Alla fine di maggio 2015 Enrico Rossi è stato rieletto con largo suffragio governatore della Toscana.
Mesi fa aveva pubblicato sul solito Libro dei Ceffi questa immagine, che lo ritraeva in mezzo ad altre persone. La feccia "occidentalista" ebbe all'epoca reazioni che ci accontenteremo di definire premestruali, e che sono di per sé motivo sufficiente a riproporre la stessa foto ancora una volta.
Si riporta da
Carmilla on line una serie di scritti che confutano alcuni tra i luoghi comuni più insistiti della propaganda "occidentalista" e della "libera informazione", che ad ogni scadenza elettorale operano al meglio dei propri mezzi secondo copioni logori ma evidentemente privi di alternative. Alberto Prunetti commenta per suo conto la situazione in modo piuttosto salace; non abbiamo molto da aggiungere ad un tema che i nostri lettori conoscono bene. Diremo soltanto che in linea di principio ognuno ha quello che si merita; fino a qualche anno fa, nello stato che occupa la penisola italiana la propaganda insisteva su "classifiche" che lo consideravano settima, sesta o quinta "potenza economica" mondiale. I temi -e i tempi- sono molto cambiati. Se escludiamo l'imperversare ciarliero dei "primi ministri", non si va oltre il tema unico che consiste nella presentazione delle recite di
un divorziato che fa il contazzìngari in felpetta esibendosi esclusivamente su palcoscenici a rischio calcolato.
Più in là non si va, neppure con la propaganda. E nessuno vi trova niente di strano.
In tutto il testo riportato ricorre più volte il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come d'uso con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Alcuni anni fa, nel 2007, durante l’ennesima emergenza mediatica contro rom e sinti, scrissi un ciclo di articoli di debunking, di sgonfiamento delle “panzane antizigane”, a partire dalla più calunniosa di tutte, quella relativa ai presunti furti di bambini.
Da allora le strategie mediatiche non si sono perfezionate e rimangono grossolane, oggi come ieri. Gli imprenditori della paura sono pressoché gli stessi, come i loro obiettivi (i rom “dei campi”, i criminali “delle periferie”, i migranti “dei barconi”). Pertanto mi limito a riproporre quegli articoli, che vanno letti contestualizzandoli alla cronaca del 2007. E riattualizzandoli ai nostri giorni. Esercizio salutare che dimostrerà come nulla sia cambiato. Anche il merito di quelle accuse non è cambiato, perché la strategia paga. Atto primo: si sollecita l’ansia dei ceti medi proletarizzati e la rabbia dei cittadini sempre più impoveriti dei quartieri ghetto. Atto secondo: si spande rabbia e oltranzismo di fronte alle telecamere evocando ruspe che il buon politico, a cui si porge continuamente il microfono, non saprebbe neanche mettere in moto. Atto terzo: chi vuole confortare i cittadini sul proprio senso civico agita il fantasma dello spaventapasseri di turno, si propone come mediatore pieno di sobrietà e vince le elezioni. Il gioco è vecchio ma ben congegnato. Intanto i seggi elettorali chiudono e l’emergenza securitaria rientra nel garage della propaganda, mentre i rom continuano a vivere nelle più misere delle condizioni sul suolo europeo.
Non aggiorno gli articoli ma, visto che possono risultare utili per smontare luoghi comuni e pregiudizi, li raccolgo qui di seguito, sperando che contribuiscano a ingrippare la macchina di propaganda razzista che accompagna ogni passaggio elettorale.
Suggerisco solo, a corredo di queste righe e per contestualizzare certe campagne allarmistiche, un gran bel saggio di Serge Quadruppani sulle logiche securitarie, il loro uso politico, l’enfasi con cui si raccontano i crimini di cronaca in un programma di imprenditoria dell’insicurezza:
La politica della paura.
Quanto alla mia piccola inchiesta, le prime tre parti si riferiscono soprattutto alla questione dei bambini. L’ultima, che è forse la più efficace, analizza una serie complessiva di pregiudizi antizigani.
Buona lettura.
I - I ladri di bambini (11 dicembre 2007)
[Pubblico la prima parte di questo articolo mentre i telegiornali lanciano l’ennesimo scoop su una presunta organizzazione rom dedita allo sfruttamento dei bambini. Non conosco ancora la vicenda nel merito, ma sappiamo, da altri episodi, qual è la manipolazione sensazionalistica che si cela dietro a operazioni di polizia di questo tipo. Non posso nascondere il fatto che le condizioni in cui molti bambini rom vivono siano obiettivamente negative e disumane. Il problema è che le istituzioni per queste condizioni incolpano i rom e la loro cultura, e non se stesse, che di queste condizioni sono responsabili. Se avremo notizie sugli episodi di cui oggi parlano i telegiornali — e per notizie intendo qualcosa di più del frettoloso rimpasto delle veline della questura — interverremo anche nel merito dell’episodio in questione. Per ora basterà leggere le righe che seguono per vedere come lanci giornalistici simili si sono dimostrati operazioni di criminalizzazione volte ad alimentare lo stereotipo del rom ladro, infingardo, sporco e pericoloso per il benessere dei suoi stessi figli.]
Lo scopo di questo articolo è quello di rimettere in discussione e confutare alcuni luoghi comuni su rom e sinti. In particolare verranno esaminati alcuni asserti che il senso comune dà per assodati e che i media contribuiscono a radicare. Si vedrà che molti di questi giudizi nascono dalla necessità di creare un allarme sociale e da un diffuso pregiudizio e non sono confermati da dati concreti. Più avanti vedremo anche che una serie di paletti giuridici permettono di sovrarappresentare statisticamente i medesimi luoghi comuni. Ho diviso questo articolo in tre parti. Nella prima parte analizzerò il luogo comune secondo cui i rom rubano i bambini. Vedremo che questa asserzione è decisamente confutabile nella prima parte del mio intervento e si vedrà nella seconda parte che la verità è — purtroppo e molto spesso — il contrario di questa menzogna: andando per generalizzazioni, sarebbe più realistico dire che gli italiani “rubano” i bambini dei rom. Infine, nella terza parte prenderemo in discussione altri luoghi comuni: il fatto che i rom delinquono più degli italiani, che non mandano i bambini a scuola, che vogliono vivere come nomadi nei campi.
