mercoledì 30 settembre 2015

Dalle firme al fermo: storia di un firmatario e di un firmato.


Credo sia stato uno dei migliori exploit della mia vita, questo.
Accadde molti anni fa con un ragazzetto che affermava di "giudicare le persone dalle scarpe che portano" (citazione letterale) e che, ovviamente, indossava solo roba firmata. Un pomeriggio, mentre faceva una delle solite tiritere, e aveva addosso una bella camicina, un destino crudele (per lui) mi aveva messo in mano un bel pennarellone Carioca nero con il quale stavo scrivendo un tabellone. Il gesto mi venne spontaneo: gli feci una bella firma con tanto di paraffo sulla camicia. Dicendogli: "O, hai visto che camicia firmata tu ci hai, ora?..."

Riccardo Venturi, febbraio 2007.


Anni fa usammo questo aneddoto per esprimere alcune considerazioni su Boutique Pound e su un suo testimonial pistoiese.
A volte la realtà presenta risvolti curiosi: secondo quanto riferitoci di persona dal firmatario -in tutti i sensi- delle righe su riportate, colui che giudicava le persone dalle scarpe che portavano è stato arrestato il 30 settembre 2015 insieme ad un certo numero di commensali.
Cose che si ostinano incredibilmente a succedere anche ad esponenti del mondo elegante, nonostante l'intero apparato statale si sia adoperato non poco perché le sue "leggi" venissero applicate ai poveri e venissero interpretate per i ricchi.
Non è dato sapere che scarpe indossasse al momento dell'arresto, sicché nell'immagine ci sono quelle che presumibilmente indossavano i gendarmi che si sono occupati della questione.
Chissà che giudizio si sono meritati e se un buon uso del lucido e della spazzola, una inappuntabile allacciatura avranno sollecitato la clemenza di quello che possiamo a buon diritto indicare come il firmato.
Ora, visto che chi si trova in condizioni di detenzione difficilmente fa sfoggio di eleganza, questo signore può solo sperare che chi sarà chiamato a giudicarlo operi secondo parametri meno risibili dei suoi.

martedì 29 settembre 2015

Firenze: le pulitissime pensiline degli autobus urbani



Qualche anno fa un certo Filippo Bonaccorsi mandò a dire alle gazzette che attaccare manifestini sulle pensiline che contrassegnano molte fermate degli autobus urbani era roba da giustizia penale, e che nessuno si riazzardasse a manifestare "mancanza di senso civico e di rispetto per la cosa pubblica" ricordando anche solo di sfuggita i limiti, le storture e le ridicolaggini del capitalismo e dell'"occidente" su qualche volantino o con qualche scritta a pennarello.
Secondo le gazzette la gendarmeria trovò anche i mezzi e il tempo di "identificare gli autori delle scritte e dei vari manifestini affissi", da denunciare con comodo. Già questo basterebbe per schernire ancora una volta le ciance della spazzatura "occidentalista" sull'insihurézza e i'ddegràdo imperanti e sui fòffi (le FF.OO. dei comunicati governativi) figli di poveri in trincea contro orde di barbari screanzati misti a cavallette e zanzare tigre e cani mordaci che poi c'ènno anche i pedofili e l'estremismislàmiho.
Va soprattutto detto che la cianciata "cosa pubblica" di quel ben vestito del Bonaccorsi non è più pubblica da un pezzo e che le aziende devono produrre utili. La fornitura di servizi è una componente di troppo, fastidiosa e magari eliminabile.
In quella direzione c'è ancora da fare un po' di strada: intanto vediamo di eliminare anche da lì qualunque forma di dissenso non virtuale. Cosa devono vedere quelli che prendono l'autobus lo decidiamo noi, ovviamente non gratis.
La foto in alto ritrae un risultato qualunque di questo nuovo ed elegante corso: la sovversione che domina ad ogni livello i "valori occidentali" rende puramente accessorio il fatto che gli autobus urbani debbano trasportare persone da una parte all'altra di una città, e su come l'ATAF fa quello che dovrebbe essere il suo mestiere (magari loro la chiamano mission aziendale, per amor di chiarezza) c'è ogni giorno non poco da ridire.
In compenso le pensiline sono tenute come salotti: la committenza delle pubblicità legalissimamente affisse gode di attenzioni superiori a quelle dell'utenza e nessuno oserebbe contraddirne le aspettative. Il caso ritratto è interessante. La pubblicità raffigura quelli che paiono quattro bocciati a scuola travestiti da promotori finanziari, in posa da buttafuori di postribolo balcanico. Non conocendo la lingua non si avrebbe idea alcuna di cosa sia questo masterchef. Tocca andarselo a cercare e viene fuori che sarebbe una trasmissione televisiva in onda già da anni, in cui questi signori trafficano con tegami e forchettoni come casalinghe qualsiasi.
Per vederli si dovrebbe anche pagare.

sabato 26 settembre 2015

Se la NATO si intromette nel conflitto siriano



Traduzione da Conflicts Forum.

