sabato 24 novembre 2018

Alastair Crooke - Il delitto Khashoggi al complesso incrocio di tre punti di svolta



Traduzione da Strategic Culture, 23 ottobre 2018.


Per i realisti, un Khashoggi smembrato vivo e assassinato non è che un giornalista morto. Un evento non eccezionale; raramente poi gli stati cambiano linea politica per un morto, per quanto raccapricciante sia stata la sua fine. Tutto vero, senz'altro. Ma è vero anche che un evento isolato può verificarsi nel momento giusto, quello in cui la svolta è ormai innescata, quello in cui un qualsiasi unico fiocco di neve in più fa muovere una valanga di dimensioni sproporzionate rispetto a ciò che la scatena. Sarà lo stesso per la morte di Khashoggi? Molto probabilmente sì perché esistono diversi punti instabili in Medio Oriente; situazioni in cui anche un evento dalla portata trascurabile può innescare sommovimenti significativi. La situazione rappresenta un complesso incrocio di dinamiche in mutamento.
Khashoggi è stato letteralmente fatto a pezzi. Un'allegoria di quanto sta accadendo in una regione che si sta sgretolando. Khashoggi è stato un tempo un appartenente ai Fratelli Musulmani ed era considerato la loro icona; è stato smembrato in modo raccapricciante. La sua fine, almeno in Medio Oriente, potrebbe essere considerata allegoria del corpo vivo dei Fratelli Musulmani steso prono su un banco e fatto a pezzettini dagli apparatchik sauditi e ricordare quasi alla perfezione la campagna che gli Stati del Golfo hanno intrapreso per distruggere i Fratelli Musulmani e spazzarli via dalla regione.
L'allegoria si fa patetica soprattutto perché a suo modo Khashoggi simboleggiava anche l'ambiguo tentacolo che andava dalla al Qaeda di Bin Laden ai Fratelli Musulmani, anche se negli ultimi tempi Khashoggi riservava la sua stima al solo Bin Laden. Khashoggi era entrato nei Fratelli Musulmani più o meno contemporaneamente a Bin Laden; aveva fatto lunghi viaggi in Afghanistan con il leader di al Qaeda, e ne aveva scritto uno dei primi profili per una rivista saudita nel 1988 ( si veda The Osama Bin Laden I Know di Peter Bergen).
Il primo punto di svolta su cui il mondo si è giustamente soffermato è la possibilità che Trump si ritrovi, pur di malavoglia, costretto dal lento accumularsi delle prove a una radicale revisione dei rapporti fra USA e Arabia Saudita per la prima volta dal 1948. In questo contesto sarebbe costretto ad ammettere che Mohammed bin Salman non è un pilastro solido, nonostante vi si fondino i principali elementi della politica estera statunitense: il rovesciamento del governo in Iran, il calmiere al prezzo del petrolio intanto che si sottopone l'Iran ad ulteriori sanzioni, la vendita di armamenti statunitensi e il far arrivare allo stato sionista il suo "accordo del secolo". Certamente, nessuno sa cosa potrebbe succedere in Arabia Saudita nel caso Mohammed bin Salman venisse allontanato dal suo ruolo di presunto erede designato. Dalla famiglia degli al Saud stanno trapelando mugugni facili da udire.
Trump vorrà davvero arrivare a un esito del genere? Farà di tutto per evitarlo, solo che il Congresso e lo zoccolo duro evangelico già da molto tempo esprimono opinioni critiche e sempre più aspre circa i rapporti con l'Arabia Saudita: dagli avvenimenti dell'undici settembre 2001 fino alla catastrofe dello Yemen, scontento e critiche sugli stretti legami fra gli USA e Mohammed bin Salman non hanno fatto che crescere.
A Washington sono in pochi a credere che l'affermazione di Trump sul potenziale di vendita per centodieci miliardi di armamenti sia qualcosa di diverso da una spacconata; a tutt'oggi le transazioni in corso, già avviate ai tempi di Obama, assommano a nulla più di qualche lettera d'intenti non vincolante. E oggi come oggi gli USA non sono più dipendenti dalla sicurezza delle forniture petrolifere saudite. Che i rapporti fra i due paesi si raffreddassero (e virassero all'ostilità) era dunque inevitabile. L'opinione pubblica è chiaramente più consapevole degli orrori che sono alla base del brutale jihadismo wahabita (si consideri la Siria), e il lento mettersi in moto delle "riforme" come le intendono i sauditi non ha alcuna comunanza di significato con quello che si intende altrove con lo stesso vocabolo. L'assassinio di Khashoggi sarà il fiocco di neve che mette in moto la valanga? Se dobbiamo considerare il senatore Lindsay Graham come un indicatore attendibile, sembrerebbe di sì: "Questo tizio [Mohammed bin Salman] deve andarsene", continua a dire Graham.
L'uccisione di Khashoggi è allegorica anche in riferimento a un secondo punto di svolta. Khashoggi è stato fatto a pezzi in Turchia, proprio mentre stava per contrarre matrimonio all'interno dell'ambiente dello AKP (lo zio della promessa sposa era uno dei fondatori del partito). Khashoggi era anche amico del Presidente Erdogan. L'orribile evento ha permesso a Erdogan di perorare oltremodo la causa della Turchia, specie se si considera che esso si è verificato proprio mentre un tribunale turco ordinava la scarcerazione del pastore statunitense Brunson. Accogliendo Brunson alla Casa Bianca, Trump è stato oggetto di una conversione sulla via di Damasco e ha detto che adesso considera la Turchia molto di buon occhio. Erdogan sfrutterà al massimo questo vantaggio per allontanare gli USA dai curdi nell'est della Siria, e per rafforzarsi nel mettere Washington contro Mosca.
Erdogan ovviamente mira più in alto. Si sta servendo dell'affare Khashoggi per puntare, nientemeno, al ruolo di guida del mondo islamico, sperando di contenderlo con successo all'Arabia Saudita. Dopo la sconfitta degli wahabiti in Siria, Erdogan sente che l'Islam sunnita è sull'orlo del precipizio e si è messo a usare senza pudore il linguaggio e l'immaginario ottomani per sostenere le proprie istanze; i corsivi della stampa turca ci mettono del loro, chiedendo che l'Arabia Saudita smetta di esercitare la propria egemonia wahabita sui luoghi sacri di Mecca e Medina.
Anche questo costituisce un potenziale punto di svolta. L'Arabia Saudita sta perdendo colpi; dal punto di vista politico è sempre stato un paese marginale, ma il regno sopperiva profondendo denaro e accreditandosi come custode dei Luoghi Santi.
Gli Stati del Golfo, dopo che gli eccessi dello Stato Islamico hanno alienato loro le simpatie di ameriKKKani ed europei, hanno inziato a rifarsi a una narrativa improntata alla moderazione e a sostenere una "guerra alla teocrazia" piuttosto che arrischiarsi a condannare senza mezzi termini la violenza jihadista, presa di posizione questa inaccettabile al loro stesso clerov puritano. Il fatto è che mentre questa "guerra alla teocrazia" potrebbe essere intesa come un esplicito impegno a combattere lo Stato Islamico, dal punto di vista retorico è servita assai meglio per mettere l'Iran, Hezbollah e i Fratelli Musulmani sullo stesso piano dello Stato Islamico. La narrativa, molto artificiosa, che Trump ha adottato senza riserve è questa.
La tiritera della "moderazione" ha comportato per le monarchie del Golfo un concertato e confuso tentativo di prendere le distanze dall'assetto statale islamico. Come notato da Ahmad Dailami, il nazionalismo monarchico che Mohammed bin Salman ha usato per allontanare il regno dal suo stesso puritanesimo islamico non è stato sostituito né da un credo alternativo, né da un autentico laicismo.
In Occidente Khashoggi è considerato un liberale favorevole alle riforme democratiche; di fatto egli era un tenace sostenitore del sistema monarchico. Di cui Mohammed bin Salman è il capo effettivo. Khashoggi sosteneva che tutte le monarchie di questo genere fossero riformabili: solo le repubbliche laiche come l'Iraq, la Siria o la Libia non lo erano, e dovevano essere rovesciate. Il punto in cui si è trovato in disaccordo con Mohammed bin Salman era il suo vedere con maggior favore non una virata verso il laicismo o verso un liberalismo all'occidentale, ma una islamizzazione riformatrice della politica araba secondo i principi dei Fratelli Musulmani. Di fatto la stessa cosa che pensa Erdogan.
Ecco dunque il secondo potenziale punto di svolta. Per adesso Erdogan ha avuto successo nello sfruttare l'assassinio di Khashoggi; riuscirà anche a plasmarne le conseguenze, facendo venire meno il sostegno degli USA ai Paesi del Golfo per ridirigerlo verso il modello turco improntato ai dettami dei Fratelli Musulmani? Nel corso degli anni gli USA sono stati ondivaghi -spesso anche con brusche oscillazioni- passando dal sostegno per i Fratelli Musulmani visti come catalizzatore per il cambiamento in Medio Oriente, per tornare poi a guardare alla competenza con cui i servizi segreti sauditi riuscivano a schierare jihadisti pronti a tutto come alla miglior soluzione per un veloce rovesciamento di qualche governo.
Trump ha accennato alla possibilità di un cambiamento del genere quando si è espresso a favore della Turchia durante il suo incontro con il pastore Brunson: "Si tratta di un magnifico passo per instaurare sostanziali e peculiari rapporti con la Turchia. Oggi abbiamo della Turchia un'opinione molto diversa da quella che avevamo ieri. Credo che questa sia la nostra occasione per avvicinarci alla Turchia, per avere rapporti molto, molto, più stretti. Avere buoni rapporti col Presidente Erdogan sta diventando sempre più importante."
E che dire del possibile terzo punto di svolta? Si tratta, ovviamente, dello stato sionista. L'ex ambasciatore statunitense nello stato sionista Dan Shapiro scrive:
La raccapricciante eliminazione di Khashoggi ha implicazioni che vanno molto oltre l'aver mostrato la natura brutale e priva di scrupoli del principe ereditario saudita. A Gerusalemme e a Washington si stanno pentendo di tutta la strategia che avevano elaborato per il Medio Oriente, e non ultimo per contrastare l'Iran... La scioccante brutalità del rapimento e dell'assassinio di Jamal Khashoggi da parte delle forze di sicurezza saudite non può essere fatta passare in sordina, non importa quanto improbabili siano i tentativi di indorarne la pillola come il chiamare in causa un interrogatorio andato storto o affermare che si è trattato dell'opera di qualche canaglia.
Le implicazioni non si limitano alla tragedia che ha colpito la famiglia e la promessa sposa di Khashoggi. La videnda fa sorgere interrogativi sostanziali in USA e nello stato sionista sull'intera strategia che avevano elaborato per il Medio Oriente... l'assassinio di Khashoggi non è soltanto un gesto che per abiezione supera ogni limite; esso evidenzia anche la sostanziale inaffidabilità dell'Arabia Saudita di Mohammed bin Salman come partner strategico. Quanto accaduto nel consolato saudita di Istanbul riecheggia le parole che furono usate un tempo per descrivere l'eliminazione di un avversario da parte di Napoleone: "Si tratta di qualcosa di peggio di un delitto: si tratta di un errore." Di un errore strategico, si potrebbe aggiungere.
Di fatto esso dà adito a un punto di svolta gravido di potenziali conseguenze. Lo stato sionista ha perduto, o per lo meno ha visto molto ridimensionata, la superiorità aerea che aveva in Siria e nel quadrante settentrionale della regione. Lo stato sionista dipendeva da questa superiorità aerea; ma dopo la perdita di un aereo Ilyushin Il-20 con quindici uomini da parte dei russi nei cieli siriani il 17 settembre, Mosca ha installato un formidabile ombrello di difesa aerea ed elettronica che copre gran parte del settore.
In seguito a questo il bilancio strategico in Medio Oriente tende a una precaria parità. Il pendolo della potenza punta a nord: "Non sarà facile per lo stato sionista destreggiarsi in questa situazione, dato che il mondo della politica estera statunitense si è velocemente diviso in uno schieramento antiiraniano e in uno antisaudita... Pere lo stato sionista [è possibile che] il contraccolpo più grave della morte di Khashoggi [sia che] Mohammed bin Salman, ossessivamente dedito a mettere a tacere i propri critici, stia sabotando i tentativi di creare una corrente di consenso internazionale che faccia pressione sull'Iran," conclude Shapiro. Lo stato sionista si trova davanti diverse alternative: premere su Trump perché convinca Putin a fare marcia indietro sullo schieramento dei missili antiaerei S300 in Siria, sfidare direttamente le difese aeree russe, o accettare il nuovo equilibrio strategico nella regione.
Trump alla fine deciderà come considerare l'assassinio di Khashoggi, se far finta di nulla oppure no. Una cosa che potrà senz'altro avere un'influenza sulla strada che lo stato sionista deciderà di imboccare, insieme con tutto il Medio Oriente.

