Traduzione da Strategic Culture, 12 novembre 2025.
Il segnale di partenza per la corsa alle elezioni di medio termine del 2026 è stato dato questa settimana da tre consultazioni importanti e da un referendum fondamentale sulla ridefinizione dei distretti elettorali, tenutosi in California. I democratici hanno stravinto le tre importanti competizioni elettorali -a New York, in New Jersey e in Virginia- e hanno vinto il referendum sulla ridefinizione dei distretti elettorali in California. La ridefinizione di quei distretti elettorali potrebbe garantire ai democratici cinque seggi in più alla Camera.
Forse l'ottica attraverso cui interpretare quanto successo è quella delle ultime elezioni generali britanniche: il partito al governo era screditato e ampiamente impopolare. L'elettorato britannico voleva dargli una lezione, e così ha fatto. Il problema era che agli elettori non piacevano molto nemmeno i partiti alternativi: solo che per mandare quel messaggio dovevano pur votare per qualcuno. Il Partito Laburista ha ottenuto una maggioranza schiacciante, ma nessun mandato reale. Il nuovo Primo Ministro e il suo partito (a quanto pare) sono ampiamente impopolari quanto lo erano i loro predecessori.
La politica nel Regno Unito è attualmente in crisi. Lo stesso vale in gran parte anche per la Francia.
Quindi, quando i titoli dei giornali dicono che i Democratici hanno "stravinto" le elezioni negli Stati Uniti, probabilmente riflettono la stessa doppia avversione già vista in Europa. I populisti in USA non si curano dell'establishment al potere di entrambi i partiti, perché li considerano come i gemelli di Alice nel Paese delle Meraviglie: "peste vi colga a tutti e due", è la loro risposta. Perché anche i Democratici hanno i loro populisti.
Questa situazione di stallo non è suscettibile di rapide soluzioni. La classe dirigente è profondamente radicata, ed è sotto il controllo dei grandi finanziatori proprio perché le cose rimangano come sono.
Ciononostante, la dinamica populista negli Stati Uniti è inconfutabile e potrebbe presto evolversi al di là della portata delle strutture repressive con cui i grandi donatori intendono controllare il discorso politico.
Le ragioni principali di questa situazione di stallo sono profondamente strutturali, oltre che ideologiche.
Dal punto di vista strutturale siamo in presenza di una crisi che colpisce tutti, tranne il 10% circa in cui si trovano le famiglie più ricche. Il mercato azionario statunitense è entrato in una fase di fantasiosa euforia: i fondamentali non contano, i dati non contano, contano solo il meme del giorno e il come negoziarlo. Quel 10% di famiglie più ricche possiede l'87% di tutte le azioni.
I gradi più bassi della società invece si ritrovano ulteriormente castigati dall'aumento dei prezzi (inflazione) che ha provocato una crisi di fiducia dei consumatori che non si vedeva da decenni. Anche i prodotti di prima necessità rimangono invenduti sugli scaffali dei supermercati.
Le critiche alle politiche di Trump -in particolare sui dazi, dato il loro effetto sui prezzi- hanno notevolmente perso vigore a partire dall'estate scorsa, scrive il Financial Times: Trump ha chiesto allora a Goldman Sachs di licenziare il proprio economista in capo, autore di un equilibrato corsivo sui dazi commerciali che aveva suscitato l'ira del presidente. Tutti zitti. Secondo il Financial Times solo due guru sembrano avere il permesso di dire ciò che pensano: Ray Dalio di Bridgewater e Jamie Dimon di JPMorgan.
A segnare un sostanziale mutamento strutturale di quelli che fanno venire i brividi per l'ansia ai pezzi grossi della finanza, forieri come sarebbero di disordini sociali, è tuttavia un semplice grafico che mostra i prezzi del mercato azionario statunitense in vertiginosa ascesa, che incrociano a un certo punto una traiettoria in forte calo che sta a rappresentare le offerte di lavoro. Un grafico del genere ha il nomignolo di death cross, incrocio mortale.
Questo grafico spiega molto di ciò che si nasconde dietro i risultati delle elezioni in Occidente.
