esiste tolleranza per nessuno che sfidi l'egemonia statunitense -finanziaria o militare- toccano il cuore stesso della prassi statunitense in materia di politica estera.
La conclusione fondamentale della RAND è che "la Cina e gli Stati Uniti dovrebbero sforzarsi di raggiungere un modus vivendi", "accettando reciprocamente la legittimità politica dell'altro e limitando in modo ragionevole gli sforzi volti a danneggiarsi a vicenda".
Proporre che ciascuna delle parti riconosca e accetti la legittimità dell'altra, piuttosto che considerare "l'altro" come una malevola minaccia, sarebbe di per sé una piccola rivoluzione. Se vale per la Cina, perché non dovrebbe valere anche per la Russia o l'Iran?
E ancora: la RAND afferma in particolare che la leadership statunitense dovrebbe rifiutare l'idea di una "vittoria totale" sulla Cina, nonché accettare la politica della "Una sola Cina" smettendola con le provocazioni a suon di visite di natura militare a Taiwan, che servono proprio a far sentire la Cina minacciata e a tenerla in un costante stato di allerta.
Tutto questo alla vigilia dell'incontro previsto tra Trump e il presidente Xi Jinping a Kuala Lumpur, in cui Trump ha cercato di arrivare a un "accordo commerciale" con la Cina che riaffermi il suo dominio e gli dia spazio per i suoi piani radicali di ristrutturazione del panorama finanziario statunitense, sempre che la cosa gli riesca.
È possibile che a Washington accettino il cambiamento proposto dalla RAND? La RAND ha un peso concreto negli ambienti governativi; questo rapporto riflette forse una crepa nell'architettura dello Stato profondo? Altri segnali -in Medio Oriente o Asia Occidentale- farebbero pensare il contrario.
In politica estera gli Stati Uniti seguono la stessa linea da decenni; sarebbero davvero in grado di attuare una trasformazione culturale tanto radicale come quella sostenuta dalla RAND?
L'Occidente è in declino, senz'altro. Ma questa condizione rende più facile o rende più difficile accettare qualche consiglio sensato da parte della RAND? Per quanto riguarda la Cina, sembra che negli ambienti della difesa statunitensi si sia arrivati a concludere, tecnicamente, che gli Stati Uniti non possono assolutamente affrontare la Cina sul piano militare.
Qualsiasi cambiamento profondo richiede comunque del tempo per essere pienamente recepito, e può essere rovesciato da qualche evento imprevisto. In questo momento sono possibili diversi imprevisti di grave impatto.
Inoltre, a chi toccherebbe condurre un tale cambiamento nella percezione che un Paese ha di se stesso? Un cambiamento concreto, istituzionale, si affermerebbe dall'alto verso il basso o viceversa?
Se si verificasse a partire dal basso, potrebbe emergere come un impulso populista all'insegna del suprematismo statunitense dovuto alla perdita della Camera da parte di Trump e del Partito Repubblicano alle elezioni di medio termine?
In un certo senso, la RAND ha senz'altro ragione quando afferma che al di là di una qualche schermaglia di breve durata gli Stati Uniti non possono più vincere una guerra economica o tecnologica –per non dire un conflitto militare- con la Cina nel lungo periodo. Per ora sembra profilarsi una tregua instabile. Ma per quanto?
Lo Wall Street Journal ha suggerito una prospettiva diversa rispetto a quella che gode del consenso generale a Washington: "Durante il suo primo mandato, Trump ha spesso spiazzato Xi Jinping con il suo disinvolto mescolare minacce e bonarietà".
Questa volta il leader cinese crede di aver decifrato il codice", scrive il Wall Street Journal: Xi ha abbandonato la tradizionale prassi diplomatica e ne ha adottata una nuova fatta su misura per Trump. Dopo una lunga preparazione, sostiene il WSJ, Xi ha deciso di reagire alzando la posta -nel tentativo di ottenere un vantaggio su Trump- proiettando al contempo forza e imprevedibilità, qualità che secondo Xi il Presidente degli Stati Uniti tiene in grande considerazione.
A quanto pare la Cina è intenzionata ad avanzare le proprie istanze in modo assertivo. Vuole avere l'ultima parola ed è fiduciosa che questo approccio intransigente otterrà una risposta decisamente positiva sul proprio piano interno.