lunedì 19 novembre 2018

Alastair Crooke - Nel commercio internazionale e in politica estera gli USA vanno verso il punto di rottura



Traduzione da Strategic Culture, 9 ottobre 2018.


L'amministrazione Trump sta puntando tutto sul rosso, sulla roulette di un commercio e di una politica estera sottoposti alle radicali pressioni statunitensi. Scommettono sul fatto che un puro e semplice perseguire i meri interessi commerciali statunitensi senza fare prigionieri possa ripristinare l'egemonia economica ameriKKKana. Solo che come ha spiegato Vali Nasr sul The Atlantic la radicale politica della terra bruciata messa oggi in pratica dai corrispondenti affondi in politica estera di Donald Trump non ha solo lo scopo di far tornare gli USA al loro status quo, ma quello di costringere alla resa chiunque resista all'egemonia statunitense, sia egli amico -come il Canada- o sia una delle cosiddette "potenze revisioniste" o degli stati in possesso di armamenti nucleari.
È sempre più chiaro che quello che Trump spera di ottenere con una campagna di forti pressioni non corrisponde alla visione del gruppo che si occupa della sicurezza nazionale. In considerazione del comportamento che Trump ha tenuto con Kim Jong Un e delle sue dichiarazioni sull'Iran, l'obiettivo [di Trump] è quello di portare la Corea del Nord e l'Iran al tavolo dei colloqui. Gli appartenenti al suo entourage invece parlano come se fossero intenzionati piuttosto a costringere i due paesi alla resa. Pyongyang e Teheran questo lo capiscono molto bene. [corsivo dell'autore, N.d.T.]
Il punto essenziale però è che quando alla roulette si punta su un colore piuttosto che su un altro si vince o si perde tutto.
Per quanto riguarda le politiche commerciali, la vecchia pretesa degli Stati Uniti di voler correggere le storture nel settore è ormai un'impostura. La loro linea politica oggi non è altro che la persecuzione ad oltranza del tornaconto economico statunitense. Il Ministero del Commercio per esempio ha recentemente imposto restrizioni a dodici società russe che stanno "comportandosi in modo contrario alla sicurezza nazionale o agli interessi degli Stati Uniti in politica estera". Nessuna delle dodici società ha niente a che vedere con l'apparato militare russo o rappresenta una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Esse stanno solo costruendo un nuovo aereo passeggeri.
Come dimostra Arkady Savitsky, il vero obiettivo degli Stati Uniti è rappresentato dalla aviazione civile russa: "un esame più accurato della lista nera mostra che gli Stati Uniti hanno sanzionato società coinvolte nella produzione dell'aereo civile russo Irkut MC-21". Lo MC-21 un jet passeggeri di nuova generazione caratterizzato dall'utilizzo di materiali compositi e di leghe metalliche avanzate. Queste sanzioni insomma non servono ad altro che a proteggere il vantaggio mercantile della Boeing -più che la sicurezza nazionale delle Stati Uniti- e a sabotare i piani per applicare la tecnologia dello MC-21 al jet commerciale wide body CR929 al cui sviluppo collaborano Cina e Russia.
Ovviamente la Russia è stata definita dagli Stati Uniti una "potenze revisionista", ma lo stesso non vale per il Canada. Eppure, nell'accordo recentemente annunciato fra Stati Uniti Messico e Canada secondo il Globe and Mail il governo canadese è stato costretto a rassegnare una parte vitale della sovranità nazionale agli Stati Uniti:
Pochi hanno compreso l'accordo capestro che consente agli Stati Uniti di controllare la diplomazia canadese definito in modo piuttosto esplicito tra i commi dell'articolo 32.10: '...accordi di libero scambio con paesi non ad economia di mercato..." Nonostante il signor Trudeau abbia assicurato in termini vaghi che questo articolo ha effetti insignificanti, in presenza di questo accordo il Canada non è più libero di stringerne uno con la Cina.
Adesso Ottawa è tenuta a notificare agli altri contraenti se intende stringere un accordo commerciale con un paese "non ad economia di mercato", che è una perifrasi per indicare la Cina. Il Canada non è libero di considerare la Cina come un paese ad economia di mercato... Le relazioni commerciali di Ottawa e il suo impegno per la diversificazione economica saranno [adesso] soggetti alle interferenze di Washington. Agli USA viene in sostanza dato potere di veto: Pechino sarà costretta a negoziare con Washington se vuole stringere un accordo di libero scambio con il Canada o con il Messico.
Cedendo su un punto tanto fondamentale, il Canada ha prodotto un precedente che l'amministrazione Trump potrebbe usare per costringere altri partner commerciali come l'Unione Europea o il Giappone a prevedere clausole simili nei loro trattati commerciali, producendo così una polarizzazione del mondo: da una parte un sistema basato sul dollaro e legato agli Stati Uniti, cui è vietato l'accesso a chi fa affari con la Cina a meno che gli USA non concedano il proprio benestare, dall'altra quanto resta, condannato alla marginalizzazione.
Questo approccio al commercio, che punta a creare una rottura, ha iniziato a creare una spaccatura fra il governo Trump e Wall Street. Una Wall Street che fino a poco tempo fa si mostrava assolutamente ottimista sul fatto che nella stanza dei bottoni ci fossero gli USA e nessun altro. I mercati adesso sono preoccupati per le conseguenze sul commercio mondiale e sui profitti delle società statunitensi che potrebbe avere un inasprirsi di questa guerra fredda... ovvero, se la pallina della roulette non si fermasse sul rosso.
Quali conseguenze avrebbe una vittoria di Trump, vittoria su cui non è molto concentrato dal momento che sta continuando a punzecchiare russi e cinesi? Questo interrogativo evidenzia esattamente l'incertezza causata dalla spaccatura che sta nascendo fra Trump e il suo gruppo di combattenti della guerra commerciale guidato dall'ideologia. Solo che non sappiamo cosa questo voglia dire. Probabilmente Trump si accorderebbe con il Presidente Xi semplicemente alzando la mano, come Trudeau, e chiedendo un accordo commerciale; anche in questo caso si tratterebbe di un accordo di cui farebbero le spese la sovranità nazionale della Cina e le sue grandi aspirazioni per il futuro.
Il Robert Lighthizer di Trump andrebbe avanti su questa strada fino all'esaurimento della disponibilità dei cinesi ad umiliarsi. Ma ci sono segnali che fanno pensare che i suoi consiglieri vogliano di più. Molto di più. Steve Bannon, che dice di aver partecipato direttamewnte all'ideazione delle politiche commerciali di Trump nei confronti della Cina, lo dice chiaramente:
"La strategia di Trump è quella di estendere su una scala senza precedenti la guerra commerciale alla Cina, di farne qualcosa di insopportabilmente doloroso per Pechino. E Trump non mollerà prima di aver vinto." Bannon ha detto (in un'intervista al South China Morning Post, che) l'intento non era solo quello di costringere la cina a cessare con le sue "pratiche commerciali inique"; l'obiettivo finale era quello di "reindustrializzare l'AmeriKKKa perché il settore manifatturiero è il cuore della potenza di un paese.
"Non è solo una questione di dazi. Ma di dazi su una scala e su una profondità cui mai si è pensato prima nella storia degli Stati Uniti," ha detto Bannon. Ha detto che Pechino ha confidato su "tornate e tornate di colloqui" per togliere efficacia alle misure punitive degli USA, ma che le tattiche dilatorie non avrebbero funzionato. "Cercano sempre un dialogo strategico per tirare le cose per le lunghe. Non hanno mai preso in considerazione l'idea che qualcuno avrebbe davvero fatto qualcosa del genere."
In pratica Bannon sta dicendo che l'obiettivo degli USA è quello di sradicare le attività statunitensi dalla Cina e ricondurle in patria; questo significa tagliare e scompaginare le ramificate catene di rifornimento delle società statunitensi e trapiantarle -con i loro posti di lavoro- di nuovo negli USA. Solo che in questo modo le società statunitensi perderanno per prima cosa proprio quella competitività sui costi che le ha condotte in Cina. Cercare di compensare l'aggravio di costi alleggerendo ulteriormente la tassazione sulle società, come si intenderebbe fare ad ottobre, rischia di portare gli interessi sui prestiti a livelli da giorno del giudizio, e al crollo del valore delle emissioni statali.
Quindi il piano di Trump e di Lighthizer funziona soltanto se il mercato borsistico statunitense continua a crescere quanto basta perché i dazi facciano capitolare la Cina. Ma Xi non può mollare tanto facilmente, neppure volendo. La Cina ha tutt'altri progetti, che sono scritti nello statuto del Partito Comunista Cinese; questo significa che la Cina, a livello collettivo, può solo considerare le cose nel lungo termine. La questione adesso riguarda l'autostima dei cinesi; non esiste che un colpo assestato dall'Arte dell'Accordo li costringa a suicidarsi, e a farlo velocemente, pubblicamente e in modo umiliante. Non è neppure nella natura di Xi. Xi ha messo su un animo d'acciaio. Animo che gli deriva dal fatto di provenire da una famiglia che non apparteneva al giro di quelle che contano; non sarà lui a cassare il "destino" della Cina così come viene definito dal Partito Comunista.
