sabato 27 febbraio 2016

Angelo Panebianco contestato all'Università di Bologna



Alla fine di febbraio del 2016 un collettivo universitario contesta coram populo Angelo Panebianco, docente presso la Scuola di Scienze Politiche dell'Università di Bologna.
Il "Corriere della Sera", che è un foglietto di antichissima tradizione interventista, aveva pubblicato un suo scrittarello in cui si caldeggiava l'aggressione militare di quanto resta della Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista, distrutta anni fa su iniziativa di un francese capace soltanto di congiacere con le attrici.
Sugli impudenti sciabbàtte l'uraghéno: piagnistei, cinguettii, librideiceffi, gazzette, televisioncine e via cianciando. Tocca scomodare Franco Berardi da chissà dove, per trovare qualche considerazione seria su un episodio in sé assolutamente insignificante ma capace di riempire giornalini per una settimana dal momento che i suoi protagonisti hanno osato togliere lo ius murmurandi dall'oziosità inutile del web e trasferirlo su un piano appena un po' più incisivo.
I latrati dell'autoreferenzialità professorale e gazzettiera, continui e molesti come quelli di qualsiasi bòtolo meritevole solo di essere preso a calci con gli anfibi, seguono copioni noti a tutti; a Firenze insiste persino una congrega che nel content providing per i foglietti è capace di insinuare in tutta serietà una correlazione tra il non pagare il biglietto in autobus e la propensione ad attività terroristiche, cosa che conferisce anche una buona misura della credibilità e della competenza di certi signori.
Si ricorderà che nel 2003 gli USA aggredirono l’Iraq col pretesto delle “armi di distruzione di massa”, calpestando allegramente l’evidenza e trattando come pezze da piedi le istituzioni internazionali.
Nel “paese” dove mangiano maccheroni il mainstream rafforzò la tendenza già in atto dal giorno in cui un dimesso ingegnere saudita aveva attuato uno spregiudicato intervento urbanistico su New York, e contestare (o, peggio, deridere) la politica aggressiva degli Stati Uniti, specie se fatto con cognizione di causa, divenne motivo di stigmatizzazione e di messa al bando.
Contro gli yankee poteva mettersi solo chi coltivava nostalgie inconfessabili: non era realisticamente possibile illustrare la demenzialità della loro politica senza essere marginalizzati.
Adesso è in preparazione un altro democracy export e i gazzettieri sanno bene come devono comportarsi.
Non che debbano sforzarsi gran che, visto che non hanno mai smesso.
Nel 2003 il fronte interventista contava un enorme numero di ben vestiti, di mezzibusti e di fannulloni di vario ordine. A fronte dei “successi” di quella impresa da mentecatti non ce n’è stato uno che non si dice abbia cambiato mestiere o abbia posto termine ai propri oziosi giorni, ma neppure abbia dimostrato un minimo di resipiscenza e di rammarico.
In quegli anni, la considerazione delle persone serie era del tipo “Non solo perderete la guerra, ma gli iracheni troveranno più gusto a sparare nelle vostre terga piuttosto che ai fagiani”. L’auspicio è che i libici, allo stesso modo, rendano la mercanzia difettosa all’esportatore, addebitandogli ovviamente anche le spese di trasporto.
Di séguito ci sono le considerazioni di Militant Blog sulla non-notizia, che riportiamo condividendole per intero.
Nello scritto ricorre il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo come sempre con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Negli ultimi 3 giorni il Corriere della Sera ha dedicato complessivamente ben cinque pagine alle contestazioni subite da Angelo Panebianco. Per avere un’idea delle proporzioni e dell’unità di misura con cui pesa le notizie il principale quotidiano italiano basti pensare che poche settimane prima la strage di 86 nigeriani a Dalori per mano di Boko Haram si era meritata niente di più che un trafiletto nascosto nelle pagine interne. Cosa sarà successo allora di così grave all’Università di Bologna da meritare tanto inchiostro? Forse uno dei reati più gravi in un Paese come il nostro: quello di “lesa maestà”. Come dimostrano le immagini circolate in rete Panebianco non ha subito alcuna “aggressione”, ma si è visto contestare, giustamente e legittimamente,  le proprie opinioni guerrafondaie da un gruppo di studenti e compagni. E questo è inaccettabile, anzi, è pericolosissimo, perchè crea un precedente. Eppure la possibilità di dire pubblicamente la propria e contestare le idee di chi esercità il potere dovrebbe essere il sale di quella democrazia liberale che tanto sta a cuore proprio al professor Panebianco e a quelli come lui. Anche perchè ciò che gli viene contestato non è il suo ruolo di docente universitario (ed anche in questo caso sarebbe più che legittimo farlo), ma quello che scrive come opinionista politico dalle colonne del più influente organo di stampa italiano. Lo strumento che insieme ad altri contribuisce ad orientare l’opinione pubblica in merito ad una possibile guerra il Libia, quella si “violenta”. Quindi se c’è una libertà d’opinione da difendere è proprio quella degli studenti (per cui oggi vengono invece richiesti a gran voce provvedimenti disciplinari e penali) e non certo quella di un barone che oltre alle idee guerrafondaie ha dimostrato di conservare una concezione autoritaria e gerarchica dell’insegnamento. Con sprezzo del ridicolo, dopo aver rievocato il ’77, le intimidazioni, la violenza politica, ecc. ecc, ieri il Corriere titolava a tutta pagina che finalmente erano stati identificati gli autori del raid contro Panebianco. Verrebbe da rispondergli che i raid, quelli veri, sono proprio quelli che evocava Panebianco in Libia. Quelli in cui muoiono migliaia di persone per tutelare gli interessi dei padroni del giornale su cui Panebianco scrive. Ma tanto già sappiamo che sarebbe fiato sprecato.

