martedì 19 febbraio 2019

Alastair Crooke - La guerra di Trump contro la Cina per rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa. Conseguenze tragiche e impreviste.



Traduzione da Strategic Culture, 18 febbraio 2019.


Una storia come questa dovrebbe suonare familiare. Una grande potenza imbattibile sul piano militare e su quello del progresso tecnologico esporta in tutto il mondo il suo modello economico basato sul libero mercato. Le frontiere crollano, le distanze si restringono e il mondo sembra diventare più piccolo. A quel punto però si afferma un'altra potenza la cui politica di dominio si basa su un sistema fondato sul nazionalismo economico e su una politica industriale [a direzione statale]. Quest'ultima prospera, la prima ristagna, e questo provoca un conflitto che non porta soltanto allo scontro armato, ma a un declino del commercio mondiale e dei valori dei titoli lungo dieci anni. Il mio riferimento è, chiaramente, al primo periodo di globalizzazione che ha interessato la Gran Bretagna e la Germania, che finì con la prima guerra mondiale e con la grande depressione. Fu un periodo di boom che durò quasi ottant'anni, nel corso dei quali i volumi del traffico commerciale e dei titoli raddoppiarono quasi. Eppure, per dirlo con le parole usate dalla Banca dei Regolamenti Internazionali nella relazione annuale del 2017, "il crollo della prima ondata globalizzatrice ebbe conseguenze notevoli almeno quanto la sua costruzione" ed ebbe come risultato "il quasi completo scompaginamento" dei traffici internazionali e dei flussi finanziari.
Così scrive sul Financial Times Rana Foroohar, aggiungendo che "I mercati non si accorsero del rovescio imminente. A rischio di sembrare una Cassandra, mi chiedo se oggi gli stessi mercati non siano altrettanto disattenti nei confronti di quanto sta succedendo fra Stati Uniti e Cina. Il conflitto che esiste fra queste due grandi potenze presenta ovviamente delle similitudini col caso precedente non soltanto in termini di opposizione tra modelli economici e di crescente nazionalismo, ma anche nella durata temporale della fase di crescita che precede il crollo." Una buona osservazione.
Certo, la determinazione di cui oggi gli Stati Uniti danno prova nel ridimensionare la Cina si manifesta per lo più in una sorta di "tranquilla divisione" della sfera globale in uno spazio economico statunitense e in uno russo-cinese da separare e ostracizzare. A questa si accompagna una stretta radicale nel settore tecnologico e in un'ampia sfera industriale di interesse per la sicurezza nazionale; su questo vigilano l'egemonia del dollaro, dell'energia, e sul piano militare.
Potremmo chiamarla anche deglobalizzazione, ma ormai c'è anche dell'altro: è quasi un processo di abbandono di un qualche cosa che fino a oggi è stato omogeneo nel contesto di una complessa struttura a rizoma. L'isolamento da un sistema le cui radici -economiche e politiche- sono intrecciate e annodate tra loro. Qualsiasi cosa si pensa della globalizzazione, sia essa buona o cattiva, la guerra che Trump ha intrapreso contro la Cina per rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa comporterà probabilmente degli strascichi indesiderati che potranno senz'altro sfociare in disordini e tragedie come quelli del secolo scorso.
Non si tratta di supporre che l'attrito fra Stati Uniti e Cina finirà così come sono finite le ostilità fra Gran Bretagna e Germania. E neppure di constatare il fatto che un lungo periodo di sviluppo del commercio mondiale sembra destinato a finire bruscamente ("Le frontiere crollano, le distanze si restringono e il mondo sembra diventare più piccolo"). Questo può senz'altro succedere; ma il fatto che le conseguenze ampiamente distruttive sul piano economico descritte nell'articolo del Financial Times sono emerse da una concatenazione di eventi piuttosto chiara: nel primo caso la Gran Bretagna era decisa a fermare l'ascesa di una Germania potente, in primo luogo costringendola in una fitta rete di alleanze ostili, e quindi stroncandola usando di concerto la forza militare britannica, russa e degli Stati Uniti. Nel caso odierno gli Stati Uniti sono assolutamente decisi a ridimensionare la Cina innanzitutto sottoponendola a un boicottaggio tecnologico e nel settore della proprietà intellettuale, e poi riarmandosi massicciamente.
Possiamo ricordare che molta parte della disastrosa situazione dell'economia tedesca dopo la prima guerra mondiale derivò dalla messa in circolazione di moneta per finanziare la corsa agli armamenti in vista della seconda.
Il Segretario di Stato Mike Pompeo nel corso del suo recente viaggio in Europa è andato vicino all'imporre agli europei un ultimatum: "se ricorrete nelle vostre infrastrutture statali a sistemi per il 5G fabbricati in Cina non potrete affiancarvi alcun sistema prodotto in AmeriKKKa". O con noi contro di loro, o con loro contro di noi. Il riconsiderato monitoraggio degli investimenti stranieri negli Stati Uniti e la normativa per il controllo delle esportazioni, specie per quanto riguarda le "tecnologie all'avanguardia e fondamentali" finirà con l'interrompere legami di importanza significativa tra gli Stati Uniti e la Cina.
Si cerca di fare pressione sull'Europa perché in questa guerra fredda economica contro la Russia e contro la Cina essa si schieri dalla parte degli Stati Uniti. E per costringere l'Europa a schierarsi gli Stati Uniti sono pronti a dividere l'Unione Europea, arruolando i paesi dell'est nella loro polarizzazione contro la Russia e contro la Cina.
Ian Bremmer e Cliff Kupchan di Eurasia Group pensano che le prime conseguenze di questa nuova polarizzazione ostile si sentano già:
I dazi stanno già costringendo le imprese statunitensi a spostare fuori dalla Cina parte delle loro catene di rifornimento, spostandosi nel sud-est asiatico, in America Latina e in qualche caso riportandole negli Stati Uniti. Il processo di separazione diventerà più veloce man mano che le pressioni politiche finanziarie devieranno parti più consistenti della produzione statunitense, compresi quelli assemblaggi finali potenzialmente complessi verso mercati politicamente più sicuri.
Stati Uniti e Cina si stanno dividendo. Cosa altrettanto importante, gli sforzi degli Stati Uniti per tenere sotto controllo gli studenti e i lavoratori cinesi nel settore scientifico e tecnologico e per limitare la durata o respingere le domande in materia di visti ridurranno l'afflusso di talenti creativi alla volta degli Stati Uniti. Verosimilmente questo limiterà il ritorno in Cina di ingegneri e imprenditori che hanno fatto esperienza negli Stati Uniti. Questa tendenza interromperà l'afflusso di talenti innovativi con contraccolpi mai visti per settori chiave della produzione tecnologica.
Bisogna inoltre considerare i contraccolpi. In tutto il mondo si stanno ponendo regolamentazioni al mondo digitale perché i governi -che devono affrontare un'ondata di preoccupazione da parte del pubblico in materia di privacy e sono inoltre preoccupati per le campagne di influenza ordite dall'estero avvalendosi dei social media- hanno iniziato ad affibbiare tasse ai giganti del settore e a restringere alle frontiere il flusso di informazioni sensibili. Il Brasile, l'India e anche la California hanno addotto passo o stanno pensando di adottare leggi che ricalcano e in certi casi superano le severe normative europee in materia di protezione dei dati.
Il fatto che le catene di rifornimento statunitensi e cinesi nonché la cooperazione tecnologica fra i due paesi continueranno a frammentarsi e a dividersi secondo le due sfere di influenza, processo che continuerà anche se dovesse venire meno la minaccia dei dazi statunitensi. I dazi non sono altro che un aspetto della campagna statunitense volta in fin dei conti a bloccare la supremazia cinese.
