domenica 30 ottobre 2016

Alastair Crooke - La fine della crescita economica diffonde lo scontento per la globalizzazione


Le false promesse delle élite mondiali sull'economia liberista, presentata come panacea per tutti i mali grazie al suo elisir di crescita perenne, aiutano a spiegare i movimenti nazionalisti arrabbiati che stanno mandando in pezzi la politica occidentale, pensa l'ex diplomatico britannico Alastair Crooke.

Da Consortium News, 14 ottobre 2016

Raul Ilargi Meijer è un esperto editorialista economico ed ha scritto, in modo stringato e provocatorio, che
E' finita. Il modello su cui le nostre società si sono basate almeno per tutto il tempo in cui siamo vissuti è arrivato alla fine. Ecco perché esistono i Trump.Non c'è nessuna crescita. Non c'è da anni una vera crescita. Ci sono soltanto i vuoti ed insignificanti, ottimistici numeri dei mercati borsistici di Standard and Poor, drogati da uno stracciato costo del denaro e dai buyback, e datori di lavoro che nascondono ai lavoratori indicibili quantità di denaro. E soprattutto esiste il debito, pubblico o privato che sia, che è servito a mantenere in vita una crescita illusoria; le possibilità di ricorrervi sono sempre meno, adesso.  
I falsi dati sulla crescita servono ad una cosa soltanto; servono a far sì che la massa lasci i potenti in carica sulle lore comode poltrone. Solo che sono sempre riusciti ad opporre il velo di Oz agli occhi altrui tante e tante volte; ora, quelle tante volte sono finite.
Ecco il perché dei Trump, delle Brexit, dei Le Pen e di tutto il resto. Basta, fine. Tutto quello che ci ha fatto da guida per tutta la nostra esistenza ha perso la direzione e ha perso potenza.
Meijer scrive poi:
Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni, per certi aspetti addirittura degli ultimi secoli; una rivoluzione vera e propria, che continuerà a rappresentare il più importante fattore impattante sul mondo nei prossimi anni. Nonostante quello, non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso.Il mutamento di cui sto parlando è la fine della crescita economica mondiale, che porterà inesorabilmente alla fine dei processi centralizzati, globalizzazione compresa. Comporterà anche la fine della maggior parte delle istituzioni internazionali, soprattutto di quelle più potenti.
Sarà la fine anche per quasi tutti i partiti politici tradizionali, rimasti per decenni al governo nei rispettivi paesi e già oggi ai livelli record di impopolarità. Se non avete idea di cosa sta succedendo, date un'occhiata qui in Europa!
Non è questione di cosa vogliono questo o quello, o questo o quel gruppo. Sono in gioco forze ben al di là del nostro controllo, la cui grandezza e la cui portata va oltre la nostra opinione, nonostanti si possa trattare di fenomeni costruiti dall'uomo.
Un sacco di persone più o meno intelligenti si stanno rompendo la testa per cercare di capire da dove vengano Trump e la Brexit e Le Pen e tutti questi spaventosi individui e fenomeni e partiti nuovi. Arrivano a formulare teorie incerte e di piccola portata che chiamano in causa gente anziana, gente impoverita razzista e bigotta, gli stupidi, quelli che alle elezioni si sono sempre astenuti, ogni genere di individui.
Solo che nessuno sembra capire o comprendere davvero. E questo lascia stupiti perché non è che la questione sia così difficile. Tutto questo succede perché la crescita è finita. E se finisce la crescita finiscono anche l'espansione e la centralizzazione, in tutta la loro miriade di varietà e di forme.
Più avanti Meijer scrive:
La dimensione globale intesa come prima forza trascinante è finita, il paneuropeismo è finito, e il fatto che gli Stati Uniti continueranno a rminaere tali è tutt'altro che un dato scontato. Stiamo andando verso un movimento di massa favorevole a decine di paesi e di stati separati, e di società che guardano al passato. E tutte si trovano ad affrontare un qualche problema incombente di un qualche genere.Quello che rende la situazione così difficile da affrontare per chiunque è che nessuno vuol prendere atto di nulla di tutto questo. Esattamente dagli stessi luoghi da cui vengono i Trump, la Brexit e i Le Pen arrivano storie di amara povertà.
Il fatto che il baraccone politico, economico e mediatico sforni ventiquattr'ore su ventiquattro e sette giorni su sette messaggi positivi sulla crescita può anche costituire una parziale spiegazione del perché manchino consapevolezza e riflessione, ma si tratta di una spiegazione parziale. Il resto è dovuto a come siamo fatti noi stessi: pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato.

La fine della crescita

Insomma, la crescita economica globale è finita? Raul Ilargi parla un po' all'ingrosso perché ci sono anche esempi di crescita economica in cui non c'è stata alcuna contrazione, ma è chiaro che gli investimenti basati sul debito e sulle politiche di bassi tassi di interesse si stanno rivelando sempre meno efficaci nel risultare in crescita economica o in aumento degli scambi, e a volte non lo sono per niente. Tyler Durden di ZeroHedge scrive:
"Dopo quasi due anni di programmi centrati sul quantitative easing i dati economici nella zona euro rimangono molto deboli. Come spiega il GEFIRA l'inflazione è ancora attorno allo zero e il PIL della zona euro ha inziato a rallentare invece di accelerare. Secondo i dati della Banca Centrale Europea, per creare un euro di crescita di PIL occorrono diciotto euro e mezzo di quantitative easing... Quest'anni la BCE ha emesso quasi seicento miliardi nell'àmbito del programma per l'acquisto di titoli (il quantitative easing)."
Le banche centrali possono anche produrre e stampare denaro, ma questo non significa creare ricchezza o acquisire potere d'acquisto. Incanalando il credito creato verso gli intermediari delle banche a garanzia dei prestiti verso i loro clienti di favore le banche centrali garantiscono potere d'acquisto ad un determinato gruppo di soggetti; questo potere d'acquisto deve per forza venire da un altro gruppo di soggetti europei (nel caso della BCE, arriva dai cittadini) che vedranno ridurre il proprio potere d'acquisto e la discrezionalità con cui potranno spendere il proprio reddito.
L'erosione del potere d'acquisto non è del tipo più ovvio: non esiste una grossa inflazione e tutte le principali valute si stanno svalutando più o meno di pari passo; inoltre le autorità intervengono periodicamente abbassando il prezzo dell'oro, cosicché non esiste alcun segnale evidente per cui le persone possano capire fino a che punto arriva la perduta di valore di tutte le valute.
Anche il commercio mondiale sta sofferndo, come spiega in termini piuttosto eleganti Lambert Strether di Corrente. "Si torna alle spedizioni. Mi sono messo a seguire le spedizioni... un po' perché è divertente, ma soprattutto perché le spedizioni hanno a che fare con beni concreti, e seguire i percorsi delle merci mi è sembrato un modo molto più interessante di toccare con mano il funzionamento dell'economia; senz'altro più delle statistiche economiche, per tacere di tutti i libri di cui quelli di Wall Street parlano un giorno sì e l'altro pure. E non mi fate parlare di Larry Summers.
Quello che ho notato è che c'era un declino. E non si trattava di piccoli passi indietro seguiti da balzi in avanti, ma di un declino vero e proprio andato avanti per mesi e alla fine per un anno intero. Declina il trasporto ferroviario, persino quando le merci sono grano e carbone, e declina la domanda di vagoni. Declina il trasporto su ruota, e con esso la domanda di camion. Il trasporto aereo se la passa male. I porti del Pacifico non saranno affollati di merci sotto Natale. E adesso è arrivato anche il fallimento di HanJin, con tutti quei capitali fermi nelle navi alla fonda e coperto per solo dodici miliardi di dollari o qualcosa del genere, e l'ammissione generale che forse noi abbiamo investito un pochettino troppo in grandi navi e grandi imbarcazioni, il che significa -credo- che dobbiamo spedire molte meno merci di quello che pensavamo, almeno via mare.
Nel frattempo, in apparente contraddizione rispetto al lento collassare del commercio mondiale ed anche all'opposizione ai "trattati commerciali" uno dei pochi settori trainanti dell'immobiliare è quello dei magazzini, e la gestione delle catene di distribuzione è un campo esaltante. Un campo pieno di sociopatici fuori da ogni limite, e dunque dinamico ed in crescita!
Ecco, le statistiche economiche sembra dicano che non c'è nulla che non va. I consumatori sono il motore dell'economia e sono fiduciosi. Ma alla fin fine le persone hanno bisogno di beni perché si vive in un mondo materiale, anche se si è convinti di star vivendo a modo proprio. Un bel rompicapo. Io vedo una contraddizione: si muovono meno merci, ma i numeri dicono che va bene così. Ho ragione su questo? Allora, devo pensare che i numeri non sono significativi, ma le merci sì."


