lunedì 29 giugno 2015

Sky TV; stanco morto? Ti meriti una vacanza bella da morire. Su una spiaggia in Tunisia.


Chi scrive non fruisce di trasmissioni televisive dal 2004 e non dispone ovviamente dei relativi apparecchi.
Occorrerà trovare anche il tempo di spiegarlo con calma a chi continua a bussare a denari due volte l'anno come un punkabbestia nel piazzale della stazione in nome di una cosa che chiamano "canone" e che dovebbe servire a retribuire raccomandati, cialtroncelli, telegazzettisti e tatuate più o meno svestite.
Ai nostri lettori ricordiamo il perché di un taglio netto e vantaggioso da tutti i punti di vista.
Un giorno del 2004 un certo Enrico Mentana, che a tutt'oggi pare che conti su un pubblico che lo considera imparziale ed obiettivo, dette notizia di una giornata qualsiasi nell'Iraq occupato e si trovò a considerare che quello iracheno era "un dopoguerra costellato di battaglie".
Per l'appunto George Diabolus Bush il primo maggio dell'anno prima aveva statuito che la guerra era finita.
Scrivemmo che questo Mentana meritava comprensione. Mica poteva contraddire su due piedi il più alto in gerarchia; nessuno vuol finire, da vecchio, a vendere bottoni ed accendini all'uscita delle scuole.
Da allora facemmo a meno dei servigi di Enrico Mentana e dei suoi commensali.
Veniamo oggi a sapere da un corrispondente che ha ancora una televisione in casa a prender polvere e posto del modo con cui un'emittente ha dato notizia delle stragi in Tunisia.
Due fucilieri in località Sousse hanno gettato bombe e sparato in una spiaggia affollata uccidendo una quarantina di persone e ferendone almeno altrettante. Su internet si è riversato un po' di umorismo nero, un fotomontaggio mostrava una pubblicità il cui slogan era "Tunisia io ci vado" affiancata alla foto di una delle vittime, con sovraimpressa la scritta "...E io ci resto".
Sky tv invece, che è tanto seria e tanto professionale e tanto imparziale e tanto obiettiva, ha presentato le immagini in allegato.
L'effetto straniante è dato dal contenuto della new e dal contemporaneo banner pubblicitario in alto: sei arrivato all'estate stanco morto? Vinci una vacanza... bella da morire!"
La pubblicità riguarda un'altra trasmissione televisiva in cui si mostra nei dettagli l'attività di un'impresa funebre.


giovedì 25 giugno 2015

Sulle gazzette di Firenze i'ddegràdo, i'ddegràdo, i'ddegràdo e i'ddegràdo. Ah, e anche i'ddegràdo.


Lettore di gazzette.

L'estate 2015 vede sul gazzettaio fiorentino un ritorno di fiamma d'i'ddegràdo e dell'insihurézza.
Non è dato sapere quanti lettori ancora se ne curino e sarebbe per questo interessante dare un'occhiata ai tabulati dei resi. Se fossimo responsabili di un foglietto o di una gazzettina cominceremmo davvero a guardare le panchine con altri occhi. Negli ultimi anni i casi di sedicenti esperti del filone finiti letteralmente sul marciapiede a forza di pubblicare foto di cartacce in corrispondenza di tutte le consultazioni elettorali (roba di cui incolpare direttamente l'amministrazione) non sono certo mancati.
Qualcuno ha cercato anche di salvarsi appassionando il pubblico a storie di coppiette sorprese dagli ufo: tentativo lodevole che non ha impedito a "Il Nuovo Corriere di Firenze" di sparire non rimpianto dalle edicole.
Nel 1999 Pietro Scòzzari pubblicò un libretto intitolato L'isterico a metano. Dopo varie e spesso umilianti peripezie il giovane protagonista Vanes Barozzi  diventa copywriter a Bologna, cambia nome in Leonardo de Carolis e si scopre poteri paranormali in grado di fargli mettere a segno vendette plateali e spietate contro una serqua impressionante di bersagli invisi.
Dove non arrivano i poteri paranormali, basta un po' di polvere pizzicante: tre fiale piene infilate nel taschino del giubbotto (surplus IDF) e battezzate 3PVP, Triplo Piccolo Vendicatore di Papà.
Riportiamo le righe che seguono[*] perché è evidente che il gazzettame fiorentino sta consapevolmente "lavorando" per un pubblico costituito per intero da elementi del genere. Contraddire, smentire, ridicolizzare un pennaiolo? Guai a chi si azzarda. Un'intera leva di avvocati è venuta su specializzandosi in cause civili di questo genere: in "Occidente" le querele sostituiscono abitualmente le argomentazioni. E il fatto che L'isterico a metano fosse un libro satirico altro non è che un dettaglio trascurabile visto che l'agenda setting pare tagliato a misura di cosi del genere, e che il feedback del pubblico reperibile su Libro dei Ceffi, newswire e commenti sulle gazzette in rete arriva per nove decimi da barzellette umane della stessa risma.


 Le performanti campagne parolaie di Leo, sostanziate da un odio sotterraneo che i suoi datori di lavoro probabilmente giudicherebbero "sovradimensionato rispetto alle finalità assegnate, e da ricondurre in un alveo più consono", se solo ne sospettassero la pericolosità, procura all'agenzia fior di contratti, e tra brindisi e cosce occhiolineggianti Lenny viene promosso al piano -1° di uno stabile di Via Belle Arti.
Potrebbe essere l'inizio di una più pacata felicità esistenziale, ma Leo è Leo.
Che cosa voglia dal mondo comincia a non essergli più tanto chiaro; gli è chiaro solo che non tollera niente, a cominciare dal vocabolo “pacato”.
I barbùn e i loro cani che tutti assieme appassionatamente si pisciano e cagano addosso sotto i portici del teatro Comunale; le pellicce che vanno alle prime del Comunale; le zingare che leggono la mano e i tuoi dati della patente, dopo che ti hanno letto tutto il portafogli; i giovani paglia e fieno carichi la faccia di ferramenta assortite; i pusher di tutto il Maghreb; i tossici che si riforniscono dai suddetti; i pusher tossici che rivendono bici rubate agli ex proprietari sotto gli occhi vigili dei poliziotti; i venditori d’incensi e di artigianato etnico; le affittacamere ingorde che al cm X minuto affittano le loro cantine a strati su strati su strati di pericolosi boscimani; i motorini, chi li guida, chi li ruba, chi li parcheggia sotto i portici; le matricole imbecilli; i banchetti dei Cattolici Popolari per riorientare le matricole imbecilli; i ritentativi autonomi di ridare vita a occupazioni e vetrine ridisintegrate; la Pantera; le pantere degli sbirri cannibali; i goliardi che fanno i goliardi; i professori che danno trenta solo alle minigonne che riescono a guzzarsi; i leccesi col Kolf bianco al decimo anno fuori corso; i leccesi col Kolf bianco regolarmente iscritti; i quintali d’immondizie sparsi in ogni dove; i tentativi della Vitale Amministrazione Comunale (VAC) di rivitalizzare la zona universitaria; i tentativi della VAC di estendere a macchia d'olio la Zona Universitaria, acquisendo, deportando, sventrando; i tentativi della VAC di aprire Una, Cento, Mille Stazioni Centrali, per sommergere Bulagna sotto altri centomilamiliardi di tonnellate di feccia aliena. Affamata. Discutitrice. Sovvertitora. Vitale. VAC! PORC!
Leonardo ha preso una piega francamente nazistoide, ed il brutto è che ride a gola spiegata quando ci pensa.
È un avido lettore delle colonne del Resto del Calzino dedicate alle lotte dei cittadini contro il degrado urbano. Titoli come “Mamme linciano spacciatore all'interno del Liceo Fermi Enrico”, o “Serve più polizia”, o “Più pulizia per le serve” gli piacciono molto. Ogni tanto scrive lettere piene di Indignazione Civica, firmandole Esercente Al Limite, e qualcuna tra le meno velenose gliel’hanno pure pubblicata, tagliata nei passaggi problematici.
Ma il suo astio prima che politico è frutto di una frana psichica progressiva, molto personale.
Giorno dopo giorno Leonardo focalizza sempre meglio il proprio odio su target precisi, ricorrenti cliché di una realtà che lo fa svenire di rabbia. Contro i nemici della Cultura, in una città così colta, Lenny consegna all’aere enormi quantità di polverina. Ma è una fatica improba: in certe occasioni la sua volontà è soverchiata, i colli bisognerebbe segarli; in altre lo spargimento sui target meritevoli è tecnicamente irrealizzabile; il più delle volte il nemico lo stanga talmente alla sprovvista che cincischia con le mani, comincia a tremare di rabbia per la propria inadeguatezza e finisce col versarsi addosso l'intero 3PVP. Sotto la camicia di popeline è un'arlecchinata di croste e bolle, ognuna in grado di ricordargli alla perfezione per quali motivi s’imbestialì tanto.
Brucia per le auto parcheggiate a cazzo - specie le Kolf bianche targate Modena, Macerata o Foggia, o se sono Kolf bianche di Brescia, San Marino, Perugia. Se le Kolf poi sono nere preferisce tornare a casa subito, qualcuno potrebbe farsi male. Solo i tedeschi possono concepire una cosa così t- triviale, incapaci di ogni concetto di grandezza, mormora Leo prima di guardarsi attorno e scaracchiare un lumino giallo sul parabrezza, lato conducente, par excellence l’antidoto contro tutti i tedeschi. Solo gli italiani possono comprarne tante e incollare su tutte lo scudetto della Ferrari, si dice mentre s'asciuga con la manica; non esiste per lui differenza tra lacrime e sputi, quando pensa in italiano. Se cerca un’immagine per il Ribrezzum trova solo Lorna Pausini che gli sorride mentre parcheggia sulle strisce una Kolf nera scudettata.
Un’escalation è ormai imprescindibile. Non trova armi consone, non saprebbe come procurarsi uno Stealth B-2 caricato a grattarola, il suo 3PVP lo fa sentire, mmm, sottodimensionato e ciò lo fa soffrire. Soffrire e soffriggere.
Al pari di ogni minidotato della terra, arde confrontarsi con culi da spaccare.
Una mattina, uscendo dal portone, oltre a scavalcare un tossico che s’è vomitato addosso gesù, un piccione spelacchio che gozzoviglia su quella generosità ai pezzetti gialli, un materasso con due persone luminose di muffa putrefica, quattro biciclette lucchettate, e due altri piccioni zoppi che scopano contenti, si trova a dover scalare una Kolf bianca parcheggiata praticamente in verticale sotto il portico. Targata Brescia.
Bava, bestemmie talmente proterve e antiche che Giove si sveglia, e chiede chi ha suonato. Sul sensorio leonardico cala un'abat jour, che l'ottunde di luce blu.
Raspìo, formicolìo, tremolìo, vammazzoìo. Leo l'eroe mastica e rimastica il bolo amaro rifiottatogli dall'abomaso, seguendo una terapia zen per il controllo dell'ira e per l’armonia con Yahvè, Manitù, Tiramolla, Gambadilegno, la natura e il prossimo, se non è di Lombardia o calabria.