Questa guerra, che fino a questo momento è rimasta nell'ambito dell'economia, ormai viene considerata nei termini della sicurezza nazionale ameriKKKana. E la storia insegna che quando sono gli interessi in materia di sicurezza nazionale a dominare, il settore economico ne viene consumato in misura sempre maggiore fino a quando non interviene direttamente il governo a incrementarne ulteriormente il controllo. Un divorzio tecnologico confuso e contestato provocherà problemi alle imprese del settore; farà salire i costi perché imporrà il reperimento e la costruzione di linee di rifornimento alternative, e per entrare a regime avrà bisogno di una crescente e ingombrante sorveglianza normativa, di sicurezza e di rispetto della privacy.
La cosa potrebbe essere ancora controllabile se la guerra si limitasse al settore tecnologico, ma non sarà così. L'obiettivo di Trump è proprio quello di costringere le imprese statunitensi ad abbandonare la Cina e a minare le prospettive economiche di quel paese. Gli Stati Uniti continueranno a usare le barriere doganali, le restrizioni agli investimenti, gli ostacoli all'esportazione, le sanzioni finanziarie e il ricorso alla giustizia penale per raggiungere i propri obiettivi. La guerra si allargherà anche ai settori dell'energia e dell'informazione. Lo ha già fatto. Si ricordi che da principio la Gran Bretagna cercò di indebolire la Germania economicamente, bloccando il transito delle derrate alimentari attraverso il Mare del Nord. Gli Stati Uniti sostennero questo blocco.
Forse la preoccupazione che più probabilmente scaturirà dal passato sarà costituita dall'insistenza di Trump nel perseguire un riarmo a tutto campo. Trump ha promesso di spendere e spandere e di surclassare tutti gli avversari schierando nuovi sistemi d'arma e sta impegnandosi per liberare gli Stati Uniti da ogni genere di limitazione che gli derivi dai precedenti trattati di non proliferazione.
A questo proposito appena una settimana fa è successo qualcosa di molto importante. Come scrive Gillian Tett del Financial Times, "Beth Hammack, una bancaria esperta della Goldman Sachs che presiede un gruppo di consiglieri del governo statunitense noto come Treasury Bond Advisory Committee, ha spedito al segretario del Tesoro Steven Mnuchin una lettera che è una bomba." E prosegue: "Secondo i calcoli del suddetto Committee l'AmeriKKKa avrà bisogno di vendere la sbalorditiva quantità di dodicimila miliardi di buoni del tesoro nel prossimo decennio." Una cosa che, spiega la Hammack, "rappresenterà per il Tesoro una sfida mai vista prima, anche senza prendere in considerazione l'eventualità di una recessione." In parole povere, prosegue Tett, "i luminari di Wall Street al comitato si chiedevano forse chi diavolo, quale attore finanziario si sarebbe comprato questa montagna di buoni del Tesoro?"
Tanto per essere chiari, tali saranno le necessità di denaro degli USA ancora prima che Trump apra bocca in merito al suo vasto programma di aggiornamento dei sistemi d'arma statunitensi. Lo Advisory Committee ha detto anche che normalmente nei periodi di recessione il deficit sale del 2-5% rispetto al PIL, cosa che agli attuali livelli del PIL si tradurrebbe in un deficit aggiuntivo di cinquecento o mille miliardi di dollari, e che "il denaro necessario [avrebbe dovuto essere per intero] finanziato nel contesto di un'esposizione debitoria globale del dollaro già alta per conto proprio".
Nel caso il messaggio non fosse di per sé abbastanza serio, Tett aggiunge che "questa settimana uno degli hedge fund più grandi d'AmeriKKKa è arrivato in proprio a concludere che in capo a cinque anni il Tesoro avrà bisogno di vendere buoni per un importo equivalente al 25% del PIL (rispetto al 15% di oggi). Un fatto simile si è verificato solo due volte negli ultimi 120 anni: la prima durante la seconda guerra mondiale, la seconda durante la crisi finanziaria del 2008. Nel primo caso il governo statunitense costrinse i risparmiatori privati ad acquistare debito per mezzo di una campagna di propaganda patriottica e tramite il controllo finanziario. La seconda volta ha fatto ricorso al bilancio della banca centrale tramite il quantitative easing, ovvero stampando denaro."
"Date le dimensioni dell'economia statunitense e dei mercati... ci vorrà un trasferimento di circa il 6% di tutti i valori azionari mondiali" per assorbire il debito, dicono quelli dello hedge fund... "cosa succederà se gli investitori non vorranno saperne?"
Un rilievo importante. Ma Trump si è impadronito dello stendardo del riarmo con il piglio nazionalista di chi vuole rendere di nuovo grande l'AmeriKKKa. E ormai non passa giorno senza che il Congresso non si senta descrivere la Cina come "la più grande minaccia strategica a lungo termine" per gli USA. Il complesso militare industriale, il Congresso e gli ambienti governativi sono risoluti ad affrontare il difficile compito. Su tutti e cinquanta gli stati dell'Unione pioveranno i dollari della politica, di questo si può stare tranquilli, e al Congresso tutti hanno già fatto la bocca a questa allettante prospettiva. Non ci sarà modo di tornare indietro del tutto.
Ora, tornando alle cifre sbalorditive di cui parla il Committee, essa va considerata in un contesto in cui la quota del dollaro come valuta di riserva è passata dal 70% del 1999 al 63% alla fine del 2017 e in cui il commercio mondiale, come quota del PIL mondiale, pare aver segnato un picco.
La Cina oggi ha una bilancia commerciale in pari.
Esattamente. Ad agosto si è verificato un evento storico. Per la prima volta nella sua storia moderna la bilancia commerciale cinese per i primi sei mesi dell'anno è andata in deficit. Per essere ancora più chiari, niente surplus commerciale vuol dire niente finanziamenti cinesi per il debito statunitense. Dalla Cina già da un po' non arriva niente.
Riassumendo, per motivi psicologici e politici gli USA non possono rimangiarsi la parola sull'ammodernamento dei sistemi d'arma, e non lo faranno. "Spendere e rinnovare" tutto quanto, anche se alla fine qualcosa rimarrà per forza escluso dall'operazione. Questa minaccia è stata agitata per troppo tempo, e il dado è tratto. Solo che nessuno dall'estero acquista debito statunitense, e da settant'anni il deficit ameriKKKano trovava finanziatori in questo modo. E il Tesoro deve vendere carta pari al venticinque o al trenta per cento del PIL statunitense, magari in mezzo a una di quelle recessioni che fanno automaticamente salire la spesa pubblica.
Lo spazio di manovra fiscale degli Stati Uniti non verrà semplicemente meno: verrà sopraffatto. Le nuove leve dei Democratici radicali come Ocasio-Cortez non troveranno denaro per finanziare i loro progetti sociali, e questo provocherà ovvie tensioni che metteranno alla prova la coesione del partito. Ma non ci saranno soldi neppure per le infrastrutture che stanno andando in briciole. Non ci saranno soldi per incrementare le pensioni insufficienti. Le tensioni sociali si impenneranno.
Sarà inevitabile: il Tesoro stamperà denaro a tutt'andare e la fiducia nel dollaro andrà in crisi. E non vuol dire essere una Cassandra come dice la Foroohar rifarsi al passato per indicare che cosa può succedere (e infatti succede) quando l'unico paese che aveva avuto il predominio fino a quel momento decide di ostacolare l'ascesa di un concorrente ricorrendo ad ogni mezzo possibile. E' già troppo tardi perché Trump si tiri indietro, e ricomponga i dissidi solo per vendere alla Cina un mucchio di semi di soia e un po' di gas? Probabilmente sì. 