Prima di tutto voglio spiegare quale coincidenza mi ha spinto a scrivere queste righe. Mi ritrovo una sera in una cena a casa di un amico, ci sono altri conoscenti e alcune persone mai viste. Arriva Teresa, una ragazza piccola e scura, dall’aria fricchettona, con capelli ricci e abiti molto colorati. Con lei c’è anche una bambina: biondissima e cogli occhi azzurri, sembra nordeuropea. So che la ragazza fa l’educatrice e penso che la bambina sia la figlia di qualche amica o una delle bambine con cui lavora. Invece rimango sorpreso quando la bambina la chiama mamma. Ovviamente la genetica gioca a dadi, ma i carabinieri scherzano di meno. Teresa intuisce le ragioni del mio stupore e mi racconta di aver passato un brutto quarto d’ora con le forze dell’ordine: l’hanno fermata in auto per un normale controllo. Ovviamente non aveva i documenti della bambina: prima di quindici anni non si fanno di solito i documenti, se non si viaggia all’estero. I carabinieri hanno incalzato la ragazza, accusandola di essere una “zingara” e di aver rubato la bambina. L’equivoco alla fine è stato risolto, ma rimane un dubbio inquietante: cosa sarebbe successo se la mamma scura, ricciola e fricchettona, fosse stata veramente una rom? In assenza di un certificato di nascita della piccola (elemento comune a tanti genitori rom), la bambina sarebbe stata probabilmente portata via dalla propria mamma e Teresa sarebbe stata sbattuta sulle prime pagine dei giornali come ladra di bambini. Certo, il fatto sarebbe forse stato spiegato dopo qualche giorno, e allora avrebbe goduto del risalto che può dare un trafiletto in una cronaca locale. Nelle convinzioni delle persone, rimarrebbe confermato lo stereotipo: i rom rubano i bambini.
Cominciamo a ragionare su questa asserzione, a partire dai dati ufficiali: non esiste alcun riscontro, nei dati diffusi dalla polizia di stato, di casi di minori italiani rapiti da rom. È una bufala, una leggenda metropolitana, come quelle diffuse durante il ventennio sugli ebrei e serve solo per alimentare l’odio nei confronti di questa minoranza. Da fonti Reuter, e sulla base dei dati forniti dalla polizia di stato, i minori scomparsi in Italia nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni) sono stati “portati via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini stranieri, sono casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile assieme al figlio. (vedi
qui)
Per quanto riguarda i minori di età tra i 10 e i 14 anni e tra i 15 e i 17 anni, prevalgono tra gli italiani i casi di ragazzi allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori (in questi ultimi casi qualche romantico parlerebbe non di rapimento, ma di evasione, per intenderci).
A questo punto l’obiezione classica è questa: “”ma io mi ricordo di almeno un caso visto al telegiornale di una rom che si è portata via un bambino sotto la gonna”… del resto, si sa, ce l’hanno insegnato a scuola le maestre: “Bambini, state attenti, ci sono gli zingari…. portano via i bambini”. Beh, prendiamo in esame alcuni casi recenti, che hanno un valore esemplare.
Lecco, 14 febbraio 2005. Tre donne rom rumene sono accusate di aver tentato di rapire un bambino. Una donna le ha denunciate: secondo le sue dichiarazioni due rom si sono avvicinate mentre lei camminava per strada spingendo il passeggino. La donna dice di aver sentito dire a una “prendi bimbo, prendi bimbo”. A quel punto la madre italiana si è messa a gridare, ha preso il bambino in braccio e ha dato un calcio a una rom per allontanarla. Le tre rom sono state arrestate poco dopo, mentre passeggiavano tranquillamente vicino alla Caritas. Due erano maggiorenni e sono state immediatamente portate davanti a un giudice, l’altra, minorenne, non può secondo l’ordinamento italiano essere giudicata per direttissima. Le due donne avevano due opzioni, secondo l’avvocato d’ufficio: dichiararsi innocenti, rimanere in carcere e aspettare a lungo un processo, per poi provare a chiarire le circostanze, col rischio di ricevere comunque una pesante condanna; in alternativa, dichiararsi colpevoli, chiedere il patteggiamento della pena (una pratica tipica di molti immigrati che non possono ottenere avvocati a pagamento o aspettare i processi fuori dal carcere) e sperare in una condanna leggera, ammortizzata dalla condizionale. Le due rom hanno patteggiato, sono state condannate a otto mesi: pena sospesa con la condizionale in assenza di precedenti.
Questa condanna ha scatenato un’eco di sdegno patrio: giornali e telegiornali hanno riportato le dichiarazioni di politici, di Presidenti di istituzioni, di rappresentanti di Osservatori per i minori. Tutti inferociti per il lassismo della giustizia italiana, invocavano a pieni polmoni la famosa Tolleranza zero, mentre la Lega Nord ricopriva di volantini la Lombardia, sotto la consegna “giù le mani dai nostri bambini”.
Peccato che le donne erano innocenti, e la loro innocenza è stata dimostrata nel momento in cui la terza rom, quella minorenne, ha subito un processo senza dichiararsi colpevole davanti al Tribunale dei minori. Secondo quanto dichiarato dal PM, “…il contesto in cui si è svolto, […], il fatto che la piccola nomade che ha allungato le mani verso il passeggino tenesse in una un bicchiere per le elemosine, che le zingare non siano scappate…[…] ci fa ipotizzare ad (sic) una forma di minacce e nulla più”. Nessuno si è scusato per quello che le donne rom hanno passato, o per il fatto che le due che hanno patteggiato non hanno ricevuto una difesa legale decente.
Mazara del Vallo, settembre 2004. Denise Pipitone, tre anni, scompare misteriosamente. Il fatto ha una enorme eco mediatica e si fanno ipotesi diverse. Un mese dopo a Milano una guardia giurata vede al mercato una bambina che gli ricorda Denise (vista in foto sui giornali), assieme ad alcune “nomadi”. L’uomo scatta alcune foto col suo cellulare e sporge denuncia. Dopo qualche tempo la polizia identifica la bambina della foto con l’aiuto di alcuni rom rumeni. Si tratta neanche di una bambina, ma di un bambino rom, figlio di una coppia che vive in un campo milanese. La notizia (anzi: la smentita) non viene passata ai giornali, perché riservata a fini investigativi. Nonostante questo nel marzo 2005 i giornali scrivono ancora che la madre di Denise è sicura del fatto che la bambina fotografata dalla guardia giurata sia Denise. Sulla base di una notizia che la polizia conosce come falsa, i campi nomadi italiani sono di nuovo perquisiti (Cfr. L’Arena, 24 marzo 2005).