[*] Nel brano compare il nome dello stato che occupa la penisola italiana: ce ne scusiamo con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

mercoledì 24 giugno 2015

Firenze. Una sera di giugno n'i'ddegràdo e nell'insihurézza.


Nel corso degli anni abbiamo illustrato ai nostri lettori la parabola delle formazioni "occidentaliste" della politica fiorentina, arrivando ad illustrarne prima la messa all'angolo e poi la sostanziale riduzione a voci prive di qualsiasi influenza. Il fenomeno non è dovuto all'inettitudine, all'ingordigia, alla sporcizia, alla bassezza, alla ridicolaggine, all'incompetenza o alla pura e semplice impresentabilità che caratterizzano ad ogni livello la classe politica "occidentalista"; caratteristiche del genere la renderebbero se mai ancor più rappresentativa agli occhi del suo elettorato. La spiegazione sostanziale del tracollo sta nel fatto che i sedicenti avversari politici dell'"occidentalismo" ne hanno minuziosamente saccheggiato l'armamentario propagandistico e programmatico, rendendosi del tutto indistinguibili da quelli che la propaganda ha presentato per anni come i loro avversari. 
In questo modo l'insihurézza e i'ddegràdo, che nel frattempo non hanno in nulla mutato la loro natura di non-problemi, hanno colmato ogni spazio residuo nella "libera informazione", nel mainstream ed in quelle sentine di mediocri che vengono chiamate "reti sociali", rimanendo oggetto di disprezzo sarcastico soltanto tra le persone serie, al pari dei politici e degli amministratori che sull'insihurézza e su i'ddegràdo costruiscono una legittimità altrimenti labilissima ed il cui agire concreto non supera in nessun caso la traduzione operazionale dei giridivite e delle tolleranzezzèro.
Chi cercasse un po' di razionalità residua può trovarla sui muri. A Firenze non vi compaiono solo scarabocchi da decerebrati parastatunitensi e molti dei volantini e delle scritte che vi abbiamo riscontrato nel corso degli anni si sono rivelati profetici, con un accettabile livello di accuratezza.
Pare che all'inizio di giugno 2015, per aver affisso il programma della foto in alto, qualcuno abbia passato qualche guaio: i gendarmi, i politici e soprattutto i gazzettieri si offendono moltissimo se qualcuno mostra di considerarli parte dei problemi invece che parte delle soluzioni.
Pace non cerco guerra non sopporto
Giornata contro il militarismo
Da qualche settimana a questa parte dei loschi figuri in divisa mimetica infestano le strade di Firenze. Non ci fa differenza che tipo di forza dell'ordine sia a pattugliare le strade, non è il colore della divisa a cambiare il senso della loro presenza, sono e saranno sempre e comunque uomini e donne addestrati per la difesa della proprietà privata, della ricchezza e dello Stato. Non crediamo al ritornello della sicurezza e della protezione dai "cattivi" e non ci sentiamo tutelati dalle armi del potere. Non vogliamo la loro pace e tantomeno ci abitueremo mai alla loro presenza, né qui ne altrove. Per questo non ci stancheremo mai di ripetere che i militari, ovunque essi si trovino, emanano il tanfo del sangue che hanno versato per proteggere gli interessi di chi li ha armati.
Per la giornata del dodici giugno erano previste iniziative di vario genere, compresa una continua "gara di insulti alla ronda di soldati". 
Abbiamo fotografato il manifestino in via Alfani. A pochi passi si trova la sede della comunità ebraica fiorentina: un isolato presidiato da decenni. Recentemente qualcuno deve aver pensato di allargare l'iniziativa alle strade circostanti, in cui non esistono obiettivi sensibili che possano realisticamente essere protetti da un picchetto armato. La cosa non dev'essere piaciuta a qualcuno di quei gruppetti insuscettibili di ravvedimento che la città di Firenze non cessa di produrre, che a sua volta è riuscito a rendersi assolutamente intollerabile ai gendarmi, ai politici ed ai gazzettieri di cui sopra.
Non che ci volessero molti sforzi: per farli andare su tutte le furie non c'è di peggio che evitare di prenderli sul serio, loro e le loro sconcezze travestite da motupropri pel bon governo.
L'insofferenza di gendarmi e fucilieri direttamente chiamati in causa sarebbe anche compensibile perché  ricambiare ricorrendo al fucile d'assalto in dotazione una manciatina di contestatori che li invita a recarsi nel più celebre e frequentato dei luoghi comporterebbe inconvenienti eccessivi, persino nel contesto indementito e ripugnante in cui si trova quanto rimane della pubblica opinione. Come se non bastasse, devono guardarsi dall'inventiva di boiscàut e frequentatori di discoteche. Va tuttavia ricordato che lo stato che occupa la penisola italiana ha abolito da molti anni la coscrizione obbligatoria, rendendo di fatto le proprie pur pletoriche forze armate una classe di professionisti sempre meno rappresentativa dei sudditi e sempre più suscettibile di comportamenti lobbistici. Dal momento che nell'ordinamento statale poco o niente è cambiato da quando il sacerdote cattolico Lorenzo Milani lo considerava pervaso da una "mostruosa adorazione del diritto di proprietà", quanto rilevato nello scritto acquista una logica ben definita.
La politica cittadina, come si è detto, si è impossessata in blocco delle parole d'ordine "occidentaliste" ed ha da molto tempo iniziato ad usare i vocaboli della stessa propaganda. I vocaboli non sono molti (cattocomunista, buonismo, pochi altri eccetera) perché la propaganda "occidentalista" ha un target caratterizzato da un'autoconsapevolezza da scarafaggi e che non intende altro che ciotole di maccheroni e pallonate televisive. Quello che cambia all'atto pratico è che non c'è di peggio che far rilevare limiti e manchevolezze di certo spicciolame da marketing politico in cui entrano soldati di pace, pacificatori ed altri protagonisti di sceneggiati a basso costo. Sarebbe interessante sapere se tra i tolleranzezzèri di quartiere ce n'è qualcuno che ha colto la citazione con cui si apre il manifestino, che rimanda ad un'epoca altrettanto intransigente in materia di ordine e di forze a sua tutela.

Pace non cerco, guerra non sopporto
tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
pieno di canti soffocati. Agogno
la nebbia ed il silenzio in un gran porto.

In un gran porto pien di vele lievi
pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
dolci ondulando, mentre che il sussurro
del vento passa con accordi brevi.

E quegli accordi il vento se li porta
lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.

O quando o quando in un mattino ardente
l’anima mia si sveglierà nel sole
nel sole eterno, libera e fremente.

La prima edizione dei Canti Orfici di Dino Campana in cui compare questa poesia semplice è del 1914. Nello stesso anno iniziò un macello mostruoso ed inutile le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi, ed un certo Giovanni Papini (che trattava Campana con noncurante sufficienza) scriveva che la guerra non solo la sopportava eccome, ma la amava addirittura. Salvo guardarsi bene dal prendervi parte, per quella volta. Quando poi nel 1944 la guerra andò a cercarlo di persona, Papini ritenne saggio non farsi neppure trovare in casa. 
Resta da esaminare la canina insistenza con cui le gazzette continuano a battere sullo stesso tasto, che suscita una certa perplessità perché la scelta dell'insihurézza e de i'ddegràdo come temi monografici non ha impedito di crepare a tanti foglietti che ne avevano fatto la propria specialtà. Tra i nostri lettori più di qualcuno avrà fatto caso a come una compagine statale abituata ad autopresentarsi come la sesta o la quinta economia mondiale si sia ridotta in pochi anni a basare propaganda e informazione su vere e proprie inezie, sempre presentate come se si trattasse di questioni vitali. Al momento in cui scriviamo Paolo Ermini, capogazzettiere del Corriere Fiorentino, è riuscito a presentare come questione vitale l'inezia costituita da qualche deiezione sul selciato, vantandosene nero su bianco ed insistendo sullo stesso argomento per una settimana.
I motivi per continuare tranquillamente a farsi un'idea di quanto succede a Firenze percorrendone le strade e rifacendosi a manifesti e scritte invece che fidarsi della propaganda non mancano. Siamo certi di incontrare in questo l'approvazione dei nostri lettori.

sabato 13 giugno 2015

Milano: giovani eroi difendono il crocifisso!


"Una gang latina". Foto pubblicata dal Corriere della Sera nel giugno 2015.

C'è da giurarci: c'è questa foto sul Corriere della Sera, quello di Oriana Fallaci e degli atei devoti, e i muscolosi ragazzoni ritratti ostentano proprio il simbolo cristiano inviso ai buonisti cattocomunisti zecche radical chic politicamente corretti [*] che per la feccia da mescita disprezzata persino da Umberto Eco rappresentano l'essenza stessa dell'inciviltà.
Poi si viene a sapere che iconografia e fatti concreti non vanno troppo d'accordo, perché invece di seguire l'esempio di Simeone lo Stilita o del Doctor Angelicus signori di questo genere preferiscono passare la giornata e la vita dedicandosi ad atti di violenza repellente e gratuita.
Con indignazione frignona della feccia di cui sopra.
Feccia cui sarebbe bene ricordare che tra disoccupazione, repressione capillare, stipendi schifosi e quartieri ghetto, finalmente l'AmeriKKKa che tanto ammira, la "democrazia da esportazione" cui tutto va concesso, gli si è concretizzata direttamente a domicilio.
Con i fast food e con le serie televisive infarcite di ricchi che piangono e di gendarmi sempre buoni gli "occidentalisti" della penisola italiana erano già a posto da trent'anni: finalmente sono arrivate anche le gang a colmare una delle ultime lacune.
Chissà cos'hanno da lamentarsi.