E nel resto del mondo, cosa che il WSJ omette di specificare.
La domanda è: quali effetti potrebbe avere negli Stati Uniti l'atteggiamento di Xi? La questione essenziale tuttavia rimane senza risposta: chi è che controlla la politica estera degli Stati Uniti?
Una risposta ovvia, dopo il fallimento del (mai avvenuto) vertice di Budapest è che Trump ha poca o nessuna influenza in questo ambito. È stato completamente normalizzato. E i poteri forti non hanno mancato di fargli avere un promemoria a riguardo: "Nessuna normalizzazione con Mosca".
Direbbero invece di sì a un cessate il fuoco; il congelamento delle ostilità senza restrizioni sul riarmo dell'Ucraina darebbe allo establishment della NATO la possibilità di ridefinire il conflitto -che da sconfitta strategica della NATO diventerebbe una vittoria a lungo termine- attraverso la diffusione della narrativa su un progressivo indebolimento dell'economia russa.
Questa formulazione artificiosa consentirebbe, almeno secondo gli europei, di mantenere la promessa di un cessate il fuoco definitivo in una fase successiva, imponendo alla Russia di sostenere costi fissi tali da costringerla alla lunga a deporre le armi.
L'unico problema con questo piano è che Mosca non accetterà assolutamente di congelare il conflitto. Sul campo, in ogni caso, la situazione è favorevole a una vittoria russa.
Il fatto è che l'esito finale della guerra in Ucraina sarà quello che sarà. Gli europei lo sanno, ma non possono dirlo perché non riescono a orientarsi in un mondo in cui il loro modo di ragionare non ha la meglio. E se questo chiudere entrambi gli occhi davanti alla realtà è quello che considerano il punto di forza dell'Occidente, esso verrà meno quando l'Europa verrà colpita dai dati di fatto dell'economia.
Come spiegare allora la débacle di Trump con la Russia? Da un lato, è stato il veto dei grandi finanziatori simpatizzanti con lo stato sionista, che considerano indispensabile preservare a tutti i costi l'egemonia militare degli Stati Uniti in quanto sostegno dello stato sionista. Senza di essa, lo stato sionista non può esistere. Molti dei componenti della squadra governativa di Trump, se non tutti, sono stati imposti dall'esterno, da alcuni finanziatori fanatici e miliardari che la pensano allo stesso modo. Trump è stato sorprendentemente sincero su questo stato di cose durante il suo discorso alla Knesset il mese scorso.
Alcuni tra questi finanziatori di Trump fanno anche parte di quella ben distinta fazione di Wall Street che oltre ad essere filosionista è intenzionata a perseguire interessi finanziari più ampi. Il sistema finanziario statunitense ha un disperato bisogno di essere rafforzato con garanzie collaterali -cioè con beni che hanno un valore intrinseco come petrolio, risorse naturali, eccetera- a sostegno di un sistema bancario ombra eccessivamente indebitato.
I corpi franchi di questa fazione filosionista di Wall Street continuano a invocare una ritorno della "Russia degli anni Novanta", per improbabile che sia. Con il principale blocco di finanziatori filosionisti essi condividono la determinata decisione con cui lo stato sionista intende tenere la Russia fuori dal Medio Oriente, e che esso adotta anche per il conflitto in Ucraina. Il 7 ottobre di quest'anno Netanyahu ha implorato Putin di non armare l'Iran, minacciandolo secondo quanto riferito di ritorsioni in Ucraina.
La valutazione dell'accordo commerciale con la Cina –per tali finanziatori– è completamente diversa. Se Trump dovesse concordare un accordo commerciale "forte" con la Cina, la Casa Bianca lo considererebbe un indebolimento della capacità del Canada di assemblare componenti economici provenienti dalla Cina e da altri paesi per poi trasferire e vendere i prodotti finiti sul mercato statunitense. Un accordo con la Cina darebbe a Trump un ulteriore vantaggio nell'imminenza della fase di dissoluzione degli accordi con il Messico e con il Canada nel 2026.
Quest'ultimo aspetto è importante, poiché Trump sta cercando di inglobare l'intero emisfero occidentale, dall'Argentina all'Artide settentrionale, nella sfera di influenza degli Stati Uniti.