Un elisir fasullo

In altre parole, se vogliamo essere ancor più falsamente empirici come nota Bloomberg in A Weaker Currency is no longer the Elixir, It Once Was, "le banche centrali di tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse per 667 volte dal 2008 in poi, secondo Bank of America. Nel corso di questo periodo le prime dieci valute agganciate al dollaro sono crollate del quattordici per cento e le economie del G8 sono cresciute in media dell'uno per cento appena. Secondo Goldman Sachs dalla fine degli anni Novanta un deprezzamento del dieci per cento al netto dell'inflazione nelle valute di ventitré economie avanzate ha spinto le esportazioni nette soltanto dello zero virgola sei per cento del PIL. Come raffronmto, c'è l'uno virgola tre per cento del PIL dei due decenni precedenti. Gli scambi commerciali tra gli USA e gli altri paesi sono passati a tremilasettecento miliardi di dollari l'anno nel 2015 dai tremilanovecento che erano nel 2014."
Fine della crescita, fine della globalizzazione. Su questo è d'accordo persino il Financial Times, il cui editorialista Martin Wolf scrive in The tide of Globalisation is turning: "Il meno che si possa dire è che la globalizzazione si è fermata. Si potrebbe tornare perfino indietro? Certamente. Occorre che le grandi potenze siano in pace... E' importante che la globalizzazione si sia fermata. Certamente."
La globalizzazione si è davvero fermata. Ma non a causa delle tensioni politiche, che sono un comodo giustificativo, ma perché la crescita è fiacca e questa debolezza è il risultato di una provata concatenazione di fattori che ne hanno causato l'arresto, oltre che del fatto che siamo entrati in una fase di deflazione che sta drasticamente contraendo quanto è rimasto del reddito disponibile al consumo per le spese a discrezione. Wolf ha comunque ragione. Inasprire le tensioni con Russia e Cina non risolverà i problemi del sempre più debole controllo ameriKKKano sul sistema finanziario mondiale, anche se la fuga dei capitali verso il dollaro potrebbbe far passare un fugace momento di rialzo al sistema finanziario statunitense.
Cala il sipario sulla globalizzazione. Ma cosa significa realmente questa espressione? Indica la fine del mondo finanziarizzato costruito dal neoliberismo? Difficile dirlo. Ma nessuno si aspetti rapidi dietrofront, e tantomeno delle scuse. La grande crisi finanziaria del 2008 all'epoca fu vista da molti come ultimo atto del neoliberismo. Ma le cose non sono andate così: anzi, il periodo di tagli e di austerità che seguì inasprì la sfiducia nello status quo ed aggravò la crisi che ha le sue radici nella diffusa opinione che "la società" in generale stia andando nella direzione sbagliata.
Il neoliberismo dispone di solide basi, non da ultimo nella troika europea e nell'eurogruppo che fanno gli interessi dei creditori e che grazie alle regole dell'Unione Europea sono arrivati a dominare la politica finanziaria e fiscale dell'Unione.
E' troppo presto per capire da dover arriverà la sfida all'ortodossia prevalente sul piano economico, ma in Russia esiste un aggregato di eminenti economisti che si sono riuniti nel gruppo Stolypin e che sta levando un nuovo interesse verso Friedrich List, il vecchio avversario di Adam Smith morto nel 1846, che sviluppò un "sistema nazionale di politica economica." List antepose gli interessi della nazione a quelli dell'individuo. Mise in risalto l'idea di nazione ed enfatizzò le particolari necessità di ogni nazione secondo le circostanze in cui essa si trova, soprattutto in rapporto al suo grado di sviluppo. List è noto per aver dubitato della sincerità delle invocazioni al libero mercato che arrivavano dai paesi sviluppati, con particolare riguardo al Regno Unito. In sostanza fu il primo no global.


Il dopo globalizzazione

Il pensiero di List potrebbe ben adattarsi alla corrente tendenza post-globalizzazione. La presa d'atto di List della necessità di una strategia industriale a livello nazionale e il suo ribadire il ruolo dello stato come garante finale della coesione sociale non sono cose cui sta flebilmente dietro soltanto una manciata di economisti russi. Si tratta di concetti che stanno facendo il loro ingresso nel discorso politico corrente. Proprio il governo May, nel Regno Unito, sta rompendo con il modello neoliberista che ha guidato la politica britannica dagli anni Ottanta in avanti; ed è una rottura che va verso un approccio alla List.
Sia come sia, che questo modo di vedere le cose torni in auge o meno, il docente e filosofo politico britannico molto attento ai fenomeni contemporanei John Gray ipotizza che la cosa stia in questi termini:
Il riaffermarsi dello stato è uno dei punti su cui il tempo presente si distanzia dai "tempi nuovi" pronosticati da Martin Jacques e da altri osservatori negli anni Ottanta. All'epoca sembrava che le frontiere nazionali stessero liquefacendosi e che si fosse prossimi all'instaurazione di un mercato libero globale. Io non ho mai trovato credibile questa prospettiva.Esisteva un'economia globalizzata prima del 1914, ma si basava sulla mancanza di democrazia. La mobilità di capitali e di forza lavoro priva di qualsiasi controllo può anche impennare la produttività e produrre ricchezza su una scala senza precedenti, ma ha anche un impatto fortemente distruttivo sulla vita dei lavoratori, specie quando il capitalismo entra in una delle sue crisi periodiche. Quando il mercato globale attraversa un brutto quarto d'ora il neoliberismo finisce nella spazzatura perchè si deve venire incontro ad una diffusa richiesta di certezze. Oggi, questo è quanto sta accadendo.
Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.
Se Gray ha ragione ad affermare che quando l'economia globalizzata passa un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
Ovviamente l'Unione Europea, che è un simbolo di questa asociale concentrazione, dovrebbe fermarsi un momento e riflettere. Scrive Jason Cowley, editorialista del New Statesman orientato a sinistra: "In ogni caso... comunque lo si voglia chiamare, [l'arrivo dei "tempi nuovi"] non porterà ad una rinascita della socialdemocrazia: sembra che in parecchi paesi occidentali stiamo invece entrando in un periodo in cui i partiti di centrosinistra non riescono a formare maggioranze di governo perché hanno perso suffragi in favore di nazionalisti, populisti e di alternative più radicali."


Il problema della delusione

Torniamo adesso all'affermazione di Ilargi secondo cui "Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni... non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso", cui Ilargi stesso risponde che in fin dei conti questo silenzio è dovuto a noi stessi, che "pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato."
Ilargi ha ragione a pensare che in qualche modo questo costituisca una risposta alla visione, cara al cristianesimo, del progresso inteso come processo lineare (in questo caso materiale, più che spirituale). Ma in termini più pragmatici, la crescita non è il fondamento di tutto il sistema globale finanziarizzato dell'Occidente? Non è la crescita economica che doveva "liberare gli 'altri' dalla loro condizione di povertà"?
Si ricorderà che Stephen Hadley, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente degli USA George W. Bush, ha detto chiaramente che gli esperti di politica estera dovrebbero prestare molta attenzione al crescente risentimento diffuso, che "la globalizzazione è stata un errore", e che "le élite hanno condotto [gli USA] come dei sonnabuli verso una situazione pericolosa".
Hadley ha affermato che "queste elezioni presidenziali non sono soltanto un referendum su Donald Trump; riguardano i motivi di scontento verso il nostro sistema democratico e il modo in cui intendiamo affrontarli... Chiunque vinca, dovrà affrontare questa situazione."
In poche parole, se la globalizzazione apre la strada allo scontento, la mancanza di crescita economica rischia di minare tutto il progetto finanziarizzato globale. Secondo Stiglitz tutto questo era evidente già da una quindicina d'anni; appena un mese fa ha scritto che già allora aveva individuato "una crescente opposizione, nei paesi in via di sviluppo, verso le riforme favorevoli alla globalizzazione. All'apparenza era un fenomeno strano, perché alla gente dei paesi in via di sviluppo era stato raccontato che la globalizzazione avrebbe fatto aumentare il benessere generale; perché in così tanti si mostravano ostili nei suoi confronti? Come può un fenomeno che a detta dei nostri leader politici e di molti economisti avrebbe fatto vivere tutti meglio incontrare un tale disprezzo? A volte si sente dire da qualche economista neoliberista, paladino di queste politiche, che le persone vivono davvero meglio, solo che non lo sanno. Questo loro scontento è materia per psichiatri, non per economisti."
Ora, questo scontento di nuovo genere a detta di Stiglitz si è esteso anche alle economie avanzate. Forse è a questo che Hadley si riferisce quando afferma che "la globalizzazione è stata un errore." La globalizzazione sta oggi minacciando l'egemonia finanziaria ameriKKKana, e dunque anche la sua egemonia politica.

domenica 23 ottobre 2016

Risoluzione UNESCO (Sessione 200, oggetto 25 "Palestina occupata")


Nell'ottobre 2016 una risoluzione dell'UNESCO  condanna le politiche coloniali e violente dello stato sionista contro i siti sacri islamici a Gerusalemme e in Cisgiordania. La propaganda sionista ha immediatamente iniziato a scagnare di mostruosità senza precedenti contro i legami ebraici con il cosiddetto Monte del Tempio, come se il testo della risoluzione li negasse. Dal momento che in tutto il mainstream nessuno si è preso la briga di dare una guardata a cinque miserabili foglietti in inglese, la cagnara sionista ha avuto campo libero come al solito. Le argomentazioni sono sempre le stesse, sempre più autoreferenziali e sempre più ridicole nel loro prescindere da qualunque contatto con la realtà dei fatti: chiunque osi contraddire la הַסְבָּרָה‎‎ non può che essere un nostalgico dei campi di sterminio, e tanto basti.
La politica istituzionale ed il mainstream si sono immediatamente adeguati all'imperativo dei propagandisti; non resterebbe che assolvere al facilissimo compito di schierarsi dalla parte opposta, senza neppure curarsi troppo di indagare la natura della questione.
Le persone serie tuttavia non amano i sistemi tipici della
feccia da pallonaio; è meglio dunque soffermarsi sul testo della risoluzione, qui riproposto, ed arrivare poi con tutta calma alle relative conclusioni.
L'utilizzo delle espressioni "Israele" e "Stato d'israele" al posto di quella -usuale in questa sede- di "stato sionista" è nel testo originale.