[*] I cani "occidentalisti" indicano con questi epiteti chiunque dissenta in misura anche minima dalla loro propaganda. Nell'elenco non compaiono epiteti legati alla contingenza, per esempio i nomi di questo o quel politico inviso, considerato di volta in volta direttamente responsabile di qualunque evento, a cominciare delle deiezioni umane reperite presso le cantonate dei centri storici per finire al collasso militare di qualche "esportazione di democrazia" a casa di chi per nulla la desiderava.

lunedì 8 giugno 2015

Alastair Crooke - Se la Siria e l'Iraq vanno in pezzi, lo stesso succederà a Tripoli e al Libano settentrionale


Traduzione da Huffington Post.

Beirut. In questi giorni ci si chiede se la Siria e l'Iraq finiranno per subire delle divisioni territoriali. Il discorso è diventato attuale perché Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno deciso tutti insieme di ammassare molti jihadisti a ridosso delle frontiere siriane. Secondo due politici ben informati con cui ho potuto parlare, oltre diecimila combattenti wahabiti o salafiti, per lo più appartenenti ad An Nusra, ovvero ad Al Qaeda, sono stati raggruppati dai servizi segreti dei paesi di cui sopra. Si tratta per lo più di non arabi, provenienti dalla Cecenia, dal Turkmenistan e da altri paesi. E' chiaro che a Washington sono al corrente di questa oltremodo costosa operazione saudita, ed è altrettanto chiaro che hanno deciso di chiudere un occhio.
L'idea che l'Iraq possa subire una scissione ha acquistato molta visibilità dopo che lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante ha fatto il suo ingresso in Ramadi, con quella che è stata sostanzialmente una passeggiata militare. L'immagine delle lunghe colonne di Toyota Land Cruiser dello Stato Islamico con gli stendardi neri al vento, che si dirigevano verso Ramadi lungo le sgombre carreggiate nel deserto della strada proveniente dalla Siria senza che in cielo si vedesse un solo aereo ameriKKKano richiedono certamente una qualche spiegazione. Non può esistere bersaglio più facile di una evidente colonna di veicoli che si snoda lungo una strada di grande comunicazione in mezzo ad un deserto.
Chissà che questi due casi di cecità selettiva non abbiano qualcosa a che fare con la necessità di persuadere il Consiglio degli Stati del Golfo a sottoscrivere a Camp David una dichiarazione in cui accettano l'idea che un accordo con l'Iran sul programma nucleare riguarda i loro "interessi in materia di sicurezza". Oggi come oggi Obama ha un disperato bisogno di far vedere Netanyahu come l'isolato bastian contrario che si oppone ad un accordo con l'Iran, e di minare in questo modo la sua capacità di influenzare il Congresso.
Guarda caso, nel contesto di una controversia legale federale è stata resa pubblica una considerazione prodotta ai più alti livelli della D.I.A. statunitense nell'agosto di tre anni fa. Vi si legge che "Se la situazione [in Siria] si sblocca, esiste la possibilità di impiantare un'entità statale salafita, dichiarata o meno, nella zona orientale del paese (hasakah e Deir ez Zor). QUesto è quello che vogliono i paesi che sostengono l'opposizione, per isolare il governo siriano". La dichiarazione afferma che la creazione di questa entità salafita avrebbe "conseguenze tragiche" per l'Iraq, che avrebbe probabilmente portato alla nascita di uno Stato Islamico e che avrebbe "instaurato il clima ideale per permettere ad Al Qaeda in Iraq di tornare nelle sue vecchie roccaforti di Mossul e di Ramadi".
Pochi giorni dopo l'uscita del testo che conteneva queste affermazioni della DIA John Bolton ha conferito ad esse maggior peso: "Credo che gli arabi sunniti non consentiranno mai di far parte di uno stato [l'Iraq] in cui il rapporto con gli sciiti è di tre contro uno. Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante ha saputo approfittarne. Io penso che il nostro obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo stato sunnita nell'Iraq occidentale e nella Siria orientale, guidato da moderati o almeno da autorità che non siano islamici radicali".
E questo è esattamente quello che è successo. Perché dovremmo esserne sorpresi? L'idea di frammentare i grandi stati arabi in enclave etniche o su base settaria è un vecchio cavallo di battaglia di Ben Gurion e dividere l'Iraq su basi confessionali è quello che il vicepresidente Joe Biden sta cercando di fare fin dai tempi della guerra. L'idea di mettere un cuneo sunnita lungo il percorso che unisce l'Iran alla Siria fino a Hezbollah in Libano è un'idea condivisa dagli occidentali fin dai tempi della guerra del 2006, in cui lo stato sionista fallì nel tentativo di sradicare Hezbollah. Per rifarsi dallo smacco del 2006 le potenze occidentali hanno pensato si dovesse isolare Hezbollah dall'Iran che gli fornisce armi.
In breve, l'affermazione della DIA indica che questa idea del cuneo sunnita è tornata in voga quando è servito fare pressione su Assad, ai tempi dell'insurrezione del 2011 scatenata contro lo stato siriano. I "paesi che sostenevano l'insurrezione" volevano davvero iniettare un fluido idraulico di frattura nella Siria orientale, rappresentato dai salafiti radicali, che permettesse di lesionare il ponte che unisce l'Iran ai suoi alleati arabi, anche se le conseguenze dell'operazione si sarebbero fatte sentire in Iraq fino a Ramadi. Le dichiarazioni dei servizi dovevano fornire un punto di vista, non descrivere o prescrivere una pratica politica: chiaro è che gli ammonimenti contenuti nello scritto della DIA erano entrati in un giro piuttosto ampio ed erano ormai parte delle valutazioni politiche.
Ecco, adesso i "pareri" della DIA sono diventati realtà, sono diventati qualcosa di concreto. Si potrebbe concludere che nel dibattito politico l'idea di isolare Hezbollah dall'Iran e di indebolire e di mettere sotto pressione il Presidente Assad hanno finito per distorcere le facoltà di giudizio che si basano sul buon senso fino a far dimenticare che quando si pompano fluidi di frattura altamente tossici in una formazione geologica non si può mai avere una consapevolezza precisa o completa di quelle che saranno le conseguenze. Una volta imboccata questa strada non è che si possa facilmente tornare indietro: il fluido velenoso si è già diffuso tra le rocce. Sicché, il Consiglio degli Stati del Golfo ha preteso una contropartita in cambio di un qualsiasi accordo con l'Iran (vale a dire il concentramento di molte forze... di rottura vicino ad Aleppo), ma il benestare di Washington era in parte già arrivato nel 2012, quando non ci sono state obiezioni a fronte di quello che i "sostenitori dell'insurrezione" volevano fare.
Cosa succederà allora, il Medio Oriente si strutturerà attorno ad un solido corridoio wahabita/salafita compreso tra l'Iraq e la Siria con i paesi non wahabiti (Iran, Iraq, Siria, Yemen e Hezbollah) che vi si oppongono in permanenza con le armi? Forse sarà così, al momento non possiamo saperlo. Le dichiarazioni del secondo di Hezbollah sceicco Naim Qassem e quelle di Sayyed Hassan Nasrallah fanno pensare che né l'Iran né Hezbollah accetteranno una Siria in quelle condizioni. Non si sa se per l'Iraq siano della stessa opinione, ma a nostro modo di vedere almeno l'Iran lo è.
Un comandante superiore dello Hashad iracheno si è espresso in modo simile: "E' impossibile stradicare lo Stato Islamico dall'Iraq senza inseguirlo in Siria. Passeremo sopra alle nostre divergenze con la Siria e ci sforzeremo tutti insieme per eliminare lo Stato Islamico... Gli Stati Uniti sapevano che lo Stato Islamico si sarebbe espanso in Siria, e stavano progettando di dividere l'Iraq. Ora è tutto finito...". Commenti come questi fanno pensare che l'Iran risponderà in modo più incisivo. Ed è difficile pensare che anche Russia e Cina non si muoveranno, vista la composizione delle forze che i servizi sauditi e turchi stanno mettendo insieme.
In tutte queste congetture esiste un altro aspetto da approfondire. Nessuno parla del Libano. Se si deve creare una frattura tra Siria ed Iraq e il fondamentalismo sunnita più intransigente fa nuovamente il suo ingresso "nelle vecchie roccaforti di Mossul e di Ramadi" -come le chiama la DIA- perché mai Tripoli e il nord del Libano non dovrebbero subire fratture analoghe? In Libano, Tripoli è stata a tutti gli effetti il primo "emirato" nello stile dello Stato Islamico.
Sul come mai Tripoli in Libano potrebbe aver fatto nascere un movimento salafita jihadista è necessaria qualche spiegazione in più. Tripoli è una città di mezzo milione di abitanti che è in sostanza il cardine della potenza sunnita libanese. Tripoli, per tradizione, è il centro del movimento nazionalista panarabo e delle pulsioni nasseriane; fino alla guerra civile, ha fatto parte della principale corrente sunnita nella regione. Negli anni Venti e Trenta del passato secolo il movimento militante arabo è stato così forte in città che i suoi abitanti si opposero aspramente all'inclusione di Tripoli in un "grande Libano". Negli anni Trenta i sunniti di Tripoli presero parte ad una rivolta armata diretta contro questa possibilità, pretendendo invece che Tripoli rientrasse con le città siriane di Homs, Hama ed Aleppo in una distinta area autonoma sunnita.
La nascita dello jihadismo a Tripoli può essere fatta risalire all'inizio della guerra civile nel 1975, ma l'inizio di un sostanziale mutamento del carattere dell'islam sunnita vi può essere datato al 1947, anno in cui lo sceicco salafita Salim al Shahal tornò dall'Arabia Saudita per fondare il primo movimento salafita di orientamento wahabita. Durante la guerra civile il movimento Al Jama'a, l'equivalente libanese dei Fratelli Musulmani, si frammentò e si divise per effetto della pressione. Con l'intervento siriano in Libano nel 1976 si sviluppò un ramo radicale di Al Jama'a, ispirato dalla rivoluzione islamica in Iran del 1979. Nel 1982 questi gruppi separatisi da Al Jama'a formarono lo Harakat al Tawhid al Islami, il Movimento per l'Unificazione Islamica. Il settore intransigente dei Fratelli Musulmani, noto da allora in poi come Tawhid, prese il controllo di Tripoli sottraendo la città alle milizie sostenute dalla Siria.
Il Tawhid si rafforzò grazie alle armi e all'addestramento forniti dall'OLP, oltre che per l'influsso dei quadri siriani dei Fratelli Musulmani dopo la feroce repressione della loro rivolta di Hama da parte del Presidente Assad nel febbraio del 1982. Le forze del Tawhid imposero con le armi la legge islamica nelle zone di cui avevano il controllo. La "repubblica islamica" di Tripoli durò per un paio d'anni (alcool proibito, donne costrette al velo, eccetera). Decine e decine di oppositori politici laici, soprattutto comunisti, vennero passati per le armi dando il via all'esodo dei cristiani dalla città. Negli anni successivi l'influenza saudita a Tripoli è stata dominante, e la città diventò il nido di vari gruppi salafiti che assorbirono molti appartenenti ai Fratelli Musulmani sopravvissuti alla repressione in Siria; si assisté ad una progressiva deriva verso lo jihadismo radicale.
Se Aleppo, altre regioni della Siria e dell'Iraq rientrassero in una scissione, c'è da aspettarsi che lo stesso succeda a Tripoli e al Libano settentrionale.