Milano, 21 aprile 2005. Giornali e televisioni lanciano la notizia del rapimento di un bambino rom rumeno, prelevato da alcuni rom dall’interno del Centro per i Bambini Maltratti (CBM) di via Spadini. Stefan, questo il nome del bambino, era stato preso sei mesi prima dai carabinieri, che lo avevano trovato mentre dormiva sotto un albero. I genitori non avevano potuto vederlo e secondo i giornali il bambino era oggetto “di violenze subite in famiglia” (Repubblica, 23 aprile 2005). Il 28 aprile Stefan viene individuato dalla squadra mobile in casa di una persona che si è offerta come mediatore. Il ragazzo è tranquillo e vicino ai familiari, ma i giornali titolano: “Fine dell’incubo” (Il Corriere della sera, 29 aprile 2005). Il Tribunale dei Minori stabilisce il 5 maggio che il bambino dovrà tornare al CBM, ma che può vedere con regolarità i genitori, secondo i suoi desideri. Infatti Stefan, — ci ricorda il legale della famiglia, Stefano Cozzetto — “non ha mosso alcun addebito ai genitori, né di natura sessuale né di altro genere”.
Palermo, luglio 2007 La notizia dell’arresto di M. F., una “nomade” di 45 anni, compare su tutti i telegiornali italiani come lancio d’apertura. La donna è accusata del tentato rapimento di un bambino di tre anni su una spiaggia siciliana. Interrogata, in un primo momento si rifiuta di rispondere alle domande (forse mal consigliata dagli avvocati), e questo fatto alimenta i sospetti su di lei. In pochi giorni la situazione viene chiarita. La principale testimone a suo carico è una donna che stava in spiaggia e che ammette candidamente agli inquirenti “di essere terrorizzata dagli zingari”. La donna italiana ha visto la rom, ha avuto paura e si è messa a strillare. In seguito ha ammesso di aver avuto solo “la sensazione” che M.F. volesse portar via il bambino. In realtà il bambino stava correndo, M.F. si è piegata verso di lui e la sua gonna si è un po’ aperta. Interrogata dagli inquirenti, la testimone (e unica accusatrice), ha ritratto l’accusa. La stessa azione, compiuta da una bagnante italiana, sarebbe stata considerata come un atto di premura e gentilezza: compiuta da una rom, è diventata un tentativo di rapimento che è finito sulle prime pagine dei giornali. Ancora oggi, a distanza di qualche mese, ho provato a citare vagamente l’episodio parlando con alcuni conoscenti: tutti si ricordano il “tentato rapimento”, ma la notizia della scarcerazione di M.F. e la sua innocenza è stata trasmessa con minore enfasi e quasi nessuno ha saputo raccontarmi l’episodio in tutta la sua integrità. Nell’immaginario collettivo, un altro bambino è stato rapito dagli zingari. Eppure non è vero.
Episodi come questi sembrano utilizzati ad arte per rinsaldare stereotipi negativi e per creare campagne d’allarme che radicalizzano l’odio contro i rom e preparano degli scenari dal punto di vista giudiziario e repressivo sempre più pesanti: per gli immigrati come per i cittadini italiani.
In questa prima parte abbiamo riportato alcuni casi importanti e noti, oggetto di campagne mediatiche allarmistiche e approssimative. In questi casi si è data enorme evidenza all’ipotesi del rapimento da parte dei rom — spacciato come una verità incontrovertibile — e si è dedicato solo uno spazio minore (privo di valore euforizzante: nei trafiletti della cronaca locale, ad esempio) alle smentite. In questo modo l’opinione comune, invece di destrutturare il pregiudizio sui rom ladri di bambini, ha visto rinsaldata quest’immagine anche in presenza di evidenze contrarie.
Nella seconda parte dell’articolo prenderemo in considerazione l’altra metà del problema, quella che forse è la verità celata dai media. Il fatto che molti bambini rom sono “portati via” dagli italiani.
Prima vorrei tornare a parlare della bambina bionda e della mamma scura, incontrate per caso in una cena. Mentre tutti sono rimasti scandalizzati per la mancanza di sensibilità dei carabinieri, a me è venuto da dire che questo era un esempio di una tremenda prassi di criminalizzazione dei rom. Non l’avessi mai fatto: un tipo che non conoscevo ha iniziato a dire che i rom sono gente che non hanno né patria né bandiera e che — pertanto? – rubano i bambini. Ora: al di là del fatto che almeno una bandiera ce l’hanno, e al di là del fatto che di solito è proprio chi ha una patria e una bandiera che poi commette i peggiori crimini contro l’umanità, aldilà di tutto questo a me sembrava evidente che l’episodio appena raccontato a tavola fosse un esempio di una costruzione immaginaria di un crimine. Una montatura insomma mal riuscita, perché l’indiziata aveva un alibi che reggeva: era italiana. Eppure, proprio di fronte a un’evidenza contraria, quell’episodio ha infiammato gli astanti e non è mancato chi si lamentava della cattiveria “degli zingari”. Neanche l’evidenza, o il disvelamento della menzogna, riesce a dissipare le nebbie del pregiudizio razziale e i luoghi comuni consolidati. Vediamo se la realtà ci fornisce qualche elemento per raccontare una storia interessante: gli italiani “rubano” i bambini dei rom. È un paradosso, perlomeno rispetto al luogo comune che inverte i poli del crimine, sicuramente una generalizzazione. Eppure, secondo alcune stime, ci sono stati almeno 500 casi di bambini rom “portati via” negli ultimi venti anni, in Italia.
II - Chi ruba i bambini Rom? (16 dicembre 2007)
Nella prima parte dell’articolo ho messo in discussione l’idea che i rom rubino i bambini italiani. La seconda parte insiste nella sua pretesa di paradossalità rispetto al senso comune. Non solo non sono i rom a rubare i bimbi italiani: sono gli italiani a rubare i bambini ai rom. Secondo alcune stime si possono contare 500 casi registrati negli ultimi venti anni. Una statistica più dettagliata è in corso d’opera presso una università veneta, ma ancora non se ne conoscono i risultati.