lunedì 18 febbraio 2019

Alastair Crooke - Lo establishment all'ultima carta. Che ne sarà dell'Europa?



Traduzione da Strategic Culture, 15 febbraio 2019.

Il saggio di Francis Fukuyama intitolato La fine della storia, affrma Gavin Jacobson sul supplemento letterario del Times, "viene solitamente interpretato come un'apologia del capitalismo d'assalto e dell'interventismo anglo-ameriKKKano in Medio Oriente. In quest'ultimo, liberale stadio c'è poco posto per la redenzione. Anzi, [il futuro, scrive Fukuyama] rischiava di diventare 'una schiavitù senza padrone', un mondo di putrefazione civile e di torpore culturale, privato di ogni possibilità e di ogni complicazione. "Gli esseri umani definitivi" sarebbero stati ridotti allo Homo Oeconomicus, guidato esclusivamente dai rituali di consumo e privato delle virtù che davano loro vita e dalle spinte eroiche che hanno mandato avanti il corso della storia".
Fukuyama ha scritto che la gente avrebbe acettato questo stato di cose o, più probabilmente, si sarebbe rivoltata contro lo stesso tedio della propria esistenza.
In effetti, dai tempi delle guerre mondiali ma soprattutto "dopo la crisi finanziaria del 2008 in Europa e negli USA si è diffuso -per dirla con Frank Kermode- un 'senso di fine'. I capisaldi dell'ortodossia liberale sono stati oggetto di una radicale messa in dubbio. I movimenti populisti si sono schierati contro l'ordine economico e politico che aveva retto per cinquant'anni. L'elettorato si è trovato all'improvviso proiettato verso un futuro incerto," conclude Jacobson, collegandosi alla predizione di Fukuyama per cui lo Homo Oeconomicus si sarebbe alla fine ribellato al proprio tedio.
In effetti le ortodossie sono state messe in discussione, e per validi motivi: la predominante visione liberale, con la sua teoria generale sul recare pace e prosperità economica nel mondo abbattendo le frontiere e unndo il genere umano in un nuovo ordine universale, è in serio scompiglio; ha perso credibilità.
Non soffermiamoci troppo sulla sua storia recente: la falsa ripresa, le statistiche gonfiate, i discorsi sul migliore dei mondi possibili, il sistema finanziario salvato coi soldi pubblici e poi l'austerità postulata come fondamentale per calmierare gli eccessivi rialzi del debito pubblico causato proprio dal salvataggio del sistema finanziario e infine tutte le ferite che l'austerità ha inflitto: tutto quanto giustificato col ripristino della competitività dell'Europa.
Come ha rilevato l'ex Direttore Generale del Bilancio statunitense David Stockman, l'idea di recuperare competitività in questo modo è sempre stata priva di fondamento. La politica delle banche centrali basate sul quantitative easing, la tempesta del credito facile scatenata dai tassi di interessi zero negli ultimi vent'anni ha stroncato il sessanta per cento della popolazione imponendole quegli alti costi che sono proprio il contrario di quello che stimola la competizione. "La Fed [in coordinamento con altre banche centrali], pioggia o vento non importava, ha legato costi, prezzi e retribuzioni al 2%. Si va avanti così per venti o trent'anni e dalla sera alla mattina ci si ritrova completamente fuori mercato. Si hanno i costi strutturali più alti del mondo: posti di lavoro e produzione fuggono alla volta di lidi in cui le imprese trovano costi minori e margini più alti."
Insomma ecco in che condizioni siamo, dopo tutte i proclami sulla ripresa: l'economia dello stato che occupa la penisola italiana è di nuovo in sofferenza e adesso -avverte la Deutsche Banck- l'economia tedesca va verso la recessione. A dicembre 2018 gli ordinativi alle imprese tedesche hanno fatto registrare la più importante contrazione dal 2012. Insomma, evidentemente la "teoria generale" non ha funzionato. Che futuro si preannuncia per l'Europa?
"Il mero vassallaggio" in cui sarebbe affondata la maggioranza che Fukuyama aveva previsto e denunciato era un fenomeno già evidente ben prima del 2008 nei paesi europei, Gran Bretagna compresa. Slavoj Žižek ha scritto in Il soggetto scabroso - trattato di ontologia politica che "lo scontro fra [le precedenti] visioni ideologiche globali rappresentate da partiti diversi in competizione fra loro per il potere" è stato "sostituito dalla collaborazione fra tecnocrati illuminati (economisti, esperti di opinione pubblica...) e multiculturalisti liberali... in una sorta di consenso più o meno universale." Il concetto di "centro radicale" espresso da Tony Blair era, afferma Žižek, una perfetta enunciazione di questo mutamento.
Le élite liberali, affascinate dalla chiarezza e dal rigore intellettuale della loro concezione centrata sull'unificazione dell'Europa, sono arrivate a considerarla non come un'opzione politica legittima in mezzo ad altre, ma come l'unica opinione legittima. L'inammissibilità sul piano morale della Brexit britannica è diventata sempiterno argomento per la denigrazione di questa scelta. I simpatizzanti del liberalismo hanno sempre maggiori difficoltà ad ammettere il bisogno di quella tolleranza per l'autodeterminazione nazionale e culturale cui un tempo consentivano di esistere. Tolleranza e nazionalismo sono fuori moda: la rabbia è in voga.
Cosa succede se l'economia europea inizia a ristagnare? Quali potrebbero essere le ripercussioni politiche? Si ricordi cosa è successo in Giappone qualche anno fa: anche il Giappone era indebitato all'eccesso, nel 1989 era esplosa la bolla borsistica e gli esperti di finanza avevano previsto il crollo del debito giapponese. Il Giappone si ritrovò in una stagnazione che è durata per decenni. Sarebbe questo il futuro? Il mondo intero farà la fine del Giappone, dal momento che siamo talmente indebitati che non possiamo in alcun modo tornare a rendimenti che rientrino nei parametri storici della normalità (attorno al 5%)?
Sembra che i giapponesi abbiano semplicemente accettato il taedium. Anche l'europa sta andando verso una stagnazione dai rendimenti e dalla crescita bassi all'interno di un paradigma globale all'insegna della stasi, destinata a durare finché non si arriverà a una sollevazione populista di un qualche genere o al verificarsi di un qualche evento che faccia ripartire il sistema.
O forse no. Il Giappone è sempre stato un caso speciale perché il suo debito era sostenuto quasi per intero all'interno e altrove nel mondo, anche se non in Giappone, era in corso un periodo di crescita. Nonostante tutto il Giappone è servito come "canarino del minatore" riguardo alle mortifere conseguenze dell'indebitamento eccessivo.
Se dovessimo comunque entrare in un periodo in cui USA ed Europa sono accomunati dalla scarsa crescita, la Cina alle prese con le difficoltà rallenta al 4% e deve salvare con i soldi pubblici il proprio sistema bancario, l'India non ce l'ha fatta nonostante quello che se ne pensava, in un caso del genere il Giappone potrebbe non essere un precedente di cui fare tesoro.
Il fatto è che siamo all'apice del dilemma: "i tecnocrati illuminati" non solo hanno sbagliato, ma si sono confinati da soli in un angolo che prospetta ancora più austerità per il sessanta per cento della popolazione e ancor più denaro di carta (forse addirittura denaro a pioggia dalle banche centrali) in favore di economie già ridotte a zombie dal debito in eccesso. Un esperto, Peter Schiff, se lo è sempre aspettato:
Ho detto fin da principio che non mi aspettavo alcun rialzo dei tassi da parte della Fed perché sapevo che alzare i tassi costituiva il primo passo di un cammino che la Fed non sarebbe riuscita a portare in fondo: il loro tentativo di normalizzare i tassi avrebbe fatto esplodere la bolla borsistica e fatto tornare in recessione l'economia.
Normalizzare i tassi di interesse quando si è già creato un debito di entità anomala è impossibile.
Ho sempre saputo che a un certo punto ci si sarebbe arrivati, alla goccia che fa traboccare il vaso. Non avevo idea di quanti ritocchi ai tassi la bolla economica avrebbe potuto sopportare, ma sapevo che c'era un limite. E sono ancora sicuro che non ci sia modo di tornare ad applicare un tasso normale o neutro. Qualunque sia quel valore, non è il 2%.
Tutto quello che la Fed ha fatto basandosi sul denaro a buon mercato ha iniziato a implodere appena si è cominciato a eliminare il denaro a buon mercato... L'economia statunitense si regge sui tassi a zero: con i tassi al 2% non va avanti e la cosa si comincia a vedere." (Parole di Schiff alla Vancouver Investment Conference).
Insomma, sembra che anche l'Europa stia pencolando sull'orlo della recessione causata dall'indebitamento. E quelli delle banche centrali non sanno cosa fare. Parlare della prima recessione da ventisei anni a questa parte tuttavia significa anche parlare di un'Europa in cui la generazione più giovane non ha provato, non ha idea di cosa una recessione significhi davvero. Cosa implica questo? Grant Williams, fondatore dell'influente canale televisivo finanziario Real Vision risponde così:
[Una cosa su cui davvero mi piacerebbe che risultassi avere torto.] "E sono ormai diversi anni che ho predetto una sensibile crescita del populismo, dei disordini e della violenza. E molta gente ha pensato che qui fossimo dei fanatici delle teorie del complotto. Ma ora Parigi è a ferro e fuoco... E c'è il vecchio adagio sulla differenza fra recessione e depressione: si chiama recessione quando il tuo vicino perde il lavoro, si chiama depressione quando lo perdi tu. Ecco di cosa ho paura. Penso che vi accorgerete che dopo il 2008 la gente capisce di finanza molto più di prima. Magari possono non afferrarne tutte le implicazioni, ma penso che adesso sappiano che cosa significa salvare una banca con i soldi pubblici, che capiscano quanto simili operazioni siano ingiuste quando vanno a beneficio di Wall Street invece che di Main Street [ovvero dell'economia reale, N.d.T.]. Purtroppo sono convinto che quello che vedrete sarà che la Fed e il governo faranno quello che hanno sempre cercato di fare, vale a dire salvare Wall Street per salvare il sistema.
Se l'economia va male e la gente si sente privata di ogni diritto e gli si va a dire sapete, dobbiamo fare questo e quello per salvare il sistema, allora la reazione cambia tutto d'un tratto. E la reazione è ma andate a fare in culo, spacchiamo tutto. E se ci troviamo nella situazione in cui sembra che ci troviamo, con questo abisso che in politica separa destra e sinistra, con un'economia che va avanti furiosa e una borsa praticamente sempre in salita e poi arriva un momento in cui cose come il debito sovrano iniziano a pesare, temo anch'io come voi che l'unico modo in cui la gente sarà capace di esprimere lo stesso concetto sarà come stanno facendo adesso in Francia. Un risultato molto, molto negativo per tutti.
In questo il discorso di Williams si incrocia con quello di Fukuyama e del suo Homo Oeconomicus privo di passioni: cosa succede quando lo Homo Oeconomicus, guidato solo dai "rituali del consumo in un mondo di putrefazione civile e di torpore culturale" (e ormai privo di quel senso di sicurezza che nasce dall'essere considerato come essere umano e specialmente come appartenente a una famiglia, a una cultura, a una storia, a un popolo, a una tradizione spirituale o a una nazionalità) si trova sull'orlo dell'abisso, del baratro della recessione. I timori prosperano soprattutto nel vuoto costrutto dell'universalismo livellato, dove non ci sono valori come la verità, la bellezza, la vitalità, l'integrità e la vita.
La risposta di Williams è semplice: "L'Europa cade".

Macron è interessante. Macron è venuto dal nulla: è un ex bancario Rothschild che si è presentato come alternativa alla assai sgradevole (almeno per lo establishment) Marine Le Pen... Ecco: lo establishment ha fatto piovere Macron da chissà dove. Giovane, prestante, colto, molto in linea col modello Obama, parlava bene, si presentava bene, era sempre molto a posto, sempre con gusto. In tutte queste cose Macron era il meglio. Che fosse un ex bancario dei Rothschild è una cosa che non ha particolarmente colpito i suoi elettori, e ce l'ha fatta. Lo establishment ha tirato un sospiro di sollievo.
E poi? Poi, anche lui, si è rivelato un presidente da far cadere le braccia. I suoi tassi di gradimento sono... Non so se ho ragione a dire che è sotto Hollande, ma sono altrettanto bassi; io pensavo fosse difficile fare altrettanto eppure ce l'ha fatta, e anche facilmente. Ecco, io penso che Macron fosse l'ultima carta dello establishment. Come se avessero detto: è un ragazzo, lo mettiamo a quel posto e gli facciamo dire tutto quello che noialtri abbiamo bisogno che dica, e sarà lui a calmare le acque, ci aiuterà a reggere il colpo. Solo che nulla di tutto questo è successo. Io non credo... che il movimento populista rifluirà e si calmerà, così, semplicemente. Le vicende di Macron in Francia ne sono la dimostrazione incarnata, al pari del fatto che egli stia lottando e che sembri così determinato. Anni fa avrebbe già fatto un passo indietro: quando ancora i politici possedevano un briciolo di vergogna, a parità di condizioni si sarebbe già dimesso e si sarebbe assunto la responsabilità per le condizioni in cui si trova il paese. Oggi no davvero.
Fallimento dell'Unione Europea vuol dire tutti con la propria moneta e tutti con le proprie frontiere. Al centro di tutto c'è l'euro; è l'unione monetaria che crea i problemi, oggi. Quando i tassi di interesse andavano nella direzione giusta funzionava alla grande. Andava bene a tutti. Ora che i tassi hanno cambiato verso, che il debito ha cominciato a pesare e che questi paesi sono sotto pressione... la gente non capisce cosa rappresenti, l'euro. [Eppure] Sa che non può pretendere l'impossibile.
E sa che un modo per rispondere politicamente a tutto questo -prendo ad esempio lo stato che occupa la penisola italiana- è quello di tornare alla lira, pagare con quella -con una lira sottoposta a una massiccia svalutazione- i propri debiti, non essere costretti a mantenere i deficit di bilancio entro i limiti imposti da Bruxelles, ed essere così in grado di spendere per aiutare il proprio paese a uscire dalla recessione. Ecco cosa succederà. Era inevitabile che succedesse.
Ma le minacce dei burocrati di Bruxelles che devono seguire la linea dura, e usare il bastone e non la carota per tenere le cose a posto, ci faranno fare Brexit a tutti.

sabato 16 febbraio 2019

Alastair Crooke - L'Europa messa in discussione all'improvviso. Una "Unione Europea nazionalsocialista"?



Traduzione da Strategic Culture, 11 febbraio 2019.