Quello che la Cina è intenzionata a fare è il compiere qualche mossa verso un'ulteriore apertura del mercato, verso le riforme e verso una maggiore capacità di attrarre imprese. Trump può anche dire che si tratta di una sua vittoria e smettere con la guerra; ma lo farà davvero? Le considerazioni di Bannon su una Cina intenzionata a "tirarla per le lunghe" senza introdurre cambiamenti autentici, e il suo commento per cui il vero scopo di tutto questo è la reindustrializzazione dell'AmeriKKKa, mettono qualche dubbio swulla prospettiva che si possa giungere presto ad una tregua. Il gruppetto dei guerrieri commerciali vuole lo scalpo, proprio.
Le due linee temporali in contrasto fra loro, quella delle pressioni ameriKKKane che si basano sulla perdurante percezione di un'economia solida e che hanno bisogno di una vittoria in tempi rapidi, e quella della politica cinese che ha bisogno di tempi lunghi, determineranno il risultato di questo braccio di ferro. I mercati statunitensi assistono al rifluire di un fiume di dollari dentro i beni rifugio delle azioni ordinarie statunitensi, cosa che sta tenendo a galla gli indici; tuttavia si tratta di un fenomeno effimero che avrà una fine. A quel punto potranno affermarsi altre tendenze verso la decrescita, tendenze di segno contrario e probabilmente all'insegna della recessione.
Nel più lungo periodo, se si potrà parlare di più lungo periodo, il "resto del mondo" si metterà al lavoro per costruire nuove vie e nuove strutture commerciali, proprio per aggirare gli USA e i loro dollari tossici e vulnerabili alle sanzioni. Il rosso di Trump uscirà prima che prenda forma concreta questo abbandono del dollaro?
Questa ultima analisi tuttavia omette di considerare il fatto che la prospettiva di una tregua o di una qualche vittoria in questa guerra commerciale viene ogni giorno falcidiata da parte di altra gente. Il puro sfruttamento della privilegiata posizione economica della sola AmeriKKKa da parte di Robert Lighthizer si è rivelato essere il posto ideale per mettere d'accordo i falchi della politica estera, che possono da lì perseguire il proprio nirvana politico, il ripristino dello stato sionista come potenza militare egemone in Medio Oriente, la distruzione dell'Iran, l'affossamento del progetto euroasiatico e la vendetta contro la Russia, colpevole du aver guastato la festa all'egemonia unipolare ameriKKKana riaffacciandosi in Medio Oriente.
"In aprile il Presidente degli USA ha detto che le sue armi avrebbero presto lasciato la Siria e che la decisione su quanto vi sarebbero rimaste sarebbe stata presa 'molto velocemente'," scrive Arkady Savitsky. "Ce ne andremo dalla Siria, probabilmente molto presto. Lasciamo che se ne occupino altri, ora," aveva detto Trump. "Invece John Bolton ha recentemente affermato che gli USA in Siria sarebbero rimasti" finché non se ne fossero andati gli iraniani... Non ce ne andremo fino a quando truppe iraniane si troveranno fuori dai confini dell'Iran, alleati e milizie compresi"... Secondo il Military Times [statunitense], questa dichiarazione "indicava un sostanziale cambiamento di assetto dalle correnti operazioni antiterrorismo a quello di una missione centrata sulle manovre geopolitiche e sulla guerra per interposizione."
Questo è il scondo allineamento mancato (per usare la terminologia di Vali Nasr) fra Trump e -stavolta- i falchi ideologici della sua politica estera.
Ed ecco il secondo fattore che va a incidere sui calcoli della guerra commerciale. In questo caso stiamo parlando di una massiccia espansione in corso d'opera di una determinata inziativa in politica estera, di cui sono autori Bolton ed altri. "Chiaramente Trump pensa che la sua strategia basata sull'esercizio del massimo della pressione porterà ad accordi storici, sia con la Corea del Nord che con l'Iran," scrive Vali Nasr: "Anche se gli sviluppi della situazione con la Corea del Nord hanno dato a Trump qualche motivo per sperare, questa non sarà una strategia vincente. All'ONU, all'inizio di ottobre... il Ministro degli Esteri della Corea del Nord ha rifiutato qualsiasi mossa verso una denuclearizzazione intesa come completa e incondizionata fine dei programmi nucleari e missilistici, a meno di tangibili concessioni da parte degli USA. La pressione, in altre parole, può aver convinto Kim Jong Un a intraprendere un dialogo, ma da sola non servirà a portare a Trump l'accordo che desidera. Nonostante l'accattivante offensiva di Trump, la sua amministrazione sembra stia cercando di ottenere quello che John Bolton ha chiamato 'un risultato in stile Libia', in riferimento all'accordo del 2003 con cui Muhammar Gheddafi abbandonò il programma nucleare libico e spedì fuori dal paese il know how."
Ad essere esposti a radicali pressioni in politica estera non sono solo la Corea del Nord e l'Iran; tutti quanti si trovano nella stessa situazione. Un'epidemia. il Segretario agli Interni degli USA, Zinke, a settembre ha ricordato minacciosamente che la marina statunitense è in grado di impedire ai russi di ottenere idrocarburi dal Medio Oriente: "Gli Stati Uniti sono in grado, treamite la nostra Marina, di mantenere aperte le vie marittime e, se necessario, di bloccarle... per assicurarsi che la loro energia non arrivi sul mercato". E poi: "La Russia deve interrompere lo sviluppo segreto di un sistema missilistico da crociera proibito o gli USA cercheranno di distruggerlo prima che diventi operativo," ha detto il 2 ottobre l'inviato di Washington alla NATO.
Il punto è questo: le guerre commerciali potrebbero cessare se la Cina concedesse a Trump l'accordo commerciale che vuole, e se l'Iran e la Corea del Nord concedesserto a Trump gli accordi sul nucleare che vuole. Ma questo non succederà, perché di mezzo ci sono concezioni geopolitiche contrapposte.
Xi, quasi di sicuro, non è contrario per principio a fare qualche concessione commerciale agli USA; la Cina potrebbe farne qualcuna anche senza contropartita. Solo che l'insistenza degli USA sulla questione di Taiwan, il continuo e aggressivo confronto dell'AmeriKKKa con i cinesi sul Mar della Cina Meridionale, le sanzioni contro la Cina per aver acquistato armamenti russi, l'imposizione di sanzioni in stile Magnitsky contro individui e imprese russe (che la Cina crede saranno presto estese anche al suo caso) adesso rappresentano un'altra dimensione della Guerra Fredda, militarizzata e ancor più finanziarizzata.
Sembra ormai inevitabile che si vada verso l'imposizione alla Cina di sanzioni in stile Magnitsky, datoo che Mike Pence ha detto che "la Cina ha influenzato e interferito nelle questioni interne degli USA e nelle elezioni" e ha rilevato che le intromissioni russe negli affari interni degli USA non sono nulla rispetto a quanto fatto dai cinesi. Sono questi gli ostacoli veri che ci sono in mezzo. E che fanno prepotentemente pensare a tutti gli osservatori che l'AmeriKKKa non punta solo a "scambi più equi" con la Cina, ma vuole anche dargli una regolata sul piano militare e tecnologico, su quello dell'influenza regionale e nel campo dei tentativi di costruire le infrastrutture necessarie a realizzare catene di rifornimento proprie (noti anche come Iniziativa "Belt and Road").
E se Trump arriva prima al punto di rottura, o se al tavolo da gioco il rosso non esce? Un editorialista finanziario ha sarcasticamente scritto:
Trump sta facendo tutto quello che può per mettere fine ai giorni in cui gli USA potevano prendere in prestito qualsiasi cosa volessero in qualsiasi quantità volessero. A dire il vero non è che esista una ricetta precisa... Non è che sia chiaro cosa si dovrebbe fare. Ma se si comincia facendo tutto quello che Trump sta facendo -battibeccare con tutti gli alleati, enfiare a ruota libera il deficit governativo proprio nel punto saliente della ripresa economica, abbandonare qualunque idea di responsabilità fiscale, minacciare sanzioni su tutto a tutti quelli che cercano di onorare l'accordo che Obama raggiunse con l'Iran (in questo modo quasi pregando in ginocchio chicchessia di trovare il modo di aggirare il sistema bancario statunitense per curare i propri affari), cacciare chiavi inglesi negli ingranaggi del commercio mondiale senza dire chiaramente cosa si vuole ottenere di preciso (a vantaggio di un paese che strutturalmente... deve vedersela con una bilancia commerciale in deficit).
Insomma, ecco quello che si potrebbe fare. Si potrebbe andare a finire sul nero...