Da Zeitun.info.


Traduzione da http://www.globalist.it/world/articolo/207146/unesco-ecco-il-testo-integrale-della-risoluzione-quot-palestina-occupata-quot.html [con alcune modifiche e correzione dei refusi da parte dei redattori di Zeitun].

Testo originale : http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002462/246215e.pdf

Di seguito il testo della risoluzione “Palestina Occupata”, approvata dalla commissione dell’Unesco con 24 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astensioni

Voti a favore: Algeria, Bangladesh, Brasile, Chad, Cina, Repubblica Domenicana, Egitto, Iran, Libano, Malesia, Marocco, Mauritius, Messico, Mozambico, Nicaragua, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Sud Africa, Sudan e Vietnam.

Voti contrari: Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.

Astenuti: Albania, Argentina, Cameron, El Salvador, Francia, Ghana, Grecia, Guinea, Haiti, India, Italia, Costa d’Avorio, Giappone, Kenya, Nepal, Paraguay, Saint Vincent e Nevis, Slovenia, Korea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Togo, Trinidad e Tobago, Uganda e Ucraina.

Assenti: Serbia e Turkmenistan.

Comitato Esecutivo

Sessione n. 200

Commissione programma e relazioni esterne (PX)

Oggetto 25: PALESTINA OCCUPATA

Discussione

Proposta da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

IA Gerusalemme

Il comitato esecutivo,

    1. Avendo esaminato il documento 200EX/25,

    2. Richiamandosi alle quattro disposizioni della convenzione di Ginevra (1949) ed ai relativi protocolli (1977), alle regolamentazioni del Tribunale dell’Aia in territori di guerra, alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954) ed ai relativi protocolli, alla Convenzione sui mezzi per proibire ed impedire l’importazione, l’esportazione ed il trasferimento illegale di beni culturali (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura tra i siti Patrimonio Culturale dell’Umanità (1972) e tra i siti del Patrimonio a Rischio (1982), oltre che alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale, così come alle risoluzioni e decisioni dell’UNESCO in riferimento a Gerusalemme, richiamandosi anche alle precedenti risoluzioni UNESCO in materia di ricostruzione e sviluppo di Gaza ed alle risoluzioni UNESCO relative ai siti palestinesi di Al-Kahlil/Hebron e Betlemme,

    3, Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme,

    4, Condanna fermamente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO riguardanti Gerusalemme, in particolare il punto 185 EX/Ris. 14, sottolineando come non sia stata rispettata la propria richiesta al Direttore Generale di nominare, il prima possibile, un rappresentate permanente di stanza a Gerusalemme Est per riferire regolarmente quanto riguarda ogni aspetto di competenza UNESCO, né lo siano state le reiterate richieste successive in tal senso;

    5. Condanna fortemente il mancato rispetto da parte di Israele, potenza occupante, della cessazione dei continui scavi e lavori a Gerusalemme Est ed in particolare all’interno e nei dintorni della Città Vecchia, e rinnova la richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutti questi lavori in base ai propri obblighi disposti da precedenti convenzioni e risoluzioni UNESCO;

    6. Ringrazia il Direttore Generale per gli sforzi compiuti nel cercare di rendere effettive le precedenti risoluzioni UNESCO per Gerusalemme e nel cercare di mantenere e rinnovare tali sforzi;

IB Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif e dintorni

IB1 Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif

    7. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di ripristinare lo status quo precedente al settembre 2000, in base al quale il dipartimento giordano “Awqaf ” (Fondazione religiosa) esercitava senza impedimenti autorità esclusiva sulla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif ed il cui mandato si estendeva a tutte le questioni riguardanti l’amministrazione della moschea Al- Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, inclusi il mantenimento, il restauro e la regolamentazione degli accessi;

    8. Condanna fortemente le sempre maggiori aggresioni israeliane e le misure illegali nei confronti dell’ Awqaf e del suo personale, e nei confronti della libertà di culto e dell’accesso dei musulmani alla loro moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status quo storico e di porre fine immediatamente a dette misure;

    9. Deplora fermamente le continue irruzioni di estremisti israeliani di destra e delle forze armate alla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a mettere in atto le misure necessarie a prevenire violazioni provocatorie che non rispettino la santità e l’integrità della Moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif;

    10. Denuncia fermamente le continue aggressioni israeliane nei confronti dei civili, tra cui figure religiose e sacerdoti islamici, denuncia l’ingresso con la forza nelle varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif da parte di funzionari israeliani, compresi quelli delle cosiddette “Antichità Israeliane” [IAA, l’autorità israeliana delle antichità, che dipende dal ministero della Cultura. Ndtr], l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di guardie dell’Awqaf, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a queste aggressioni ed agli abusi che alimentano le tensioni sul terreno e tra le religioni;

    11. Disapprova le limitazioni imposte da Israele all’accesso alla Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’Eid Al-Adha del 2015 e le conseguenti violenze, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di cessare ogni sorta di abusi contro la Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

    12. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO incaricati del progetto UNESCO presso il “Centro per i Manoscritti Islamici” di Al-Aqsa /Al-Ḥaram Al-Sharif, e chiede ad Israele di concedere il visto agli esperti UNESCO senza alcuna restrizione;

    13. Condanna i danni provocati dalle forze di sicurezza israeliane, specialmente a partire dall’agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e a tale proposito riafferma l’obbligo da parte di Israele di rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio culturale della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, come stabilito dallo status quo tradizionale, in quanto sito islamico di preghiera e parte del patrimonio culturale mondiale;

    14. Esprime la propria profonda preoccupazione per il blocco israeliano ed il divieto di ristrutturare l’edificio della porta di “Al-Rahma”, una delle porte della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a riaprire tale porta e porre fine agli ostacoli posti per la realizzazione dei necessari lavori di restauro, per poter riparare i danni apportati dalle condizioni meteorologiche, specialmente dalle infiltrazioni d’acqua all’interno delle stanze dell’edificio.

    15. Chiede inoltre ad Israele, la potenza occupante, di consentire la messa in opera immediata di tutti i 18 progetti hashemiti [del re di Giordania. Ndtr.] di ristrutturazione di Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

    16. Deplora la decisione israeliana di costruire una funivia a doppio cavo a Gerusalemme Est ed il cosiddetto progetto “Liba House” nella Città Vecchia, cosi come la costruzione del cosiddetto “Kedem Center”, un centro per visitatori nei pressi del lato sud della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, la costruzione dell’edificio “Strauss” ed il progetto di un ascensore nella Piazza Al-Buraq “Plaza del Muro occidentale”, e invita Israele, la potenza occupante, a rinunciare ai progetti sopra citati e a fermare i lavori in conformità con i propri obblighi in base alle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO;

IB2 La salita alla scalinata “Mughrabi” nella moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif

    17. Ribadisce che la scalinata “Mughrabi” è parte integrante ed inseparabile del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

    18. Prende atto del sedicesimo verbale di monitoraggio e di tutti i verbali precedenti, insieme alle relative aggiunte preparate dal World Heritage Center, e dei verbali sullo stato di conservazione inoltrati al World Heritage Center dal regno di Giordania e dallo Stato di Palestina;

1. 19. Deplora le continue misure e decisioni unilaterali da parte israeliana in merito alla scalinata, inclusi gli ultimi lavori realizzati alla porta “Mughrabi” nel febbraio 2015, l’installazione di una copertura all’entrata e la creazione di una tribuna di preghiera ebraica a sud della scalinata nella piazza “Al-Buraq, o “piazza del Muro occidentale”, e la rimozione dei resti islamici del sito, e riafferma che nessuna misura unilaterale israeliana dovrà essere presa, conformemente al proprio status e agli obblighi derivanti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati.

    20. Esprime inoltre la propria forte preoccupazione riguardo alla demolizione illegale di resti omayyadi, ottomani e mamelucchi, così come per altri lavori e scavi intrusivi attorno al percorso della porta “Mughrabi” e inoltre chiede ad Israele, la potenza occupante, di fermare tali demolizioni, scavi e lavori e di attenersi ai propri obblighi in base alle disposizioni dell’UNESCO menzionate nel paragrafo precedente;

    21. Rinnova i propri ringraziamenti alla Giordania per la sua cooperazione e sollecita Israele, la potenza occupante, a cooperare con il servizio giordano dell'”Awqaf”, in conformità con gli obblighi imposti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati, e di agevolare l’accesso al sito da parte degli esperti giordani con i propri strumenti e materiali per permettere l’esecuzione del progetto giordano per la scalinata della porta “Mughrabi” in base alle disposizioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale”, in particolare del 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4 and 39 COM/7A.27;

    22. Ringrazia il direttore generale per l’attenzione riservata alla delicata situazione in oggetto, e le chiede di intraprendere le adeguate misure per permettere la messa in pratica del progetto giordano;

IC Missione di monitoraggio attivo dell’UNESCO nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura ed incontro degli esperti UNESCO in merito alla scalinata “Mughrabi”

    23. Sottolinea ancora una volta l’urgenza della messa in pratica della missione di monitoraggio attivo nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

    24. A questo proposito ricorda la disposizione 196 EX/Dec. 26 che ha deciso, in caso di mancata realizzazione, di prendere in considerazione altri mezzi per garantirne la messa in pratica in conformità con le leggi internazionali;

    25. Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha rispettato nessuna delle 12 risoluzioni del comitato esecutivo né le 6 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , che richiedono la realizzazione della missione di monitoraggio nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura.