giovedì 25 febbraio 2016

Casa al dono. La sede del Centro Studi Utopia.



Sembra che tali Simona Cavalca e Beniamino Vitale abbiano passato parte del loro tempo a mettere insieme un'ottantina di pagine per dir bene del buen retiro di Socialismo Rivoluzionario e del sedicente trozkismo peninsulare. Il testo si trova su IBS.it presentato in termini vagamente curialeschi.
Questo è il racconto di un luogo, Casa al dono, e di un'opera collettiva, delle persone che lo hanno trasformato negli ultimi dieci anni in un centro di sperimentazione comunitaria e della scoperta della sua storia lunga secoli. È il racconto di una «magica coincidenza» tra una comune alla ricerca di uno spazio per coltivare un'idea e una pratica dell'autoemancipazione e una Casa che già aveva ospiiato passioni artistiche, cultura dell'accoglienza, senso del bello. Da cenacolo artistico animato da Bernard Berenson negli anni Quaranta a centro di ospitalità di liberi pensatori in fuga dal nazi-fascismo: questo spirito ancora oggi ispira e si vive alla Casa della cultura del Centro studi Utopia. Raccontare ciò che oggi è questa Casa significa raccontare una vicenda e una realtà comune che accoglie e vive di moltissime persone.
La screenshot mostra che chi ha cercato questo libello si è interessato soprattutto di concorsi per l'ammissione alla gendarmeria e poi di morte, di viae crucis e di gendarmi eroici.
Senza adulti, per tutti i gusti.
Sic transit. Per la rivoluzione sarà davvero il caso di affidarsi a qualcun altro.

mercoledì 10 febbraio 2016

Henri J. Barkey - Il disastro della politica estera di Erdogan




Traduzione da Foreign Policy.

Il disastro della politica estera di Erdogan. Pochi anni fa la Turchia era considerata una potenza regionale in ascesa. Che cosa è successo?