mercoledì 14 novembre 2018

Runner Pizza: un'azienda che vuole Firenze sempre più smart city


Runner Pizza è una rete di pizzerie di Firenze che fa portare le pizze a casa dei clienti da un fitto gruppo di lavoranti con lo scooter.
Negli ultimi anni andare a imboccare a domicilio gente talmente pigra da non saper metter un piede davanti all'altro fino alla rivendita all'angolo (a Firenze esiste una mangioteca ogni due isolati e si tratta di una stima per difetto) e talmente incompetente da non saper cucinare per proprio conto è diventato un andazzo -pardon, un trend- molto rilevante nella microeconomia dei contesti urbani.
Ci sono gazzette che sostengono che Runner Pizza è una delle aziende che vogliono Firenze sempre più smart city, qualsiasi cosa voglia dire.
E chi siamo noi per contraddirle.
Il 26 maggio 2018 il borgomastro di Firenze Dario Nardella elogiava la Runner Pizza per aver adottato scooter elettrici.
L'amministratore delegato Tiziano Capitani teneva un discorso pieno di ottime intenzioni:
“La Runner è un’azienda che per dimensioni e vocazione potrà diventare un esempio di come la sensibilità alle problematiche ambientali possano rendere possibile l’impiego di tecnologie di avanguardia ed energie rinnovabili su larga scala, specialmente nell’ambito dei servizi di logistica. Il percorso è segnato, l’azienda è convinta di procedere all’utilizzo di nuove tecnologie e fonti di energia alternative anche presso i laboratori diffusi sul territorio. Il cammino non è breve, ma lo pensiamo inesorabile. Da oltre 15 anni l’innovazione fa parte di noi. Vorremmo che entro due anni almeno il 50% dell’energia necessaria alla produzione dei prodotti provenga da fonti rinnovabili… sarebbe bello che le aziende toscane specializzate nel settore ci aiutassero, perché noi gli obiettivi li vogliamo raggiungere davvero!”
Solo che le ottime intenzioni sono una cosa, la realtà è un'altra.
Nella realtà l'innovazione fa così parte di loro, specialmente nell'ambito dei servizi di logistica, che stando all'edizione cartacea de "La Repubblica" del 14 novembre 2018 Andrea Menicagli, quarantasette anni e tre figli, morì nel febbraio 2016 dopo un incidente.
Era caduto dallo scooter il suo primo giorno di lavoro e indossava un casco vecchio.
Vecchio di oltre 15 anni.
La gazzetta su specificata indugia con puntiglio sulle condizioni di un arnese -i complicatori di cose semplici vogliono che lo si chiami dispositivo di protezione individuale- davvero poco in linea con tanti propositi innovativi, e ci dice che Tiziano Capitani, con tale Roberta Gussoni amministratore unico di una Rpcoop società cooperativa e tale Federico Piccioli, amministratore unico della cooperativa Well Done (espressione che a Firenze viene spesso scherzosamente tradotta con bel danno), è stato accusato di omicidio colposo.
Si viene così a sapere che per portare in giro delle cose da mangiare non basta fare ditta con qualcuno che suda sette camicie davanti a un forno e qualcun altro che si scapicolla qua e là in motorino. Ci vogliono una società e due cooperative: una fornisce lo scooter, una il casco, un'altra il lavoratore. Con il dettaglio, innovativo anch'esso, di una retribuzione il più delle volte davvero incoraggiante. Nel senso che è più un incoraggiamento che altro.

martedì 13 novembre 2018

Alastair Crooke - Le tendenze del prossimo futuro sono già visibili



Traduzione da Strategic Culture, 26 settembre 2018.

Nella propria autobiografia Carl Jung parla di "un momento di straordinaria lucidità", nel corso del quale ebbe uno strano dialogo interiore: in quale mito vive oggi l'uomo, si chiedeva il suo io? "Nel mito cristiano; tu ci vivi?" chiedeva Jung a se stesso. E per essere onesto con se stesso rispose di no: "Per quanto mi riguarda, non è la condizione in cui vivo io." Non esiste più alcun mito per noi, chiese allora il suo io interiore? "No," rispose Jung; "evidentemente no". E di cosa vivi allora, chiese di nuovo l'io interiore. "A questo punto il dialogo con me stesso diventò sgradevole. Smisi di pensare; ero arrivato in un vicolo cieco", concluse Jung.
Oggi molte persone provano la stessa sensazione. Sentono questo vuoto. Il dopoguerra, e forse lo stesso fenomeno dell'illuminismo europeo, hanno fatto il loro tempo, si pensa. Qualcuno se ne rammarica, molti di più ne sono disturbati e si chiedono che cosa li attende.
Viviamo in un momento in cui due grandi concezioni stanno svanendo: stiamo vivendo il declino della religione rivelata e al tempo stesso quello della discredito delle esperienze delle utopie laiche. Viviamo in un mondo cosparso dei relitti di progetti utopistici che, nonostante avessero un inquadramento laico che negava le verità di fede, di fatto veicolavano un mito religioso.
I rivoluzionari giacobini erano ispirati dall'umanesimo illuminato di Rousseau e scatenarono il Terrore come violenta risposta alla repressione delle élite. I trotzkisti bolscevichi uccisero milioni di persone in nome dell'empirismo scientifico che avrebbe portato all'uomo nuovo; i nazisti fecero qualcosa di simile con l'idea di instaurare il razzismo scientifico di stampo darwiniano.
Il mito millenarista ameriKKKano, un tempo come oggi, era ed è radicato nella fervida convinzione che gli Stati Uniti abbiano un Destino Manifesto: questo mito in ultima analisi non è altro che un caso particolare di una lunga serie di tentativi di imporre al corso della storia un momento di forzata discontinuità, da cui iniziare a riplasmare la società umana.
Detto altrimenti, tutti questi progetti utopistici, tutti questi successori del mito apocalittico ebraico e cristiano hanno previsto che il cammino dell'umanità portasse ad un punto di convergenza e ad una sorta di fine dei tempi o di fine della storia.
Ecco, oggi come oggi non viviamo più in miti come questi: anche le utopie laiche non funzionano più. Non riempiranno il vuoto. Le certezze ottimistiche connesse all'idea di un progresso a sviluppo lineare hanno particolarmente sofferto della discredito. Di cosa vivremo allora? Non si tratta di una questione esoterica; questioni del genere riguardano la storia e il nostro destino.
Le élite deplorano qualunque alternativa come populista o illiberale. Insomma, esse rifiutano di vedere quello che si trova davanti ai loro occhi: stanno affermandosi valori ben precisi. Di cosa si tratta? Da dove vengono? Come potrebbero cambiare il mondo in cui viviamo?
Il valore più evidente è rappresentato dall'affermarsi a livello globale del desiderio di vivere nel contesto della propria cultura; di vivere secondo una propria cultura ben distinta. Il concetto è quello di culture autonome e sovrane che stanno cercando di riappropriarsi di ciò che è loro proprio, del proprio tradizionale patrimonio storico, religioso, di legami di sangue, di territorio e di lingua. La questione dell'immigrazione, che sta squassando l'Europa, costituisce un esempio ovvio di tutto questo.
Questo valore tuttavia non sta chiamando in causa un tribalismo puro e semplice, ma anche un modo diverso di concepire il concetto di sovranità. In esso è contemplata l'idea che la sovranità si acquisisce comportandosi e pensando in modo sovrano. Il potere sovrano emerge dalla fiducia che un popolo può nutrire sulla base di un percorso storico peculiare e definito, di un retaggio intellettuale e di un patrimonio spirituale che concorrono a fare di esso qualche cosa di distinto.
Con questo si intende dire che alla base della sovranità personale e di quella comune c'è una cultura viva e consolidata; si tratta di un chiaro rifiuto dell'idea che il cosmopolitismo dei melting pot possa generare una qualunque sovranità autentica.
Si tratta certamente dell'opposto rispetto al concetto globalizzante di un "genere umano" che converge su valori comuni e su un "modo di esistere" unico, neutro ed apolitico. Ora, l'essere umano così definito, secondo l'antica tradizione europea, non esisteva. Esistevano soltanto gli uomini: i greci, i romani, i barbari, i siriani e così via. Una concezione opposta ovviamente al concetto universale di essere umano cosmopolita. Il recupero di questo modo di pensare si trova per esempio alla base del concetto di Eurasia così come viene utilizzato da Russia e Cina. 
Un secondo valore in ascesa deriva dal disincanto mondiale nei confronti del pensiero occidentale, meccanicistico e a binario unico, che riconduce tutto quanto ad un significato solo che si presuppone derivato empiricamente. Quando questo modo di pensare si insedia nell'ego individuale porta ad un'imperturbabile sensazione di trovarsi nel giusto, almeno per un pensatore dell'Europa occidentale: "Noi siamo quelli che dicono il vero"; tutti quanti gli altri balbettano o mentono.
La antica tradizione europea è stata ed è rappresentata dal pensiero congiuntivo. La colpa, l'ingiustizia, le contraddizioni e la sofferenza esistono in questo mondo? Certo che esistono, afferma Eraclito, ma solo per una mente limitata e considera le cose distinte una dall'altra, e non come connesse e collegate senza soluzione di continuità; questa condizione non comporta l'afferrare un significato ma piuttosto quella di essere delicatamente e potentemente afferrati da esso.
Cosa c'entra tutto questo con il mondo d'oggi? C'entra, perché la neoconfuciana leadership cinese di oggi pensa in questi termini. L'idea dello Yin e dello Yang e del loro sottostare all'instaurazione e al perdurare dell'armonia è ancora alla base dei concetti cinesi di politica e di risoluzione dei conflitti. Lo stesso vale per la filosofia sciita e per il concetto russo di Eurasia. Un tempo anche gli europei pensavano in questi termini: secondo Eraclito tutti gli elementi contrapposti sono uno alla base dell'esistenza dell'altro e coesistono in armonia secondo modalità invisibili all'occhio umano.
Questa prospettiva alternativa è quella che si trova proprio a sostegno dell'ordine mondiale multipolare considerato come un valore. L'accettazione del fatto che ogni individuo e ogni popolo abbiano qualità multiformi rifugge l'ossessione dominante che impone di ridurre ogni paese ad un solo valore e ad un solo significato. Il terreno per collaborare e per costruire degli scambi , così ben al di là di un "o questo o quello" e si estende ai multiformi strati di identità complesse e dei relativi interessi. Si tratta in altre parole di una concezione tollerante.
Esistono poi altri valori: la ricerca della giustizia e della verità in senso metafisico, l'integrità considerata come un bene, il comportamento responsabile e la conoscenza e l'accettazione di ciò che si è. Tutti i valori immutabili.
Il punto è questo. Con la modernità è scomparsa qualsiasi norma esterna, è scomparso qualsiasi mito al di là del conformismo civile in grado di guidare l'individuo nella propria vita e nelle proprie azioni; il forzato sradicamento dell'individuo dalle strutture di qualsiasi forma (classi sociali, chiesa, famiglia, società e genere) ha reso il rifarsi a quanto era pur rimasto latente, se non proprio ricordato, praticamente inevitabile.
L'anelito agli antichi dettami -di cui si ha pure una comprensione rudimentale e poco articolata- rappresenta un ritorno a quanto di antico ancora esiste nei più profondi livelli dell'essere umano. Un anelito al tornare di nuovo a far parte del mondo e ad essere una componente di esso. Questo processo, che si concretizza secondo modalità diverse, è in atto in tutto il mondo.
Ovviamente questo "ritorno all'antico" non può essere integrale. Non può essere il semplice ripristino delle cose come erano un tempo. Esso deve farsi strada attraverso il nostro disfacimento, deve partire dalle nostre rovine come qualcosa di nuovo che si ripresenta nell'eterno ritorno.
Nondimeno queste idee nuove e vecchie al tempo stesso avranno un impatto sul mondo liberale esistente e saranno per esso una sfida. La nostra struttura economica di oggi deriva in gran parte da Adam Smith. Ed essa non era altro che una trasposizione diretta della filosofia politica di John Locke e di John Hume, che di Smith erano intimi amici. E il pensiero di Locke e di Hume altro non era che la narrativa, in termini politici ed economici, della vittoria del concetto protestante di comunità religiosa sopra il corrispondente concetto cattolico, avvenuta all'indomani degli accordi di Westfalia.
Dunque è inevitabile che valori diversi dettino modelli diversi: che specie di modelli lasciano presagire i valori che stanno emergendo? In primo luogo il mondo non occidentale si sta staccando dall'indeterminatezza dell'identità e del genere e sta tornando ad apprezzare in questi settori la chiarezza e la distinzione; sta tornando alla centrealità della famiglia e alla necessità di considerare tutti degni di stima, quale che sia il loro posto nella gerarchia della vita. Nella pratica governativa, così come nell'economia, il valore guida è quello di una diversa concezione del potere. Il mito cattolico dell'amore, del porgere l'altra guancia, dell'umiltà e del distacco dal mondo contraddice l'antico concetto di condotta virile, che predicava invece la resistenza all'ingiustizia e il portare avanti la propria verità. Una condotta che era politica per natura, e che era dominata da un'etica in cui la potenza era un attributo normale.
Questo antico concetto di potenza si è affermato oggi nella consapevolezza del fatto che un popolo mentalmente operativo è vitale e culturalmente solido e può avere la meglio contro uno stato considerevolmente più ricco e meglio armato che abbia messo il proprio popolo a vivere una gradevole sonnolenza e lo abbia privato della sua vitalità.
Sia la pratica governativa che l'economia finiranno probabilmente col riflettere i principi dell'autonomia e della riacquisizione di sovranità da parte della nazione e del popolo, oltre che il concetto che l'organizzazione della società è sempre servita a farsi che essa fosse naturale campo dello sviluppo di un uomo o di una donna -capaci di trovare le proprie potenzialità e la propria integrità- secondo quanto da essi stabilito.
Quello che colpisce è che stiamo assistendo all'insediamento nella politica corrente di questi principi gemelli, pur nelle loro apparenti tensioni, in campi completamente distinti: nello stato che occupa la penisola italiana il Movimento Cinque Stelle -che viene considerato di sinistra- è al governo con la Lega, che viene considerata di destra.
Ovviamente in molti diranno che "non ci sono alternative". L'alternativa invece esiste eccone, e il treno sta arrivando alla nostra fermata proprio adesso.