Un pilastro dello establishment dell'ordine europeo, il quotidiano Frankfurter Allgemeiner, ha toccato senza giri di parole un nervo scoperto. Il mese scorso ha pubblicato un editoriale intitolato Una Unione Europea nazionalsocialista? chiedendosi se l'attuale Unione Europea dominata dalla Germania andrebbe considerata come la continuazione del nazionalsocialismo tedesco. Il mainstream tedesco non aveva mai toccato l'argomento prima d'ora. Sembra che l'iniziativa sia indice di qualcosa di importante: il riconoscimento del fatto che le voci dissenzienti di cui l'Unione Europea è bersaglio hanno le proprie radici in qualcosa d'altro che non i malumori populisti. Si tratta del ritorno alla luce dell'antica contesa per lo spirito dell'ordine politico internazionale.
L'autore Jasper von Altenbockum cita il leader della AfD (Alternative für Deutschland) Alexander Gauland, che a una conferenza del proprio partito ha detto che
"l'apparato corrotto, enfiato, non democratico e latentemente totalitario" dell'Unione Europea è senza futuro. Gauland ha fatto un ragionamento popolare: dal momento che nelle istituzioni sovranazionali dell'Unione Europea si possono notare dei casi di mancata legittimazione democratica [se ne deve concludere che l'Unione Europea] ha un ordinamento costrittivo. Chi si oppone in modo radicale alla progressiva integrazione [inoltre] si spinge anche più avanti: paragona l'Unione Europea all'idea di Europa quale essa era ai tempi del nazionalsocialismo...
Gauland ha anche [esposto] una considerazione che ha recentemente acquistato popolarità e che [consente] alla Brexit di trovare una giustificazione storica: [parlando dell'unificazione europea] Gauland ha detto a Riesa: "Questo obiettivo è stato perseguito dai francesi con Napoleone e, in un certo senso sfortunatamente, dai nazionalsocialisti. Come tutti sanno, l'Inghilterra si è opposta a entrambi.
Si tratta di [e qui Gauland porta il ragionamento oltre la mera affermazione che l'Unione Europea è]un apparato latentemente totalitario". [Anzi, c'è da pensare che] l'Unione Europea e la politica europea tedesca sono la continuazione della propaganda nazionalsocialista sull'unificazione continentale. Difficile esprimere maggiore riprovazione. Questo argomento fornisce alla AfD il sospirato e collaterale pretesto di potersi presentare come immune all'ideologia nazionalsocialista".
Com'è logico aspettarsi, von Altenbockum non trova granché che accomuni il progetto europeo con la precedente ideologia razziale nazionalsocialista, ma nondimeno egli ammette che non sono soltanto Gauland e la AfD ("che sta velocemente diventando il partito della brexit tedesca") a rilevare simili contiguità col nazionalsocialismo. "La continuità del progetto europeo rispetto all'epoca nazionalsocialista è presa in considerazione anche dagli storici," specialmente da quando la Germania viene di nuovo accusata di coltivare mire egemoniche sul continente. Già nel 2002 il biografo di Hitler Thomas Sandkühler invitò a "non enfatizzare tanto le cesure nella politica europea; si dovrebbe parlare più che altro degli elementi di continuità".
Cosa significa? Oggi come oggi è difficile andare oltre l'aspetto dell'ideologia razzista. Tuttavia, nonostante il fatto che il nome del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi contempli il vocabolo "nazionale", Hitler non fu un gran difensore del nazionalismo. Fu aspramente critico non soltanto nei confronti del trionfo protestante in Westfalia nel 1648, ma anche dell'istituzione dello Stato nazionale nello specifico, che egli considerava come assai inferiore allo storico retaggio imperiale dei tedeschi. Anziché un ordine fondato su Stati nazionali egli si dispose a realizzare un Terzo Reich che si richiamava direttamente al Primo Reich, ovvero al Sacro Romano Impero Germanico con le sue aspirazioni universalistiche e la sua durata millenaria. La Germania di Hitler era concepita come uno Stato imperiale da ogni punto di vista.
Insomma, nelle secolari politiche continentali i paesi occidentali sono stati caratterizzati dalla contesa tra due visioni antitetiche dell'ordine mondiale: un ordine fatto di Stati nazionali liberi e indipendenti, ciascuno dei quali persegue il bene politico in accordo con le proprie tradizioni e le proprie concezioni, e un ordine di popoli uniti sotto un solo ordinamento giuridico, promulgato e mantenuto da un'unica autorità sovranazionale.
In altre parole la Germania si trovava dalla parte della antica tradizione già di Babilonia e della Roma imperiale, che considerarono propria missione -per dirla cono le parole del re babilonese Hammurabi- "portare all'obbedienza i quattro angoli del mondo." Questa obbedienza, dopotutto, assicurava immunità dalla guerra, dalla pestilenza e dalla carestia.
La conclusione di von Altenbockum per cui l'origine delle idee alla base dell'integrazione europea non si trova in quelle di Napoleone o di Hitler, ma va cercata nella Guerra dei Trent'Anni e negli accordi di Westfalia che accelerarono la caduta del vecchio concetto (romano) di impero cristiano universale per la pace e per la prosperità è più convincente. Ai vincitori la vittoria; e sono i vincitori a stabilire la narrativa. Una narrativa che persiste come paradigma politico dell'Europa di oggi.
La costruzione liberale dell'unione europea ha come premessa il famoso manifesto liberale scritto da John Locke e intitolato Secondo trattato sul governo, pubblicato nel 1689, che sosteneva in definitiva l'esistenza di un unico principio alla base della legittimità di un ordinamento politico, ovvero la libertà individuale.
L'opera di Locke era in gran parte un prodotto della concezione protestante. Si apre con l'affermazione che gli esseri umani nascono "perfettamente liberi" e "perfettamente uguali" e continua a descriverli come esseri che si dedicano alla propria vita, alla libertà e alla prosperità in un mondo di transazioni basate sul consenso.
A partire da questa premessa, Locke costruì il proprio modello di vita politica e la propria teoria del governo: dalle sue teorizzazioni sono nati i modelli economici e di oggi, secondo la versione di Adam Smith che contestualizza nell'àmbito economico la concezione protestante di John Locke e di John Hume dell'individualismo e della proprietà.
Dal momento che si tratta di una visione protestante, essa mutuava dal Vecchio Testamento (più che dal Nuovo) il concetto di un'autorità sovrana unificante, gelosa e intollerante come Yahveh. Il principio organizzativo dello Stato nazionale era quello di una sola autorità, una sola legge e l'esclusiva delle armi, non il vagheggiato impero di sovranità commiste e di pretese spirituali che lo aveva preceduto.
A un certo punto la politica liberale, la teoria economica e il diritto internazionale fecero inaridire le altre concezioni concorrenti e divennero la struttura, virtualmente indiscussa, delle conoscenze che una persona istruita necessita di possedere in materia di politica.
E dunque? Qual è il nocciolo della questione? In primo luogo il leader di AfD Alexander Gauland sta dicendo che l'Unione Europea non è né liberale, né libera, né costituisce un ordinamento o un impero di per sé; l'Unione Europea è costrittiva nel suo desiderio (di origine giudaico cristiana e laicizzato) di giungere all'unificazione umana o sociale riducendo tutto quanto ha un solo modello, l'ordine liberale in cui essa detta legge.
La questione non è tanto nel fatto che un pubblicazione dello establishment tedesco sta toccando una questione scottante, quella della possibile influenza del nazionalsocialismo tedesco considerato come la base su cui si articolano le politiche dell'Unione Europea: più concretamente, si fa la tacita ammissione che il leader di AfD ha degli argomenti, ovvero sta presentando una visione complessiva dell'ordine europeo che è concorrenziale a quella corrente.
L'autore lo ammette, sia pure di malavoglia; "in AfD ci sono molti politici cui piacerebbe tornare al tradizionale pensiero dei rapporti di forza", ovvero all'idea di una concertazione di poteri indipendenti e sovrani. L'autore tuttavia, riprendendo la linea di pensiero dello establishment afferma semplicemente che questo è impossibile: si è investito troppo nel progetto dell'Unione Europea per potersi permettere di lasciar perdere tutto.
Secondo von Altenbockum, dopo la seconda guerra mondiale il considerare il passato ha fatto sì che [il progetto dell'Unione Europea] "fosse fornito di un ancoraggio istituzionale ineliminabile, che contempla inevitabilmente la rinuncia a parte della sovranità".
Proprio per questo la Brexit diventa significativa per Gauland: non come semplice risentimento britannico nei confronti del dominio tedesco in Europa, ma perché l'Inghilterra è sempre stata "dall'altra parte", all'opposizione rispetto a queste concezioni di un universalismo imposto con la riduzione a un solo modello imperiale. "Come tutti sanno, l'Inghilterra si è opposta a tutto questo," afferma Gauland.
Locke, questo è vero, aveva cercato di rafforzare il paradigma dello Stato nazionale e non di indebolirlo. Nondimeno, nell'elaborare la propria teorizzazione sminuiti l'importanza o tralasciò del tutto aspetti che per l'umano consesso sono essenziali. Nel suo Secondo trattato Locke tralascia il retaggio intellettuale, spirituale o culturale che si riceve dalle proprie origini. Risultato è il disprezzo nei confronti dei legami, anche i più elementari, pensati per mantenere la coesione sociale.
Allo stesso modo, il governo posto in essere dal contratto sociale presentato nel Secondo trattato è sinistramente privo di frontiere o di limiti. Istituzioni come lo Stato nazionale, la comunità, la famiglia e la Chiesa pare non abbiano alcuna ragione per esistere. Pur senza volerlo, la piattaforma teorica elaborata da Locke fa dell'ordine protestante qualcosa di troppo difficile da spiegare, e tanto meno lo giustifica. Locke poteva anche aver nutrito altre intenzioni, ma quello che fece fu dare vita a un costrutto liberale della politica che è quella che sta alla base dell'opposto dello Stato nazionale.
Cosa significa questo? Significa la Brexit, i gilet gialli, la Lega, la AfD, il gruppo di Visegrad. Significa il futuro dell'Europa messo seriamente in discussione, nonostante le élite politiche e intellettuali dotate di una formazione universitaria sia in AmeriKKKa che in Europa siano oggi perlopiù inquadrate negli schemi liberali.
Eppure un articolo come questo, che viene dal Frankfurter Allgemeiner, e le sue asserzioni sui presunti legami fra integrazione europea e nazionalsocialismo, secondo Wolfgang Münchau rappresentano "un connubio esplosivo" che fino a oggi in Germania ha riguardato solo un dibattito marginale. L'articolo precisa che le élite europee stanno iniziando a rendersi conto delle esplosive potenzialità di questo conflitto. Si rendono conto che sono alla ribalta vecchie questioni, antichi scontri sulla natura stessa della politica, della società, della cultura e sul modo in cui il potenziale umano dovrebbe trovare sviluppo.
Riuscire a capire questo consente di inquadrare correttamente la politica estera europea: consente di capire come possano i leader europei ignorare la lunga storia di intromissioni nelle vicende del Venezuela per appoggiare un'altra iniziativa in questo senso. O come invece desiderino negare alla Repubblica Araba di Siria le risorse finanziarie e gli aiuti. Torna in mente il desiderio del re babilonese di "portare all'obbedienza i quattro angoli del mondo". Questa obbedienza d'altro canto è nel loro assoluto interesse.
Gauland ha esagerato, a descrivere l'Unione Europea come "un totalitarismo latente"? Un'idea in proposito la fornisce Yanis Varoufakis. Di fresca nomina come ministro delle finanze greco, alla prima visita a Bruxelles e a Berlino fu accoldo da Schäuble all'insegna del "Si tratta del mio mandato contro il tuo". "Schäuble stava rispettando la lunga tradizione della UE che consiste nel rinnegare i mandati democratici... in nome del loro rispetto. Come tutte le ipotesi pericolose, si fonda su una verità ovvia: gli elettori di un paese non possono conferire mandato di rappresentanza per imporre ad altri governi quelle condizioni che essi non hanno avuto dal proprio elettorato il mandato di accettare. Si tratta di un'ovvietà. Ma il fatto che i funzionari di Bruxelles e gli amministratori degli equilibri politici come Angela Merkel e lo stesso Schäuble la ripetano di continuo ha il fine di trasformarla reconditamente in un concetto assai diverso: nessun corpo elettorale in nessun paese può conferire al proprio governo il mandato di opporsi a Bruxelles."
E, continua Varoufakis, non stanno mai a sentire.
"Io e i miei collaboratori abbiamo lavorato duro per avanzare proposte basate su seri lavori econometrici e su analisi economiche intonate. Una volta verificate dalle massime autorità nei rispettivi campi, da Wall Street alla City fino ai luminari del mondo accademico, le avrei sottoposte ai creditori della Grecia a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte. Poi mi sarei messo tranquillo a godermi la stereofonia di sguardi fissi. Sarebbe stato come se non avessi mai parlato. Come se non gli avessi portato nulla. Sarebbe stato il loro linguaggio del corpo a far capire che negavano l'esistenza stessa delle carte che gli avevo messo davanti. La loro risposta, sempre che ce ne fosse stata una, sarebbe stata assolutamente slegata da quanto gli avevo detto. Mi sarei potuto anche mettere a canticchiare l'inno nazionale svedese. Non ci sarebbe stata differenza."