In genere i rom perdono i loro bambini sullo sfondo di due contesti diversi.
a) un primo scenario (più inquietante, probabilmente raro ma su cui non c’è molta documentazione) riguarda alcuni casi di bambini rom nati in ospedali italiani, tolti alle madri in seguito al mancato riconoscimento, o dopo degenze troppo lunghe e in assenza di visite periodiche dei familiari. Tratterò il punto a) nelle righe che seguono.
b) un secondo scenario (ampiamente diffuso e documentato) è quello dei bambini già più grandi, sottratti ai genitori con la scusa che questi non garantiscono le necessarie cure (abitative, scolastiche, etc.). Al punto b) sarà dedicato il prossimo capitolo.
Gran parte del quadro giuridico e degli episodi che cito in questo capitolo si riferiscono agli anni Novanta e può darsi che la situazione sia cambiata, però i disastri nelle vite dei rom prodotti da queste leggi si fanno sentire ancora oggi.
La legge italiana — o almeno quella valida negli anni Novanta, quando si sono registrati i casi indicati di seguito – prevede che il riconoscimento del figlio avvenga entro dieci giorni dalla nascita. La denuncia di riconoscimento deve essere presentata dai genitori, o da un delegato, alla presenza di due testimoni, tutti con documenti d’identità validi. Per gli stranieri, oltre a un passaporto valido, è necessario un nullaosta al riconoscimento, da presentarsi sempre entro dieci giorni, che viene rilasciato dalle autorità consolari del loro paese di origine. Genitori minori di sedici anni non possono riconoscere in alcun modo il loro figlio.
Questa legge ha posto una serie di problemi ai rom: ad esempio, spesso i rom si sposano e hanno figli prima dei sedici anni (tra l’altro il costume dei rom prevede un matrimonio non riconosciuto dalle autorità civili, e questo crea difficoltà non solo nel riconoscimento dei neonati, ma anche nelle ricongiunzioni familiari e nei colloqui in carcere); molti rom provenienti dalla ex Jugoslavia negli anni Novanta non avevano un passaporto valido o avevano difficoltà a rinnovarlo, per mancanza di uffici consolari o per l’alto costo dei rinnovi; per la stessa ragione, e per l’inefficienza degli uffici consolari, è difficile per i rom produrre, entro dieci giorni dalla nascita del bambino, il nullaosta al riconoscimento.
Ad ogni modo, passati dieci giorni, senza il passaporto e il nullaosta è impossibile riconoscere il proprio bambino, anche di fronte all’evidenza del parto o alla testimonianza del personale medico.
Cosa succede dopo il decimo giorno? Il bambino è dichiarato in stato di abbandono e il Tribunale dei Minori può decidere: a) di affidare il bambino alla madre (se maggiore di 16 anni) o a un parente affidabile e controllabile; b) se affidare un bambino prima a un istituto, poi a una famiglia non rom, e infine darlo in adozione.
La paura di perdere i bambini in alcuni casi ha spinto i rom a evitare di rivolgersi alle aziende ospedaliere italiane, partorendo i bambini nelle roulotte, in condizioni igieniche pericolose. Questo in realtà produce un circolo vizioso da cui si esce con difficoltà: i bambini nascono già clandestini e ricevono talvolta dei documenti falsi. La loro scoperta induce il solito clamore mediatico sulla presenza di bambini rapiti, che poi spesso non sono altro che bambini rom non dichiarati, nati nelle roulotte. Il dilemma per i rom che vivevano negli anni Novanta in Italia era quindi: rischiare di far nascere un bambino in un ospedale, con la possibilità che, in caso di clandestinità dei genitori, il bambino sia affidato a un istituto; oppure farlo nascere nei campi, cioè nei ghetti, col problema che il bambino diventa ipso facto sans papiers e i genitori rischiano di essere sbattuti nei telegiornali come ladri di bambini. Con queste premesse legislative, si finisce in una impasse da cui non si esce.
A queste difficoltà ne va aggiunta un’altra: il fatto che i bambini rom possono portare dei cognomi diversi da quelli dei genitori. Questo dipende da più variabili: se chi fa il riconoscimento è il padre, se la madre, o altri parenti; se il riconoscimento avviene in Italia o nei paesi balcanici. Ad esempio, mi è stato fatto notare che il codice di famiglia rumeno permette di dare al figlio il cognome che la madre aveva prima del matrimonio. A questo si aggiunge il caso di rom con documenti scritti con caratteri cirillici, o con una combinazione, almeno nei nomi propri, di caratteri cirillici e latini, che dà luogo a tutta una serie di problemi di traslitterazione. Il risultato è che gli agenti di polizia tendono ad innervosirsi quando incontrano bambini rom che hanno cognomi diversi da quelli degli adulti che sostengono di essere i genitori: eppure è una questione che si spiega facilmente considerando tutti gli elementi detti sopra.
I rapporti tra rom e ospedali italiani sono talora difficili anche per un’altra ragione. Talvolta i rom, coscienti delle difficoltà per i bambini ammalati di trascorrere l’inverno in una baracca di lamiera non riscaldata, lasciano i loro figli negli ospedali, anche per problemi non gravi, per periodi lunghi. Per quel che sostengono alcune donne rom, ci sono ospedali che comprendono le loro difficoltà e chiudono un occhio su questa pratica, permettendo ai bambini di sopravvivere nei giorni più rigidi. Se però la permanenza si fa lunga e le visite dei genitori rare, l’ospedale deve avvertire le autorità competenti, che possono emanare un decreto di abbandono, affidando allora il bambino prima in un istituto, e poi in affidamento a una famiglia, che è l’anticamera dell’adozione.