sabato 10 novembre 2018

Alastair Crooke - Due grandi progetti per l'assetto del Medio Oriente sono in corso di sviluppo e stanno prendendo campo. E sono in rotta di collisione.



Traduzione da Strategic Culture, 12 settembre 2018.

Dalle ceneri delle due vastissime concezioni che hanno caratterizzato il decennio che si chude -la tentata conquista del Medio Oriente da parte dei Fratelli Musulmani e l'opposto progetto delle monarchie del Golfo di mandare in pezzi i Fratelli e di ricostituire il "sistema arabo", un assolutismo tribale di stampo ereditario- stanno sviluppandosi due opposti intenti. Due opposti intenti che stanno prendendo l'abbrivio e che presto o tardi entreranno in rotta di collisione. Di fatto lo sono già. Il problema è fino a dove arriverà la schermaglia.
Uno dei due riguarda l'unificazione del quadrante settentrionale della regione tramite la diffusione di uno spirito politico comune -basato sulla resistenza all'insistere degli USA per essere presenti in zona al fine di ravvivare l'egemonia ameriKKKana- e sul più pratico imperativo di trovare il modo di superare e di sopraffare la macchina da guerra finanziaria degli USA.
Negli ultimi giorni questo movimento ha conseguito una vittoria sostanziale. Elijah Magnier, giornalista esperto di Medio Oriente, così la descrive in poche parole:
Il candidato preferito dagli USA per la carica di Primo Ministro [in Iraq] Haidar Abadi ha perso la sua ultima possibilità di ottenere un secondo mandato quando una rivolta ha provocato nella città meridionale di Bassora un incendio che ha attaccato le mura del consolato iraniano. Mentre gli abitanti dimostravano avanzando a buon diritto la richiesta di acqua potabile, elettricità, lavoro e infrastrutture, gruppi prezzolati con intenzioni diverse si sono infiltrati fra i manifestanti e sono riusciti a incendiare uffici, ambulanze, un edificio governativo e una scuola che faceva capo a al Hashd al Shaabi e ad altri gruppi politici contrari agli Stati Uniti. Il comportamento della folla ha costretto Sayyed Moqtada al Sadr, cui fanno capo cinquantaquattro parlamentari, ad abbandonare il proprio partner politico Abadi e a chiuderne la carriera politica. Al Sadr ha cercato di prendere le distanze dai fatti di Bassora in modo che la colpa ricadesse sul solo Abadi. Si è messo dalla parte del vincitore, si è messo dalla parte dell'Iran...
Questo insieme di eventi ha portato al Sadr ad aggregare i suoi cinquantaquattro deputati alla maggioranza. L'aperto sostegno degli USA e i fatti di Bassora hanno messo fine alla carriera politica di Abadi... La coalizione più grande adesso potrà contare ben più che centosessantacinque deputati, e in questo modo sarà in grado di scegliere il Presidente del parlamento e i suoi due vice, il Presidente e il nuovo Primo Ministro... La grande coalizione che si sta consolidando non avrà più bisogno del sostegno dei quarantadue deputati curdi.
Il leader di questa grande coalizione di partiti sciiti e sunniti sarà con ogni probabilità Faleh al Fayyadi capo di Hashd al Shaabi, le Unità di Mobilitazione popolare. Politicamente parlando l'Iraq è adesso disponibile a entrare nell'alleanza di cui fanno parte russi iraniani e siriani, anche se le divisioni che ci sono fra gli sciiti iracheni continuano ad essere una potenziale fonte di conflitti. Se, come è probabile che succeda, l'Iraq verrà messo sotto embargo dagli USA per non aver ottemperato alle sanzioni statunitensi contro l'Iran, sarà l'imperativo delle circostanze a spingere il paese verso la sfera economica in via di consolidamento che è stata al centro dell'incontro di Tehran del 14 settembre, verso una serie di infrastrutture economiche attualmente in evoluzione i cui fini sono l'abbandono del dollaro e il contrasto alle sanzioni degli USA.
Istigare i dimostranti di Bassora -ci sono consistenti sospetti che dietro ci fosse la mano dei sauditi- è stato un errore di calcolo che per gli USA ha conseguenze anche più ampie. Intanto è possibile che le forze armate ameriKKKane si sentano dire di lasciare il paese. Poi, per il Pentagono sarà più difficile sostenere la propria presenza militare in Siria. Le linee logistiche per lo schieramento ameriKKKano nel nord est della Siria passano dall'Iraq e potrebbero non essere più utilizzabili; le forze USA in Siria si troveranno isolate e saranno quindi più vulnerabili.
Il voltafaccia iracheno sgonfia anche le aspirazioni del Presidente Trump sulla riaffermazione della supremazia degli USA nel campo energetico mediorientale. Si sperava che l'Iran avrebbe finito per capitolare e per arrendersi alle pressioni economiche e politiche, e che l'effetto domino avrebbe trascinato anche l'Iraq in una politica di condiscendenza.
Questo scenario avrebbe lasciato in mano statunitense le principali fonti di energia "a basso costo di produzione" del Medio Oriente. In considerazione di quanto successo però è più probabile che tutto questo, o per lo meno tutto quanto attiene l'Iran e l'Iraq, finisca nell'orbita russa assieme alle prospezioni nel Bacino del Levante siriano, che è inesplorato. Alla fine la "massa continentale" russa produttrice di energia può rivelarsi un avversario più che considerevole per l'aspirazione degli USA, recentemente riaffermata, di tornare a detenere la supremazia del settore.
L'intento che si oppone a questo, e che si sta parimenti affermando, è l'idea di Kushner, Friedman e Greenblatt di mettere fine alla pretesa dei palestinesi di avere un progetto politico. Dal poco che ne trapela sembra di capire che l'idea è quella di svuotare le loro pretese politiche innanzitutto tagliando via pezzo a pezzo i principali pilastri su cui si basa la natura politica del progetto palestinese.
In primo luogo si intende porre fine al paradigma dei due stati e sostituirlo con quello di "uno stato", uno "stato-nazione" ebraico in cui vigono diritti differenziati e prerogative politiche differenziate. In secondo luogo, mettendo fuori discussione l'idea che Gerusalemme possa essere capitale di uno stato palestinese. In ultimo, cercando di eliminare lo status di rifugiati per i palestinesi buttando il peso della loro sistemazione direttamente sulle spalle dei paesi che li ospitano. In questo modo si cacciano i palestinesi fuori dalla sfera della politica promettendogli che se la passeranno meglio e che saranno più "felici" se seguiranno i dettami di Kushner.
Basandosi sulla loro esperienza di immobiliaristi alle prese con quegli inquilini riottosi la cui cacciata è alla base di qualsiasi sviluppo immobiliare di un qualche peso, Kushner e Friedman hanno iniziato con le pressioni togliendo fondi all'Agenzia dell'Onu per i Rifugiati, chiudendo l'ufficio dell'OLP negli USA, tagliando gli aiuti agli ospedali di Gerusalemme Est e demonizzando i leader palestinesi presentandoli come corrotti e poco concentrati sugli asseriti desideri dei palestinesi (per una vita più prospera dal punto di vista materiale).
Di recente quelli di Kushner hanno tirato fuori una vecchia idea, presentata nello specifico dal quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahoronot da Sima Kadmon il 7 settembre scorso, che Abu Mazen non ha respinto a prescindere quando glie ne è stata fatta parola. L'idea risale al gennaio 2010 e fu presentata dal generale dello stato sionista Giora Eiland in un articolo scritto per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies. Eiland scriveva:
La soluzione consiste nel fondare un regno federale di Giordania comprendente tre "stati": la East Bank, la West Bank e Gaza. Questi stati nel senso ameriKKKano [della parola] saranno come la Pennsylvania o il New Jersey. Saranno pienamente indipendenti per gli affari interni, avranno un bilancio, istituzioni governative, leggi proprie, polizia e altri espliciti simboli dell'indipendenza. Solo che, come la Pennsylvania e il New Jersey, non avranno responsabilità sulla politica estera e sull'esercito. Questi due settori, proprio come negli USA, resteranno di competenza del governo federale di Amman.
Elland ipotizzava che lo stato sionista avrebbe tratto evidenti vantaggi da una soluzione del genere, invece che da una che contemplasse l'esistenza di due stati. "Innanzitutto si introduce un cambiamento nel modo di vedere la situazione. Non si parla più di popolo palestinese che vive sotto occupazione, ma di un conflitto territoriale fra due paesi: lo stato sionista e la Giordania. In secondo luogo la Giordania può essere più propensa al compromesso su determinate questioni, come quella territoriale." Aggiungeva che "in Medio Oriente l'unico modo per assicurare la sopravivenza di un governo consiste nel controllare a tutti gli effetti la sicurezza... quindi, il modo per prevenire in Giordania disordini fomentati da un futuro governo di Hamas nella West Bank consiste nell'affidare alla Giordania il controllo militare di quella zona [oltre a realizzare una West Bank demilitarizzata che continuerebbe a rimanere sotto il controllo dello stato sionista]."
Insomma, i palestinesi di Gaza (stando a quanto si legge) verranno fatti stabilire a Gaza e nel Sinai (e sorvegliati dai servizi egiziani), mentre le enclave palestinesi rimaste nella West Bank finirebbero sotto controllo della polizia giordana sotto la supervisione generale dello stato sionista. Un corrispettivo governo "federale" in Giordania sarà considerato dallo stato sionista responsabile di tutto quanto.
Ovviamente tutto questo potrebbe non essere altro che un esercizio di fantasia di Kushner e soci. Non sappiamo cosa prevede il più volte rimandato "Accordo del Secolo" di Trump, ma quello che sembra chiaro è che c'è l'intenzione di cancellare il concetto di qualsiasi entità politica palestinese in quanto tale e di redere malleabile il popolo palestinese distaccandolo dai propri leader e offrendogli vantaggi materiali. Al momento attuale i palestinesi sono deboli. Non c'è dubbio che operando di concerto gli USA e lo stato sionista possano riuscire a far fuori qualsiasi opposizione al suddetto accordo. Gerusalemme sarà "consegnata" allo stato sionista. I palestinesi saranno cancellati dalla scena politica. Ma a quale prezzo? Che succederà allora alle monarchie del Golfo?
Lo studioso di Oxford Faisal Devji, in un editoriale sul New York Times, ha sottolineato la situazione problematica dell'Arabia Saudita:
Dopo la prima guerra mondiale la marina statunitense ha sostituito quella britannica, e il petrolio fece del regno una cosa essenziale per il capitalismo occidentale. Solo che la centralità economica e religiosa dell'Arabia Saudita strideva con la sua perdurante marginalità politica: militarmente erano la Gran Bretagna, gli USA e persino il Pakistan ad essere responsabili della sua stabilità sul piano interno e della sua sicurezza dalle minacce provenienti dall'estero.
Al giorno d'oggi l'Arabia Saudita si contrappone a prima vista all'Iran, ma le sue pretese di supremazia trovano spazio solo per il declino dell'Egitto e per la marginalizzazione dell'Iraq e della Siria. A parte l'Iran, solo la Turchia le tiene testa, sia pure con un comportamento ambiguo.
...Il regno del principe Mohammed sembra più un paese laico che teocratico; la sovranità sembra sia stata finalmente strappata dalle mani delle tribù e dei religiosi per essere avocata direttamente dalla monarchia. Ma l'Arabia Saudita può diventare ancora più potente sul piano geopolitico solo mettendo a rischio il suo status religioso... [corsivo dell'autore, N.d.T.]
Il piano per fare dell'Arabia Saudita uno stato definito sul piano politico anziché sul piano religioso distrugge la concezione vecchia di secoli della geografia islamica [sunnita], che ha sempre considerato l'Arabia come un proprio centro depoliticizzato... La Mecca e Medina continueranno a ricevere i pellegrini, ma è probabile che l'Islam [sunnita]... troverà il proprio centro in Asia, dove vive di gran lunga il numero maggiore di seguaci e verso cui si stanno dirigendo in misura sempre maggiore la ricchezza e la potenza mondiali.
Solo che questo non è proprio il caso dell'Islam sciita, che è riuscito a unire il potere politico con un rinnovato status religioso, come attesta il prosperare straordinario di Karbala come centro dei pellegrinaggi degli sciiti, e che ha visto il successo dell'Iran nel contrastare gli jihadisti wahabiti sia in Siria che in Iraq. Di contro, la guerra nello Yemen ha invece eroso le credenziali politiche e religiose dell'Arabia Saudita.
Eppure, nonostante le traiettorie contrastanti, proprio qui può verificarsi la collisione: lo stato sionista si è ineluttabilmente alleato con l'Arabia Saudita e con l'Islam sunnita. E così anche gli USA hanno assunto la stessa posizione di parte dello stato sionista e dell'Arabia Saudita nei confronti dell'Iran. Entrambi stanno alle spalle del re saudita e lo spingono a condurre una guerra su più livelli contro il potente vicino.
Alon Ben David, un corrispondente militare dello stato sionista, sul quotidiano in lingua ebraica Ma'ariv ha scritto il 7 settembre un articolo che costituisce un esempio della narrativa prometeica con cui lo stato sionista celebra i propri successi, dovuti essenzialmente al sostegno incondizionato di Trump: "Le forze di difesa dello stato sionista, che hanno tardato per anni ad accorgersi della potenziale minaccia costituita dall'espansionismo iraniano, hanno capito che dovevano passare all'azione... questa settimana le forze di difesa hanno rivelato che dall'inizio del 2017 in Siria sono stati condotti oltre duecento attacchi aerei. Ma se si considerano le attività svolte in questa guerra dalle forze di difesa nel loro complesso, per lo più effettuate sotto copertura negli ultimi due anni, risulta che le forze di difesa dello stato sionista hanno portato a termine oltre frontiera centinaia di operazioni di vario tipo. La guerra tra le guerre è diventata la guerra delle forze di difesa, ed è stata foraggiata giorno e notte... A tutt'oggi, lo stato sionista si è rafforzato nel confronto diretto con l'Iran... Ogni volta che colpiamo l'Iran, il nostro potere di deterrenza si rafforza."
Beh, questione di opinioni. Di opinioni molto rischiose.

domenica 4 novembre 2018

Alastair Crooke - Creare difficoltà in Siria è un passo verso il rovesciamento del governo... a Washington.



Traduzione da Strategic Culture, 12 settembre 2018.


