Alla fine di febbraio del 2016 un collettivo universitario contesta coram populo Angelo Panebianco, docente presso la Scuola di Scienze Politiche dell'Università di Bologna.
Il "Corriere della Sera", che è un foglietto di antichissima tradizione interventista, aveva pubblicato un suo scrittarello in cui si caldeggiava l'aggressione militare di quanto resta della Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista, distrutta anni fa su iniziativa di un francese capace soltanto di congiacere con le attrici.
Sugli impudenti sciabbàtte l'uraghéno: piagnistei, cinguettii, librideiceffi, gazzette, televisioncine e via cianciando. Tocca scomodare Franco Berardi da chissà dove, per trovare qualche considerazione seria su un episodio in sé assolutamente insignificante ma capace di riempire giornalini per una settimana dal momento che i suoi protagonisti hanno osato togliere lo ius murmurandi dall'oziosità inutile del web e trasferirlo su un piano appena un po' più incisivo.
I latrati dell'autoreferenzialità professorale e gazzettiera, continui e molesti come quelli di qualsiasi bòtolo meritevole solo di essere preso a calci con gli anfibi, seguono copioni noti a tutti; a Firenze insiste persino una congrega che nel content providing per i foglietti è capace di insinuare in tutta serietà una correlazione tra il non pagare il biglietto in autobus e la propensione ad attività terroristiche, cosa che conferisce anche una buona misura della credibilità e della competenza di certi signori.
Si ricorderà che nel 2003 gli USA aggredirono l’Iraq col pretesto delle “armi di distruzione di massa”, calpestando allegramente l’evidenza e trattando come pezze da piedi le istituzioni internazionali.
Nel “paese” dove mangiano maccheroni il mainstream rafforzò la tendenza già in atto dal giorno in cui un dimesso ingegnere saudita aveva attuato uno spregiudicato intervento urbanistico su New York, e contestare (o, peggio, deridere) la politica aggressiva degli Stati Uniti, specie se fatto con cognizione di causa, divenne motivo di stigmatizzazione e di messa al bando.
Contro gli yankee poteva mettersi solo chi coltivava nostalgie inconfessabili: non era realisticamente possibile illustrare la demenzialità della loro politica senza essere marginalizzati.
Adesso è in preparazione un altro democracy export e i gazzettieri sanno bene come devono comportarsi.
Non che debbano sforzarsi gran che, visto che non hanno mai smesso.
Nel 2003 il fronte interventista contava un enorme numero di ben vestiti, di mezzibusti e di fannulloni di vario ordine. A fronte dei “successi” di quella impresa da mentecatti non ce n’è stato uno che non si dice abbia cambiato mestiere o abbia posto termine ai propri oziosi giorni, ma neppure abbia dimostrato un minimo di resipiscenza e di rammarico.
In quegli anni, la considerazione delle persone serie era del tipo “Non solo perderete la guerra, ma gli iracheni troveranno più gusto a sparare nelle vostre terga piuttosto che ai fagiani”. L’auspicio è che i libici, allo stesso modo, rendano la mercanzia difettosa all’esportatore, addebitandogli ovviamente anche le spese di trasporto.
Di séguito ci sono le considerazioni di Militant Blog sulla non-notizia, che riportiamo condividendole per intero.
Nello scritto ricorre il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo come sempre con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Negli ultimi 3 giorni il Corriere della Sera ha dedicato complessivamente ben cinque pagine alle contestazioni subite da Angelo Panebianco. Per avere un’idea delle proporzioni e dell’unità di misura con cui pesa le notizie il principale quotidiano italiano basti pensare che poche settimane prima la strage di 86 nigeriani a Dalori per mano di Boko Haram si era meritata niente di più che un trafiletto nascosto nelle pagine interne. Cosa sarà successo allora di così grave all’Università di Bologna da meritare tanto inchiostro? Forse uno dei reati più gravi in un Paese come il nostro: quello di “lesa maestà”. Come dimostrano le immagini circolate in rete Panebianco non ha subito alcuna “aggressione”, ma si è visto contestare, giustamente e legittimamente, le proprie opinioni guerrafondaie da un gruppo di studenti e compagni. E questo è inaccettabile, anzi, è pericolosissimo, perchè crea un precedente. Eppure la possibilità di dire pubblicamente la propria e contestare le idee di chi esercità il potere dovrebbe essere il sale di quella democrazia liberale che tanto sta a cuore proprio al professor Panebianco e a quelli come lui. Anche perchè ciò che gli viene contestato non è il suo ruolo di docente universitario (ed anche in questo caso sarebbe più che legittimo farlo), ma quello che scrive come opinionista politico dalle colonne del più influente organo di stampa italiano. Lo strumento che insieme ad altri contribuisce ad orientare l’opinione pubblica in merito ad una possibile guerra il Libia, quella si “violenta”. Quindi se c’è una libertà d’opinione da difendere è proprio quella degli studenti (per cui oggi vengono invece richiesti a gran voce provvedimenti disciplinari e penali) e non certo quella di un barone che oltre alle idee guerrafondaie ha dimostrato di conservare una concezione autoritaria e gerarchica dell’insegnamento. Con sprezzo del ridicolo, dopo aver rievocato il ’77, le intimidazioni, la violenza politica, ecc. ecc, ieri il Corriere titolava a tutta pagina che finalmente erano stati identificati gli autori del raid contro Panebianco. Verrebbe da rispondergli che i raid, quelli veri, sono proprio quelli che evocava Panebianco in Libia. Quelli in cui muoiono migliaia di persone per tutelare gli interessi dei padroni del giornale su cui Panebianco scrive. Ma tanto già sappiamo che sarebbe fiato sprecato.
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