Non molto tempo fa la politica estera turca era al centro di ogni discussione. All'insegna dello stringato motto "zero problemi con i vicini" la Turchia cercava sia di migliorare le relazioni di vicinato sia di affermarsi un po' per volta come potenza regionale egemone. Era un caso classico di rafforzamento del proprio soft power per mezzo della introduzione di riforme economiche e di maggiore democrazia, cui corrispondeva in politica estera una intensa attività diplomatica il cui scopo era quello di fare di Ankara l'arbitro dei conflitti regionali.
Oggi come oggi di questa linea politica non resta più nulla. Ha fatto le spese dell'imprevedibile corso degli eventi che la Primavera Araba ha preso, soprattutto in Siria, oltre che dell'esagerata fiducia nei propri mezzi e degli errori di calcolo commessi sul piano della politica interna della politica estera. Fatto salvo il governo regionale curdo nel nord dell'Iraq, le relazioni della Turchia con quasi tutti i suoi vicini sono peggiorate. Al tempo stesso sono oltremodo cresciute le tensioni con gli Stati Uniti, con l'unione europea e con la Russia. In questo momento, se la Turchia ha ancora una qualche influenza, lo deve soprattutto alla sua posizione geografica, che la rende retroterra della Siria e del dramma dei suoi profughi, e alla sua determinazione nell'usare le maniere forti nelle transazioni diplomatiche.
Per quale motivo le ambizioni internazionali della Turchia sono fallite? A questa domanda non esiste una risposta soltanto. Le idee grandiose che il presidente Recep Tayyp Erdogan aveva circa il proprio ruolo nel mondo, il suo desiderio di trasformare il paese in una repubblica presidenziale, il fallimento del processo di pace curdo a sua volta vittima della crisi in Siria hanno dato ciascuno il proprio contributo ad affossare quella politica estera di Ankara che sembrava ricca di buone promesse.


La Turchia e la Primavera Araba

La politica estera turca dava segni di cedimento anche prima della Primavera Araba. Nel 2009, dopo quasi sette anni di governi a guida conservatrice, la Turchia aveva raggiunto traguardi rimarchevoli: una rapida crescita economica, la trasformazione di Istanbul in una città internazionale, la democratizzazione nella politica interna, il ritorno del potente apparato militare sotto il controllo delle istituzioni democratiche. Lo AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan, passava di trionfo in trionfo perché i cittadini comuni erano sedotti dai suoi successi e poco attratti da un'opposizione priva di mordente.