Molte donne rom hanno perso i bambini così. I servizi sociali degli ospedali non conoscono bene la cultura rom, e soprattutto non hanno ben presente la loro situazione qui in Italia: le madri che lasciano i bambini in ospedali non sono spesso nomadi, tutt’altro: talvolta sono impedite nei movimenti dalle autorità di polizia, altre volte sono obbligate a una sorta di nomadismo coatto: incorrono in fogli di via, in traslocazioni forzate in luoghi lontani dalle città, in pratiche che le impediscono di fare ritorno negli ospedali. Alcune volte le donne rom vengono incarcerate, anche per tempi molto brevi, magari venti giorni di condanna per direttissima per un furto di un pezzo di cacio in un supermercato (un reato che non vedrebbe mai un italiano o un non rom finire dietro le sbarre): quando la donna esce si trova in mano un foglio di via, e ci vogliono settimane prima che possa tornare a visitare il figlio all’ospedale (magari infrangendo un divieto amministrativo di allontanamento dal territorio comunale emanato arbitrariamente dai vigili urbani al momento dell’uscita dal carcere). Può capitare che, dopo il carcere e il foglio di via, la rom arrivi in ospedale e scopra che il suo bambino non c’è più. In queste circostanze diventa difficile per i rom fermare le pratiche di affidamento/adozione, considerato anche l’analfabetismo di molte coppie, che hanno difficoltà a interagire con la burocrazia italiana né possono rivolgersi facilmente ad avvocati a pagamento.
Riassumendo, i problemi che possono insorgere negli ospedali italiani sono di due tipi: mancato riconoscimento e dichiarato abbandono per degenza troppo lunga e non intervallata da visite periodiche. Il risultato, in una serie di casi è l’affidamento del minore. A quel punto spesso è difficile riuscire a recuperare il bambino per le famiglie rom, anche perché una volta che il bambino è affidato i genitori naturali non possono conoscere la sua residenza.
A questo scenario bisogna segnalare un caso diverso, e più inquietante, che mi è stato segnalato da Piero Colacicchi, presidente della onlus OsservAzione che da anni si batte contro la discriminazione ai danni dei rom. Secondo Colacicchi, “una quindicina di anni fa apparve evidente che a troppe famiglie rom dimoranti nel circondario di Firenze veniva reso difficile iscrivere i loro neonati all’anagrafe, neonati che poi venivano dichiarati in stato di abbandono e quindi in necessità di adozione”. A quel punto alcune infermiere di un ospedale fiorentino furono citate in giudizio. I termini esatti dell’imputazione non si conoscono, ma si trattava, nelle parole di Colacicchi “di aver presentato come così complesse le pratiche di iscrizione all’anagrafe da rendere tale iscrizione impossibile nei termini di legge.” Il processo però non venne mai celebrato ed il reato cadde in prescrizione.
Quest’ultimo caso è addirittura esorbitante, ma già la norma di legge, se non è cambiata negli ultimi anni, non riesce a tutelare i minori rom. Anzi: negli anni Novanta li ha posti in una situazione allucinante. Vedremo nel prossimo capitolo che la situazione ai nostri giorni non è più rosea: forse negli ospedali la situazione non è più tanto grave, ma ancora adesso i bambini dei rom vengono sottratti ai loro genitori, sulla base dell’idea che i rom non si preoccupino delle loro condizioni di salute, o della loro formazione scolastica, o si divertano a farli dormire all’addiaccio. Nel prossimo capitolo ci occuperemo di questa situazione, dimostrando che nasce da un’urgenza ipocrita: coloro che vogliono tutelare i piccoli rom sono gli stessi che il giorno prima li hanno sbattuti per strada, distruggendo con le ruspe le loro abitazioni di fortuna.
III - Il caso L.S.C. (19 dicembre 2007)
Firenze, piazza della stazione di Santa Maria Novella. Sono circa le 23 del 5 ottobre 2007. I vigili urbani che pattugliano la zona, abituale ritrovo di tanti immigrati costretti a dormire all’aperto, identificano una coppia di rom rumeni, D.S. e D.S., e la loro bambina, L.S.C. La polizia municipale diffida il padre “a tenere la propria figlia L.S.C. in uno stato di disagio costringendola a dormire, durante tutto l’arco della giornata, all’aperto e allevandola conseguentemente in luoghi insalubri e pericolosi.” Il padre della piccola rom viene anche avvisato che “nel caso la bambina fosse rintracciata dagli organi di polizia continuamente in uno stato di disagio gli stessi, ai sensi dell’ art. 403 c.c., provvederanno a collocare la minore L.S.C. in un luogo sicuro[…]”
Ma qual è la storia di questa coppia di rom che è costretta a vivere per strada?
D.S. e D.S. — padre e madre hanno nomi diversi ma le stesse iniziali — arrivano un giorno a Firenze dalla Romania. Una coppia di trentenni in fuga dal loro paese, stanchi di soffrire la fame, di lavorare per i vari padroni di turno, molti dei quali italiani, un mese sì e tre no, in cambio di quattro spiccioli. Un giorno preparano sacchi e valigia e coi loro due bambini, il maschio più grandicello e la piccola, nata nel 2002, arrivano nel capoluogo toscano. Comincia una vita ancora più difficile, appoggiati a situazioni di fortuna, nella periferia fiorentina. Le loro condizioni attirano l’attenzione degli assistenti sociali, che invece di darsi da fare per fornire, come si fa nella maggior parte dei paesi europei, un aiuto all’alloggio e un sussidio, cominciano a togliere alla coppia il figlio maggiore, che viene trasferito in una comunità in provincia di Arezzo.
Intanto il padre, attraverso il tam-tam dei migranti, riesce a inserirsi nel giro dei lavavetri. Il lavoro ai semafori è integrato da un’altra attività precaria: D.S. è bravo con la fisarmonica, e la sera gira per i ristoranti per ottenere qualche euro dai turisti. Ma, in attuazione dell’ordinanza del sindaco Domenici contro i lavavetri, i vigili urbani gli sequestrano lo spazzolone col secchio. Gli rimane ancora la fisarmonica e con questa continua per un po’ a suonare per i ristoranti. Peccato che a Firenze ci sono tanti intrattenitori di successo e un intrattenitore abusivo non serve a niente: gli portano via anche la fisarmonica.
Eccolo qui il sogno italiano di questo rom rumeno, costretto a vivere ormai di elemosina con moglie e figlia appoggiate contro il muro della stazione. Finora gli italiani gli hanno portato via un figlio, lo spazzolone, la fisarmonica. Ma non è finita. Dopo quella sera del 5 ottobre, gli portano via anche L.S.C., la bambina più piccola: prima “tradotta” presso il Centro Sicuro di Firenze e in seguito spostata in un luogo segreto.