    26. Segnala il continuo rifiuto da parte di Israele di agire in accordo con le decisioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” che chiedono un incontro con gli esperti UNESCO in merito alla missione di monitoraggio della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

    27. Invita il Direttore Generale ad intraprendere le misure necessarie per mettere in pratica il succitato monitoraggio in base alla disposizione 34 COM/7A.20 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , prima della prossima riunione del comitato esecutivo, ed invita tutte le parti in causa ad adoperarsi per agevolare la missione e l’incontro con gli esperti;

    28. Chiede che il verbale e le raccomandazioni evidenziate dalla missione di monitoraggio ed il verbale dell’incontro tecnico riguardante la scalintata “Mughrabi” siano presentati a tutte le parti coinvolte;

    29. Ringrazia il direttore generale per i continui sforzi a sostegno della succitata missione di monitoraggio congiunto dell’UNESCO e delle decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito;

II RICOSTRUZIONE E SVILUPPO DI GAZA

    30. Condanna gli scontri militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili da essi provocati, compresi l’uccisione ed il ferimento di migliaia di civili palestinesi, tra cui bambini, ed il continuo impatto negativo nel campo di competenza dell’ UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altri edifici culturali ed educativi, incluse le trasgressioni all’inviolabilità delle scuole dell’ “United Nations Relief” [UNRRA, organizzazione ONU per il soccorso alle popolazioni vittime di conflitti. Ndtr.] e della “Works Agency for Palestine Refugees” in Medio Oriente (UNRWA) [organizzazione dell’ONU che si occupa dei profughi palestinesi. Ndtr.];

    31. Condanna fortemente il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che condiziona pesantemente il libero flusso di personale e degli aiuti umanitari, così come l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle scuole e ad altri edifici educativi e culturali, e la negazione del diritto all’istruzione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre immediatamente fine al blocco;

    32. Rinnova la richiesta al direttore generale di ripristinare, il prima possibile, la presenza dell’UNESCO a Gaza per poter assicurare la rapida ricostruzione di scuole, università, siti culturali, istituzioni, centri di comunicazione e luoghi di culto che sono stati distrutti o danneggiati nelle successive guerre contro Gaza;

    33. Ringrazia il direttore generale per l’incontro informativo tenutosi nel marzo 2015 sull’attuale situazione a Gaza riguardo alle competenze dell’UNESCO e per il risultato dei progetti condotti dall’UNESCO nella Striscia di Gaza-Palestina, e la invita ad organizzare, al più presto, un nuovo incontro informativo sulle stesse questioni;

    34. Ringrazia inoltre il direttore generale per le iniziative che sono già state portate avanti a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura, dei giovani e per la sicurezza dei reporter, ed auspica che continui il coinvolgimento attivo nella ricostruzione dei siti culturali ed educativi di Gaza;

III I DUE SITI PALESTINESI DI AL-ḤARAM AL IBRĀHĪMĪ/TOMBA DEI PATRIARCHI AD AL-KHALĪL/HEBRON E DELLA MOSCHEA BILĀL IBN RABĀḤ /TOMBA DI RACHELE A BETLEMME

    35. Riafferma che i due siti in oggetto, situati ad Al-Khalil/Hebron ed a Betlemme sono parte integrante della Palestina;

    36. Condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i due siti sono importanti dal punto di vista religioso per ebraismo, cristianesimo e islam;

    37. Disapprova fortemente l’attuale prosecuzione di scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni da parte di Israele e di un muro di separazione all’interno della  città vecchia di Al-Khalil/Hebron, che danneggia l’integrità del sito, e condanna il conseguente impedimento alla liberta di movimento e di accesso a luoghi di preghiera. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tali violazioni in base alle disposizioni delle importanti convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO.

    38. Deplora profondamente il nuovo ciclo di violenza, iniziato nell’ottobre 2015, nel contesto di una costante aggressione da parte dei coloni israeliani e di altri gruppi estremisti verso i residenti palestinesi, inclusi studenti, e chiede ad Israele di impedire tali aggressioni;

    39. Denuncia l’impatto visivo del muro di separazione nel sito della Moschea Bilal Ibn Rabaḥ Mosque/Tomba di Rachele a Betlemme, così come l’assoluto divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede alle autorità israeliane di riportare il paesaggio all’aspetto originale e rimuovere il divieto di accesso;

    40. Condanna decisamente il rifiuto da parte di Israele di dare compimento alla disposizione 185 EX/Dec. 15, che impone ad Israele di rimuovere i due siti palestinesi dal proprio patrimonio nazionale e chiede alle autorità israeliane di agire in base a tale decisione;

IV

    41. Decide di includere questi argomenti di discussione sotto il titolo di “Palestina Occupata” nell’agenda della 201° sessione, ed invita il direttore generale a sottoporre ad essa un rapporto aggiornato sulla situazione a riguardo.

sabato 8 ottobre 2016

Alastair Crooke - Sfugge al controllo la nuova guerra fredda


Negli USA chi sostiene con entusiasmo la nuova guerra fredda con la Russia sembra ignorare gli ordini del Presidente Obama, meno bellicisti, ed agire in favore di un pericoloso salire delle tensioni.

Dopo l'attacco statunitense contro le postazioni dell'esercito siriano che controllano e comandano l'aeroporto di Deir ez Zor, i cui voli quotidiani stile ponte aereo di Berlino sono l'unico cordone ombelicale di una città a lungo assediata dallo Stato Islamico, l'ambasciatore russo all'ONU ha chiesto al Consiglio di Sicurezza, in modo retorico ma appropriato, chi detiene il potere politico negli USA, se il Pentagono o la Casa Bianca.
Non c'è stata una risposta ufficiale, ovviamente, ma non è che ce ne fosse bisogno; un editoriale del New York Times una risposta l'ha data, e perentoria, il 15 settembre. Lodando l'energica ma donchisciottesca diplomazia del Segretario di Stato degli USA, l'editoriale scriveva:
L'accordo [per il cessate il fuoco in Siria] è stato accolto da voci decisamente critiche all'interno dell'amministrazione Obama, voci che comprendono quella del Segretario alla Difesa Ashton Carter. Martedi [13 settembre 2016, n.d.t.] i funzionari del Pentagono hanno rifiutato di dire se avrebbero o meno ottemperato ai termini di loro competenza, che impongono agli USA di condividere con i russi informazioni sui bersagli dello Stato Islamico in Siria a patto che il cessate il fuoco regga per sette giorni. Si tratterebbe di un rapporto di collaborazione inusuale e rischioso; il governo russo è diventato sempre più ostile e potrebbe trarre profitto dall'apprendere segreti militari statunitensi.
A sorprendere qui è il fatto che gli editorialisti del New York Times non si mostrano per nulla sorpresi. L'editoriale riporta senza enfasi che il Segretario alla Difesa ed il Pentagono potrebbero non ottemperare. Nessun cenno di sorpresa a fronte delle implicazioni che l'aperta disobbedienza alla volontà presidenziale comporta a livello costituzionale.
Tutt'altro: gli editorialisti considerano piuttosto naturale e lodevole che Carter rifiuti di adeguarsi a questo "inusuale e rischioso" proposito. Solo che in questo caso non si tratta di una "proposta di collaborazione": si tratta di un accordo formale che gli Stati Uniti hanno ratificato assieme ad un altro paese, che è stato raggiunto dopo lunghi negoziati e dietro preciso incarico presidenziale.
Insomma: il Presidente Obama non ha più alcuna autorità, se osa muoversi in modo non conforme alla consolidata opinione del Pentagono, della CIA, del New York Times, dello Washington Post e del candidato presidenziale del Partito Democatico. Non è irragionevole concluderne che la distensione svogliata che Obama ha praticato nei confronti di Putin -un uomo che detesta visceralmente a livello personale- non è altro che chiacchiere da diplomatici.
Il professor Stephen Cohen è un importante esperto di questioni russe; ha rintracciato altri casi in cui i sostenitori della linea dura appartenenti alla burocrazia della sicurezza nazionale hanno affondato i tentativi presidenziali di arrivare alla distensione con la Russia. Un caso del genere si verificò quando la CIA mandò Francis Gary Powers con il suo aereo spia U2 nei cieli russi, cosa in contrasto con l'accordo raggiunto con la Russia da Dwight Eisenhower; unico risultato, l'U2 venne abbattuto.