mercoledì 6 febbraio 2019

Alastair Crooke - Una democrazia gradualmente ridotta all'impotenza. Finalmente il mondo ci è arrivato.




Traduzione da Strategic Culture, 28 gennaio 2019.

Secondo Antonio Gramsci un interregno è un periodo "in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere; in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati". In epoche del genere il nuovo è percepito come folle, malvagio e pericoloso da considerare.
Il Regno Unito sta chiaramente attraversando un interregno; un periodo in cui le élite che hanno fino a oggi gestito il discorso politico -come lo chiama Michel Foucault- entro precisi limiti di consenso scoprono adesso che esso viene pesantemente contestato. Periodi simili sono anche momenti in cui si perde di lucidità, periodi in cui si pensa che i limiti del ragionevole vengano meno. Cosa che in effetti succede.
I paradossi dell'interregno diventano roba d'ogni giorno quando una Camera dei Comuni democraticamente eletta si schiera in opposizione a un referendum popolare, si oppone alla legislazione derivante che pure ha essa stessa approvato e arriva a baloccarsi con l'idea di rovesciare il principio per cui è il governo che deve governare, per passare all'idea che al suo posto dovrebbe farlo una mutevole ed effimera aggregazione di parlamentari non governativi e provenienti da ogni partito. E anche così quell'assemblea non riesce a produrre un'alternativa su cui esista qualche accordo. Per quanto sia strano, non è sorprendente che (forse) la maggior parte di quanti intendono restare nella UE provi adesso un brivido di panico autentico, davanti alla scioccante scoperta del fatto che non esiste una soluzione univoca.
Anche in Francia lo establishment culturale è stato colpito da un trauma psicologico dello stesso genere. Come scrive Christopher Guilloy, "Adesso le élite hanno paura. Per la prima volta esiste un movimento che non è controllabile ricorrendo ai meccanismi della politica ordinaria. I gilets jaunes non vengono dai sindacati o dai partiti politici; non possono essere fermati. Non esiste un tasto "Off". L'intelligencija sarà costretta a farsi una ragione dell'esistenza di questa gente, o dovrà propendere per una qualche specie di totalitarismo di velluto."
L'ultima settimana di gennaio 2019 il vertice di Davos è stato messo a rumore da una lettera, che ha conosciuto ampia diffusione, scritta da un gestore di fondi che è diventato un'icona e una sorta di oracolo. Seth Klarman ha inviato un avvertimento perentorio ai propri clienti: la crescente sensazione di divisione politica e sociale che serpeggia per il mondo potrebbe portare a un disastro economico. "Non si possono fare affari come di consueto in mezzo a proteste incessanti, rivolte, serrate e crescenti tensioni sociali," ha scritto citando le proteste dei gilets jaunes in Francia che si sono diffuse in altri paesi d'Europa. "Ci chiediamo quando potranno gli investitori tenere in maggiore considerazione tutto questo", afferma, aggiungendo che "la coesione sociale è una cosa essenziale agli occhi di chi ha un capitale da investire."
La diffusione della lettera di Klarman aggiunge del suo al disagio che si sta diffondendo nello establishment globalista. E alla base di questa sensazione di ansia si trova per la precisione il possibile sgretolarsi di due grandi miti: il mito monetario, e il mito millenarista del Nuovo Ordine Mondiale sorto dai massacri della prima guerra mondiale. Il concetto di guerra eroica e nobile morì con la morte di una generazione di giovani sui campi della Somme e di Verdun. La guerra, eroica non lo fu più. Fu solo un disgustoso tritacarne. Milioni di uomini si erano sacrificati per il "sacro" ideale dello stato-nazione. Il concetto romantico e ottocentesco di stato-nazione "puro" esplose, e ne prese il posto l'idea -alla fine consacrata dalla caduta dell'Unione Sovietica- del Destino Manifesto degli Stati Uniti, la Nuova Gerusalemme che avrebbe rappresentato le migliori speranze dell'umanità per un mondo prospero, meno segnato dalle divisioni, più omogeneo e cosmopolita.
La promessa di una prosperità per tutti facile da raggiungere, forzatamente attuata con mezzi monetari -ovvero con la massiccia creazione di debito- ha rappresentato il corollario di questo allettante, idealistico risultato. Oggi non servono più dati di fatto a sostegno: i mezzi hanno deluso la maggioranza (ovvero i gilet e i cosiddetti "impresentabili") e ora perfino i gestori di fondi dalla fama oracolare come Klarman ammoniscono le presenze assidue di Davos che "i semi della prossima grande crisi finanziaria (o di quella successiva) possono essere identificati nel livello del debito sovrano oggi raggiunto". Klarman espone nel dettagli il modo in cui praticamente tutti i paesi sviluppati si sono indebitati in misura sempre maggiore dopo la crisi finanziaria del 2008; una tendenza che a suo dire può portare la finanza nel panico.
Il signor Klarman è preoccupato soprattutto per il debito statunitense, di quello che può significare per lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva e dell'impatto che esso potrebbe in ultima analisi avere sull'economia del paese. "Non esiste modo di sapere quando il debito è troppo, ma l'AmeriKKKa raggiungerà senza dubbio un livello critico superato il quale un mercato del debito fattosi improvvisamente più sospettoso rifiuterà di accordarci prestiti a tassi per noi accettabili," ha scritto. "E quando una crisi del genere colpirà, sarà probabilmente troppo tardi per correre ai ripari."
Questo artificio monetario ha sempre portato a risultati illusori: l'idea che ricchezza vera sarebbe nata da un debito enfiato per decreto, che la sua espansione non avrebbe avuto limiti, che tutto il debito poteva e doveva essere onorato, e che l'eccessivo indebitamento doveva essere risolto indebitandosi ancora di più non è mai stata credibile. Era una fantasia che rifletteva la fede laica in una inevitabile e lineare strada fatta di progresso, un concetto che riecheggiava la credenza millenaristica cristiana del percorso verso una "fine dei tempi" fatta di abbondanza e di pace, credenza da cui peraltro derivava.
Nel 2008 le grandi banche erano a un niente dal collasso. Furono salvate dai contribuenti occidentali perché i rischi di un crollo della finanza furono giudicati troppo gravi dalle élite. Solo che poi anche i soccorritori -i vari paesi sovrani che hanno preso l'iniziativa- hanno a loro volta avuto bisogno di aiuto, e per salvarsi hanno massacrato il welfare e gli ammortizzatori sociali per turare le falle nei loro stessi disastrati bilanci. Questo, dopo aver provveduto a risanare i bilanci delle loro banche.
Il sessanta per cento della gente ha pagato tre volte. La prima con il salvataggio iniziale, la seconda con l'austerità che seguì, la terza quando le banche centrali ripresero le loro politiche di emissioni gonfiate e di depauperamento del risparmio. A fronte di questa ignobile contropartita, quel sessanta per cento prese coscienza della propria impotenza ma si accorse anche di non avere nulla da perdere. Era un gioco che non lo riguardava.
La narrativa di una agevole prosperità basata sul debito è stata quella che ha caratterizzato l'identità dell'Occidente nel corso degli ultimi decenni. >Ci è voluto comunque un outsider per innescare quello che, come ha preso atto con sarcasmo lo Washington Post, è stato il momento più rivelatore del vertice di Davos di quest'anno. Rivelatore, semplicemente perché di una assoluta ovvietà. A un gruppo di lavoro sui fallimenti dell'ordine mondiale Fang Xinghai, vicepresidente della principale agenzia per la sicurezza del governo cinese, ha ricordato con semplicità all'uditorio quale sia il rovescio della medaglia del rullo compressore monetario occidentale: "Dovete capire che la democrazia non sta funzionando molto bene. Nei vostri paesi c'è bisogno di riforme politiche." Ha soggiunto che questo lo diceva "con sincerità".
Accidenti: c'è voluto un funzionario cinese, per dire quello che non si poteva dire...
Comunque, è inevitabile che i danni dovuti al crollo di un mito affermatosi su scala mondiale comincino dalla periferia. Quello che a volte si tralascia è il fatto che le élite, specie negli stati nazionali fittizi messi in piedi dal colonialismo europeo dopo la prima guerra mondiale, non solo hanno definito se stesse in base a una narrativa del "non ci sono alternative" rispetto alla prosperità prodotta ricorrendo al credito, ma si sono anche integrate nella élite ricca cosmopolita internazionale. Ci sono, e ne sono parte integrante. Hanno tagliato le proprie radici culturali, eppure avocano a sé la pretesa di primeggiare nel mondo da cui provengono.
Un esempio di quanto sopra sarebbe quello dei paesi del Golfo. Ovviamente, uno starnuto a Davos significa polmonite per le élite periferiche. E se questa crisi di identità si accompagna ai presagi di una crisi finanziaria che incombe anche sul centro, la polmonite diventa grave. Non c'è da sorprendersi se l'ansia sta montando nelle élite di quella periferia che è il Medio Oriente. Esse sono consapevoli del fatto che qualsiasi crisi finanziaria seria che colpisca il centro nevralgico segnerebbe la loro fine.
Ecco il punto. Il discorso di Mike Pompeo al Cairo non è importante per quello che Pompeo ha detto sulla politica ameriKKKana (ovvero nulla). Piuttosto potrebbe succedere che venga inteso come punto saliente per tutt'altro genere di motivi. Il discorso di Pompeo ha mostrato che la visione di un nuovo ordine mondiale che ha retto per trent'anni era ormai defunta e che di altre visioni non ne esiste alcuna. Niente proprio. Di chiaro c'era che Pompeo stava solo combattendo con armi verbali un'altra battaglia della "guerra civile" ameriKKKana.
Anche John Bolton ha concretamente confermato l'abbandono di questa visione. Dal momento che l'AmeriKKKa non ha nulla da offrire, sta ricorrendo a tattiche di disturbo come sanzionare qualsiasi uomo d'affari o qualsiasi paese che contribuiscano alla ricostruzione della Siria. All'atto pratico, gesti del genere non fanno che turbare ancora di più gli alleati degli USA.
Ancora una volta sfugge una questione importante: la narrativa identitaria delle élite traballa, ma già altre forme culturali e "spirituali" si sono fatte vive per riempirne la nicchia. Come ha già notato Mike Vlahos, i paesi del Medio Oriente non si stanno indebolendo e non stanno andando in malora tanto a causa di concrete minacce fisiche, quanto perché al posto della corrente identità cosmopolita si sono affermate visionoi altrettanto coinvolgenti di tipo locale ed universalistico, spesso in mezzo a un tessuto intricato fatto di attori non statali come Hezbollah, Hashd al Shaabi e gli Houti.
E queste visioni non fondano le proprie istanze sul liberalismo o sulle economie del mondo sviluppato dominate dal consumismo e dallo stato sociale, ma sul riaffermare i punti di forza e la sovranità del loro contesto sociale. E nel loro diritto di vivere secondo le loro (diverse) culture. Esse prosperano laddove maggiore è il bisogno di uno scopo e del ripristino dei valori nella società.
Come i gilets jaunes si stanno rivelando tanto difficili da contenere tramite i normali meccanismi della politica, così anche questi attori non statali connotati dall'alterità hanno eluso il controllo da parte dei meccanismi statali del Medio Oriente che fanno ricorso ai normali sistemi occidentali. Il totalitarismo vero e proprio e quello di velluto si sono rivelati entrambi privi di una piena efficacia.
Il fatto è che siamo davanti a un profondo mutamento nel potere e nella natura del potere stesso. Per la prima volta, un funzionario ameriKKKano ha esplicitamente detto che gli USA non hanno alcuna visione del futuro e che oggi gli USA in Medio Oriente possono comportarsi solo come degli elementi di disturbo. Esatto: i paesi del Golfo hnno sentito l'assordante rumore del vuoto. E anche i paesi che stanno dall'altra parte della cortina, quelli che non sono mai stati parte di questo nuovo ordine mondiale, lo hanno sentito. Non è difficile capire in che direzione stia andando il pendolo.