Nonostante il dolore e i pochi mezzi, i genitori non si danno per vinti. Devono sbrigarsi ed evitare altri colpi della sfortuna: dovessero ricevere in base al decreto Amato un’ingiunzione di allontanamento dal territorio nazionale, i servizi sociali avviserebbero il Tribunale dei Minori del fatto che i genitori non si sono curati di ricercare la bambina e dopo cinque o sei mesi L.S.C. verrebbe data in adozione. Attivano alcuni canali. Grazie a una associazione di volontariato vengono a sapere che la bambina è stata trasferita in provincia di Grosseto. Si muovono anche dei loro amici rom che vivono sul territorio maremmano. Alla fine scoprono che L.S.C. si trova in un istituto nei pressi di Follonica.
A questo punto l’associazione di volontariato aiuta i genitori a ottenere un colloquio col Tribunale dei Minori. Per ora il primo risultato è stato che la bambina, accompagnata dal personale dell’Istituto, è stata condotta a Firenze, per un colloquio coi genitori di due ore. Poi via: ritorno nella prigione maremmana.
“Troppo bella per essere una zingara”. Questo caso non è una eccezione. Potrei citarne altri, ma sarebbe un elenco lungo. Rimando alla casistica indicata in due rapporti sulla discriminazione di rom e sinti in Italia, che cito in coda a questo articolo. Cito solo un caso, perché paradossale, contenuto in un articolo pubblicato sul sito dell’
European Roma Rights Center, e visibile
qui in inglese. E’ il caso di una bambina rom, Elvizia M., cresciuta nel campo Casilino 700, che il 14 giugno del 1999 fu tolta ai genitori – sulla base del presupposto che l’avessero rubata – per il colore degli occhi della bambina: “troppo bella per essere una zingara”, dissero le autorità,
guardando gli occhi celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro.
Il padre dovette correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per far vedere un paio di occhi, celesti, belli e sicuramente più umani di quelli che lo circondavano nell’aula. A quel punto la bambina poté tornare ad abbracciare i suoi genitori. Il fatto che essere belli significhi non essere rom, o che solo questo basta a togliere un bambino ai suo genitori, dimostra allo stesso tempo i pregiudizi degli italiani e la debolezza dei rom nella nostra società.
Pratiche di deziganizzazione. Già prima della seconda guerra mondiale, i figli dei rom venivano sottratti ai loro genitori per consegnarli a famiglie sedentarie, al fine di disperdere la continuità culturale ed etnica del loro popolo. La difficoltà sta (come nel caso della Pro Iuventute svizzera degli anni ’50, che allontanò qualche centinaio di bambini jenish dalle loro famiglie) nel fatto che l’operazione passa sempre per caritatevole ed i genitori per criminali. Si tratta di una situazione paradossale, ingiusta, che nasce dall’idea di proteggere i bambini, ma che non comprende né le ragioni del disagio né si interessa delle sofferenze dei genitori. Anzi: diciamo che gli stessi promotori di queste azioni sono spesso i principali protagonisti della repressione ai danni dei rom, ovvero collaborano fattivamente ai traslochi forzati, agli sgomberi, alle distruzioni periodiche degli accampamenti di fortuna dei rom. Ovvero: sono loro a creare il disagio che poi si riflette sui bambini. Si può anche pensare che magistrati, assistenti sociali, polizia e vigili urbani agiscano in buona fede quando si preoccupano della sorte dei piccoli rom: è umano preoccuparsi del fatto che una bambina di tre anni dorma per strada alla stazione. Ma non capisco chi ipocritamente dice di preoccuparsi, quando poi è lo stesso che il giorno prima l’ha sfrattata, lei e la sua famiglia, o le ha distrutto la roulotte, sbattendola per strada, o ha negato a suo padre la possibilità di racimolare qualche spicciolo, col sequestro di una fisarmonica e dello spazzolone lavavetri. Questo non è una preoccupazione morale per la sorte dei bambini. Anzi. Si fa un uso ipocrita della loro sorte: producendo la miseria che permette poi di gridare allo scandalo, si fa solo campagna contro i rom, favorendo la deziganizzazione dei loro bambini e alimentando uno stereotipo negativo.
IV - Porrajmos (21 dicembre 2007)
Forse l’unico popolo che non ha mai dichiarato una guerra. L’unico popolo che non ha mai preteso un territorio da governare, che non ha mai innalzato dei “sacri” confini da difendere a suon di mitraglia.
Hanno continuato a camminare, spingendosi da oriente a occidente.
Li hanno massacrati i nazisti negli zigeunerlager e nessuno ha riconosciuto il loro olocausto.
Oggi, più che mai, sono circondati dai sospetti e da pratiche che rendono le loro esistenze sempre più marginali.
Lessico veltroniano. “Bonificare”. “Sanare”. Chi usa questi lemmi da esperto di profilassi sociale? Il sindaco di Roma, citato in una nota Ansa del 6 dicembre. Non contento di aver “demolito”, “sgomberato”, “spostato”, “ricollocato” e “delocalizzato”, commenta i risultati raggiunti nell’urbanistica del disprezzo: “un lavoro grandissimo, senza paragoni”. Con altri occhi, ai rom rimane il diritto di usare il termine “porrajmos”, che in rromanì significa sia “distruzione” che “olocausto”.
Dai verbi ai nomi propri. Sembravano lontani gli anni in cui gli italiani si scoprirono figli del ceppo di Ario e la persecuzione dell’ebreo era atto meritorio sancito dai codici della patria. A quell’epoca non mancava chi, per nascondere le proprie origini, cambiava il proprio nome. “Mai più!”, giurarono i padri della repubblica. E invece succede ancora. Casi di rom costretti a cambiare nome per nascondere la propria identità succedono sempre più spesso. Gli ultimi casi di cui mi è giunta voce sono registrati a Pescara.