Dopo aver consolidato le proprie posizioni sul piano interno, soprattutto con le elezioni del 2007, Erdogan ha iniziato ad osare un po' di più. Ha intrapreso un calcolato approccio spicciativo al presidente dello stato sionista Shimon Peres al forum economico mondiale di Davos nel 2009, nel corso del quale deplorò rabbiosamente la politica dello stato sionista verso Gaza, con questo capovolgendo d'un tratto il buon andamento delle relazioni tra i due paesi. L'iniziativa si rivelò molto produttiva per i rapporti con il mondo arabo, in cui la popolarità di Erdogan e della Turchia schizzò alle stelle; dai paesi arabi in tanti si riversarono in Turchia, per turismo o in cerca di opportunità di investimento. A questo gesto seguì la decisione di una organizzazione non governativa turca vicina allo AKP di noleggiare una nave e dirigersi a sfidare il blocco sionista a Gaza, con la relativa e disastrosa reazione sionista che finì con la morte di nove cittadini turchi e con l'ulteriore peggioramento delle relazioni tra i due paesi.  
L'arrivo della Primavera Araba spinse Turchia e Stati Uniti ad una stretta collaborazione. I due paesi sembrarono agire di concerto per quanto riguarda le dichiarazioni pubbliche sul presidente egiziano Hosni Mubarak -l'intento era quello di costringerlo a farsi da parte- e poi collaborarono nel fornire armi e materiali al "Libero" Esercito Siriano. Ancora una volta la Turchia si affermava come un paese che era modello per tutto il Medio Oriente, un paese in cui Islam e democrazia si erano sposati con successo nella persona di Erdogan e del suo AKP. Nel 2010 Obama affermava che la Turchia era "una grande democrazia islamica", ed "un modello di importanza fondamentale per gli altri paesi musulmani della regione"; nel 2012 citò Erdogan tra i cinque più importanti leader politici con cui aveva intrapreso le relazioni diplomatiche più strette.
La Turchia però voleva essere ben più di un modello. L'affermarsi dei Fratelli Musulmani in Egitto, in Tunisia e in Siria -con i quali i vertici dello AKP avevano rapporti stretti- dischiuse per Ankara la possibilità di avere un ruolo attivo dal momento che era il più potente alleato regionale su cui quel movimento potesse contare. Di fatto la Primavera Araba permise ai massimi vertici della politica turca di vedersi come a capo della principale potenza della zona: lo allora ministro degli esteri Ahmed Davutoglu disse che la Turchia "sarebbe stata alla testa del vento di cambiamento che sta spazzando il Medio Oriente... non solo come paese amico, ma perché paese considerato la personificazione stessa delle idee di cambiamento e di ordine nuovo".
La Turchia aveva alla fine il suo momento. Un momento che però non sarebbe durato a lungo. L'auspicio di Davutoglu su un "nuovo ordine" subì un brutto colpo quando in Egitto il governo guidato dai Fratelli Musulmani venne rovesciato da una serie di proteste di piazza e dall'esercito, e le relazioni di Erdogan con il nuovo governo a guida militare si disintegrarono rapidamente. Tuttavia è stato in Siria che gli obiettivi in politica estera della Turchia sono stati affossati definitivamente: il governo di Bashar al Assad ha continuato ostinatamente a resistere, alla faccia del movimento insurrezionale che la Turchia aveva sostenuto.