giovedì 4 giugno 2015

Alberto Prunetti - Luoghi comuni contro Rom e Sinti


Alla fine di maggio 2015 Enrico Rossi è stato rieletto con largo suffragio governatore della Toscana. Mesi fa aveva pubblicato sul solito Libro dei Ceffi questa immagine, che lo ritraeva in mezzo ad altre persone. La feccia "occidentalista" ebbe all'epoca reazioni che ci accontenteremo di definire premestruali, e che sono di per sé motivo sufficiente a riproporre la stessa foto ancora una volta.
Si riporta da Carmilla on line una serie di scritti che confutano alcuni tra i luoghi comuni più insistiti della propaganda "occidentalista" e della "libera informazione", che ad ogni scadenza elettorale operano al meglio dei propri mezzi secondo copioni logori ma evidentemente privi di alternative. Alberto Prunetti commenta per suo conto la situazione in modo piuttosto salace; non abbiamo molto da aggiungere ad un tema che i nostri lettori conoscono bene. Diremo soltanto che in linea di principio ognuno ha quello che si merita; fino a qualche anno fa, nello stato che occupa la penisola italiana la propaganda insisteva su "classifiche" che lo consideravano settima, sesta o quinta "potenza economica" mondiale. I temi -e i tempi- sono molto cambiati. Se escludiamo l'imperversare ciarliero dei "primi ministri", non si va oltre il tema unico che consiste nella presentazione delle recite di un divorziato che fa il contazzìngari in felpetta esibendosi esclusivamente su palcoscenici a rischio calcolato.
Più in là non si va, neppure con la propaganda. E nessuno vi trova niente di strano.

In tutto il testo riportato ricorre più volte il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come d'uso con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Alcuni anni fa, nel 2007, durante l’ennesima emergenza mediatica contro rom e sinti, scrissi un ciclo di articoli di debunking, di sgonfiamento delle “panzane antizigane”, a partire dalla più calunniosa di tutte, quella relativa ai presunti furti di bambini.
Da allora le strategie mediatiche non si sono perfezionate e rimangono grossolane, oggi come ieri. Gli imprenditori della paura sono pressoché gli stessi, come i loro obiettivi (i rom “dei campi”, i criminali “delle periferie”, i migranti “dei barconi”). Pertanto mi limito a riproporre quegli articoli, che vanno letti contestualizzandoli alla cronaca del 2007. E riattualizzandoli ai nostri giorni. Esercizio salutare che dimostrerà come nulla sia cambiato. Anche il merito di quelle accuse non è cambiato, perché la strategia paga.  Atto primo: si sollecita l’ansia dei ceti medi proletarizzati e la rabbia dei cittadini sempre più impoveriti dei quartieri ghetto. Atto secondo: si spande rabbia e oltranzismo di fronte alle telecamere evocando ruspe che il buon politico, a cui si porge continuamente il microfono, non saprebbe neanche mettere in moto. Atto terzo: chi vuole confortare i cittadini sul proprio senso civico agita il fantasma dello spaventapasseri di turno, si propone come mediatore pieno di sobrietà e vince le elezioni. Il gioco è vecchio ma ben congegnato. Intanto i seggi elettorali chiudono e l’emergenza securitaria rientra nel garage della propaganda, mentre i rom continuano a vivere nelle più misere delle condizioni sul suolo europeo.
Non aggiorno gli articoli ma, visto che possono risultare utili per smontare luoghi comuni e pregiudizi, li raccolgo qui di seguito, sperando che contribuiscano a ingrippare la macchina di propaganda razzista che accompagna ogni passaggio elettorale.
Suggerisco solo, a corredo di queste righe  e per contestualizzare certe campagne allarmistiche, un gran bel saggio di Serge Quadruppani sulle logiche securitarie, il loro uso politico, l’enfasi con cui si raccontano i crimini di cronaca in un programma di imprenditoria dell’insicurezza: La politica della paura.
Quanto alla mia piccola inchiesta, le prime tre parti si riferiscono soprattutto alla questione dei bambini. L’ultima, che è forse la più efficace, analizza una serie complessiva di pregiudizi antizigani.
Buona lettura.

PS: Segnalo una serie di ignobili attacchi a un’attrice rom da parte di bravi cittadini italiani


I - I ladri di bambini (11 dicembre 2007)

[Pubblico la prima parte di questo articolo mentre i telegiornali lanciano l’ennesimo scoop su una presunta organizzazione rom dedita allo sfruttamento dei bambini. Non conosco ancora la vicenda nel merito, ma sappiamo, da altri episodi, qual è la manipolazione sensazionalistica che si cela dietro a operazioni di polizia di questo tipo. Non posso nascondere il fatto che le condizioni in cui molti bambini rom vivono siano obiettivamente negative e disumane. Il problema è che le istituzioni per queste condizioni incolpano i rom e la loro cultura, e non se stesse, che di queste condizioni sono responsabili. Se avremo notizie sugli episodi di cui oggi parlano i telegiornali — e per notizie intendo qualcosa di più del frettoloso rimpasto delle veline della questura — interverremo anche nel merito dell’episodio in questione. Per ora basterà leggere le righe che seguono per vedere come lanci giornalistici simili si sono dimostrati operazioni di criminalizzazione volte ad alimentare lo stereotipo del rom ladro, infingardo, sporco e pericoloso per il benessere dei suoi stessi figli.]