L'amministrazione statunitense ha rotto gli indugi, ha scritto David Ignatius il 30 agosto, e adesso afferma di avere "interessi duraturi" in Siria al di là dell'uccisione dei terroristi dello Stato Islamico. L'amministrazione "non ha in programma per il prossimo futuro il ritiro delle proprie forze speciali dal nord-est della Siria". "Adesso," ha detto ad Ignatius un funzionario governativo, "il nostro compito è quello di creare difficoltà [per la Russia e per il governo siriano] finché non otterremo quello che vogliamo."
A quanto pare gli Stati Uniti hanno cambiato linea politica verso la metà di agosto, svanito ogni intento di comprensione reciproca che Trump e Putin avevano manifestato in luglio a Helsinki, e sono adesso in cerca di qualcosa che gli permetta di esercitare più pressioni possibile nelle ultime fasi della guerra civile siriana. A quanto sembra si tratta di un ultimo tentativo di imporre la volontà statunitense nel teatro bellico siriano, servendosi degli jihadisti di Idlib per contare qualche cosa nel contesto di qualsiasi transizione politica e del PKK curdo nel Nord est del paese per premere contro la Turchia e per arginare l'Iran.
Siamo davanti ad una svolta di centoottanta gradi. Il nuovo inviato in Siria di Pompeo, James Jeffry, è stato chiarissimo: "Gli Stati Uniti non tollereranno che le forze governative passino all'attacco," ha detto riferendosi all'imminente offensiva contro la enclave jihadista di Idlib.
"Per noi qualsiasi offensiva è da considerarsi una escalation il responsabile," ha detto. "Per giunta, se si usano armi chimiche, si creano ondate di profughi o si attaccano civili innocenti... La conseguenza sarà che dovremo rivedere le nostre posizioni..." A domanda se le possibili rappresaglie statunitensi per qualsiasi offensiva contro Idlib, armi chimiche o no, avrebbero contemplato attacchi aerei, Jeffrey ha risposto che "Abbiamo più volte chiesto il permesso di procedere," e che "potrebbe essere un modo [per reagire]".
L'obiettivo è quello di cacciare l'Iran dalla Siria, di assestare uno schiaffo strategico umiliante alla Repubblica Islamica per rafforzare la stretta imposta alla sua economia, di fare pressioni per una transizione politica da cui il Presidente Assad sia escluso e soprattutto quello di evitare di lasciar trasparire alcuna traccia della debolezza strategica degli Stati Uniti.
In Russia i vertici governativi già sapevano che gli Stati Uniti intendevano far fallire l'ultima operazione congiunta di vasta portata per porre fine al conflitto in Siria. Tutto questo trova adesso conferma. Un funzionario superiore del Cremlino ha detto ad Al Monitor a condizione di rimanere anonimo che i funzionari statunitensi intendono intralciare per molto tempo: "Sono seccati perché siamo stati noi ad avere la meglio nella gestione di queste crisi, e adesso non perdono occasione per metterci i bastoni tra le ruote."
Magari si trattasse solo di questo: il linguaggio di Jeffrey, il Dipartimento di Stato che parla di ulteriori sanzioni economiche da usare come strumento di pressione e le minacce contro l'Iran sono provocazioni e ultimatum di fatto diretti contro la Russia e contro l'Iran.
Gli eventi stanno prendendo una brutta piega. Non sappiamo perché Trump abbia rinnegato con tanta enfasi qualsiasi accenno di comprensione reciproca raggiunto a Helsinki, a meno di non considerare le straordinarie pressioni politiche e psicologiche cui è sottoposto. L'apoteosi funebre di McCain, presentato come l'incarnazione delle virtù ameriKKKane, il fazioso New York Times in mano a un vecchio funzionario della Casa Bianca membro della resistenza che ha rivendicato come un successo l'aver sabotato la politica di distensione di Trump verso la Russia; il libro di Woodward che lo ridicolizza, e ora anche Obama che si è unito al coro il 7 settembre, quando si è prodotto nella scontata insinuazione che il trumpismo alimenti in qualche modo il nazismo.
Mancano sessanta giorni alle elezioni di metà mandato. Come scrive Tom Luongo, "lo 'stato profondo' teme concretamente di perdere... E per me è chiaro che lo 'stato profondo' sta mandando la sinistra progressista in delirio sul conto di Donald Trump. Gli sta letteralmente mettendo il forcone in mano e suonando l'adunata perché si impadronisca con le brutte dell'Ufficio Ovale."
E questo è il punto. Basta con gli indugi, come ha detto Ignatius. La cosiddetta Resistenza sta uscendo allo scoperto alla grande per screditare politicamente Trump prima delle elezioni di metà mandato, e per screditare e demonizzare la Russia, con il Regno Unito che spalleggia come sempre, in questo caso accusando due russi per il caso Skripal.
Dal punto di vista politico l'Europa è entrata in gioco a causa delle guerre commerciali di Trump, della sua insoddisfazione nei confronti della NATO e del suo disprezzo per la élite globalista e liberale dell'Unione Europea. Questa autonominata Resistenza è dunque pronta a scendere in campo non solo sul fronte interno contro Trump, ma anche contro la Russia, per assicurarsi che l'Europa e il suo considerevole mercato di beni al consumo non scivolino nella sfera russo-cinese. La Russia deve essere demonizzata come il nemico assoluto con cui è impensabile qualsiasi alleanza.
Questa gente è davvero pronta a schernire la Russia e l'Iran al punto di arrivare al confronto militare? Sembra proprio di sì: James Jeffrey lo ha detto esplicitamente allo Washington Post: "secondo certi aspetti è possibile che stiamo entrando in una nuova fase in cui ci sono forze di paesi diversi che si fronteggiano reciprocamente invece di perseguire i propri differenti obiettivi," ha detto elencando la Russia, gli Stati Uniti, l'Iran, la Turchia e lo stato sionista. In altre parole la resistenza scenderà in campo di qui a novembre sia sul piano interno contro Trump sia sul piano della politica estera cercando di provocare e di irridere la Russia finché non succede qualcosa che permetta alla Resistenza di dire che rispetto ai tempi dell'unione sovietica sono cambiati i suonatori ma la musica è la stessa.
James Jeffrey avverte la Russia di non passare all'offensiva a Idlib per eliminare l'ultima sacca di jihadisti intransigenti. Ma l'offensiva è già iniziata. Che cosa è successo nell'incontro del 7 settembre a Teheran cui erano presenti Erdogan, Putin e Rohani? Gli osservatori dicono che sull'offensiva di Idlib non è stato raggiunto alcun accordo e che gli Stati Uniti sono riusciti nel loro intento: la loro ferma contrarietà all'attacco contro gli jihadisti ha mandato in stallo le operazioni. Solo che l'accordo fondamentale era già stato raggiunto prima dell'incontro e non tanto nel corso di esso: la Turchia ha messo Tahrir al Sham, detto anche an Nusra, detto anche Al Qaeda, nella propria lista delle organizzazioni terroristiche. Il risultato significativo, quello fondamentale, era proprio questo.
Erdogan è un politico, un politico navigato. È stato lui a sostenere quella fazione. Egli si considera un leader sunnita, un ottomano, "la guida" a livello mondiale dei Fratelli Musulmani. Erdogan è stato uno strumento fondamentale per gli insorti in Siria; è stato lui stesso a provocare l'insurrezione. Adesso però la stabile presenza degli jihadisti a Idlib si è fatta insostenibile persino per la Turchia; come può sganciarsi politicamente da questi insorti che la Turchia ha foraggiato con tanta attenzione? Quali conseguenze potrebbe comportare sul piano della sicurezza passare platealmente dalla parte di chi ne persegue la distruzione, delle bombe a Istanbul? Quali danni ne patirebbe l'immagine di sostenitore dell'Islam sunnita cui tiene tanto?
Quello che serviva era una piattaforma che venisse incontro alle sue necessità di politico di mostrare pubblicamente -e in televisione- la cura che mostra verso i settori che lo sostengono. Ed Erdogan l'ha trovata. Erdogan ha agito per tutelare i suoi elettori. Ha sostenuto la sua posizione in qualità di rappresentante di uno stato potente a fronte di altri Stati potenti, sottolineando il proprio interesse politico. Effettivamente ha attirato l'attenzione su di sé. Per quale altro motivo Putin e Rohani avrebbero dovuto permettere una messa in scena in cui tra massimi responsabili politici si chiacchierava apparentemente senza grande costrutto davanti alle telecamere, se non perché avevano capito che Erdogan aveva bisogno di mettersi in mostra?
La Turchia ha già definito an Nusra come un movimento terrorista. L'offensiva continuerà, le perdite civili saranno inevitabili perché gli jihadisti sono mescolati alla popolazione civile di Idlib, proprio come successe quando gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno bombardato Raqqa per cacciarne lo Stato Islamico nel 2017: "contro Raqqa furono sparati più colpi di artiglieria che in qualsiasi altra occasione dai tempi della guerra in Vietnam".
Anche gli ameriKKKani probabilmente si metteranno in mostra, magari con i missili Tomahawk, per dipingere la Russia e la Siria come mostri disumani.

sabato 3 novembre 2018

Alastair Crooke - Si sta preparando un "incidente di Suez" anche per la Siria?



Traduzione da Strategic Culture, 1 settembre 2018.