Su chi abbia fatto cosa in Siria negli ultimi tempi volano scambi di accuse, ma in concreto c'è il fatto che Obama si trova, all'interno della sua stessa amministrazione, davanti ad una dissidenza probabilmente insormontabile e che arriva fino alla disobbedienza aperta.
Il cosiddetto cessate il fuoco in Siria non verrà ripristinato, e questo non soltanto per l'aspro scambio di accuse che ha irreversibilmente superato certi tàciti limiti, ma perché esistono a prescindere delle dettagliate e stringenti testimonianze che arrivano da addetti ai lavori e che raccontano di come il sabotaggio della politica della Casa Bianca ad opera delle forze armate statunitensi con le operazioni sotto copertura in Siria si sia tradotto in un disastro.
Dal resoconto si viene a sapere che quanto era stato a lungo oggetto di sospetti è effettivamente vero: gli USA non controllano, e non possono controllare, il mostro jihadista che hanno creato attirando eterogenee fazioni combattenfi nell'orbita dello "stato di sicurezza" statunitense e chiudendo gli occhi sulla natura e sulle autentiche intenzioni di quanti andavano addestrando, finanziando ed armando.
Detto altrimenti, il Segretario alla Difesa Ashton Carter e il direttore della CIA John Brennan non possono certo garantire il cessate il fuoco, e questo potrebbe spiegare in una certa misura la turbolenza che regna a Washington. La Casa Bianca è arrivata a capire del tutto fino a che punto i vari servizi "speciali" degli USA si sono pestati i calli a vicenda, e così facendo hanno indebolito qualunque seria prospettiva di una padronanza statunitense degli avvenimenti, togliendo agli Stati Uniti un ruolo predominante nei negoziati?
L'altro aspetto della questione è, se mai, il forte sospetto che Donald Trump si ritrovi adesso con l'agibilità necessaria a intromettersi, se appena ne avrà voglia, con i suoi "io ve l'avevo detto" sul chi ha creato il mostro jihadista.
L'apparenza di una volontà concertata, ampia ed internazionale di arrivare ad una soluzione del conflitto in Siria è rimasta sconvolta: adesso esistono sul terreno solo i contrapposti interessi di vari movimenti di insorti, e fuori dala Siria le retoriche contrapposte degli stati sovrani. Il conflitto siriano entrerà probabilmente in una nuova e tribolata fase; con esso, anche l'Ucraina diventerà una questione sempre meno maneggevole dal momento che i due conflitti sembrano procedere di pari passo.
Occorre notare che il Presidente ucraino Petro Poroshenko, che agli europei dice ora bianco ora nero, incontrerà Hillary Clinton a New York; Trump ha invece rifiutato di incontrarlo. Forse i democratici vogliono fare il bis anche con lui?
Che altro c'è da dire? Le elezioni per la Duma russa sono venute e sono passate. Non ci sono state sorprese, ma questo non significa che non abbiano avuto un loro significato. Si potrebbe dire, col senno di poi, che sono state qualcosa di più che semplice routine.
Il partito del governo in carica, Russia Unita, le ha vinte sia pure in condizioni di bassa affluenza, ma le elezioni per la Duma non hanno poi molta attrattiva per i russi. Putin non è propriamente un appartenente a Russia Unita, ma il partito è associato al suo nome ed è legato alla sua persona; alla vittorian è arrivato essenzialmente grazie alla popolarità di Putin, e nonostante gli scarsi successi in campo economico.
Ci sono due elementi degni di nota: in primo luogo il fatto che Russia Unita ha superato la soglia dei trecento seggi. Con 343 deputati su 450, Russia Unita ha oggi una supermaggioranza e, ecco la cosa importante, può cambiare la costituzione russa. In secondo luogo i tre partiti liberali filooccidentali che hanno contestato le elezioni hanno raggiunto, tutti insieme, soltanto il quattro per cento dei voti. Ciascuno di essi non è andato oltre l'uno o il due per cento e la soglia per entrare in parlamento è il cinque per cento. Come ha scritto con inusuale schiettezza il professor Cohen, "Il movimento filooccidentale e liberale in Russia è morto, e ad ucciderlo è stata Washington".

In breve le sanzioni economiche e i conseguenti tiri di cinghia non hanno minimamente indebolito la posizione di Putin presso i russi. I russi accusano l'Occidente, anche se detestano cordialmente gli addetti all'economia del Primo Ministro Dimitri Medvedev. Questo adesso è chiaro a tutti.
Insomma, adesso Putin si trova in condizioni di operare dei cambiamenti, vista la supermaggioranza ottenuta alla Duma. Ed in effetti si dice che presto ve ne saranno di rilevanti. Un eminente esperto di cose russe afferma chiaramente che la vera opposizione a Putin non si trova nella Duma, ma nello stesso "partito del potere":
La vera opposizione a Putin, per dire le cose come stanno, è costituita dai ministri dell'economia e delle finanze del governo Medvedev e da tutti i gruppi che essi rappresentano: banchieri, burattini del Fondo Monetario Internazionale, uomini d'affari corrotti che arrivano dagli anni Novanta e che odiano Putin perché non li lascia rubare come hanno rubato in passato, tutta la ex nomenklatura e relativi pupilli che negli anni Novanta hanno imperversato e che hanno il cuore in Occidente, i fautori dell'integrazione atlantica come Kundrin, che sono sostanzialmente tipici rappresentanti del consenso verso Washington e che odiano il popolo russo perché ha votato per Putin.
Eccola qui, la vera opposizione. Un'opposizione molto più pericolosa degli USA e della NATO messi insieme. E per quest'opposizione il risultato delle elezioni alla Duma è una sconfitta devastante. Perché? Perché a parte il "partito del potere" che è Russia Unita tutti gli altri partiti rappresentati alla Duma sono molto più anticapitalisti e molto più antiameriKKKani di quanto non lo sia Putin. Insomma, per l'Impero [ameriKKKano, n.d.t.] Russia Unita va bene e andrà bene così, perché ogni altra alternativa sarà molto peggiore.
Così su The Saker.
Il punto è questo: nei prossimi mesi la situazione in Siria pare sia destinata a peggiorare, ma non al punto da rappresentare una sconfitta strategica per la Russia. L'intervento militare russo e il mutato atteggiamento della Turchia (sul quale peraltro non ci sono ancora certezze) rendono improbabile che gli USA possano arrivare all'agognato rovesciamento del governo Assad. In Ucraina i russi hanno il coltello dalla parte del manico, e gli europei lo hanno capito.
Insieme all'inasprirsi delle tensioni in Siria e in Ucraina e all'escalation della NATO nel Baltico, c'è stato il recente G20 in cui ha spiccato l'ascesa della cooperazione geostrategica tra Russia e Cina; adesso, il risultato delle elezioni alla Duma mette putin in condizioni di operare mutamenti strategici in seno alla Russia stessa. Si tratterà quasi certamente di mutamenti nella politica economica, ma è anche probabile che Putin si sentirà maggiormente sicuro nel mettersi a tu per tu con l'Occidente.
Questo non significa asserire che Putin intende inasprire la tensione con l'Occidente. Non esiste alcuna prova di una cosa del genere, come confermato dal comandante della NATO. Solo che adesso Putin non ha più bisogno di guardarsi le spalle. E può anche mettersi ad aspettare con calma le crisi economiche e politiche dell'Occidente.

giovedì 6 ottobre 2016

Firenze: Francesca Lorenzi e i Quartieri in Rivolta



Qualche mese fa ci siamo occupati di Francesca Lorenzi, islamofoba da taschino (o meglio, da cartoleria) che quando conta le scarpe da ginnastica fuori dai fondi commerciali trasformati in moschee si fa chiamare San Jacopino, alias il quartiere in rivolta.
Si ricorderà che la militanza "occidentalista" fruttò alla Lorenzi la bellezza di trentotto voti alle elezioni amministrative.
Come tutti sanno a Firenze chi vuol fare politica di destra si iscrive a quello che chiamano "Partito Democratico"; un dato di fatto che Francesca Lorenzi non ha mai interiorizzato. La colliquazione del suo partito di riferimento ha aggravato le cose e l'ha indotta a cambiare casacca, come si nota dalla foto in alto che ha girato per qualche giorno sul Libro dei Ceffi tra il settembre e l'ottobre del 2016.
La foto raffigura diciassette mangiaspaghetti che giocano a fare le Francesca Lorenzi.
O i quartieri in rivolta, fate voi: il titolo del post è stato scelto per far pensare a qualche gruppo musicale da seminterrato specializzato in polke, mazurke e cià cià cià, di quelli che su poster e volantini mettono sempre la cantante in pose ammiccanti e poco vestite.
Se le stesse regole seguite da Francesca Lorenzi valgono anche per costoro, abbiamo da sinistra a destra:

San Jacopotto
Santa Jàhopa Toscana (cristiana, sennò non era santa)
San Jacopello
San Jacopino in persona
San Jacopozzo
San Jacopetto
San Jacopante
San Jacoponzolo
Santa Jacopella
San Jacopo Degradòmaco (e Sicurezzànico)
San Jacopuccio
San Jacopo Fiorentino
San Jacopo Eliofotòmaco
San Jacopo Clorampecòmeno
San Jacopo Padre
Santa Jacopetta Figlia
Santissima Jacopa Zamòmaca
San Jacopo Seniore
Santa Jacopina da Firenze

La metà dei voti accattonati l'ultima volta da Francesca Lorenzi.
Meno due che forse avevano di meglio da fare che finire in una foto del genere.
In tutte le cose è essenziale cominciare: rispetto a Gesù Cristo la Lorenzi è addirittura avanti di cinque unità.

lunedì 3 ottobre 2016

Alastair Crooke - La nuova guerra fredda che piace ai falchi di Washington



Il fragile e parziale cessate il fuoco in Siria vacilla ed i suoi retroscena portano a Washington, dove potenti falchi stanno cercando di inasprire la guerra in Siria e la nuova guerra fredda contro la Russia.

Traduzione da Conflicts Forum.