Lo scopo di questo articolo è quello di rimettere in discussione e confutare alcuni luoghi comuni su rom e sinti. In particolare verranno esaminati alcuni asserti che il senso comune dà per assodati e che i media contribuiscono a radicare. Si vedrà che molti di questi giudizi nascono dalla necessità di creare un allarme sociale e da un diffuso pregiudizio e non sono confermati da dati concreti. Più avanti vedremo anche che una serie di paletti giuridici permettono di sovrarappresentare statisticamente i medesimi luoghi comuni. Ho diviso questo articolo in tre parti. Nella prima parte analizzerò il luogo comune secondo cui i rom rubano i bambini. Vedremo che questa asserzione è decisamente confutabile nella prima parte del mio intervento e si vedrà nella seconda parte che la verità è — purtroppo e molto spesso — il contrario di questa menzogna: andando per generalizzazioni, sarebbe più realistico dire che gli italiani “rubano” i bambini dei rom. Infine, nella terza parte prenderemo in discussione altri luoghi comuni: il fatto che i rom delinquono più degli italiani, che non mandano i bambini a scuola, che vogliono vivere come nomadi nei campi.
Prima di tutto voglio spiegare quale coincidenza mi ha spinto a scrivere queste righe. Mi ritrovo una sera in una cena a casa di un amico, ci sono altri conoscenti e alcune persone mai viste. Arriva Teresa, una ragazza piccola e scura, dall’aria fricchettona, con capelli ricci e abiti molto colorati. Con lei c’è anche una bambina: biondissima e cogli occhi azzurri, sembra nordeuropea. So che la ragazza fa l’educatrice e penso che la bambina sia la figlia di qualche amica o una delle bambine con cui lavora. Invece rimango sorpreso quando la bambina la chiama mamma. Ovviamente la genetica gioca a dadi, ma i carabinieri scherzano di meno. Teresa intuisce le ragioni del mio stupore e mi racconta di aver passato un brutto quarto d’ora con le forze dell’ordine: l’hanno fermata in auto per un normale controllo. Ovviamente non aveva i documenti della bambina: prima di quindici anni non si fanno di solito i documenti, se non si viaggia all’estero. I carabinieri hanno incalzato la ragazza, accusandola di essere una “zingara” e di aver rubato la bambina. L’equivoco alla fine è stato risolto, ma rimane un dubbio inquietante: cosa sarebbe successo se la mamma scura, ricciola e fricchettona, fosse stata veramente una rom? In assenza di un certificato di nascita della piccola (elemento comune a tanti genitori rom), la bambina sarebbe stata probabilmente portata via dalla propria mamma e Teresa sarebbe stata sbattuta sulle prime pagine dei giornali come ladra di bambini. Certo, il fatto sarebbe forse stato spiegato dopo qualche giorno, e allora avrebbe goduto del risalto che può dare un trafiletto in una cronaca locale. Nelle convinzioni delle persone, rimarrebbe confermato lo stereotipo: i rom rubano i bambini.
Cominciamo a ragionare su questa asserzione, a partire dai dati ufficiali: non esiste alcun riscontro, nei dati diffusi dalla polizia di stato, di casi di minori italiani rapiti da rom. È una bufala, una leggenda metropolitana, come quelle diffuse durante il ventennio sugli ebrei e serve solo per alimentare l’odio nei confronti di questa minoranza. Da fonti Reuter, e sulla base dei dati forniti dalla polizia di stato, i minori scomparsi in Italia nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni) sono stati “portati via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini stranieri, sono casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile assieme al figlio. (vedi qui)
Per quanto riguarda i minori di età tra i 10 e i 14 anni e tra i 15 e i 17 anni, prevalgono tra gli italiani i casi di ragazzi allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori (in questi ultimi casi qualche romantico parlerebbe non di rapimento, ma di evasione, per intenderci).
A questo punto l’obiezione classica è questa: “”ma io mi ricordo di almeno un caso visto al telegiornale di una rom che si è portata via un bambino sotto la gonna”… del resto, si sa, ce l’hanno insegnato a scuola le maestre: “Bambini, state attenti, ci sono gli zingari…. portano via i bambini”. Beh, prendiamo in esame alcuni casi recenti, che hanno un valore esemplare.
Lecco, 14 febbraio 2005. Tre donne rom rumene sono accusate di aver tentato di rapire un bambino. Una donna le ha denunciate: secondo le sue dichiarazioni due rom si sono avvicinate mentre lei camminava per strada spingendo il passeggino. La donna dice di aver sentito dire a una “prendi bimbo, prendi bimbo”. A quel punto la madre italiana si è messa a gridare, ha preso il bambino in braccio e ha dato un calcio a una rom per allontanarla. Le tre rom sono state arrestate poco dopo, mentre passeggiavano tranquillamente vicino alla Caritas. Due erano maggiorenni e sono state immediatamente portate davanti a un giudice, l’altra, minorenne, non può secondo l’ordinamento italiano essere giudicata per direttissima. Le due donne avevano due opzioni, secondo l’avvocato d’ufficio: dichiararsi innocenti, rimanere in carcere e aspettare a lungo un processo, per poi provare a chiarire le circostanze, col rischio di ricevere comunque una pesante condanna; in alternativa, dichiararsi colpevoli, chiedere il patteggiamento della pena (una pratica tipica di molti immigrati che non possono ottenere avvocati a pagamento o aspettare i processi fuori dal carcere) e sperare in una condanna leggera, ammortizzata dalla condizionale. Le due rom hanno patteggiato, sono state condannate a otto mesi: pena sospesa con la condizionale in assenza di precedenti.
Questa condanna ha scatenato un’eco di sdegno patrio: giornali e telegiornali hanno riportato le dichiarazioni di politici, di Presidenti di istituzioni, di rappresentanti di Osservatori per i minori. Tutti inferociti per il lassismo della giustizia italiana, invocavano a pieni polmoni la famosa Tolleranza zero, mentre la Lega Nord ricopriva di volantini la Lombardia, sotto la consegna “giù le mani dai nostri bambini”.
Peccato che le donne erano innocenti, e la loro innocenza è stata dimostrata nel momento in cui la terza rom, quella minorenne, ha subito un processo senza dichiararsi colpevole davanti al Tribunale dei minori. Secondo quanto dichiarato dal PM, “…il contesto in cui si è svolto, […], il fatto che la piccola nomade che ha allungato le mani verso il passeggino tenesse in una un bicchiere per le elemosine, che le zingare non siano scappate…[…] ci fa ipotizzare ad (sic) una forma di minacce e nulla più”. Nessuno si è scusato per quello che le donne rom hanno passato, o per il fatto che le due che hanno patteggiato non hanno ricevuto una difesa legale decente.
Mazara del Vallo, settembre 2004. Denise Pipitone, tre anni, scompare misteriosamente. Il fatto ha una enorme eco mediatica e si fanno ipotesi diverse. Un mese dopo a Milano una guardia giurata vede al mercato una bambina che gli ricorda Denise (vista in foto sui giornali), assieme ad alcune “nomadi”. L’uomo scatta alcune foto col suo cellulare e sporge denuncia. Dopo qualche tempo la polizia identifica la bambina della foto con l’aiuto di alcuni rom rumeni. Si tratta neanche di una bambina, ma di un bambino rom, figlio di una coppia che vive in un campo milanese. La notizia (anzi: la smentita) non viene passata ai giornali, perché riservata a fini investigativi. Nonostante questo nel marzo 2005 i giornali scrivono ancora che la madre di Denise è sicura del fatto che la bambina fotografata dalla guardia giurata sia Denise. Sulla base di una notizia che la polizia conosce come falsa, i campi nomadi italiani sono di nuovo perquisiti (Cfr. L’Arena, 24 marzo 2005).
Milano, 21 aprile 2005. Giornali e televisioni lanciano la notizia del rapimento di un bambino rom rumeno, prelevato da alcuni rom dall’interno del Centro per i Bambini Maltratti (CBM) di via Spadini. Stefan, questo il nome del bambino, era stato preso sei mesi prima dai carabinieri, che lo avevano trovato mentre dormiva sotto un albero. I genitori non avevano potuto vederlo e secondo i giornali il bambino era oggetto “di violenze subite in famiglia” (Repubblica, 23 aprile 2005). Il 28 aprile Stefan viene individuato dalla squadra mobile in casa di una persona che si è offerta come mediatore. Il ragazzo è tranquillo e vicino ai familiari, ma i giornali titolano: “Fine dell’incubo” (Il Corriere della sera, 29 aprile 2005). Il Tribunale dei Minori stabilisce il 5 maggio che il bambino dovrà tornare al CBM, ma che può vedere con regolarità i genitori, secondo i suoi desideri. Infatti Stefan, — ci ricorda il legale della famiglia, Stefano Cozzetto — “non ha mosso alcun addebito ai genitori, né di natura sessuale né di altro genere”.
Palermo, luglio 2007 La notizia dell’arresto di M. F., una “nomade” di 45 anni, compare su tutti i telegiornali italiani come lancio d’apertura. La donna è accusata del tentato rapimento di un bambino di tre anni su una spiaggia siciliana. Interrogata, in un primo momento si rifiuta di rispondere alle domande (forse mal consigliata dagli avvocati), e questo fatto alimenta i sospetti su di lei. In pochi giorni la situazione viene chiarita. La principale testimone a suo carico è una donna che stava in spiaggia e che ammette candidamente agli inquirenti “di essere terrorizzata dagli zingari”. La donna italiana ha visto la rom, ha avuto paura e si è messa a strillare. In seguito ha ammesso di aver avuto solo “la sensazione” che M.F. volesse portar via il bambino. In realtà il bambino stava correndo, M.F. si è piegata verso di lui e la sua gonna si è un po’ aperta. Interrogata dagli inquirenti, la testimone (e unica accusatrice), ha ritratto l’accusa. La stessa azione, compiuta da una bagnante italiana, sarebbe stata considerata come un atto di premura e gentilezza: compiuta da una rom, è diventata un tentativo di rapimento che è finito sulle prime pagine dei giornali. Ancora oggi, a distanza di qualche mese, ho provato a citare vagamente l’episodio parlando con alcuni conoscenti: tutti si ricordano il “tentato rapimento”, ma la notizia della scarcerazione di M.F. e la sua innocenza è stata trasmessa con minore enfasi e quasi nessuno ha saputo raccontarmi l’episodio in tutta la sua integrità. Nell’immaginario collettivo, un altro bambino è stato rapito dagli zingari. Eppure non è vero.
Episodi come questi sembrano utilizzati ad arte per rinsaldare stereotipi negativi e per creare campagne d’allarme che radicalizzano l’odio contro i rom e preparano degli scenari dal punto di vista giudiziario e repressivo sempre più pesanti: per gli immigrati come per i cittadini italiani.
In questa prima parte abbiamo riportato alcuni casi importanti e noti, oggetto di campagne mediatiche allarmistiche e approssimative. In questi casi si è data enorme evidenza all’ipotesi del rapimento da parte dei rom — spacciato come una verità incontrovertibile — e si è dedicato solo uno spazio minore (privo di valore euforizzante: nei trafiletti della cronaca locale, ad esempio) alle smentite. In questo modo l’opinione comune, invece di destrutturare il pregiudizio sui rom ladri di bambini, ha visto rinsaldata quest’immagine anche in presenza di evidenze contrarie.
Nella seconda parte dell’articolo prenderemo in considerazione l’altra metà del problema, quella che forse è la verità celata dai media. Il fatto che molti bambini rom sono “portati via” dagli italiani.
Prima vorrei tornare a parlare della bambina bionda e della mamma scura, incontrate per caso in una cena. Mentre tutti sono rimasti scandalizzati per la mancanza di sensibilità dei carabinieri, a me è venuto da dire che questo era un esempio di una tremenda prassi di criminalizzazione dei rom. Non l’avessi mai fatto: un tipo che non conoscevo ha iniziato a dire che i rom sono gente che non hanno né patria né bandiera e che — pertanto? – rubano i bambini. Ora: al di là del fatto che almeno una bandiera ce l’hanno, e al di là del fatto che di solito è proprio chi ha una patria e una bandiera che poi commette i peggiori crimini contro l’umanità, aldilà di tutto questo a me sembrava evidente che l’episodio appena raccontato a tavola fosse un esempio di una costruzione immaginaria di un crimine. Una montatura insomma mal riuscita, perché l’indiziata aveva un alibi che reggeva: era italiana. Eppure, proprio di fronte a un’evidenza contraria, quell’episodio ha infiammato gli astanti e non è mancato chi si lamentava della cattiveria “degli zingari”. Neanche l’evidenza, o il disvelamento della menzogna, riesce a dissipare le nebbie del pregiudizio razziale e i luoghi comuni consolidati. Vediamo se la realtà ci fornisce qualche elemento per raccontare una storia interessante: gli italiani “rubano” i bambini dei rom. È un paradosso, perlomeno rispetto al luogo comune che inverte i poli del crimine, sicuramente una generalizzazione. Eppure, secondo alcune stime, ci sono stati almeno 500 casi di bambini rom “portati via” negli ultimi venti anni, in Italia.


II - Chi ruba i bambini Rom? (16 dicembre 2007)