La metamorfosi è ormai compiuta. Il Presidente Trump alla fine ha dissipato completamente il posticcio usato per la campagna del 2016 in cui immaginava vagamente un accordo generale in politica estera che potesse fare da fondamento a "LA PACE NEL MONDO, niente di meno," come scrisse su Twitter al momento del varo delle sanzioni contro l'Iran. Il 6 agosto scrivevamo, citando il professor Russell-Mead, che la "metamorfosi dell'otto maggio" di Trump, ovvero l'uscita degli USA dagli accordi sul nucleare iraniano, rappresentavano un deciso cambio di direzione. Un cambiamento che è il riflesso della "istintiva comprensione [da parte di Trump] del fatto che la maggior parte degli ameriKKKani sono tutt'altro che ansiosi di arrivare ad un mondo post ameriKKKano". I sostenitori del signor Trump non vogliono lunghe guerre, "ma non possono neppure essere persuasi ad accettare stoicamente il declino del paese".
Tutto è cominciato esattamente con la "metamorfosi dell'otto maggio" di Trump, ovvero con il momento in cui il Presidente degli Stati Uniti ha una volta per tutte fatta propria la linea politica dello stato sionista con l'uscita dagli accordi sul nucleare, il varo delle sanzioni e l'assedio dell'economia iraniana, oltre che appoggiare la vecchia e mai concretizzatasi idea di una "NATO araba" sunnita, guidata da Riyadh e destinata a confrontarsi con l'Iran sciita.
In pratica quell'arte dell'accordo cara alla geostrategia di Trump altro non è diventata che una ricerca di radicali metodi di pressione economica in cui il dollaro forte e i dazi sono usati come armi e che cerca sempre il modo di costringere la controparte alla resa. Tutto questo non si può certo chiamare negoziazione: sembra piuttosto una prassi ricavata da Il Padrino.
Quando Trump ha fatto propria senza riserve la linea politica dello stato sionista (o meglio, quella di Netanyahu) si è dovuto prendere tutto il pacco. Il documento preparato nel 1996 per Benjaminh Netanyahu da un gruppo di studi capeggiato da Richard Perle e intitolato Clean Break faceva un tutt'uno degli schieramenti neoconservatori statunitensi e sionisti. Schieramenti che sono a tutt'oggi ancora uniti a livello ombelicale. La "squadra di Trump" oggi come oggi è infarcita di neoconservatori che odiano l'Iran senza alcuna riserva. E Sheldon Adelson, un importante finanziatore politico di Trump, un sostenitore di Netanyahu e principale istigatore del trasferimento a Gerusalemme dell'ambasciata statunitense è dunque riuscito a collocare il proprio alleato John Bolton -un neoconservatore irriducibile- al posto di primo consigliere per la politica estera di Donald Trump.
Di fatto l'arte dell'accordo è stata trasformata dai neoconservatori in uno strumento per ampliare il potere ameriKKKano, e oggi come oggi non esiste alcun "vantaggio economico reciproco" che si possa vedere o di cui si possa fare menzione.
Nel corso dell'ultima settimana la metamorfosi si è compiuta. Dopo l'incontro fra Trump e il Presidente Putin tenutosi a Helsinki sembrava che si fosse aperto uno spiraglio perché i due paesi potessero collaborare al ripristino della stabilità in Siria. Molti speravano che partendo dal contesto pur ristretto dei tentativi di coordinazione in Siria l'allentamento della tensione fra USA e Russia avrebbe finito per trovare terreno fertile.
Trump ha portato qualche novità costruttiva: gli insorti sono stati poco per volta allontanati dai dintorni di Daraa, nel sud della Siria, e la zona è tornata sotto il controllo dell'esercito siriano. Lo stato sionista non ha sollevato obiezioni alla presenza di truppe siriane ai propri confini. A questo punto però, ed era piuttosto ovvio, la collaborazione si è impantanata. Il perché non è chiaro, ma forse si è trattato del primo segnale di rottura nel potere a Washington. La "comprensione" mostrata a Helsinki deve essere in qualche modo venuta meno anche se la coordinazione fra militari sul campo è andata avanti.
Il 23 agosto Putin ha mandato il capo del Consiglio di Sicurezza Russo a colloquio con Bolton a Ginevra, per verificare se c'era ancora qualche possibilità per iniziative congiunte, e se del caso se esistesse agibilità politica per operazioni del genere. Solo che prima che l'incontro a due con l'inviato russo potesse svolgersi Bolton ha parlato da Gerusalemme (dove era stato mandato per quello che era in agenda come un brainstorming con Netanyaìhu su cosa fare per arginare l'Iran) e ha detto che gli USA avrebbero risposto "con molta decisione" se le forze leali al Presidente siriano Bashar al Assad avessero usato armi chimiche nell'offensiva per la riconquista della provincia di Idlib prevista per l'inizio di settembre. I servizi statunitensi, a suo dire, sarebbero stati in grado di provare l'intenzione di ricorrere ad armamenti del genere.
Il portavoce del Ministero della Difesa russo ha comunque detto il 25 agosto che "Militanti di Hay'at Tahrir al-Sham [addestrati da una nota società britannica] stanno preparandosi a realizzare un attacco con armi chimiche nel nord della Siria per usarlo come pretesto per un nuovo attacco missilistico da parte degli USA, del Regno Unito e della Francia contro strutture del governo di Damasco." Il funzionario russo ha detto di disporre di ampie informazioni di intelligence sul conto di questa provocazione.
Quello che è chiaro è che fin dall'inizio di agosto gli USA hanno iniziato il trasferimento di una task force comprendente la USS The Sullivans e la USS Ross verso una posizione da cui sarebbe in grado di colpire la Siria e di inviare mezzi aerei nella base che gli USA hanno in Qatar. Il Presidente francese Emmanuel Macron ha detto che anche la Francia era pronta a lanciare nuovi attacchi contro la Siria nel caso ci fosse stato un attacco con armi chimiche.
Il quotidiano turco Hurriyet scrive che le forze statunitensi stanno preparandosi a chiudere lo spazio aereo sulla Siria settentrionale. I trasporti statunitensi avrebbero portato alcuni sistemi radar a Kobané, controllata dalle milizie curde, e nella base statunitense di al Shaddadah, nella zona a sud di al Hasakah. Lo Hurriyet afferma che gli USA hanno intenzione di usare queste strutture per realizzare una zona a divieto di sorvolo sul territorio compreso fra Manbij ad Aleppo e Deir ez Zor. Di tutto questo non esistono comunque conferme.
La Russia, secondo ogni evidenza, prende sul serio le minacce statunitensi e ha dislocato venti navi nel Mediterraneo orientale a largo delle coste siriane. Anche l'Iran le ha prese sul serio. Il Ministro della Difesa iraniano ha compiuto il 26 agosto una rapida visita a Damasco per concordare una risposta congiunta di Russia, Siria e Iran a qualsiasi attacco statunitense contro la Siria.
Poi, dopo le affermazioni di Bolton sulle armi chimiche e lo schieramento delle navi missilistiche statunitensi vicino alla Siria, Petrushev e Bolton si sono finalmente incontrati. L'incontro è stato un disastro. Bolton ha insistito perché Petrushev ammettesse le intromissioni dei russi nelle elezioni ameriKKKane. Petrushev si è rifiutato. Trump ha detto che disponiamo di prove "segrete", ha detto Bolton. Petrushev ha rilanciato dicendo che se le cose stavano in quel modo, perché mai chiedevano un'ammissione ai russi. Bolton ha detto testualmente "Tanto le sanzioni ve le mettiamo lo stesso".