Dai nomi alle cifre. Ogni giorno siamo storditi da cifre che ci ricordano quanto sono criminali i cosiddetti “extracomunitari”. Ragioniamo un po’ su queste cifre “criminali”. Consideriamo…
– che le cifre riportate da tanti media con abbondanza di zeri non si basano sulle sentenze ma sulle denunce, che sono statisticamente più elevate e meno verificabili;
– che queste cifre conteggiano i detenuti in attesa di giudizio. Ora, è vero che molti stranieri stanno in carcere (nell’attesa, non sempre breve) di un giudizio, ma è solo qui che si manifesta la loro superiorità numerica. Prendiamo alcuni dati esposti in uno studio della Fondazione Michelini, riferiti al carcere fiorentino di Sollicciano. A Sollicciano i detenuti stranieri sono la maggioranza tra quelli in attesa di giudizio, ma diventano una minoranza se si considera la popolazione con una pena passata in giudicato. Questo significa che spesso vengono arbitrariamente arrestati e solo dopo il processo riescono a dimostrare la propria innocenza. Di fatto, nell’affollatissimo carcere di Sollicciano, al 4 ottobre 2007 solo il 14,7 degli stranieri stava scontando una pena definitiva, gli altri erano lì ad aspettare un processo.
– ancora: gli immigrati di Sollicciano stanno in carcere per pene detentive molto brevi (spesso per aver commesso un solo reato, laddove i residenti italiani espiano pene molto più lunghe e scontano la violazione di più fattispecie penali). Questo dimostra che gli immigrati non delinquono più degli italiani: solo subiscono, checché se ne dica nel becero qualunquismo dei giornali, un trattamento più severo, senza godere di arresti domiciliari o sanzioni amministrative alternative, senza l’applicazione di benefici condizionali e spesso senza un’assistenza forense decente (nessun patrocinio gratuito — per cui serve residenza e lavoro regolare, anche se mal pagato — e quindi il ripiego sull’avvocato d’ufficio che, nel minimo sforzo, cerca sempre il patteggiamento): tutto questo permette, ai tanti che agitano lo straccio della “tolleranza zero” di sostenere l’equazione criminale=immigrato.
A questo va aggiunto:
– che è in azione una tendenza persecutoria e paranoica che spinge chi ha subito un furto a denunciare di principio uno straniero;
– che questa tendenza è rafforzata spesso dagli agenti di pubblica sicurezza che raccolgono le denunce;
– che infine le cifre sui cosiddetti crimini degli immigrati sono ingigantite da un elemento chiave: il fatto che essendo gli immigrati stati dichiarati illegali, in quanto obbligati in tanti alla clandestinità, sono ipso facto criminali, e delinquono per il fatto stesso di respirare dentro all’italico suolo.
Visto tutto ciò si può affermare che, in genere, gli immigrati non delinquono più degli italiani. E, se anche accadesse, sarebbe comprensibile che comportamenti illegali siano più diffusi in quei gruppi sociali che soffrono di una situazione di disuguaglianza di accesso alle risorse economiche e di riconoscimento sociale.
Ripassiamo adesso alcuni luoghi comuni contro i rom e i sinti, in maniera un po’ affrettata (non sono comunque più ragionati i luoghi comuni di chi stigmatizza gli “zingari” tra un aperitivo e un altro).
Non mandano i loro figli a scuola. Si può anche discutere l’ipotesi che la scuola, come la conosciamo, sia l’unico modo per creare un percorso educativo, ma non è questo il luogo adatto. Di certo esiste una corrente di pensiero che parla di descolarizzazione (si pensi agli scritti di Ivan Illich e alle vie alternative al sistema-scuola nella costruzione di un percorso educativo), mentre altre ipotesi valorizzano le culture orali e non letterate, evidenziando alcune facoltà cognitive che la scrittura e l’alfabetizzazione in qualche modo fanno appassire.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di quei bambini che si trovano la casa sfasciata dalle ruspe, con i cingoli che passano sopra i loro quaderni. Coi loro genitori costretti a sbaraccare, a raccattare tra le lamiere qualche misero bene. Costretti a traslocare ogni tre mesi in qualche posto sempre più lontano dalla tangenziale che cinge la città. Sempre più lontani dalla scuola. Una domanda. Riuscireste a mandare i vostri figli a scuola senza una macchina, vivendo a 15 km dalla scuola, costretti a un trasloco coatto ogni pochi mesi, e coi vostri cocci distrutti dalle ruspe? Riuscireste? E se anche ci riusciste, che ne dite se i vostri figli tornassero a casa imbronciati perché gli altri non rivolgono loro la parola? Perché i maestri sono stressati dato che i genitori degli altri bambini hanno minacciato di cambiare scuola solo perché in quella classe ci sono gli “zingari”… Allora… sono i rom che non mandano i bambini a scuola, o è la società italiana che fa di tutto perché i bambini rom non riescano neanche a arrivarci a scuola? (per non parlare dei progetti di scuole dentro ai campi, che sono delle scuole-ghetto che servono solo a mantenere l’apartheid tra rom e non rom).
Devono parlare italiano se vogliono stare qui… (con la variante: sono stranieri…). Non si capisce perché. Nessuno va a dire una cosa del genere per esempio ai cittadini americani che vivono nel centro di Firenze. Una colonia di circa 5mila persone, molte delle quali vivono in Italia per un periodo di almeno sei mesi senza fare neanche lo sforzo di parlare italiano (non basta frequentare i corsi di lingua: è noto che le lingue si imparano per strada, mescolandosi con gli indigeni). A Firenze in centro parla inglese il giornalaio, il trippaio, anche il trombaio (non spaventatevi: è solo l’idraulico). Bene, ormai in centro a Firenze si parla innanzitutto inglese. E nessuno si lamenta.
Si lamentano invece dei rom, che di solito parlano almeno due lingue (cioè il rromaì e l’italiano, più in molti il rumeno, o il serbo, o altre lingue del loro paese di origine): essendo i primi veri europei, i primi ad avere una coscienza multiculturale, la loro lingua sembra cominciare ad ospitare tante lingue diverse, quasi fosse un esperanto (o almeno a me, che certo non sono un esperto di rromanì, e quindi può darsi che mi sbaglio, ha fatto questo effetto ascoltare per alcune ore di seguito alcune conversazioni di rom).