Nella prima parte dell’articolo ho messo in discussione l’idea che i rom rubino i bambini italiani. La seconda parte insiste nella sua pretesa di paradossalità rispetto al senso comune. Non solo non sono i rom a rubare i bimbi italiani: sono gli italiani a rubare i bambini ai rom. Secondo alcune stime si possono contare 500 casi registrati negli ultimi venti anni. Una statistica più dettagliata è in corso d’opera presso una università veneta, ma ancora non se ne conoscono i risultati.
In genere i rom perdono i loro bambini sullo sfondo di due contesti diversi.
a) un primo scenario (più inquietante, probabilmente raro ma su cui non c’è molta documentazione) riguarda alcuni casi di bambini rom nati in ospedali italiani, tolti alle madri in seguito al mancato riconoscimento, o dopo degenze troppo lunghe e in assenza di visite periodiche dei familiari. Tratterò il punto a) nelle righe che seguono.
b) un secondo scenario (ampiamente diffuso e documentato) è quello dei bambini già più grandi, sottratti ai genitori con la scusa che questi non garantiscono le necessarie cure (abitative, scolastiche, etc.). Al punto b) sarà dedicato il prossimo capitolo.
Gran parte del quadro giuridico e degli episodi che cito in questo capitolo si riferiscono agli anni Novanta e può darsi che la situazione sia cambiata, però i disastri nelle vite dei rom prodotti da queste leggi si fanno sentire ancora oggi.
La legge italiana — o almeno quella valida negli anni Novanta, quando si sono registrati i casi indicati di seguito – prevede che il riconoscimento del figlio avvenga entro dieci giorni dalla nascita. La denuncia di riconoscimento deve essere presentata dai genitori, o da un delegato, alla presenza di due testimoni, tutti con documenti d’identità validi. Per gli stranieri, oltre a un passaporto valido, è necessario un nullaosta al riconoscimento, da presentarsi sempre entro dieci giorni, che viene rilasciato dalle autorità consolari del loro paese di origine. Genitori minori di sedici anni non possono riconoscere in alcun modo il loro figlio.
Questa legge ha posto una serie di problemi ai rom: ad esempio, spesso i rom si sposano e hanno figli prima dei sedici anni (tra l’altro il costume dei rom prevede un matrimonio non riconosciuto dalle autorità civili, e questo crea difficoltà non solo nel riconoscimento dei neonati, ma anche nelle ricongiunzioni familiari e nei colloqui in carcere); molti rom provenienti dalla ex Jugoslavia negli anni Novanta non avevano un passaporto valido o avevano difficoltà a rinnovarlo, per mancanza di uffici consolari o per l’alto costo dei rinnovi; per la stessa ragione, e per l’inefficienza degli uffici consolari, è difficile per i rom produrre, entro dieci giorni dalla nascita del bambino, il nullaosta al riconoscimento.
Ad ogni modo, passati dieci giorni, senza il passaporto e il nullaosta è impossibile riconoscere il proprio bambino, anche di fronte all’evidenza del parto o alla testimonianza del personale medico.
Cosa succede dopo il decimo giorno? Il bambino è dichiarato in stato di abbandono e il Tribunale dei Minori può decidere: a) di affidare il bambino alla madre (se maggiore di 16 anni) o a un parente affidabile e controllabile; b) se affidare un bambino prima a un istituto, poi a una famiglia non rom, e infine darlo in adozione.
La paura di perdere i bambini in alcuni casi ha spinto i rom a evitare di rivolgersi alle aziende ospedaliere italiane, partorendo i bambini nelle roulotte, in condizioni igieniche pericolose. Questo in realtà produce un circolo vizioso da cui si esce con difficoltà: i bambini nascono già clandestini e ricevono talvolta dei documenti falsi. La loro scoperta induce il solito clamore mediatico sulla presenza di bambini rapiti, che poi spesso non sono altro che bambini rom non dichiarati, nati nelle roulotte. Il dilemma per i rom che vivevano negli anni Novanta in Italia era quindi: rischiare di far nascere un bambino in un ospedale, con la possibilità che, in caso di clandestinità dei genitori, il bambino sia affidato a un istituto; oppure farlo nascere nei campi, cioè nei ghetti, col problema che il bambino diventa ipso facto sans papiers e i genitori rischiano di essere sbattuti nei telegiornali come ladri di bambini. Con queste premesse legislative, si finisce in una impasse da cui non si esce.
A queste difficoltà ne va aggiunta un’altra: il fatto che i bambini rom possono portare dei cognomi diversi da quelli dei genitori. Questo dipende da più variabili: se chi fa il riconoscimento è il padre, se la madre, o altri parenti; se il riconoscimento avviene in Italia o nei paesi balcanici. Ad esempio, mi è stato fatto notare che il codice di famiglia rumeno permette di dare al figlio il cognome che la madre aveva prima del matrimonio. A questo si aggiunge il caso di rom con documenti scritti con caratteri cirillici, o con una combinazione, almeno nei nomi propri, di caratteri cirillici e latini, che dà luogo a tutta una serie di problemi di traslitterazione. Il risultato è che gli agenti di polizia tendono ad innervosirsi quando incontrano bambini rom che hanno cognomi diversi da quelli degli adulti che sostengono di essere i genitori: eppure è una questione che si spiega facilmente considerando tutti gli elementi detti sopra.
I rapporti tra rom e ospedali italiani sono talora difficili anche per un’altra ragione. Talvolta i rom, coscienti delle difficoltà per i bambini ammalati di trascorrere l’inverno in una baracca di lamiera non riscaldata, lasciano i loro figli negli ospedali, anche per problemi non gravi, per periodi lunghi. Per quel che sostengono alcune donne rom, ci sono ospedali che comprendono le loro difficoltà e chiudono un occhio su questa pratica, permettendo ai bambini di sopravvivere nei giorni più rigidi. Se però la permanenza si fa lunga e le visite dei genitori rare, l’ospedale deve avvertire le autorità competenti, che possono emanare un decreto di abbandono, affidando allora il bambino prima in un istituto, e poi in affidamento a una famiglia, che è l’anticamera dell’adozione.
Molte donne rom hanno perso i bambini così. I servizi sociali degli ospedali non conoscono bene la cultura rom, e soprattutto non hanno ben presente la loro situazione qui in Italia: le madri che lasciano i bambini in ospedali non sono spesso nomadi, tutt’altro: talvolta sono impedite nei movimenti dalle autorità di polizia, altre volte sono obbligate a una sorta di nomadismo coatto: incorrono in fogli di via, in traslocazioni forzate in luoghi lontani dalle città, in pratiche che le impediscono di fare ritorno negli ospedali. Alcune volte le donne rom vengono incarcerate, anche per tempi molto brevi, magari venti giorni di condanna per direttissima per un furto di un pezzo di cacio in un supermercato (un reato che non vedrebbe mai un italiano o un non rom finire dietro le sbarre): quando la donna esce si trova in mano un foglio di via, e ci vogliono settimane prima che possa tornare a visitare il figlio all’ospedale (magari infrangendo un divieto amministrativo di allontanamento dal territorio comunale emanato arbitrariamente dai vigili urbani al momento dell’uscita dal carcere). Può capitare che, dopo il carcere e il foglio di via, la rom arrivi in ospedale e scopra che il suo bambino non c’è più. In queste circostanze diventa difficile per i rom fermare le pratiche di affidamento/adozione, considerato anche l’analfabetismo di molte coppie, che hanno difficoltà a interagire con la burocrazia italiana né possono rivolgersi facilmente ad avvocati a pagamento.
Riassumendo, i problemi che possono insorgere negli ospedali italiani sono di due tipi: mancato riconoscimento e dichiarato abbandono per degenza troppo lunga e non intervallata da visite periodiche. Il risultato, in una serie di casi è l’affidamento del minore. A quel punto spesso è difficile riuscire a recuperare il bambino per le famiglie rom, anche perché una volta che il bambino è affidato i genitori naturali non possono conoscere la sua residenza.
A questo scenario bisogna segnalare un caso diverso, e più inquietante, che mi è stato segnalato da Piero Colacicchi, presidente della onlus OsservAzione che da anni si batte contro la discriminazione ai danni dei rom. Secondo Colacicchi, “una quindicina di anni fa apparve evidente che a troppe famiglie rom dimoranti nel circondario di Firenze veniva reso difficile iscrivere i loro neonati all’anagrafe, neonati che poi venivano dichiarati in stato di abbandono e quindi in necessità di adozione”. A quel punto alcune infermiere di un ospedale fiorentino furono citate in giudizio. I termini esatti dell’imputazione non si conoscono, ma si trattava, nelle parole di Colacicchi “di aver presentato come così complesse le pratiche di iscrizione all’anagrafe da rendere tale iscrizione impossibile nei termini di legge.” Il processo però non venne mai celebrato ed il reato cadde in prescrizione.
Quest’ultimo caso è addirittura esorbitante, ma già la norma di legge, se non è cambiata negli ultimi anni, non riesce a tutelare i minori rom. Anzi: negli anni Novanta li ha posti in una situazione allucinante. Vedremo nel prossimo capitolo che la situazione ai nostri giorni non è più rosea: forse negli ospedali la situazione non è più tanto grave, ma ancora adesso i bambini dei rom vengono sottratti ai loro genitori, sulla base dell’idea che i rom non si preoccupino delle loro condizioni di salute, o della loro formazione scolastica, o si divertano a farli dormire all’addiaccio. Nel prossimo capitolo ci occuperemo di questa situazione, dimostrando che nasce da un’urgenza ipocrita: coloro che vogliono tutelare i piccoli rom sono gli stessi che il giorno prima li hanno sbattuti per strada, distruggendo con le ruspe le loro abitazioni di fortuna.


III - Il caso L.S.C. (19 dicembre 2007)