Non c'è da stupirsi se i due non si sono accordati per il ritiro iraniano dalla Siria, argomento invocato da Petrushev. Bolton non solo ha recisamente detto no, ma successivamente ha divulgato l'idea avanzata dai russi di discutere su un possibile ritiro irianiano inficiando l'iniziativa e precludendo la possibilità di usarla come punto d'appoggio per ulteriori sviluppi diplomatici. I due non si sono accordati neppure sull'usuale, moderato e vago comunicato finale che si è soliti redarre in occasioni del genere.
Il messaggio sembra chiaro: qualunque sintonia ci sia stata a Helsinki sulla questione siriana non esiste più. E sembra che gli USA si stiano preparando a lanciare un attacco in Siria. Per quale motivo? Cosa sta succedendo?
Un elemento ovvio è che fino a oggi non si è vista in tutto questo la mano di Trump. Sembra proprio che al momento attuale a Washington esista una spaccatura nel potere sulla politica da attuare in Medio Oriente. I neoconservatori stanno avendo il sopravvento: una cosa molto significativa perché il più solido pilastro su cui poggiavano le relazioni di Trump con il Presidente Putin era porprio la prospettiva di una collaborazione fra USA e Russia sulla questione siriana. Un qualche cosa che attualmente pare proprio lettera morta.
Lawrence Wilkerson, oggi docente ma ex capo dello staff del Segretario di Stato Colin Powell durante la vergognosa faccenda delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, dice tranquillamente che
...col ritorno dei neoconservatori... doveva succedere quello che sta succedendo oggi; Trump è sempre più preoccupato per le considerevoli e sempre più impegnative sfide alla sua persona e alla sua presidenza, e quello che sta verificandosi è il riaffaccarsi al governo di critici del genere, gli stessi che hanno dato all'AmeriKKKa l'invasione dell'Iraq nel 2003. Anche i molti fra loro che avevano detto"mai con Trump" -per dirla con l'espressione dell'estremista neoconservatore Eliot Cohen- stanno sbavando davanti alla prospettiva di poter portare avanti i propri progetti in politica estera e nel campo della sicurezza intanto che Trump viene in sostanza lasciato cuocere nel suo brodo di corruttela.
Nel governo già è presente un'avanguardia che deve sostenere, aiutare e ricollocare altra gente dello stesso tipo. John Bolton come consigliere della presidenza per la sicurezza nazionale ha sulle spalle tutti costoro, pur non essendo un neoconservatore duro e puro in senso stretto...
Al momento, il loro bersaglio primario e più immediato è proprio il lavoro lasciato a mezzo -e che sono stati loro stessi a cominciare- con la Sira e con l'Iran, che sono le due minacce potenziali più serie per lo stato sionista. Se i neoconservatori dovessero farcela, e sono tanto astuti da potercela fare, questo significherebbe una ripresa delle ostilità in Siria e una nuova guerra con l'Iran, così come l'aumento del sostegno per l'Arabia Saudita, lo stato che è il maggior garante del terrorismo che esista al mondo.
Bolton, Pompeo e i neoconservatori hanno messo abbondantemente in chiaro che quantomeno non hanno abbandonato l'obiettivo di rovesciare il governo siriano e che restano concentrati sull'idea di assestare una batosta strategica all'Iran. Bolton ha detto che le sanzioni da sole, senza un intervento contro l'Iran a livello strategico, non sarebbero sufficienti a imporre a quel paese di cambiare il proprio "malevolo comportamento".
Se Mattis e Votel siano pienamente d'accordo con Bolton circa i provvedimenti "molto forti" da prendere contro la Siria in caso di un suo preteso utilizzo di armi chimiche non è chiaro. Mattis è riuscito a ridurre la portata dell'ultimo attacco missilistico sferrato contro la Siria da Trump, e ad accordarsi con Mosca perché alla raffica di Tomahawk lanciati da Trump non ci fosse nessuna risposta. Ma succederà ancora una volta lo stesso se gli USA affermeranno senza prove (e senza prove anche a posteriori) che il governo siriano ha utilizzato armamenti chimici?
E lo stato sionista si unirà a qualsivoglia aggressione, adducendo a pretesto il suo autodichiarato suo diritto di attaccare le forze iraniane ovunque si trovino in Siria? Data la novità strategica della visita del Ministro della Difesa iraniano a Damasco del 26 agosto diretta a definire una iniziativa comune per contrastare attacchi del genere in Siria, Netanyahu si fiderà a scommettere sulla condiscendenza dei russi nel caso l'aviazione sionista entrasse con propositi ostili nello spazio aereo siriano?
Chi si muoverà per primo? Sarà Netanyahu? O magari Trump si distrarrà dai problemi sul fronte interno quanto basta per accorgersi di quello che sta succedendo e per dire no?
Qualunque cosa succeda, Putin e Xi possono anche leggere tra le righe di tutta la faccenda che i più alti funzionari del Presidente Trump continuano a dedicarsi, apertamente o con l'aiuto di provocazioni, alla difesa dell'ordine mondiale ameriKKKano. Questi funzionari sono accomunati dal disprezzo per l'arroccamento e per la ritirata dell'amministrazione Obama. Essi vogliono fermare, e magari troncare l'ascesa degli avversari dell'AmeriKKKa e al tempo stesso ripristinare le sue condizioni di un tempo, quelle che erano i pilastri della potenza statunitense: le forze armate e il predominio finanziario, tecnologico ed energetico.
La Russia sta cercando di disinnescare una situazione critica condividendo con Washington i dati raccolti dai suoi servizi, secondo cui Tahrir al Sham, precedemente nota come an Nusra, stava organizzando un attacco chimico che sarebbe stato presentato a torto come l'ennesima "atrocità del regime siriano". Otto contenitori di cloro sono stati portati in un paesino vicino a Jisr al Shugur, e sul posto è arrivato anche un gruppo di militanti appositamente addestrato da una società britannica, pronto a inscenare un'operazione di soccorso in cui si salvano "vittime" civili. Secondo i funzionari russi, i militanti pensavano di usare ostaggi bambini nella messa in scena.
Ma a Washington staranno a sentire? Dal momento in cui il "regime" siriano e iraniano sono giudicati moralmente colpevoli a dispetto di ogni prova, dal momento che l'AmeriKKKa rivendica un Destino Manifesto che implica una superiorità morale, essi non sono più avversari temporanei e relativi, ma il nemico assoluto. Quando c'è chi si arroga il destino del genere umano e cerca "LA PACE NEL MONDO, niente di meno," non si può combattere una guerra altro che in nome del Bene assoluto. Quella in atto non è un attacco contro un avversario, ma la punizione e l'uccisione di un colpevole.
A fronte della radicale svalutazione morale dell'altro operata dai media occidentali e della loro virtuale attestazione della coscienza pulita dell'Occidente, la razionale presentazione dei fatti operata dai russi ha qualche speranza di contare qualche cosa? A pesare potrebbe essere solo la minaccia dei russi di far ricorso all'arsenale missilistico che stanno concentrando nel Mediterraneo orientale. Ma poi?