L'importanza degli eventi siriani

Prima dell'insurrezione del 2011 la Siria costituiva l'esempio più recente dei successi della politica turca all'insegna degli "zero problemi" con i paesi vicini. Poco dopo l'arrivo al potere dello AKP, l'uomo forte del paese Bashar al Assad ed Erdogan avevano intrapreso una stretta collaborazione anche a livello personale. Si è trattato di un cambiamento considerevole se si pensa che nel 1998 la Turchia aveva minacciato militarmente la Siria a causa del sostegno che essa forniva al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), all'epoca impegnato nella promozione di un movimento insurrezionale contro lo stato turco. Erdogan si impegnò anche per dare il via a consultazioni indirette tra Siria e stato sionista e si spinse fino a sostenere il governo baathista contro un'iniziativa dell'ONU, sostenuta da Francia e Stati Uniti, diretta a far sì che l'esercito siriano lasciasse il Libano.
Quando in Siria iniziarono le proteste pacifiche, all'inizio Erdogan si adoperò perché Assad non subisse lo stesso destino dei politici tunisini ed egiziani. Erdogan fornì consigli ad Assad sulle riforme da introdurre e di fatto pare gli abbia fatto capire che non si trattava di fare qualcosa di troppo radicale, ma senza risultato. Quando Assad diede mano libera all'esercito perché reprimesse le proteste, dall'oggi al domani Erdogan si ritorse contro l'antico alleato ed amico.
Alla decisione di Erdogan contribuirono molti elementi: il rancore perché Assad non aveva seguito i suoi consigli, la diffusa sensazione che Assad non sarebbe comunque durato, l'idea di poter avere un qualche ruolo nella nuova Siria, e soprattutto il terribile crescere della violenza durante il ramadan del 2011, contro quelli che Erdogan considerava manifestanti sunniti. Erdogan esortò pubblicamente all'esautorazione di Assad e proclamò che il dittatore siriano sarebbe rimasto al potere soltanto per pochi mesi. Di lì a poco, nel 2012, Erdogan disse: "Presto andremo a Damasco, a pregare liberi con i nostri fratelli nella moschea degli Omayyadi".
Assad non sarebbe caduto tanto facilmente. La discrepanza fra il desiderio di Erdogan di vederlo osostituito da una alleanza sunnita a lui favorevole e la realtà delle cose in cui il dittatore siriano teneva ostinatamente il potere fu motivo di frustrazione per il primo ministro turco, e lo spinse in direzione di una linea politica costruita di testa propria. Con gli Stati Uniti iniziarono ad emergere profonde divergenze quando Erdogan si espresse con disappunto sul fatto che Obama non intendesse intervenire, nonostante i molti civili vittime dell'esercito governativo.
La rottura tra Erdogan e Assad segnò anche l'inizio di una politica settaria da parte dei sunniti, che diventò sempre più pronunciata man mano che il governo siriano rimaneva al suo posto. La Turchia iniziò ad incoraggiare l'ingresso di combattenti stranieri nella Siria settentrionale attraverso i suoi posti di frontiera, cosa che radicalizzò l'opposizione e al tempo stesso fece crescere gli attriti fra Ankara e i suoi alleati, gli Stati Uniti e l'Europa. Il governo turco sapeva che molti di questi combattenti si sarebbero uniti a milizie jihadiste, come il Fronte an Nusra che è affiliato ad Al Qaeda, ma ha lasciato che così fosse perché i ribelli "moderati" originari del paese non si erano mostrati in grado di arrivare alla cacciata del governo di Assad. L'idea era che i combattenti jihadisti, molti dei quali adusi al combattimento e più propensi a morire per la causa, sarebbero riusciti a fare quello che non era riuscito ai ribelli siriani di altro orientamento. 
Decine di migliaia di combattenti stranieri si diressero in Siria, e presto furono evidenti le conseguenze indesiderate di tutto questo. Molti di costoro gravitavano attorno allo Stato Islamico e lo hanno reso la potenza che è oggi. Nel maggio del 2013 durante una visita a Washington Obama chiese a Erdogan di smettere di fornire sostegno agli jihadisti, specie al Fronte an Nusra, e di impedire loro di passare dalla frontiera turca. Il fatto è che da allora in Turchia ha preso concretezza una rete jihadista che a tutt'oggi tormenta il personale di frontiera.
Il primo a trarre vantaggio dall'allentamento dei controlli fu lo Stato Islamico. La rete nata in Turchia a sostegno degli jihadisti sarebbe stata alla fine utilizzata per colpire le città turche, da Diyarbakir a Suruc fino ad Ankara, per arrivare ad Istanbul. Nei primi tre casi gli attentati hanno colpito curdi e attivisti di sinistra e hanno fatto più di centotrentacinque morti. L'ultimo ad Istanbul ha fatto undici vittime tedesche in un quartiere turistico. Lo Stato Islamico ha anche impunemente passato per le armi in territorio turco propri oppositori siriani, e richiesto riscatti a famiglie siriane e di altri paesi affinché fossero loro restituiti i loro cari, sequestrati dallo Stato Islamico in territorio turco.