Il punto dell'incrocio, quello in cui le due linee divergono in modo così esplosivo, è indicato come la data di lancio dello strumento di intelligenza artificiale Chat GPT. Il grafico preannuncia quindi una bomba sociale a orologeria. Le grandi aziende prevedono forse che l'intelligenza artificiale si sostituirà in modo massiccio ai lavoratori?
È probabile un simile risultato? Uno studio recente del MIT ha rilevato piuttosto che il 95% delle aziende che hanno investito in strumenti di AI non ha ottenuto alcun ritorno dall'investimento e ne ha concluso che la AI odierna non ha una comprensione degli "ambienti", ma si limita a individuare dei modelli al loro interno.
In entrambi i casi, le prospettive sono cupe: o siamo davanti a un grave errore di valutazione del mercato da parte dei giganti statunitensi della AI -errore che potrebbe innescare un crollo del mercato- oppure le principali aziende statunitensi di AI sono nel giusto quando prevedono un'imminente crollo nel numero dei posti di lavoro, sostituiti dai loro prodotti. Qualunque sia la verità, le implicazioni politiche sono enormi.
Giusto o sbagliato che sia il loro giudizio, la realtà è che i primi quattro investitori statunitensi nel settore della AI prevedono di investire 420 miliardi di dollari in infrastrutture il prossimo anno. Il "padrino della AI" Geoffrey Hinton afferma che un tale livello di spesa può essere giustificato solo dalla sostituzione degli esseri umani: "Penso che le grandi aziende stiano scommettendo sul fatto che l'intelligenza artificiale causerà una massiccia sostituzione di posti di lavoro, perché è lì che andranno a finire le grandi cifre... Credo che per fare soldi si dovrà sostituire la manodopera umana".
Giusto per chiarire, Trump ha proprio scommesso sul dominio degli Stati Uniti nell'intelligenza artificiale globale: "Se guardate a un paio d'anni nel futuro, vedrete cose che non avete mai visto prima. Stiamo costruendo alcuni degli edifici più grandi mai realizzati al mondo: gli edifici dell'intelligenza artificiale".
Tuttavia, l'amministratore delegato di Nividia ha dichiarato al Financial Times che la Cina supererà gli Stati Uniti nel campo dell'intelligenza artificiale, e Open AI sta cercando di ottenere una garanzia di prestito dal governo.
La crepa, in questo caso, è data dal fatto che non esiste un'unica economia statunitense o un'unica economia europea. Esistono due economie ben distinte: una cornucopia finanziarizzata da un lato e un impoverimento strutturale dall'altro. Due cose che non si incontrano. L'Occidente ha investito troppo dalla parte della cornucopia per poter cambiare le cose in breve tempo; vorrebbe dire rovesciare ogni cosa dalle fondamenta.
Se così fosse, Trump rischierebbe grosso e le elezioni di medio termine di novembre negli Stati Uniti potrebbero essere difficili. Le prospettive sono quelle di una intrinseca instabilità. La bolla dell'intelligenza artificiale potrebbe scoppiare in qualsiasi momento e innescare una svendita sui mercati. Anche la Corte Suprema degli Stati Uniti potrebbe decidere che il forte ricorso di Trump ai dazi doganali, sia come strumento geopolitico che come fonte di entrate per colmare il deficit del bilancio federale, sia da considerarsi parzialmente o totalmente incostituzionale.
Trump ha dichiarato che, se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali i suoi dazi, "rimarremmo indifesi, cosa che potrebbe portare addirittura alla rovina della nostra nazione".
Per Trump anche a livello di base elettorale le prospettive sono incerte: questa settimana i sostenitori del MAGA hanno disertato le urne, rimanendo a casa o passando al Partito Democratico.