domenica 3 febbraio 2019

Alastair Crooke - La resa dei conti. Il discorso di Pompeo al Cairo rispecchia la scissione che si prospetta sul piano interno.



Traduzione da Strategic Culture, 21 gennaio 2019.

Il discorso al Medio Oriente che il Segretario di Stato Mike Pompeo ha pronunciato da un palco molto simbolico, quel Cairo da cui Obama aveva esposto le proprie idee, ha gettato molti nello sconcerto. Il fine del discorso sembrava più che altro quello di sbandierare il credo evangelico fondamentalista di Pompeo e di sottolineare il "sacro diritto" dell'AmeriKKKa, di assestare un colpo ai tentennanti propositi di Obama e di additare l'Iran come l'anticristo dei nostri tempi.
La maggior parte del pubblico mediorientale è rimasta perplessa. E non c'è da stupirsene; ha poca familiarità col sacro zelo della politica evangelica statunitense. Gli europei si sono semplicemente stupiti della sua straordinaria mancanza di legami con la realtà politica del Medio Oriente di oggi; il discorso è suonato assurdo, e la serie di visite diplomatiche che Pompeo ha tenuto in Medio Oriente è miseramente fallito.
Per fortuna c'è Michael Vlahos, uno storico statunitense ed ex docente dello US War College che ora insegna alla John Hopkins, a contestualizzare un po' il discorso di Pompeo. In un articolo intitolato Siamo fatti per la guerra civile Vlahos afferma che mentre agli ameriKKKani si insegna "che la Rivoluzione fu un miracolo e che la Guerra Civile fece dell'AmeriKKKa una nazione, o che -come proclamò Ralph Waldo Emerson- l'AmeriKKKa è il paese del futuro, ribadendo il destino provvidenziale insito nel quasi popolo eletto di Lincoln, sono tutte cose di pura fantasia."
La nostra identità, fin dal principio, è stata definita come un trionfo sull'Altro. Noi l'Altro lo cacciamo, come la Francia espulse crudelmente gli eretici ugonotti nel XVII secolo. Noi cacciammo centomila lealisti che avevamo considerato come fratelli. La guerra civile di per sé durò vent'anni, dal 1763 al 1783, ma la conseguente guerra fredda e lo strascico di scontri contro la Gran Bretagna proseguirono fino al 1815.
Si produsse allora un'ulteriore spaccatura nel tessuto sociale del paese. Dopo il 1815 iniziò una nuova migrazione culturale. La stessa giovane AmeriKKKa si divise fra due opposte concezioni della vita e due identità politiche sempre più aspramente contrapposte, che dal 1857 al 1877 si scontrarono in un altro conflitto ventennale...
Attorno al 1840 la spaccatura aveva iniziato a diventare evidente: la precedente coesione aveva inziato a venir meno, dando origine a due subculture ameriKKKane distinte: una che puntava tutto su un mondo dominato dalla schiavitù, e un'altra che aveva le proprie radici nello slogan populista del "libero suolo, libero lavoro, liberi uomini". Una era in mano ad una élite aristocratica, l'altra allo spirito dei dei piccoli proprietari repubblicani.
La divisione fra nord e sud che sfociò nella guerra civile era questa; e alla guerra si giunse quando entrambe le parti si convinsero di incarnare non solo la sacralizzata narrativa ameriKKKana, ma [anche] il futuro del paese... Solo le generazioni fortunate degli anni compresi fra i '30 e i '70 del XX secolo poterono far finta di celebrare una cosa come l'unità nazionale. Ma anche all'epoca tale privilegio era patrimonio di un'unica e privilegiata maggioranza politica del tutto contigua al predominante establishment liberale...
E oggi, spiega Vlahos, "L'AmeriKKKa... si sta dividendo secondo due diverse concezioni per quanto riguarda il futuro del paese: la virtù rossa è quella che pensa alla continuità della famiglia e della comunità nel contesto di una comunità nazionale pubblicamente esplicitata. La virtù blu pensa invece a comunità scelte da ciascun individuo, mediate tramite la relazione del singolo con lo stato. Anche se queste due distinte concezioni dell'AmeriKKKa sono rimaste opposte per decenni e sono riuscite fino a oggi ad arginare il montare della violenza, nell'aspro scontro che le caratterizza [oggi] vige la sensazione che ciascuna stia serrando le fila in vista di una decisione dalla portata definitiva." 
Oggi, prosegue Vlahos, "due legittimi percorsi sono fermi a un punto morto, contrapposti l'uno all'altro... Quello tra rosso e blu è già un insanabile scisma di tipo religioso, che da un punto di vista dottrinale è persino più profondo di quello che nel XVI secolo divise cattolici e protestanti. La guerra  oggi in corso sarà vinta dalla fazione che riuscirà a catturare la bandiera (dei social media), e con essa la palma di vera erede della virtù ameriKKKana. Entrambe le parti si considerano portabandiera del rinnovamento del paese, della liberazione da ideali ormai corrotti e della piena realizzazione della promessa ameriKKKana. Entrambe credono con fervore di essere le uniche nel giusto."
Ed eccoci al punto. Parte del discorso di Pompeo corrisponde alla descrizione di Vlahos: Pompeo ha cercato di "catturare la bandiera" in nome dell'amministrazione Trump e della base elettorale evangelica che la sostiene, in qualità di vero erede della virtù rossa ameriKKKana. I riferimenti di Pompeo al fatto che ogni giorno apre la bibbia alla propria scrivania e la sua enfasi sul concetto di AmeriKKKa come "forza del Bene" nella regione mediorientale (cosa che ha fatto fioccare le occhiatacce in tutto il Medio Oriente) erano completamente fuori dalla realtà mediorientale. Comunque sia, le sue allusioni non sono state per nulla colte dal pubblico egiziano.
Pompeo stava piuttosto preparando la base elettorale di Trump per quella che Vlahos chiama la resa dei conti. Quello della alterità è un processo di trasformazione per mezzo del quale ex sodali e ameriKKKani a tutti gli effetti vengono reimmaginati come incarnazione del Male, come un nemico interno che deve affrontare ora la punizione, dopo aver subìto la sconfitta.
Secondo Vlahos al centro dell'identità ameriKKKana di trova proprio questo concetto di sconfitta dell'alterità; in questo contesto la demonizzazione dell'Iran da parte di Pompeo acquista rilevanza: l'Iran per gli ameriKKKani è adesso l'Altro per antonomasia. Vlahos scrive:
In realtà l'unità degli USA ammonta a pochi decenni: anticipata dalla prima guerra mondiale, realizzata nella seconda, e mantenuta vitale fino agli anni Settanta. In concreto le due guerre mondiali hanno fatto proprio il contesto della guerra civile e hanno abilmente rivolto verso l'esterno l'impulso all'alterità. Invece dei britannici e dei tories, o dei ribelli e dei Copperheads, l'Altro malvagio fu impersonato opportunamente, e persino volentieri, dalla Germania. Sconfitti gli Unni, il loro posto fu preso, anche stavolta abbastanza volentieri, dall'Unione Sovietica. Ripensare l'Altro, e collocarlo fuori dai confini, fece sì che gli ameriKKKani non badassero alle divisioni che si approfondivano in patria.
Solo che la fine della Guerra Fredda ha portato a una conclusione tremebonda un secolo di unità forzata.
Adesso è l'Iran l'Altro malvagio che serve a dirigere opportunamente all'esterno gli impulsi degli ameriKKKani.
E sembra che l'Iran si trovi esattamente laddove passa un'altra delle linee di faglia interne all'AmeriKKKa oggi in movimento. Nella New York Review of Books >Stephen Wertheim sostiene che la vittoria di Trump nel 2016 ha diviso in due i neoconservatori ameriKKKani; un'ala è simboleggiata da Bolton, e si è inserita fra quanti dettano legge in politica estera nell'amministrazione Trump. L'altra invece sta ricostruendo i legami con il Partito Democratico. 
Secondo Wertheim la virtù rossa è passata senza scosse a Bill Kristol e a Norman Podhoretz e alla loro costruzione di una minaccia morale diretta all'esistenza del buon diritto ameriKKKano, rappresentata dall'islamofascismo. "Il neoconservatorismo deriva dalla tradizione filosofica di Leo Strauss,  che in The City and Man afferma che 'la crisi dell'Occidente consiste nel fatto che l'Occidente si è fatto incerto circa il proprio scopo' [esattamente quello che al Cairo Pompeo ha rimproverato a Obama]". "Secondo i seguaci di Streauss e secondo i loro discendenti intellettuali, il conflitto militare si prestava a fornire questo scopo", nota Sugarman. E per Pompeo, per il Vicepresidente Pence e per Bolton l'Iran assolve alla perfezione a questa necessità, specialmente perché è il principale avversario dello stato sionista.
Al Cairo Pompeo stava dando un segnale di appartenenza rivolto essenzialmente al pubblico statunitense, con quel suo disciplinato ritratto di un Iran luciferino, suggerendo che con l'amministrazione Trump, a differenza che con quella Obama, il governo statunitense aveva riacquisito le proprie certezze su quale fosse la "missione" ameriKKKana in materia di politica estera (ovvero di caccia ai draghi).
La virtù blu, per l'altra ala neoconservatrice, è incarnata dal liberalismo e dalla coalizione militare di quanti hanno la stessa mentalità; il tutto centrato sulla legittima ideologia liberale dell'antitotalitarismo.
"per Bolton e comapgi, Donald Trump si è rivelato un traditore," osserva Wertheim. "Trump ha tolto il globalismo dalla sufficienza in cui era tenuto e lo ha posto al centro della politica estera ameriKKKana e di quella del Partito Repubblicano. I neoconservatori storicamente hanno sempre pubntato alle istituzioni globali, non al globalismo in sé. Pochi hanno incarnato quest'idea meglio di Bolton, che si è costruito una carriera bastonando sia le Nazioni Unite che il loro Consiglio di Sicurezza". Durante l'amministrazione Obama, rileva Wertheim, Bolton lanciava regolari allarmi contro "i sinistrorsi come Obama che stavano tentando di svendere pezzo a pezzo la sovranità ameriKKKana alle istituzioni internazionali".
Per apostati repubblicani come Jennifer Rubin, David Frum e Max Boot, sostiene Wertheim, Trump è stato, nel male, qualcosa di meno rispetto a un dittatore estero: un "nemico interno". La sua personalità degenerata e la sua sfrenata corruzione hanno permesso loro di "avocare a se stessi il ruolo prediletto di custodi della rettitudine morale in AmeriKKKa".
Bene, tutto molto bene. Certo, il dicorso di Pompeo era del tutto scollegato dalla realtà mediorientale, ma possiamo ignorare la sua retorica sull'Iran, e trattarla come nulla più che un modo per mettersi politicamente in mostra? Forse sì, a meno che questa zelante raffigurazione dell'Iran come l'anticristo non finisca per trasformare in realtà le pretese dell'amministrazione Trump di realizzare certi "sacri destini dell'AmeriKKKa" bombardando il paese.
Vlahos pensa che
Perché questa o quella arrabbiata visione [dell'AmeriKKKa] finisca per prevalere, si deve arrivare a una resa dei conti. Questo richiede, perversamente, che le due parti cooperino perché si arrivi a uno scontro aperto, obbligando la maggioranza degli ameriKKKani a considerarlo come inevitabile. A quel punto basterà un fiammifero.
E questo è quello che le udienze di conferma di Brett Kavanaugh e i quasi due anni di sforzi incessanti rivolti alla delegittimazione e all'estromissione di Donald Trump dalla sua carica possono fare oggi: spingere le due parti dell'ex paese unito a sfregare quel fiammifero.
Lo scontro. Se gli equilibri politici mutano in modo rimarchevole, qualunque impedimento alla deflagrazione rappresentato dalla manipolazione delle norme politiche e da posizioni elettorali di lunga durata potrebbe dissolversi. Ed entrambe le parti, quella avvantaggiata e quella svantaggiata, più prima che poi si troveranno al faccia a faccia.
Potrebbe essere l'Iran il banco di prova per questo faccia a faccia, il terreno per una prova di forza all'insegna della virtuosità morale?