La questione del Kurdistan

Il rafforzamento dei curdi siriani è stato la più importante conseguenza del caos in cui è precipitato il paese. Privati di ogni peso e repressi dai vari governi siriani, i curdi sono riusciti ad approfittare delle spaccature nel paese per avanzare pretese sui territori in cui costituivano la maggioranza della popolazione. Hanno presto trovato un alleato potente negli Stati Uniti: quando lo Stato Islamico è stato sul punto di sommergere la città curda di Kobane, nell'ottobre del 2014, l'aviazione statunitense ha iniziato a bombardare i combattenti del gruppo jihadista, gettando anche le basi per una straordinaria e fruttuosa collaborazione che si è rivelata essere il tentativo più riuscito di spodestare lo Stato Islamico da un territorio da esso conquistato.
Di questa alleanza sempre più stretta ha fatto le spese il governo turco. Il principale movimento politico dei curdi siriani è il Partito dell'Unione Democratica (PYD), che è uno stretto alleato, se non una dipendenza, del PKK che lo ha addestrato e foraggiato trasformandolo in una forza combattente formidabile. Washington ha detto chiaramente che PKK e PYD non sono la stessa cosa, a dispetto del cordone ombelicale che unisce le due organizzazioni. Dal punto di vista legale il PKK è nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dagli USA, mentre il PYD non c'è ed è stato il destinatario del sostegno militare statunitense nella guerra contro lo Stato Islamico. Intanto che gli Stati Uniti approfondivano i loro legami con il PYD, l'unica concessione che hanno fatto ad Ankara è stato ottemperare all'ultimatum dei turchi affinché il PYD non venisse invitato ai colloqui di pace a Ginevra.
A posteriori, la vittoria dei curdi siriani a Kobane si è rivelata il colpo di grazia per il processo di pace che la Turchia aveva intrapreso con la parte curda della propria popolazione. Erdogan fu subito aspramente critico nei confronti dell'intervento ameriKKKano a Kobane: lui e il suo partito considerano il PYD una minaccia peggiore di quella dello Stato Islamico- Nel febbraio 2015 Erdogan ha fatto carta straccia dell'accordo che i suoi subalterni avevano stretto con il Partito Democratico del Popolo, di ispirazione filocurda, e con il PKK. Ci sono documenti successivi che fanno pensare che a provocare la rottura sia stato il timore che i curdi siriani avrebbero messo su un doppione dell'esperienza dei curdi iracheni, creando una regione autonoma a ridosso delle frontiere meridionali della Turchia.
Dall'estate del 2015 la guerra tra PKK e stato turco è ripresa, all'insegna del revanscismo. Dal sette giugno, data delle elezioni, sono morti qualcosa come duecentocinquantasei militari turchi; le perdite del PKK sono più difficili da quantificare, ma sono comunque state alte. Le devastazioni in città curde come Silopi, Cizre e il quartiere di Sur a Diyarbakir, dove i carri armati turchi hanno sparato sulle abitazioni e l'ala giovanile del PKK ha deciso di resistere senza cedere, sono state tremende.
Erdogan aveva capito che l'assedio di Kobane rappresentava un possibile punto di svolta per i destini dei curdi in tutta la regione. Non poteva fare che una cosa: cooptarli al potere o reprimerli. Ha scelto la seconda alternativa.
I curdi hanno indebolito la posizione di Erdogan sia all'interno che sul piano internazionale; ancora peggio è andata dopo che su richiesta di Assad i russi sono intervenuti in siria. Agendo senza riguardi, i caccia turchi a novembre 2015 hanno abbattuto un bombardiere russo che per poco tempo aveva invaso lo spazio aereo turco, con un gesto cui il presidente russo Putin ha risposto con una serie di rappresaglie impegnative dal punto di vista economico, politico e militare. Erdogan si era sbagliato nel giudicare Putin: la decisione di abbattere l'aereo veniva dalla frustrazione causata dai fallimenti in Siria e dal fatto che sotto i suoi occhi gli iraniani e i russi erano riusciti a rafforzare l'ormai provato esercito siriano contro gli alleati dei turchi nel paese.
Sull'onda degli eventi siriani, la Turchia si è trovata ai ferri corti anche con l'Iran. Dall'inizio della guerra fino al 2015, ovvero fino a quando i russi non sono intervenuti direttamente ed il ruolo della Forza Quds iraniana non è diventato più ovvio, la Turchia e l'Iran hanno proceduto sulla questione secondo un cordiale disaccordo. I fitti legami d'affari tra il governo di Erdogan, comprese vendite di oro su larga scala, la dipendenza della Turchia dal gas iraniano e il bisogno dell'Iran di mantenere quote di mercato estero proprio con queste esportazioni hanno impedito ai due paesi di accapigliarsi in pubblico. Ma non è cosa destinata a durare, perché la collaborazione delle varie forze sul terreno ha cambiato le cose a favore di Assad.
Erdogan non ha ancora abbandonato il sogno di fare della Turchia un attore influente. Di recente Ankara ha annunciato l'apertura di una propria base navale in Qatar e di un campo di addestramento in Somalia. Erdogan è capacissimo di cambiare politica secondo gli eventi del momento, se questo torna a suo vantaggio; negli ultimi tempi lo ha fatto riallacciando cordiali relazioni con lo stato sionista. Un riavvicinamento a Gerusalemme infatti apre la lucrosa prospettiva di un gasdotto che dai giacimenti nell'est del Mediterraneo porti in Turchia passando da Cipro.