Il fallimento dell'offensiva di agosto ad Aleppo scatenata dai ribelli sostenuti dagli USA e le condizioni del successivo cessate il fuoco -cui qualcuno negli Stati Uniti ha acconsentito molto di malavoglia- sono o non sono una sconfitta politica per gli USA ed una vittoria per la Russia?
In un certo senso, Mosca può (e si ripete può) aver messo all'angolo l'AmeriKKKa sulla questione degli attacchi aerei congiunti contro al Qaeda in Siria, ma si deve d'altra parte essere cauti a pensare che i russi abbiano ottenuto una vittoria. Questo, nonostante il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov e la sua diplomazia abbiano operato con una certa tenacia.
L'accordo sulla Siria del Segretario di Stato John Kerry con Lavrov ha d'altra parte fatto scoppiare a Washington una guerra senza esclusione di colpi. Il "blocco della guerra fredda" di cui fanno parte il Segretario alla Difesa Ash Carter ed il Presidente della Camera Paul Ryan è estremamente irritato.
Il Dipartimento della Difesa è prossimo alla disobbedienza plateale. In teleconferenza con la stampa il Luogotenente Generale Jeffrey Harrigian (capo del Comando Centrale dell'Air Force e comandante della campagna di bombardamenti in Iraq ed in Siria) ha risposto a chi gli chiedeva se l'esercito si sarebbe attenuto ai termini dell'accordo e avrebbe condiviso informazioni con i russi al termine dei sette giorni di cessazione delle ostilità: "Penso che sarebbe prematuro affermare che ci affretteremo a farlo. Non dico né sì né no."
Il Presidente Obama però, e con lui Kerry, intende definire un qualche retaggio per la propria politica estera. Il Presidente sospetta, e probabilmente per validi motivi, che qualunque politica egli lasci sarà ridotta a carta straccia dal suo successore (chiunque sia) appena avrà lasciato la carica.
Insomma, il potere costituito sta lavando i panni sporchi davanti agli occhi di tutti. Non sembra un bello spettacolo: il Dipartimento capeggiato da Carter dovrebbe operare in Siria insieme ai russi, e lui invece accusa la Russia di coltivare la "chiara ambizione" di erodere l'ordine mondiale con le sue campagne militari e telematiche.
Il Presidente della Camera Paul Ryan ha definito il Presidente Putin "un avversario" e "un aggressore" che non condivide gli interessi degli USA. Sta scaldando i motori una campagna mediatica statunitense, sostenuta da forze potenti, che raffigura Putin come un partner impossibile per gli Stati Uniti. 

Solo nei prossimi giorni si vedrà se Obama ha ancora la volontà e la capacità di imporsi per far sì che il cessate il fuoco in Siria porti a qualcosa di concreto. Oltretutto l'accordo non è nato dal nulla. Dietro di esso ci sono il fallimento militare del "piano B" degli USA, che a sua volta era una risposta al fallimento del cessate il fuoco di febbraio, e il fatto che Kerry ha estorto ulteriori concessioni a Damasco: Obama pare si sia detto d'accordo alla separazione tra insorti protetti dagli USA ed appartenenti ad Al Qaeda (l'ex fronte an Nusra, ora chiamato Jabhat Fateh al Sham) e al fatto che entrambi vengano considerati dei bersagli in cambio "di quella che l'amministrazione Obama ha presentato come la messa a terra dell'aviazione siriana per tutto il tempo del cessate il fuoco", scrive Gareth Porter.
Nel mettere in atto questo "piano B" gli USA e i loro alleati del Golfo hanno profuso risorse enormi per rendere vani gli sforzi di Damasco di togliere Aleppo dall'assedio jihadista nella parte a nord est della città. Per le due parti qui (Russia ed USA) la posta in gioco era alta: gli USA volevano che le formazioni islamiche da loro sostenute prendessero Aleppo per poi usare la caduta della città ad opera degli jihadisti per esercitare pressioni politiche tali sulla Russia e sull'Iran da costringerli ad avallare la cacciata di Assad. Insomma, anche il "piano B" riguardava per intero il rovesciamento del governo siriano.
Aleppo è la seconda città del paese ed è stata strategicamente determinante fin dall'inizio del conflitto. La sua perdita avrebbe tolto ogni base all'obiettivo di fondo del governo siriano, che è quello di conservare il grosso della popolazione urbana della Siria entro l'àmbito delle istituzioni statali.
Insomma, l'obiettivo a lungo termine dell'AmeriKKKa sarebbe stato raggiunto in quel modo, e gli abitanti della zona ovest della città caduta in mano ad al Qaeda ne avrebbero pagato un prezzo indescrivibile. Il fatto che il governo siriano riesca invece a riprendere il controllo di tutta Aleppo rappresenta un progresso macroscopico sul piano strategico.
In buona sostanza, gli USA ed i loro alleati del Golfo non sono riusciti nel loro intento ed il loro tanto vantato "piano B" ha fallito. Ed in questo fallimento gli jihadisti hanno sofferto gravi perdite in termini di vite e di equipaggiamenti. Le perdite sono state tali che c'è da dubitare che il Qatar o l'Arabia Saudita riusciranno a mettere in piedi un'altra offensiva di questo livello, nonostante quella scatenata successivamente a Hama.
Nonostante il fallimento del loro "piano B", gli USA non erano pronti a vedere al Qaeda isolata ed aggredita: volevano che rimanesse al sicuro. L'ambiguità degli USA verso gli jihadisti -sono "in guerra contro i terroristi" ma manovrano costantemente in modo da impedire a Siria e Russia di indebolire gli jihadisti- emergeva con chiarezza nella lettera inviata dall'incaricato statunitense dei rapporti con l'opposizione siriana ai gruppi sostenuti dagli Stati Uniti.
Un primo messaggio inviato il 3 settembre, dopo che la maggior parte dell'accordo tra Kerry e Lavrov era già diventato lettera morta, "non presenta alcun riferimento alla necessità che l'opposizione armata prenda le distanze dai suoi alleati di al Qaeda o -men che meno- tronchi i rapporti di collaborazione militare che ha con loro. Quindi, non avevano bisogno di farlo," ha scritto Porter.
Un secondo messaggio inviato secondo ogni apparenza il 10 settembre dispone l'opposto: "I ribelli devono prendere le distanze da Fatah al Sham, ex Fronte an Nusra, ed interrompere ogni rapporto con quella formazione; in caso contrario ci saranno serie conseguenze."
Succederà davvero? L'accordo verrà rispettato? In effetti il conflitto siriano non è che uno dei tre punti essenziali che costituiscono il teatro della nuova guerra fredda. Oltre ad esso c'è la situazione in Ucraina, delicata ed instabile, e da tutt'altra parte la NATO è impegnata a schierare le proprie forze alle frontiere dei Paesi Baltici. Nel caso uno qualunque di questi pilastri venisse (intenzionalmente) frantumato, la delicata struttura politica degli altri finirebbe in frantumi.

Questo ci porta alla complicata questione della demonizzazione della Russia, cui si sta attualmente dedicando il blocco della guerra fredda -di cui fa parte Hillary Clinton- impegnato nella campagna elettorale per le presidenziali statunitensi.
Gregory R. Copley, ha descritto la situazione su Defense & Foreign Affairs affermando che lo establishment statunitense sta "sacrificando relazioni bilaterali di fondamentale importanza per vincere una consultazione elettorale" e che lo sta facendo deliberatamente ed intenzionalmente. Copley aggiunge che "nei cinquant'anni buoni in cui mi sono interessato al governo degli USA non ho mai trovato un simile livello di partigianeria all'interno di un'amministrazione, in cui il presidente in carica considera di fatto il partito dell'opposizione come un nemico dello stato."
La posta in gioco nella demonizzazione della Russia e di Putin va ben al di là della Siria o dell'Ucraina. Si tratta dell'essenza stessa della contesa per il futuro degli USA.
Di questo esiste anche qualche prova pratica. Tre giorni prima che l'artiglieria siriana cominciasse a falciare i ranghi di Ahrar al Sham vicino ad Aleppo, mettendo il 9 settembre la parola fine al "piano B" statunitense (e quattro giorni prima che il messaggio di Ratney agli insorti siriani raccomandasse loro di prendere le distanze da al Qaeda "o da chiunque altro") il Presidente ucraino Petro Poroshenko parlando al parlamento ucraino (la Rada di Kiev) faceva strame degli accordi di Minsk mediati dal Cancelliere tedesco Angela Merkel e dal Presidente francese François Hollande come unica possibile soluzione alla guerra civile in Ucraina.
Poroshenko ha detto (si veda qui e qui) che "inoltre, in un dialogo irto di difficoltà, abbiamo convinto i nostri alleati ed i nostri partner occidentali che qualunque accordo politico deve essere preceduto da evidenti ed innegabili progressi nel campo della sicurezza: un cessate il fuoco sostenibile, il ritiro delle truppe e delle attrezzature russe dai territori occupati, il disarmo dei miliziani e delle loro famiglie ed infine il ripristino del nostro controllo alle nostre frontiere." [corsivo di Conflicts Forum]
In altre parole, Poroshenko ha rovesciato di sua iniziativa i termini dell'accordo, capovolgendone l'ordine; per stravolgere ulteriormente il tutto ha detto ai parlamentari che ogni decisione sarebbe stata "esclusivamente loro" e che nulla sarebbe stato fatto "senza la loro collaborazione", pur sapendo benissimo che il parlamento ucraino in carica non ha mai voluto gli accordi di Minsk.
Anche Kiev sta schierando truppe lungo tutte le frontiere di Donetsk e Lugansk: qui si trova una presentazione grafica dell'escalation militare di Kiev.
La virata di centoottanta gradi operata da Poroshenko costituisce la ripicca ameriKKKana per i progressi russi in Siria? Si intende alzare la tensione per impelagare il Presidente Putin nel pantano ucraino? Non è dato saperlo.
Il vicepresidente statunitense Joe Biden si è vantato in questo modo: "Penso che per un po' tenderò a parlare con il Presidente [Poroshenko] più a lungo di quanto non faccia con mia moglie [risata]... Penso che avranno da pentirsene tutti e due [risata]."
Possibile che Biden non sia stato consultato prima che Poroshenko tenesse il suo annuale discorso alla Rada? Anche questo non è dato saperlo, ma a quarantotto ore di distanza dal discorso di Poroshenko il Segretario alla Difesa Ash Carter si trovava a Londra per ribadire l'impegno in favore della sovranità e dell'integrità territoriale ucraina e firmare una "bozza di accordo bilaterale" con il Ministro della Difesa ucraino.