venerdì 1 febbraio 2019

Alastair Crooke - Inizia in Medio Oriente un processo di ricomposizione di vasta portata. Gli esiti della guerra in Siria si ritorceranno contro chi l'ha voluta.



Traduzione da Strategic Culture, 14 gennaio 2019.

Il Medio Oriente sta cambiando volto. Stanno emergendo nuove linee di faglia; nonostante il teatro sia nuovo, i falchi della politica estera di Trump stanno ancora cercando di mandare in proiezione film già visti.
Uno di questi film già visti è il sostegno degli USA a favore degli stati arabi sunniti, da guidare verso il confronto con quell'Iran cui è affidato il ruolo del cattivo. La squadra di Bolton sta tornando al Clean Break, il vecchio copione del 1996, come se nel frattempo nulla fosse successo. I funzionari del Dipartimento di Stato hanno deciso che il discorso che il Segretario Pompeo ha tenuto al Cairo il 10 gennaio era stato "programmato per dire al pubblico -anche se Pompeo non poteva fare il nome dell'ex presidente- che Obama aveva mal cosigliato i popoli mediorientali su quale fosse l'autentica fonte del terrorismo, quella che aveva contribuito anche all'ascesa dello Stato Islamico. Pompeo continuerà a dire che l'Iran è la vera causa del terrorismo, quell'Iran che Obama aveva cercato di coinvolgere. Le bozze del discorso indicano anche che Pompeo avanza l'idea che l'Iran potrebbe prendere lezione dai sauditi in materia di diritti umani e di stato di diritto."
Beh, almeno sarà un discorso che sarà accolto da risate di scherno in tutta la regione. Sul piano concreto le linee di faglia nella regione si sono mosse e non riguardano più tanto l'Iran. I paesi del Consiglio degli Stati del Golfo hanno cambiato agenda, e sono ora assai più interessati a contenere la Turchia e a fermare l'influenza turca che sta facendosi strada in tutto il Levante. I paesi del Golfo temano che il Presidente Erdogan, in considerazione dell'ondata di antipatia viscerale e psicologica scatenata dall'uccisione di Khashoggi, possa mobilitare le reti su cui i Fratelli Musulmani -pieni di nuove energie- possono contare nel Golfo. Far leva sulle preoccupazioni che nel Golfo serpeggiano attualmente sulla situazione economica e inficiare qualunque visione di più ampio respiro quei paesi possano avere consentirebbe di minare il rigido "sistema arabo" del Golfo, che si sostanzia nella monarchia tribale. Per le monarchie del Golfo i Fratelli Musulmani pensano a una riforma in senso islamico ma dai toni morbidi, secondo le linee a suo tempo caldeggiate da Jamak Khashoggi.
I vertici dello stato turco sono comunque convinti che dietro la costruzione della zona cuscinetto curda e dietro il complotto volto a mettere questo mini-stato contro la Turchia insieme allo stato sionista e agli USA ci siano stati gli Emirati Arabi Uniti, e in particolare Mohammed bin Zayed. Comprensibile che adesso i paesi del Golfo che hanno armato in questo modo le aspirazioni curde temano una possibile rappresaglia turca.
E i paesi che fanno parte del Consiglio degli Stati del Golfo pensano che la Turchia sia già al lavoro -in stretta coordinazione con quel Qatar che è protettore del Fratelli Musulmani e membro del Consiglio- per incrementare le divisioni in un Consiglio degli Stati del Golfo ormai al collasso. La situazione fa presagire un nuovo scontro tra Fratelli Musulmani e wahabismo saudita, la cui posta in gioco è l'anima dell'Islam sunnita.
I paesi del Consiglio sperano quindi di mettere insieme un fronte che si contrapponga alla Turchia nel Levante. Per questo stanno cercando di attirare di nuovo il Presidente Assad nel campo arabo, ovvero di riammetterlo alla Lega Araba, e di far sì che agisca -di concerto con loro- come baluardo arabo contro la Turchia.
Il problema in questo caso è chiaro: il Presidente Assad è un alleato stretto dell'Iran, come la Russia e come la Turchia. Fare gli iranofobi alla moda -come vorrebbe Pompeo- impedirebbe ai paesi del Consiglio di mettere in atto il loro piano antiturco. I siriani possono nutrire un giusto scetticismo nei confronti delle iniziative e degli obiettivi della Turchia in Siria, ma dal punto di vista del Presidente Assad l'Iran e la Russia sono assolutamente indispensabili per controllare la incostante Turchia. La Turchia rappresenta un elemento in grado di minacciare l'esistenza della Siria. Cercare di fare pressione su Assad -o sul Libano, o sulla Turchia- perché prendano le distanze dall'Iran sarebbe assurdo. Non succederà nulla del genere, e i paesi del Golfo hanno ancora sufficiente discernimento da capirlo, dopo la cocente sconfitta subita proprio in Siria. La posizione antiiraniana dei paesi del Golfo ha subìto una brusca perdita di potenza, e riacquista vigore solo quando c'è bisogno di lisciare il pelo agli USA.
Insomma, vedono chiaramente che a comandare e a mettere in piedi il nuovo "ordine regionale" del Medio Oriente non è il signor Bolton, ma Mosca, con Tehran e (a volte) Ankara che fanno anch'essi la stessa parte dietro le quinte.
Probabilmente i servizi ameriKKKani sanno -e i paesi del Goilfo ne sono consapevoli- che comunque in Siria non ci sono quasi più militari iraniani, anche se i collegamenti della Siria con l'Iran restano solidi come sempre; questo, nonostante Pompeo e lo stato sionista asseriscano l'opposto e dicano di essere impegnati a respongere duramente ogni "minacciosa presenza" militare iraniana in Siria. In Medio Oriente ci crederanno in pochi.
La seconda notevole linea di faglia che si va delineando è quella che si sta aprendo fra la Turchia da una parte e gli USA e lo stato sionista dall'altra. La Turchia è consapevole -ed Erdogan lo è ancora di più- che Washington adesso è profondamente diffidente e che pensa che la Turchia stia passando sempre più velocemente nell'orbita di Mosca e di Pechino; a Washington sarebbero contenti di sapere Erdogan finito, e che al suo posto si trova un leader maggiormente favorevole alla NATO.
Anche a Washington devono sapere bene per quale motivo la Turchia sta guardando a oriente. Erdogan ha bisogno della Russia e dell'Iran, che agiscano da dietro le quinte in modo da alleggerire le difficoltà che egli si troverà ad avere in futuro con Damasco. La Russia, e ancor più l'Iran, gli sono indispensabili per arrivare a una soluzione politica plausibile per i curdi in Siria. E ha bisogno anche della Cina, che faccia da sostegno all'economia turca.
Erdogan è pienamente consapevole del fatto che lo stato sionista, più che i paesi del Golfo, ambisce ancora alla vecchia idea di Ben Gurion di inserire nella zona nevralgica dell'Asia sudoccidentale e centrale (e ai margini del ventre molle della Turchia) uno stato etnico curdo alleato a quello sionista e dotato di rilevanti risorse petrolifere.
Lo stato sionista ha sostenuto operativamente la formazione di uno stato curdo in modo piuttosto evidente all'epoca della fallita iniziativa di Barzani per l'indipendenza dall'Iraq. Solo che Erdogan si è sempre detto contrario a una cosa del genere; l'ultima volta lo ha detto a Bolton pochi giorni fa. Nonostante questo, Ankara ha ancora bisogno della collaborazione dei russi e degli iraniani per far sì che Bolton rinunci all'idea di un mini stato curdo in Siria. Ankara ha bisogno della Russia per arrivare alla realizzazione di una zona cuscinetto controllata dalla Siria, che prenda il posto della fascia di territorio che ameriKKKani e curdi hanno avviluppato alla sua frontiera meridionale.