Cosa può attendersi Erdogan dal prossimo futuro

Erdogan ha davanti tre sfide tra loro collegate. Sta affannosamente portando avanti l'iniziativa di cambiamenti alla costituzione che gli permettano di riunire nella figura del presidente il potere esecutivo, così da poter controllare il paese senza l'impiccio delle sue istituzioni; l'inasprirsi del confronto con i curdi minaccia di portare alla completa rottura tra curdi e stato turco ed il deteriorarsi della situazione in Siria non soltanto può arrivare ad esacerbare il conflitto con i curdi ma anche a far peggiorare i rapporti con gli USA, in considerazione dei legami che Washington ha stretto con i curdi siriani.
Erdogan può anche essere sulla strada giusta per risolvere alcuni di questi problemi, specie per quello che riguarda l'instaurazione di un regime presidenziale, ma al prezzo di inasprire ancora di più le divisioni nella società turca e i disaccordi con i paesi alleati di vecchia data. Erdogan è sicuro che il suo atteggiamento nei confronti dei curdi finirà per pagare e si sta basando sulla disillusione di settori della comunità curda, specie quelli maggiormente inclini alla religione, per sradicare il PKK. Ora come ora però è verosimile che le sofferenze delle città a maggioranza curda abbiano un impatto incancellabile sulla comunità curda. Il mutare della situazione internazionale, con particolare riguardo all'Iraq e alla Siria, fa pensare che a questo punto una vittoria militare potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro.
Per quello che riguarda la Siria, è chiaro che esistono grossi disaccordi su quali siano le cose importanti tra Turchia, USA ed Europa. Gli alleati occidentali della Turchia mettono al primo posto la sconfitta dello Stato Islamico laddove ad Ankara si è preoccupati soprattutto di rovesciare il governo di Assad e di impedire che si formi una regione autonoma curda nel nord del paese. Su questo particolare tema il perdurare degli attriti con i cdurdi in patria non farà che allontanare ancora di più la Turchia dai suoi alleati.
Il punto fondamentale è questo: la politica estera della Turchia non è più funzionale agli interessi del paese ma a quelli di Erdogan. In difficoltà in patria e fuori, il presidente turco ha intrapreso sul piano interno una serie di iniziative illiberali che punta a minare quelle che sono istituzioni esplicitamente ritenute vacillanti per ricostruirle a propria misura. La sua onnipresenza e la sua posizione che non ha rivali significano che la politica estera turca altro non è che il prodotto della sua concezione del mondo, dei suoi capricci e dei suoi gusti. Nessuno può tenergli testa. L'approccio sistematico dei primi anni ha lasciato il posto all'indulgenza: più di ogni altra cosa è questo che spiega le alterne sorti della politica estera turca.

venerdì 5 febbraio 2016

Firenze, 20 febbraio 2016: iniziativa politica di quartiere in Piazza Tasso



20 febbraio 2016

Giornata informativa in Tasso!!!


H12 - Torneo di basket. Per iscrizione viadelleone@autistici.org
H13 - Pranzo condiviso. Porta piatto e posate e qualcosa da mangiare

Durante tutta la giornata interventi, mostra, e volantinaggi sui principali problemi del quartiere.

H15 - Spettacolo per bambini


Tra le cose costruttive di Firenze ci sono anche iniziative come questa, lodevoli per molti motivi.
Si prova qui a riassumerne qualcuno.
I promotori fanno capo ad una casa occupata: le occupazioni sono una delle bestie nere dell'amministrazione e vanno incentivate e sostenute ipso facto.
L'iniziativa non è patrocinata o sponsorizzata da nessuno: i presenti non vedranno gonfaloni, striscioni pubblicitari o ben vestiti a piede libero venuti a far credere che si stanno impegnando per qualche causa comune.
I redattori del manifesto/volantino hanno riso in faccia a tecnologie informatiche, computer e programmi di ritocco. La scena politica fiorentina è andata avanti benissimo per decenni con pochi o punti di quegli arnesi, e non è da oggi che in molti pensano che certi affari -"reti sociali" prime tra tutti- siano più d'ingombro che d'aiuto, per una serie di motivi che ci guardiamo bene dall'infliggere al lettore.
I problemi del quartiere di cui si prospetta la disamina? Sicuramente tutt'altro che coincidenti con quelli sciorinati da qualche gazzetta piagniucolona e dalla politica rappresentativa, sia nella natura che nelle attribuzioni causali.

Se il 20 febbraio 2016 siete a Firenze e non siete extracomunitarie nordamericane dalla condotta scandalosa, considerate l'idea di dare un'occhiata.