Quello che comunque non sappiamo è se tutto questo sia una provocazione diretta verso i russi e se sia stato inteso per esserlo. Sarebbe una provocazione anche verso la Francia e la Germania. Nel corso della stessa settimana Poroshenko ha fatto marcia indietro perché "per coincidenza" un nuovo prestito del Fondo Monetario Internazionale aveva preso la strada di Kiev dopo che i Ministri degli Esteri francese e tedesco avevano chiesto che lo spirito di Minsk del "tregua, statuto speciale, elezioni nel Donbass e controllo delle frontiere" venisse rispettato, visto che chi comanda a Donetsk e a Lugansk aveva formulato, senza che venisse richiesta, l'offerta di un cessate il fuoco unilaterale.
Solo che il 16 settembre Poroshenko ha fatto marcia indietro dalla marcia indietro: pare che quel giorno ai Ministri degli Esteri tedesco e francese giunti in visita sia stato detto che ormai il governo ucraino rifiutava di rispettare gli accordi di Minsk così com'erano e che voleva che i termini della questione venissero rovesciati: "tregua, controllo delle frontiere, elezioni".
L'aspra guerra intestina per le presidenziali ameriKKKane sta scuotendo i tre pilastri su cui poggiano le relazioni che l'AmeriKKKa e l'Europa hanno con la Russia. Per questo, sembra una forzatura per Obama sperare di prevalere con una qualsiasi strategia atta a costruire un retaggio politico, in Medio Oriente o in Ucraina, che contempli una qualche cooperazione con la Russia.
Lo establishment statunitense sembra sia arrivato a concepire la puntigliosa conservazione dello stato di cose presenti a livello mondiale come collegata alla sua capacità di ritrarre Trump come lo strumento con cui il Presidente Putin può minare tutto il sistema elettorale statunitense e l'ordine mondiale capeggiato dagli USA.
A tutti quanti gli altri invece sembra che gli USA siano stati presi da un'isteria collettiva, autentica o fabbricata per fini politici. Non è chiaro quale sia la posizione del Presidente degli Stati Uniti in quest'isterica ondata antirussa che ha paragonato Putin a Saddam Hussein e che ha accusato il candidato repubblicano di star cercando di ingraziarsi il presidente russo perché ha presenziato alla trasmissione "Larry King Live", attualmente ripresa da Russia Today...
La questione più importante, tuttavia, è data dalle conseguenze che tutto questo avrà nel più lungo termine. Nel campo della Clinton qualcuno si sta ancora dannando dietro al rovesciamento del governo di Mosca, convinto a quanto sembra che umiliare Putin in Siria (cosa non troppo probabile, adesso) o in Ucraina potrebbe costargli la carica alle elezioni presidenziali del 2018 e portare al suo posto un leader più accettabile, più filoatlantico.
Pensare che Putin possa essere fatto fuori in questo modo è un pio desiderio puro e semplice. Più probabile è il fatto che usare l'Ucraina (che con i russi ha produttivi legami di parentela e di vicinato) come strumento per umiliare Putin si riveli controproducente e serva soltanto a inasprire l'ostilità verso gli Stati Uniti, perché a morire per mano delle milizie ucraine di destra sono comunque dei russi.
Di sicuro la campagna in corso sta rafforzando quanti, in Russia, apprezzerebbero che il Presidente Putin si mostrasse meno conciliante verso l'Occidente. Probabile che ci stiamo dirigendo verso acque ancor più agitate.

sabato 1 ottobre 2016

Alastair Crooke - Ecco come gli USA hanno armato gli jihadisti siriani



Traduzione da Conflicts Forum.