Non è comunque probabile che, a dispetto della minaccia concreta che il sostegno armato ameriKKKano ai curdi rappresenta per la Turchia, Erdogan voglia veramente invadere la Siria, nonostante abbia minacciato di farlo e nonostante le "condizioni" poste da Bolton possano finire col non lasciare altra scelta alla Turchia. Di sicuro Erdogan è consapevole del fatto che un'invasione mal condotta della Siria farebbe sprofondare la lira turca, che già si trova in una situazione delicata.
Turchia, Siria, Iran e Russia vogliono che l'AmeriKKKa se ne vada dalla Siria. E per un momento è sembrato che la cosa potesse procedere senza intoppi dopo che Trump aveva accondisceso alle argomentazioni di Erdogan durante la loro famosa conversazione telefonica. Poi però il senatore Lindsay Graham ha sollevato obiezioni, in uno scenario di corali gemiti di angoscia che provenivano dai think tank di politica estera della capitale. Bolton ha fatto marcia indietro sottoponendo il ritiro statunitense dalla Siria a condizioni che sembrano fatte apposta per non poter verificarsi, e senza porre alcuna scadenza in particolare. La cosa al Presidente Erdogan non è piaciuta.
A questo punto dovrebbe essere ovvio che si sta entrando in una fase di profondo rimaneggiamento. Gli USA stanno lasciando la Siria. Il tentativo di Bolton di non effettuare il ritiro è stato respinto. E gli USA, in ogni caso, hanno tradito la fiducia del curdi con la prima dichiarazione di Trump sull'argomento. I curdi adesso guardano a Damasco, e la Russia sta facendo da mediatore per un accordo.
Potrà volerci del tempo, ma gli USA se ne andranno. Le forze curde, ad eccezione di quelle che fanno capo al PKK, verranno probabilmente integrate nell'esercito siriano e la zona cuscinetto non sarà diretta contro la Turchia ma sarà rappresentata da un insieme di forze siriane e di elementi curdi sotto comando siriano sul cui comportamento nei confronti della Turchia saranno comunque i russi a sovrintendere. E l'esercito siriano, a tempo debito, ripulirà Idlib dalla risorta alQaeda dello HTS.
I paesi arabi stanno riaprendo le ambasciate di Damasco, in parte per il timore che le contorsioni della politica ameriKKKana, con la sua radicale polarizzazione e la sua propensione a tornare del tutto o in parte sui propri passi ad opera dello stato profondo possa lasciare i paesi del Golfo improvvisamente privi di sostegno. In concreto i paesi del Consiglio di Cooperazione stanno munendosi contro questo rischio cercando di ricomporre i pezzi del mondo arabo e conferendogli nuovi scopi e nuova credibilità come contrappeso alla Turchia, al Qatar e ai Fratelli Musulmani, antica nemesi siriana.
Esiste anche un altro livello da considerare, secondo quanto scritto dal navigato esperto di Medio Oriente Elijah Magnier. 
Il Levante sta tornando al centro dell'attenzione nel Medio Oriente e nel mondo, e più forte di come era nel 2011. La Siria possiede missili ad alta precisione in grado di colpire qualsiasi edificio dello stato sionista. Assad ha anche un sistema di difesa aerea che prima del 2011 non si era nemmeno sognato, e lo ha grazie alle continue violazioni commesse nel suo spazio aereo dallo stato sionista e grazie al suo perdurante disprezzo per l'autorità russa. Hezbollah ha realizzato basi di montagna per i suoi missili di precisione a lungo e medio raggio e ha creato con la Siria un tale legame che sarebbe stato impossibile arrivarci se non fosse stato per la guerra. L'Iran ha stabilito con la siria un rapporto strategico fraterno, grazie al ruolo che ha avuto nei piani per impedire il rovesciamento dello stato siriano.
Il sostegno che la NATO ha fornito all'espansione dello Stato Islamico ha creato un legame fra Siria e Iraq che né i musulmani né i baathisti avrebbero mai potuto realizzare. L'Iraq ha carta bianca per bombardare le posizioni dello Stato Islamico in Siria senza che i vertici siriani debbano dare il loro assenso, e le forze di sicurezza irachene possono entrare in Siria ogni volta gli pare sia il caso di farlo per combattere lo Stato Islamico. L'asse contrario allo stato sionista non è mai stato più forte di quanto lo sia oggi. Ecco il risultato della guerra imposta alla Siria negli anni compresi fra il 2011 e il 2018.
Ecco. Questa è la terza linea di faglia che sta emergendo: lo stato sionista da una parte, e la realtà che si va consolidando nel nord della Siria dall'altra. Un'ombra che è tornata a perseguitare i primi istigatori della guerra destinata a indebolire la Siria. Il Primo Ministro Netanyahu ha messo tutte le speranze dello stato sionista nelle mani della famiglia Trump. Proprio i rapporti di Netanyahu con Trump -e non quelli con i palestinesi- sono stati presentati nello stato sionista come la parte sostanziale dell'"Accordo del Secolo". Eppure quando Bibi si è lamentato vigorosamente del ritiro statunitense dalla Siria -che a sentir lui avrebbe lasciato la Siria esposta alla dislocazione di evoluti missili iraniani- Trump ha risposto con noncuranza che gli USA forniscono allo stato sionista quattro miliardi e mezzo di dollari l'anno: "E ci starete bene", ha chiuso Trump.
Nello stato sionista l'episodio è stato considerato come un formidabile schiaffo al Primo Ministro. Ma nello stato sionista non possono certo evitare di riconoscere di aver avuto qualche responsabilità in ciò che ha portato alla situazione di cui si lamentano a gran voce.
E per finire, le cose non sono andate secondo i piani. Non è l'AmeriKKKa a plasmare il nuovo "ordine" nel Levante, ma Mosca. E le imperterrite ostentazioni di disprezzo dello stato sionista nei confronti degli interessi di Mosca nel Levante hanno prima mandato in bestia il Comando Supremo russo, e poi lo hanno indotto a dichiarare il quadrante settentrionale del Medio Oriente in pratica una zona a divieto di sorvolo per gli aerei dello stato sionista. Per gli USA e per Netanyahu si tratta di un rovescio strategico di prim'ordine.
In ultimo c'è questo copione che si ripete, in cui il Presidente degli USA fa dichiarazioni di politica estera che vengono quasi sistematicamente contraddette o "corrette" da parte di questo o quel settore della macchina burocratica statunitense, e che rappresenta la massima incognita per il Medio Oriente e anche al di là dei suoi confini. Si tratta di un copione che vede il Presidente isolato, intanto che i funzionari vuotano di autorevolezza esecutiva le sue affermazioni che poi vengono fatte proprie o smentite dall'apparato burocratico. Per quello che riguarda la condotta della politica estera, Trump sta diventando quasi irrilevante.
Ci troviamo davanti a un tacito processo -portato avanti con consapevolezza- per rimuovere passo per passo Trump dalla sua posizione di potere? Siamo davanti a una serie di iniziative che puntano a svuotare le sue prerogative presidenziali, lasciandogli di fatto solo il ruolo di molesto utente di Twitter, senza tirare in mezzo il trambusto e la confusione che comporterebbe una sua formale rimozione dalla carica? Staremo a vedere.
E cosa succederà a quel punto? Come osserva Simon Henderson, non si può essere sicuri di niente. Si resta a chiedersi
"...che ne è del gran tour per le capitali mediorientali del Segretario Pompeo? In breve, Pompeo sta cercando di rivendere e/o di spiegare agli amici degli USA la politica di Trump sull'abbandono della Siria... Amman in Giordania, il Cairo in Egitto, Manama nel Bahrein, Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, Doha nel Qatar, Riyadh in Arabia Saudita, Masqat nell'Oman e Kuwait City in Kuwait. Accidenti: anche con un jet privato a disposizione e senza dover fare la fila al controllo passaporti, è un viaggio massacrante... Il fatto che siano previste otto tappe in otto giorni probabilmente rispecchia la grande quantità di spiegazioni che c'è bisogno di fornire."