Firenze, piazza della stazione di Santa Maria Novella. Sono circa le 23 del 5 ottobre 2007. I vigili urbani che pattugliano la zona, abituale ritrovo di tanti immigrati costretti a dormire all’aperto, identificano una coppia di rom rumeni, D.S. e D.S., e la loro bambina, L.S.C. La polizia municipale diffida il padre “a tenere la propria figlia L.S.C. in uno stato di disagio costringendola a dormire, durante tutto l’arco della giornata, all’aperto e allevandola conseguentemente in luoghi insalubri e pericolosi.” Il padre della piccola rom viene anche avvisato che “nel caso la bambina fosse rintracciata dagli organi di polizia continuamente in uno stato di disagio gli stessi, ai sensi dell’ art. 403 c.c., provvederanno a collocare la minore L.S.C. in un luogo sicuro[…]”
Ma qual è la storia di questa coppia di rom che è costretta a vivere per strada?
D.S. e D.S. — padre e madre hanno nomi diversi ma le stesse iniziali — arrivano un giorno a Firenze dalla Romania. Una coppia di trentenni in fuga dal loro paese, stanchi di soffrire la fame, di lavorare per i vari padroni di turno, molti dei quali italiani, un mese sì e tre no, in cambio di quattro spiccioli. Un giorno preparano sacchi e valigia e coi loro due bambini, il maschio più grandicello e la piccola, nata nel 2002, arrivano nel capoluogo toscano. Comincia una vita ancora più difficile, appoggiati a situazioni di fortuna, nella periferia fiorentina. Le loro condizioni attirano l’attenzione degli assistenti sociali, che invece di darsi da fare per fornire, come si fa nella maggior parte dei paesi europei, un aiuto all’alloggio e un sussidio, cominciano a togliere alla coppia il figlio maggiore, che viene trasferito in una comunità in provincia di Arezzo.
Intanto il padre, attraverso il tam-tam dei migranti, riesce a inserirsi nel giro dei lavavetri. Il lavoro ai semafori è integrato da un’altra attività precaria: D.S. è bravo con la fisarmonica, e la sera gira per i ristoranti per ottenere qualche euro dai turisti. Ma, in attuazione dell’ordinanza del sindaco Domenici contro i lavavetri, i vigili urbani gli sequestrano lo spazzolone col secchio. Gli rimane ancora la fisarmonica e con questa continua per un po’ a suonare per i ristoranti. Peccato che a Firenze ci sono tanti intrattenitori di successo e un intrattenitore abusivo non serve a niente: gli portano via anche la fisarmonica.
Eccolo qui il sogno italiano di questo rom rumeno, costretto a vivere ormai di elemosina con moglie e figlia appoggiate contro il muro della stazione. Finora gli italiani gli hanno portato via un figlio, lo spazzolone, la fisarmonica. Ma non è finita. Dopo quella sera del 5 ottobre, gli portano via anche L.S.C., la bambina più piccola: prima “tradotta” presso il Centro Sicuro di Firenze e in seguito spostata in un luogo segreto.
Nonostante il dolore e i pochi mezzi, i genitori non si danno per vinti. Devono sbrigarsi ed evitare altri colpi della sfortuna: dovessero ricevere in base al decreto Amato un’ingiunzione di allontanamento dal territorio nazionale, i servizi sociali avviserebbero il Tribunale dei Minori del fatto che i genitori non si sono curati di ricercare la bambina e dopo cinque o sei mesi L.S.C. verrebbe data in adozione. Attivano alcuni canali. Grazie a una associazione di volontariato vengono a sapere che la bambina è stata trasferita in provincia di Grosseto. Si muovono anche dei loro amici rom che vivono sul territorio maremmano. Alla fine scoprono che L.S.C. si trova in un istituto nei pressi di Follonica.
A questo punto l’associazione di volontariato aiuta i genitori a ottenere un colloquio col Tribunale dei Minori. Per ora il primo risultato è stato che la bambina, accompagnata dal personale dell’Istituto, è stata condotta a Firenze, per un colloquio coi genitori di due ore. Poi via: ritorno nella prigione maremmana.
“Troppo bella per essere una zingara”. Questo caso non è una eccezione. Potrei citarne altri, ma sarebbe un elenco lungo. Rimando alla casistica indicata in due rapporti sulla discriminazione di rom e sinti in Italia, che cito in coda a questo articolo. Cito solo un caso, perché paradossale, contenuto in un articolo pubblicato sul sito dell’European Roma Rights Center, e visibile qui in inglese. E’ il caso di una bambina rom, Elvizia M., cresciuta nel campo Casilino 700, che il 14 giugno del 1999 fu tolta ai genitori – sulla base del presupposto che l’avessero rubata – per il colore degli occhi della bambina: “troppo bella per essere una zingara”, dissero le autorità, guardando gli occhi celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro. Il padre dovette correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per far vedere un paio di occhi, celesti, belli e sicuramente più umani di quelli che lo circondavano nell’aula. A quel punto la bambina poté tornare ad abbracciare i suoi genitori. Il fatto che essere belli significhi non essere rom, o che solo questo basta a togliere un bambino ai suo genitori, dimostra allo stesso tempo i pregiudizi degli italiani e la debolezza dei rom nella nostra società.
Pratiche di deziganizzazione. Già prima della seconda guerra mondiale, i figli dei rom venivano sottratti ai loro genitori per consegnarli a famiglie sedentarie, al fine di disperdere la continuità culturale ed etnica del loro popolo. La difficoltà sta (come nel caso della Pro Iuventute svizzera degli anni ’50, che allontanò qualche centinaio di bambini jenish dalle loro famiglie) nel fatto che l’operazione passa sempre per caritatevole ed i genitori per criminali. Si tratta di una situazione paradossale, ingiusta, che nasce dall’idea di proteggere i bambini, ma che non comprende né le ragioni del disagio né si interessa delle sofferenze dei genitori. Anzi: diciamo che gli stessi promotori di queste azioni sono spesso i principali protagonisti della repressione ai danni dei rom, ovvero collaborano fattivamente ai traslochi forzati, agli sgomberi, alle distruzioni periodiche degli accampamenti di fortuna dei rom. Ovvero: sono loro a creare il disagio che poi si riflette sui bambini. Si può anche pensare che magistrati, assistenti sociali, polizia e vigili urbani agiscano in buona fede quando si preoccupano della sorte dei piccoli rom: è umano preoccuparsi del fatto che una bambina di tre anni dorma per strada alla stazione. Ma non capisco chi ipocritamente dice di preoccuparsi, quando poi è lo stesso che il giorno prima l’ha sfrattata, lei e la sua famiglia, o le ha distrutto la roulotte, sbattendola per strada, o ha negato a suo padre la possibilità di racimolare qualche spicciolo, col sequestro di una fisarmonica e dello spazzolone lavavetri. Questo non è una preoccupazione morale per la sorte dei bambini. Anzi. Si fa un uso ipocrita della loro sorte: producendo la miseria che permette poi di gridare allo scandalo, si fa solo campagna contro i rom, favorendo la deziganizzazione dei loro bambini e alimentando uno stereotipo negativo.


IV - Porrajmos (21 dicembre 2007)