"A questa missione, a questo impegno, non crede nessuno degli interessati" scrive un ex Berretto Verde a proposito dei programmi clandestini e sotto copertura per addestrare e armare gli insorti siriani; "lo sanno, che stiamo solo addestrando la prossima generazione di jihadisti, così sabotano l'iniziativa. Come se dicessero 'E chi se ne frega, al diavolo tutto'." Il Berretto Verde (le forze speciali statunitensi) conclude scrivendo "io, la responsabilità del fatto che i tizi di an Nusra vadano poi a dire che sono stati addestrati dagli statunitensi non la voglio".
Esiste un resoconto dettagliato, US Special Forces Sabotage White House Policy gone Disastrously Wrong with Covert Ops in Syria, in cui Jack Murphy, anch'egli ex Berretto Verde, racconta che un ex funzionario della CIA gli ha detto che "il programma di azioni sotto copertura in Siria è un'idea di Brennan [John Brennan, direttore della CIA]... Brennan ha dato vita alla task force per la Siria... A John Brennan tutte quelle stronzate sul rovesciamento del governo piacevano." In sostanza, Murphy racconta di come le forze speciali statunitensi, cui è preposta una figura che risponde al Presidente, stiano armando le forze siriane che combattono lo Stato Islamico mentre la CIA, ossessionata dall'idea di rovesciare il Presidente Assad e che opera sotto il controllo di un'altra figura anch'essa facente capo al Presidente, sta mandando avanti un programma parallelo e distinto per armare gli insorti che combattono Assad.
Murphy scrive con chiarezza del rifiuto della CIA di combattere lo Stato Islamico (un atteggiamento peraltro cambiato in qualche misura dopo la decapitazione del giornalista ameriKKKano James Foley): "La CIA non vuole avere molto a che fare con le operazioni contro lo Stato Islamico, concentrata com'è sul rovesciamento del governo Assad. Così ha passato la palla al Quinto Raggruppamento delle Forze Speciali. Il quale a sua volta opera dalla Giordania e dalla Turchia ed agisce sotto il controllo di autorità preposte alle attività militari e non sotto il controllo di quella che sovrintende alle attività sotto copertura della CIA ai sensi dell'articolo 50. Murphy tratteggia una "storia mai raccontata" fatta di abusi e di schermaglie burocratiche che è servita solo a prolungare il conflitto siriano.
Il fatto è che la parte fondamentale del lungo scritto di Murphy non tratta di dispute di competenza o di abusi e sprechi, e neppure della natura contraddittoria e votata alla sconfitta degli obiettivi statunitensi. Murphy fa capire invece con una certa chiarezza per quali motivi sono falliti i vari tentativi di cessate il fuoco, anche se questo argomento non viene trattato esplicitamente. Aiuta anche a capire perché certi settori dell'amministrazione statunitense (il Segretario alla Difesa Ashton, il Diretore della CIA Brenner) hanno rifiutato di ottemperare alla volontà del Presidente Obama come espressa nel recente accordo diplomatico su un cessate il fuoco recentemente raggiunto con la Federazione Russa. Le cose stanno in modo assai peggiore di quanto Murphy lascia intendere: ad esse si deve la confusione che regna oggi nei rapporti tra USA e Russia, ed il fallimento del cessate il fuoco.
Sul mero piano superficiale il 'Libero' Esercito Siriano sembrava un buon alleato della CIA perché antigovernativo e secondo ogni apparenza diretto allo stesso obiettivo che avevano al settimo piano di Langley [che è il piano occupato dal Direttore e dal suo ufficio nel quartier generale della CIA], ovvero la cacciata del Presidente Assad. All'atto pratico invece, come afferma Murphy nero su bianco, "è impossibile distinguere tra 'Libero' Esercito Siriano ed an Nusra, perché in pratica si tratta della stessa organizzazione. Fin dal 2013 graduati del 'Libero' Esercito Siriano hanno iniziato a disertare con le loro unità al completo per unirsi ad an Nusra. Si fanno sempre chiamare 'Libero' Esercito Siriano, ma è tutta scena, è una cosa che serve a presentarsi come laici in modo da continuare a ricevere armi dalla CIA e dai servizi sauditi. In realtà il 'Libero' Esercito Siriano è poco più che una copertura per an Nusra, che fa capo ad al Qaeda", scrive Murphy.
"Il fatto che il 'Libero' Esercito Siriano abbia semplicemente passato ad an Nusra armamenti prodotti in AmeriKKKa non è motivo di sorpresa, se si pensa che il controllo delle milizie in Siria da pare della CIA è una faccenda farraginosa e che consiste di poco più che qualche traccia in certi vecchi database. Queste tracce consistono innanzitutto di nomi autentici di persona, e dela presunzione che ad essi corrispondano uomini che al momento in cui i dati vennero raccolti anni fa dal CTC [il Centro Antiterrorismo] erano in età di militare". Secondo Murphy, nel caso del Quinto Raggruppamento delle Forze Speciali che opera dalla Turchia la situazione non è migliore: "[Le tracce consistono] di un controllo in un database ed in un colloquio. I ribelli sanno come vendersi agli ameriKKKani nel corso di questi colloqui, eppure in qualche caso lasciano ancora che la faccenda gli scappi di mano. 'Non capisco perché an Nusra alla gente non piaccia,' ha detto un ribelle ai soldati ameriKKKani. Parecchi simpatizzavano con gruppi terroristici come an Nusra o lo Stato Islamico. Altri, semplicemente, non erano in condizioni di fare il soldato. "Non vogliono combattere. Sono tutti dei vigliacchi. Eccoli qui, i ribelli moderati," ha detto a Murphy un Berretto Verde.
"Bancali di armi e file di camion arrivati in Turchia per i gruppi ribelli sostenuti dagli ameriKKKani stanno a prendere polvere a causa dei litigi tra autorità titolate [ovvero tra le diverse autorità che rispondono al Presidente] e tra fonti di finanziamenti; le autorizzazioni ad addestrare le milizie vengono concesse o negate a capriccio. Un giorno si dice di addestrare, il giorno dopo di non farlo, il giorno dopo ancora di addestrare solo i capi di grado superiore. Qualche Berretto Verde pensa che tutte queste esitazioni derivino dal fatto che la Casa Bianca ha subodorato che la maggior parte dei miliziani appartengono ad an Nusra e ad altre formazioni estremiste. [il corsivo è di Conflicts Forum].
Intanto che il giochetto continua, il morale degli uomini delle Forze Speciali in Turchia sprofonda. Spesso sotto mentite spoglie con addosso l'uniforme dell'esercito turco, uno dei Berretti Verdi ha descritto il suo compito in questi termini: "Restarsene spaparanzati in qualche sala sul retro, a bere tè e a guardare i turchi che esercitano i futuri terroristi"...
Secondo un Berretto Verde impegnato nel programma, fra i ribelli che le Forze Speciali statunitensi e quelle turche stanno addestrando 'un buon novantacinque per cento erano a tutti gli effetti inquadrati in formazioni terroristiche o simpatizzavano per esse'. E poi: 'Un'ampia maggioranza ammetteva di non avere alcun motivo di contrasto con lo Stato Islamico, e di averne invece con i curdi e con il governo siriano.'"
Ben nascosta nel testo si trova questa recisa conclusione, concentrata in una sola riga: "La vera guerra comincerà dopo la sconfitta dello Stato Islamico. Gli elementi del 'Libero' Esercito Siriano sostenuto dalla CIA diventeranno an Nusra tout court, mentre gli elementi del 'Libero' Esercito Siriano sostenuto dalle Forze Speciali, come il Nuovo Esercito Siriano, si schiereranno con il governo di Assad. Le milizie della CIA e quelle delle Forze Speciali si scanneranno a vicenda". Ecco, questo dice tutto: gli USA hanno creato un mostro che non sono in grado di controllare, neppure se volessero; tanto più che Ashton e Brenner non hanno alcun interesse a controllarlo, e stanno ancora cercando di usarlo.
Il Professor Michael Brenner ha assistito la scorsa settimana ad una conferenza in Texas cui partecipavano alti quadri dei servizi di sicurezza e dello spionaggio statunitense. Tra le altre cose i loro obiettivi in Siria sarebbero in sostanza quelli di:
- Ostacolare la Russia.
- Cacciare Assad.
- Marginalizzare e indebolire l'Iran, creando una rottura nella Mezzaluna Sciita.
- Agevolare una qualche compagine sunnita nell'Anbar e nell'est siriano. Come possiamo fare perché l'area non cada nelle mani di al Qaeda? Risposta: sperare che i turchi riescano a rendere an Nusra un po' più docile.
- Indebolire e frammentare un po' per volta lo Stato Islamico. Un successo in questo campo può coprire i fallimenti in tutti gli altri settori agli occhi dell'opinione pubblica.
Jack Murphy spiega per sommi capi perché questo mostro non può essere controllato: "Nel dicembre del 2014 an Nusra ha usato missili TOW costruiti in AmeriKKKa per colpire un'altra formazione antigovernativa vicina alla CIA, chiamata Fronte Rivoluzionario Siriano, e cacciarla da varie basi nella provincia di Idlib. La provincia di Idlib è oggi di fatto un califfato di an Nusra. Il fatto che an Nusra abbia catturato i missili TOW dall'ormai defunto Fronte Rivoluzionario Siriano non è cosa che desti sorpresa. Desta ancora meno sorpresa il fatto che le stesse armi anticarro, fornite al 'Libero' Esercito Siriano, siano finite in mano sua se si hanno presenti le dinamiche interne al conflitto siriano [ovvero gli scontri tra le diverse fazioni sostenute dagli ameriKKKani], col risultato che "Molti [addestratori militari statunitensi] stanno attivamente sabotando il programma lasciando le cose come stanno e non facendo nulla perché sanno che quelli che i presunti ribelli laici che dovrebbero addestrare altro non sono che terroristi di an Nusra".
Come potrebbe mai essersi concretizzata la distinzione tra "moderati" e appartenenti ad an Nusra, cosa richiesta da due accordi per la cessazione delle ostilità nel febbraio e nel settembre del 2016? Tutto il discorso di Murphy mostra che moderati e an Nusra sono sostanzialmente indistinguibili perché sono "praticamente la stessa organizzazione"; figurarsi se possono essere separati gli uni dagli altri. I russi hanno ragione: la CIA e il Dipartimento della Difesa non hanno mai avuto l'intenzione di rispettare gli accordi: non potevano rispettarli. Hanno anche ragione a credere che gli USA non abbiano mai avuto alcuna intenzione di sconfiggere an Nusra, così come richiesto dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU numero 2268 del 2016.
Insomma, come hanno fatto gli USA a cacciarsi in questo ginepraio in cui la mano sinistra non sa quello che fa la destra, col Presidente che autorizza un accordo con la Federazione Russa mentre allo stesso tempo il suo stesso Segretario alla Difesa rifiuta di rispettarlo? Ecco, un interessante trafiletto nello scritto di Murphy accenna ad "esitazioni" nel programma di addestramento delle milizie che si pensa derivino dal fatto che la Casa Bianca ha subodorato che la maggior parte dei miliziani "appartengono ad an Nusra e ad altre formazioni estremiste".
Da questo par di capire che la Casa Bianca avrebbe avuto a malapena un qualche sentore sul mostro jihadista che stava venendo su in Siria, nonostante questa consapevolezza fosse patrimonio comune della maggio parte degli addestratori presenti sul terreno. Le cose stavano davvero in questo modo? Obama credeva davvero che esistessero dei "moderati" che si potevano separare dagli altri? O è stato forse convinto da qualcuno a rimanere su questa linea perché si arrivasse a concedere alla CIA il tempo necessario a rifornire i suoi insorti (secondo IHS Janesla CIA ha passato tremila tonnellate di armi e munizioni alle formazioni da essa protette nel corso del cessate il fuoco del febbraio 2016)?
L'ipotesi che Obama potrebbe non esser stato pienamente consapevole di questo dato di fatto è sostenuta da Yochi Dreazen e Séan Naylor (esperto redattore di Foreign Policy in materia di servizi e di controterrorismo) che nel maggio 2015 notava che lo stesso Obama pareva aver bacchettato sia la CIA che le altre agenzie dei servizi nel corso di un'intervista di fine 2014, in cui aveva detto che la comunità internazionale nel suo insieme aveva "sottovalutato" la misura in cui il caos siriano avrebbe facilitato l'affermarsi dello Stato Islamico.
Nello stesso articolo Naylor espone l'influenza della CIA come data dalla rete di potere di cui essa dispone nelle principali otto sedi universitarie della costa orientale, dal suo primeggiare tra le agenzie dei servizi segreti, dal suo accesso senza intermediari all'Ufficio Ovale e dal sostegno praticamente incondizionato di cui gode al Congresso. Per illustrare la posizione privilegiata di cui la CIA gode all'interno del potere costituito, Naylor chiama in causa Hank Crumpton, che prima di diventare coordinatore dell'antiterrorismo al Dipartimento di Stato ha fatto una lunga carriera proprio nella CIA. Crumpton ha racontato a Foreign Policy che quando "l'allora Direttore Tenet dichiarò guerra ad al Qaeda -stiamo parlando del 1998- il Segretario alla Difesa non lo fece, e neppure il Direttore dello FBI o alcuna altra figura nell'ambiente dei servizi si arrogarono un simile ruolo guida."
Forse si tratta semplicemente di un caso dei soliti, uno di quelli in cui "la CIA ottiene quello che vuole", per dirla con la premonitrice espressione di Obama.
Forse la CIA ha ottenuto davvero quello che voleva: Putin demonizzato (e Trump anche, per contaminazione), il mostro sunnita di al Qaeda adesso troppo potente perché si possa batterlo con facilità, ma anche troppo debole per affermarsi in maniera compiuta da usare come l'albatro da legare al collo di Russia ed Iran, e la dannazione degli europei, cdhe avranno la schiena rotta dalle ondate di profughi che ne risulteranno.
Povera Siria.