Un accordo con la Cina sul controllo delle esportazioni di terre rare sarebbe tuttavia cruciale per l'intero settore tecnologico statunitense. La presenza della Cina nella catena di approvvigionamento delle terre rare non è solo dominante, ma è quasi inattaccabile. Con il 70% delle terre rare globali (il 100% per alcuni metalli) e con il 94% della capacità di raffinazione, Pechino ha preparato e costruito una fortezza attorno a uno degli elementi più critici per la tecnologia moderna.
Ed esiste un altro motivo, forse addirittura più importante, per cui gli Stati Uniti hanno urgente bisogno di essere "salvati" dalla Cina.
La base giuridica dell'offensiva tariffaria globale di Trump si è allontanata sempre più dalle condizioni di eccezionalità di una "emergenza economica". La Costituzione degli Stati Uniti stabilisce in modo chiaro che l'autorità di aumentare le entrate, in linea di principio, spetta al Congresso e che non è una prerogativa dell'Esecutivo. E i dazi sono delle entrate.
Chiaramente, Trump ha accampato la giustificazione dell'"emergenza economica" fino ai limiti estremi. I primi casi relativi ai dazi doganali saranno discussi molto presto dalla Corte Suprema. Se la Corte dovesse pronunciarsi contro Trump, potrebbe ordinare la restituzione di tutti gli introiti doganali raccolti finora.
Quale potrebbe essere l'impatto sulla politica estera degli Stati Uniti, dato che i dazi sono stati usati come uno strumento per costringere gli altri Paesi a pagare ingenti somme agli Stati Uniti in relazione agli investimenti di capitali in entrata?
È troppo presto per dirlo. Ma nel caso della Cina, Trump e gli Stati Uniti hanno disperato bisogno di arrivare a un accordo. La politica economica di Trump in generale (a meno che non venga buttata all'aria dalla Corte Suprema) segna un cambiamento permanente nel panorama economico e geopolitico. Non si può tornare alla situazione precedente al novembre 2024.
Lo stato di cose un tempo prevalente, interconnesso a livello globale, sta scomparendo: al suo posto sta prendendo piede un nuovo ordine costituito da blocchi economici autonomi, con alleanze interne, catene di approvvigionamento e tecnologie proprie.
In altri settori della politica estera un cambiamento di rotta così radicale è meno probabile, almeno per adesso. I miliardari filosionisti che sostengono Trump non si fermeranno davanti a nulla nel loro impegno a sostegno di uno stato sionista deciso a imporre una Grande Israele fondata nel mezzo di una nuova Nakba.
Nel lungo periodo però la prevalenza della linea filosionista in politica estera non può essere data per scontata. Il sostegno dei giovani statunitensi verso lo stato sionista sta venendo meno. L'AIPAC manterrà la sua presa sul Congresso e Trump ha inequivocabilmente definito se stesso come un sostenitore incondizionato dello stato sionista. Si è aperta una spaccatura fra Trump e la sua base MAGA. E lo stato sionista ha iniziato a intimorirsi al fronte del peggiorare dell'atteggiamento verso lo stato sionista che si sta verificando fra i giovani statunitensi.
Nonostante ci sia di mezzo la ridefinizione dei collegi elettorali nel sud degli Stati Uniti, provocata dalle contestazioni alla legge elettorale del 1965 e che potrebbe dare al Partito Repubblicano dodici seggi in più alla Camera, Trump potrebbe comunque perdere le elezioni di medio termine. Ciò significa che in pratica Trump avrebbe solo un anno di tempo per realizzare il suo programma prima di essere travolto dall'ostruzionismo democratico, dalle indagini o addirittura dai tentativi di impeachment. Evidente quindi perché Trump ha fretta. Naturalmente, potrebbe anche non verificarsi nulla di tutto questo e le classi dirigenti statunitensi (ed europee) potrebbero sprofondare nuovamente nei loro divani, accogliendo con un sospiro di sollievo la possibilità di riprendere il solito tran tran. Ma l'autocompiacimento sarebbe fuori luogo. Il tanto rassicurante vecchio mondo non tornerà più. Anzi, le nuove generazioni sono molto più radicali.

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