Forse l’unico popolo che non ha mai dichiarato una guerra. L’unico popolo che non ha mai preteso un territorio da governare, che non ha mai innalzato dei “sacri” confini da difendere a suon di mitraglia.
Hanno continuato a camminare, spingendosi da oriente a occidente.
Li hanno massacrati i nazisti negli zigeunerlager e nessuno ha riconosciuto il loro olocausto.
Oggi, più che mai, sono circondati dai sospetti e da pratiche che rendono le loro esistenze sempre più marginali.
Lessico veltroniano. “Bonificare”. “Sanare”. Chi usa questi lemmi da esperto di profilassi sociale? Il sindaco di Roma, citato in una nota Ansa del 6 dicembre. Non contento di aver “demolito”, “sgomberato”, “spostato”, “ricollocato” e “delocalizzato”, commenta i risultati raggiunti nell’urbanistica del disprezzo: “un lavoro grandissimo, senza paragoni”. Con altri occhi, ai rom rimane il diritto di usare il termine “porrajmos”, che in rromanì significa sia “distruzione” che “olocausto”.
Dai verbi ai nomi propri. Sembravano lontani gli anni in cui gli italiani si scoprirono figli del ceppo di Ario e la persecuzione dell’ebreo era atto meritorio sancito dai codici della patria. A quell’epoca non mancava chi, per nascondere le proprie origini, cambiava il proprio nome. “Mai più!”, giurarono i padri della repubblica. E invece succede ancora. Casi di rom costretti a cambiare nome per nascondere la propria identità succedono sempre più spesso. Gli ultimi casi di cui mi è giunta voce sono registrati a Pescara.
Dai nomi alle cifre. Ogni giorno siamo storditi da cifre che ci ricordano quanto sono criminali i cosiddetti “extracomunitari”. Ragioniamo un po’ su queste cifre “criminali”. Consideriamo…
– che le cifre riportate da tanti media con abbondanza di zeri non si basano sulle sentenze ma sulle denunce, che sono statisticamente più elevate e meno verificabili;
– che queste cifre conteggiano i detenuti in attesa di giudizio. Ora, è vero che molti stranieri stanno in carcere (nell’attesa, non sempre breve) di un giudizio, ma è solo qui che si manifesta la loro superiorità numerica. Prendiamo alcuni dati esposti in uno studio della Fondazione Michelini, riferiti al carcere fiorentino di Sollicciano. A Sollicciano i detenuti stranieri sono la maggioranza tra quelli in attesa di giudizio, ma diventano una minoranza se si considera la popolazione con una pena passata in giudicato. Questo significa che spesso vengono arbitrariamente arrestati e solo dopo il processo riescono a dimostrare la propria innocenza. Di fatto, nell’affollatissimo carcere di Sollicciano, al 4 ottobre 2007 solo il 14,7 degli stranieri stava scontando una pena definitiva, gli altri erano lì ad aspettare un processo.
– ancora: gli immigrati di Sollicciano stanno in carcere per pene detentive molto brevi (spesso per aver commesso un solo reato, laddove i residenti italiani espiano pene molto più lunghe e scontano la violazione di più fattispecie penali). Questo dimostra che gli immigrati non delinquono più degli italiani: solo subiscono, checché se ne dica nel becero qualunquismo dei giornali, un trattamento più severo, senza godere di arresti domiciliari o sanzioni amministrative alternative, senza l’applicazione di benefici condizionali e spesso senza un’assistenza forense decente (nessun patrocinio gratuito — per cui serve residenza e lavoro regolare, anche se mal pagato — e quindi il ripiego sull’avvocato d’ufficio che, nel minimo sforzo, cerca sempre il patteggiamento): tutto questo permette, ai tanti che agitano lo straccio della “tolleranza zero” di sostenere l’equazione criminale=immigrato.
A questo va aggiunto:
– che è in azione una tendenza persecutoria e paranoica che spinge chi ha subito un furto a denunciare di principio uno straniero;
– che questa tendenza è rafforzata spesso dagli agenti di pubblica sicurezza che raccolgono le denunce;
– che infine le cifre sui cosiddetti crimini degli immigrati sono ingigantite da un elemento chiave: il fatto che essendo gli immigrati stati dichiarati illegali, in quanto obbligati in tanti alla clandestinità, sono ipso facto criminali, e delinquono per il fatto stesso di respirare dentro all’italico suolo.
Visto tutto ciò si può affermare che, in genere, gli immigrati non delinquono più degli italiani. E, se anche accadesse, sarebbe comprensibile che comportamenti illegali siano più diffusi in quei gruppi sociali che soffrono di una situazione di disuguaglianza di accesso alle risorse economiche e di riconoscimento sociale.
Ripassiamo adesso alcuni luoghi comuni contro i rom e i sinti, in maniera un po’ affrettata (non sono comunque più ragionati i luoghi comuni di chi stigmatizza gli “zingari” tra un aperitivo e un altro).
Non mandano i loro figli a scuola. Si può anche discutere l’ipotesi che la scuola, come la conosciamo, sia l’unico modo per creare un percorso educativo, ma non è questo il luogo adatto. Di certo esiste una corrente di pensiero che parla di descolarizzazione (si pensi agli scritti di Ivan Illich e alle vie alternative al sistema-scuola nella costruzione di un percorso educativo), mentre altre ipotesi valorizzano le culture orali e non letterate, evidenziando alcune facoltà cognitive che la scrittura e l’alfabetizzazione in qualche modo fanno appassire.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di quei bambini che si trovano la casa sfasciata dalle ruspe, con i cingoli che passano sopra i loro quaderni. Coi loro genitori costretti a sbaraccare, a raccattare tra le lamiere qualche misero bene. Costretti a traslocare ogni tre mesi in qualche posto sempre più lontano dalla tangenziale che cinge la città. Sempre più lontani dalla scuola. Una domanda. Riuscireste a mandare i vostri figli a scuola senza una macchina, vivendo a 15 km dalla scuola, costretti a un trasloco coatto ogni pochi mesi, e coi vostri cocci distrutti dalle ruspe? Riuscireste? E se anche ci riusciste, che ne dite se i vostri figli tornassero a casa imbronciati perché gli altri non rivolgono loro la parola? Perché i maestri sono stressati dato che i genitori degli altri bambini hanno minacciato di cambiare scuola solo perché in quella classe ci sono gli “zingari”… Allora… sono i rom che non mandano i bambini a scuola, o è la società italiana che fa di tutto perché i bambini rom non riescano neanche a arrivarci a scuola? (per non parlare dei progetti di scuole dentro ai campi, che sono delle scuole-ghetto che servono solo a mantenere l’apartheid tra rom e non rom).
Devono parlare italiano se vogliono stare qui… (con la variante: sono stranieri…). Non si capisce perché. Nessuno va a dire una cosa del genere per esempio ai cittadini americani che vivono nel centro di Firenze. Una colonia di circa 5mila persone, molte delle quali vivono in Italia per un periodo di almeno sei mesi senza fare neanche lo sforzo di parlare italiano (non basta frequentare i corsi di lingua: è noto che le lingue si imparano per strada, mescolandosi con gli indigeni). A Firenze in centro parla inglese il giornalaio, il trippaio, anche il trombaio (non spaventatevi: è solo l’idraulico). Bene, ormai in centro a Firenze si parla innanzitutto inglese. E nessuno si lamenta.
Si lamentano invece dei rom, che di solito parlano almeno due lingue (cioè il rromaì e l’italiano, più in molti il rumeno, o il serbo, o altre lingue del loro paese di origine): essendo i primi veri europei, i primi ad avere una coscienza multiculturale, la loro lingua sembra cominciare ad ospitare tante lingue diverse, quasi fosse un esperanto (o almeno a me, che certo non sono un esperto di rromanì, e quindi può darsi che mi sbaglio, ha fatto questo effetto ascoltare per alcune ore di seguito alcune conversazioni di rom).
Sul fatto di essere stranieri. Beh, non è mica una colpa. Per me anzi è un pregio. Ricordo ancora quei bei vecchietti internazionalisti che si vantavano d’esser stati “stranieri in ogni luogo” (variante libertaria) o “cittadini del mondo” (variante comunista). Beh, adesso gli stranieri (poveri) sono visti come barbari invasori… ma siete sicuri che i sinti siano stranieri? Guardate che in Italia non ci sono solo i siciliani, i romani, i piemontesi e via dicendo… in Italia — anche se le istituzioni tardano a riconoscerlo (o forse proprio per questo) — la gente non si rende conto che si parlano lingue non italiane che non sono immigrate: sono lingue di italiani che vivono da secoli nella penisola. I sinti sono italiani quanto i piemontesi o i toscani… sono italiani da sempre, almeno dal cinquecento,quando anche i miei avi probabilmente erano arabi o normanni. Ci sono rom che parlano l’italiano come lingua seconda e sinti e rom che parlano l’italiano come lingua madre, anzi, neanche un italiano regionale, ma parlano dialetto veneto stretto. Eppure è comodo non riconoscere questa minoranza linguistica, parlare di loro come se fossero degli stranieri (al punto che a farsi carico di loro, anche in Veneto e nonostante le loro carte d’identità, in certi casi è l’ufficio stranieri!).
Sono nomadi… non vogliono una casa… In realtà pochi rom sono nomadi ai nostri giorni. Molti vivono in case, facendosi spennare ogni mese con affitti sempre più esosi, come noi. Altri vivono in quei ghetti che si chiamano campi nomadi. Più che nomadi, questi ultimi sono concentrati in ghetti. Molti rom, soprattutto quelli rifugiatisi in Italia dopo i conflitti nella ex-Jugoslavia, prima di arrivare in Italia avevano una casa. Adesso li chiamano nomadi, alimentando l’idea che non siano sedentari. Invece sono solo degli sfollati a cui l’Italia non riconosce il diritto di un tetto. Sono stati “nomadizzati” in maniera coatta. Molti in realtà non sono affatto nomadi: sono semplicemente senza fissa dimora (secondo alcune stime le persone senza fissa dimora in Italia sono tra i 65 e i 100mila).
Oggi solo pochi continuano la vita veramente nomade del tempi andati, coi camper che sostituiscono i carretti d’un tempo. E hanno tutto il diritto di farlo. L’umanità ha un passato lungo e meraviglioso di nomadismo alle spalle. Ma non si può agitare l’etichetta di nomadi solo per giustificare i continui traslochi. Questo non è nomadismo: è deportazione.
Non hanno voglia di lavorare… Oggi i rom possono accedere solo ai lavori pagati peggio, ai lavori più duri, in nero, nelle condizioni di sicurezza meno garantite. (E non so se nelle loro condizioni gli onesti italiani avrebbero tanta voglia di lavorare). Spesso per continuare a lavorare devono nascondere il fatto che vivono in un campo nomadi. Altri sono in Italia come richiedenti l’asilo politico, e secondo una legge paradossale non possono lavorare mentre attendono il riconoscimento della loro domanda: a volte devono aspettare anche due anni, e al massimo possono ottenere una borsa lavoro di qualche euro. Spesso non trovano lavoro perché i datori di lavoro hanno paura di loro.
Infine faccio presente che non aver voglia di lavorare non significa essere disumani. Direi che è un comprensibile comportamento umano. Molti popoli di cacciatori e raccoglitori dedicano al lavoro una parte minima della loro vita quotidiana. Ma anche qui finirei per aprire un altro margine di discorso, e quindi mi fermo.
Infine… chi difenderà i sacri confini? Il problema se l’è posto anche Beppe Grillo, spaventato da troppa televisione (non basta non andarci, a volte è anche meglio non guardarla: sennò si finisce a credere che il mondo sia pieno di invasori alieni di lingua romena, e poi bisogna leggersi Carmilla, che è anche una rivista di fantascienza, per farsi dire che non è vero). Gli rispondo con le parole dell’antropologo David Graber. A chi difende il diritto di circolazione delle merci, limitando il diritto di circolazione delle persone, Graeber obietta: “se dobbiamo essere globalizzati, facciamolo fino in fondo: eliminiamo i confini nazionali. Lasciamo che la gente vada e venga come vuole, e viva là dove più desidera”
Paura? Arriveranno i barbari ad abbeverarsi a San Pietro, come sognava quel romantico di Coerderoy? Ma facciamo ancora parlare Graeber, che secondo me coglie il nocciolo della questione: “ Nel momento in cui un abitante della Tanzania o del Laos non avrà più problemi legali per andare a vivere a Minneapolis o a Rotterdam, i governi dei paesi ricchi e potenti faranno di tutto per assicurarsi che la gente della Tanzania o del Laos preferisca starsene a casa propria.” Sostituite Laos con Romania e Rotterdam con Milano: il gioco è fatto. Se non volete essere invasi, finite di invadere. Fino a quando gli uomini d’affari italiani creeranno povertà nei paesi più deboli, non potranno ottenere altro che flussi di sventurati che vengono a bussare alle loro porte.
Eppure questo non basta. Perché se anche non ci fossero invasori nei due sensi di marcia, anche allora bisognerebbe difendere il diritto alla mobilità della gente. Perché non si può lasciare la mobilità ai viaggiatori con la VISA e la Lonely Planet. E’ bello anche gettare la propria vita nell’ignoto, spostarsi in un altro paese, anche a costo di balbettare una lingua estranea, anche solo per inventarsi un’altra vita. E’ questo che cercano tanti ragazzi rumeni. Farsi un’esperienza di vita e lavoro in Italia. Come abbiamo fatto tutti noi a Londra. E’ tanto strano?

Dedica
Dedico questa serie di articoli a P.N., una bambina rom che un giorno, mentre si trovava su un’auto coi suoi genitori, si è ritrovata con un proiettile conficcato in testa. Era il 22 maggio 1998 quando i carabinieri di Montaione, 40 km a sud-ovest di Firenze, ricevettero una chiamata che segnalava la presenza di un’automobile sospetta con alcuni “zingari” a bordo. Secondo la versione officiale l’auto non si è fermata all’alt e i carabinieri hanno sparato. Questa versione è stata accolta dagli inquirenti e i militari sono stati prosciolti da ogni addebito. La bambina, a quasi dieci anni da questo episodio, è ancora in coma.
Fonti
 OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom e sinti); ERRC (European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma, Carta, 2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.


mercoledì 3 giugno 2015

Saronno. Luciano Silighini Garagnani è diventato Luciano Francesco Silighini Garagnani Lambertini, ma ha fatto lo stesso la figura che si meritava.


Luciano Due Nomi e Tre Cognomi è un praticante dell'islamofobia poco vestita.
Quello dell'islamofobia con pochi vestiti (nell'ordine, prima i pochi vestiti, poi l'islamofobia quando avanza un po' di tempo) è un lido cui molti "occidentalisti" sono approdati nonostante una autocertificata "educazione prettamente cattolica fin dall'asilo".
A fine maggio 2015 si è tenuta una consultazione elettorale e Luciano è riuscito a fare a Saronno una figuraccia almeno pari a quella fatta a Siena qualche anno fa.
Nelle elezioni locali, Luciano Due Nomi e Tre Cognomi è arrivato ultimo, raccogliendo venti voti in più rispetto alle 400 "schede nulle", categoria che comprende gli elettori che utilizzano matita copiativa e pezzo di carta per insultare istituzioni, gendarmi e figure invise di ogni genere. 
Peccato: tanti autocertificati studi in Filosofia, Scienze Religiose, Teologia e Diritto Canonico, tanti autocertificati lombi nobili e tante autocertificate fiammelle tricolori disegnate sui quaderni dell'asilo non gli sono valse neanche una cadrèga in un borgo qualunque, dove peraltro la subumanità bestiale dell"occidentalismo" raccoglie già i consensi della maggioranza dei sudditi.
Questo testimonia solo come certi angolini e certa "offerta politica" siano gremiti ancora oggi, non fa certo fede per una aumentata consapevolezza dell'elettorato passivo, cui sarebbe ridicolo credere.
I sugheri galleggiano benissimo: il nostro consegnare per la seconda volta Luciano Eccetera Ecceterini al dileggio dei lettori avrà per questo, probabilmente, brevissima durata.

Da tempo ci mancano notizie di un altro Campione d'"Occidente", quel Nello Rega che costrinse Hezbollah a braccarlo fin sotto casa. E' probabile che Nasrallah ed i suoi combattenti abbiano cose più serie cui pensare ed abbiano deciso di soprassedere.
Un po', lo confessiamo, ne siamo dispiaciuti.