Sul fatto di essere stranieri. Beh, non è mica una colpa. Per me anzi è un pregio. Ricordo ancora quei bei vecchietti internazionalisti che si vantavano d’esser stati “stranieri in ogni luogo” (variante libertaria) o “cittadini del mondo” (variante comunista). Beh, adesso gli stranieri (poveri) sono visti come barbari invasori… ma siete sicuri che i sinti siano stranieri? Guardate che in Italia non ci sono solo i siciliani, i romani, i piemontesi e via dicendo… in Italia — anche se le istituzioni tardano a riconoscerlo (o forse proprio per questo) — la gente non si rende conto che si parlano lingue non italiane che non sono immigrate: sono lingue di italiani che vivono da secoli nella penisola. I sinti sono italiani quanto i piemontesi o i toscani… sono italiani da sempre, almeno dal cinquecento,quando anche i miei avi probabilmente erano arabi o normanni. Ci sono rom che parlano l’italiano come lingua seconda e sinti e rom che parlano l’italiano come lingua madre, anzi, neanche un italiano regionale, ma parlano dialetto veneto stretto. Eppure è comodo non riconoscere questa minoranza linguistica, parlare di loro come se fossero degli stranieri (al punto che a farsi carico di loro, anche in Veneto e nonostante le loro carte d’identità, in certi casi è l’ufficio stranieri!).
Sono nomadi… non vogliono una casa… In realtà pochi rom sono nomadi ai nostri giorni. Molti vivono in case, facendosi spennare ogni mese con affitti sempre più esosi, come noi. Altri vivono in quei ghetti che si chiamano campi nomadi. Più che nomadi, questi ultimi sono concentrati in ghetti. Molti rom, soprattutto quelli rifugiatisi in Italia dopo i conflitti nella ex-Jugoslavia, prima di arrivare in Italia avevano una casa. Adesso li chiamano nomadi, alimentando l’idea che non siano sedentari. Invece sono solo degli sfollati a cui l’Italia non riconosce il diritto di un tetto. Sono stati “nomadizzati” in maniera coatta. Molti in realtà non sono affatto nomadi: sono semplicemente senza fissa dimora (secondo alcune stime le persone senza fissa dimora in Italia sono tra i 65 e i 100mila).
Oggi solo pochi continuano la vita veramente nomade del tempi andati, coi camper che sostituiscono i carretti d’un tempo. E hanno tutto il diritto di farlo. L’umanità ha un passato lungo e meraviglioso di nomadismo alle spalle. Ma non si può agitare l’etichetta di nomadi solo per giustificare i continui traslochi. Questo non è nomadismo: è deportazione.
Non hanno voglia di lavorare… Oggi i rom possono accedere solo ai lavori pagati peggio, ai lavori più duri, in nero, nelle condizioni di sicurezza meno garantite. (E non so se nelle loro condizioni gli onesti italiani avrebbero tanta voglia di lavorare). Spesso per continuare a lavorare devono nascondere il fatto che vivono in un campo nomadi. Altri sono in Italia come richiedenti l’asilo politico, e secondo una legge paradossale non possono lavorare mentre attendono il riconoscimento della loro domanda: a volte devono aspettare anche due anni, e al massimo possono ottenere una borsa lavoro di qualche euro. Spesso non trovano lavoro perché i datori di lavoro hanno paura di loro.
Infine faccio presente che non aver voglia di lavorare non significa essere disumani. Direi che è un comprensibile comportamento umano. Molti popoli di cacciatori e raccoglitori dedicano al lavoro una parte minima della loro vita quotidiana. Ma anche qui finirei per aprire un altro margine di discorso, e quindi mi fermo.
Infine… chi difenderà i sacri confini? Il problema se l’è posto anche Beppe Grillo, spaventato da troppa televisione (non basta non andarci, a volte è anche meglio non guardarla: sennò si finisce a credere che il mondo sia pieno di invasori alieni di lingua romena, e poi bisogna leggersi Carmilla, che è anche una rivista di fantascienza, per farsi dire che non è vero). Gli rispondo con le parole dell’antropologo David Graber. A chi difende il diritto di circolazione delle merci, limitando il diritto di circolazione delle persone, Graeber obietta: “se dobbiamo essere globalizzati, facciamolo fino in fondo: eliminiamo i confini nazionali. Lasciamo che la gente vada e venga come vuole, e viva là dove più desidera”
Paura? Arriveranno i barbari ad abbeverarsi a San Pietro, come sognava quel romantico di Coerderoy? Ma facciamo ancora parlare Graeber, che secondo me coglie il nocciolo della questione: “ Nel momento in cui un abitante della Tanzania o del Laos non avrà più problemi legali per andare a vivere a Minneapolis o a Rotterdam, i governi dei paesi ricchi e potenti faranno di tutto per assicurarsi che la gente della Tanzania o del Laos preferisca starsene a casa propria.” Sostituite Laos con Romania e Rotterdam con Milano: il gioco è fatto. Se non volete essere invasi, finite di invadere. Fino a quando gli uomini d’affari italiani creeranno povertà nei paesi più deboli, non potranno ottenere altro che flussi di sventurati che vengono a bussare alle loro porte.
Eppure questo non basta. Perché se anche non ci fossero invasori nei due sensi di marcia, anche allora bisognerebbe difendere il diritto alla mobilità della gente. Perché non si può lasciare la mobilità ai viaggiatori con la VISA e la Lonely Planet. E’ bello anche gettare la propria vita nell’ignoto, spostarsi in un altro paese, anche a costo di balbettare una lingua estranea, anche solo per inventarsi un’altra vita. E’ questo che cercano tanti ragazzi rumeni. Farsi un’esperienza di vita e lavoro in Italia. Come abbiamo fatto tutti noi a Londra. E’ tanto strano?
Dedica
Dedico questa serie di articoli a P.N., una bambina rom che un giorno, mentre si trovava su un’auto coi suoi genitori, si è ritrovata con un proiettile conficcato in testa. Era il 22 maggio 1998 quando i carabinieri di Montaione, 40 km a sud-ovest di Firenze, ricevettero una chiamata che segnalava la presenza di un’automobile sospetta con alcuni “zingari” a bordo. Secondo la versione officiale l’auto non si è fermata all’alt e i carabinieri hanno sparato. Questa versione è stata accolta dagli inquirenti e i militari sono stati prosciolti da ogni addebito. La bambina, a quasi dieci anni da questo episodio, è ancora in coma.
Fonti
OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom e sinti);
ERRC
(European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma, Carta,
2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa
Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.