Alla base del disincanto del movimento MAGA ci sono sia la sperequazione economica sia – sulla scia dell'uccisione di Charlie Kirk – una spaccatura sempre più ampia tra i sostenitori del MAGA e la cerchia dei grandi finanziatori favorevoli allo stato sionista. La stretta identificazione di Trump con Netanyahu e con lo stato sionista dal punto di vista elettorale si è dimostrata un accostamento perdente. Eppure, questo è l'unico campo in cui –cosa unica- Trump non è semplicemente transazionale. In questo caso agisce, parla –e passa dalle parole ai fatti- comportandosi come un sionista zelante.
Il grosso dubbio è questo: Trump riuscirà a ridefinire se stesso, davanti alla chiara indicazione che rischia di perdere le elezioni di metà mandato? Se non riuscirà a ricalibrare la sua posizione, dovrà affrontare un'annata al termine della quale potrebbe trovarsi sotto inchiesta da parte della Camera o addirittura sotto impeachment, e con gli Stati Uniti che entrano in una fase di turbolenza politica ed economica.
Le opzioni di Trump non sono molte: non gli sarà permesso mettere in discussione il radicato orientamento in politica estera per cui i finanziatori pagano, e che è in vigore da quattro decenni: sostegno incondizionato allo stato sionista e ricorso illimitato all'inziativa militare ovunque qualcuno si rifiuti di allinearsi alle posizioni degli Stati Uniti e dello stato sionista o non accetti di sottostare alla supremazia commerciale del dollaro.
Anche il sostegno all'intelligenza artificiale, considerata da gran parte del movimento MAGA come "orwelliana", non è vincente in termini di suffragi. A prevalere in futuro -sia negli Stati Uniti che in Europa- sarà chi riuscirà a persuadere gli elettori di potere e di volere fornire soluzioni alle contraddizioni strutturali che stanno attentando al benessere del corpo elettorale.
Se Trump dovesse essere sconfitto alle elezioni di metà mandato del prossimo anno, non assisteremo certo al ritorno alle politiche neoliberiste degli ultimi quarant'anni. Nessun candidato negli Stati Uniti o in Europa può più aspettarsi di vincere con un programma elettorale a favore della globalizzazione o con cose come Diversità, Equità e Inclusione. Questo è ovvio. E se le soluzioni politiche vengono vietate (o manipolate) dai ceti dominanti, ecco che quella dell'insurrezione diventa una prospettiva concreta.
Conclusione? La politica estera di Trump dovrà affrontare problemi per via dello stato sionista -che esaspera il malcontento dei sostenitori del MAGA- sia per via dell'Europa. La tecnocrazia della élite europea continua a negare il fatto che i suoi elettori la considerano malaccorta e fallita. La sua fiducia nel fatto che alla prevista sconfitta di Trump nelle consultazioni di metà mandato seguirà un qualche "ritorno all'ordine" è alla base della sua tecnocratica reazione, che altrimenti non troverebbe sbocchi.
Per prendere politicamente le distanze dalla incombente sconfitta in Ucraina, lo establishment europeo confida di poter reprimere con la forza il dissenso e di controllare ancora di più la narrativa dei media. La russofobia è il suo monocorde grido di battaglia e possiamo aspettarci ulteriori provocazioni nei confronti della Russia. Si spera -ancora-di dimostrare che fin dall'inizio si aveva ragione a dire che la Russia è davvero una minaccia. Le élite possono anche crederci, ma i loro elettori no, nonostante lo strapotere della "estonite", come è stata a volte definita "la coda baltica che muove il cane che è l'Unione Europea".
L'ordine di Trump è intrinsecamente instabile. Di fronte all'evidente declino occidentale, Trump naviga imperterritamente controcorrente, cercando di far rivivere l'età dell'oro dell'AmeriKKKa. Ma quell'epoca, sempre che sia mai esistita, non tornerà più. È finita; il movimento MAGA sta ritrovando i suoi valori più nell'eredità di Pat Buchanan che nel mondo di Bush e Cheney.
Quando l'equilibrio su cui si fonda un dato ordine viene sconvolto oltre un certo punto, quando i giovani si ribellano alle illusioni e iniziano a cercare qualcosa di nuovo che sostituisca i modelli logori del passato... ecco, il momento è come quello in cui si attende una nuova era.
Ecco dove ci troviamo. In attesa.


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