Lawrence Wilkerson è stato direttore del Dipartimento di Stato sotto Colin Powell. Nella sua presentazione in The travails of Empire parla di come gli USA si siano attivamente adoperati perché la situazione in Medio Oriente rimanesse invariata fin dai tempi dell'incontro di Roosevelt con re Abdul Aziz nel 1945, avvenuto su una nave da guerra nei Laghi Amari di Suez. Il primo caso pratico di applicazione di questa dottrina fu il rovesciamento del governo di Mossadeq in Iran, attuato assieme ai britannici. "All'epoca, il 40% della valuta forte di cui poteva disporre il Regno Unito veniva dal petrolio angloiraniano [che Mossadeq minacciava di nazionalizzare]. Fu insediato lo Shah, e la situazione rimase la stessa per i successivi ventisei anni", spiega Wilkerson.
Poi esclama: "Ma ecco che -bum!- gli iraniani si stancarono". Sicché, dopo il 1979, "abbiamo ristabilito la situazione mettendo gli arabi contro i persiani: Baghdad e Tehran divennero nemici irriducibili, e così abbiamo mantenuto l'equilibrio". Wilkinson racconta che così stavano le cose quando egli fece il suo ingresso sulla scena: il sentire predominante, all'epoca da lui condiviso, era che l'AmeriKKKa avrebbe dovuto lasciare che i due contendenti si ammazzassero tra loro. "Abbiamo fatto il doppio gioco [nella guerra tra Iran e Iraq]". Quando sembrò che l'Iran potesse vincere, l'AmeriKKKa decise di schierarsi con l'Iraq. In seguito, quando fummo costretti a spodestare Saddam Hussein, l'equilibrio che avevamo costruito "se ne andò a quel paese". Così, dice, "alla fine siamo giunti alla conclusione che [per gli USA] rimanere in Medio Oriente è pericoloso perché può contribuire ad unire molti elementi eterogenei in una sola opposizione contro di noi: per questo ce ne siamo tirati fuori".
Cosa c'entra tutto questo con la Siria? Lasciare che arabi e persiani dessero sfogo al loro odio viscerale armando gli uni contro gli altri fu una decisione che provocò disastri e caos, non certo un "equilibrio di poteri facile da gestire". A tutt'oggi, come spesso succede, la lezione della storia pare sia stata velocemente dimenticata e la solita idea di agevolare un "equilibrio" tra fazioni in lotta tra loro ed in ugual misura disprezzate dall'Occidente -Saddam contro Khomeini, per dire- è ancora difficile da sopire.
I leader europei di oggi, in Francia e nel Regno Unito in modo particolare, considerano parimenti cattivi il Presidente Assad e le sue bombe artigianali ed uno Stato Islamico con la propensione all'assassinio facendo pensare che nessuno dei due debba prevalere. Più o meno lo stesso spirito che dominava a Washington ai tempi del conflitto tra Iran ed Iraq: secondo Wilkerson era un po' una cosa del tipo che quando l'ultimo iracheno e l'ultimo iraniano si sarebbero trovati faccia a faccia "noi statunitensi gli avremmo dato due pistole da duello".
Ad essere sinceri Wilkerson oggi deplora il fatto di aver in passato assunto questo atteggiamento, ed in alcune interviste successive ne dà la colpa all'essersi lasciato andare all'atteggiamento occidentale improntato all'orientalismo. In ogni caso esiste nella politica europea un nuovo orientalismo a tutt'oggi presente ed in crescita, rafforzato ogni giorno dal massiccio afflusso di rifugiati che raggiunge l'Europa. In ogni caso esistono anche altre correnti di pensiero che invitano a riconsiderare il tutto, e sembra possibile che siano destinate a prevalere: si consideri il recente cambiamento di rotta dell'Unione Europea, che ha accettato che il Presidente Assad rimanga in carica nel corso di un'ipotetica "transizione".
Crispin Blunt presiede la commissione di lavoro sugli affari esteri nel parlamento britannico; è tra quelli che specificano come "nessuna presa di posizione nei confronti dello Stato Islamico può dirsi compiuta senza una coerente politica nei confronti del governo di Damasco, e di un accordo in Siria". Secondo Blunt "prima di partire con iniziative diplomatiche multilaterali il parlamento britannico ed il governo devono trovare il coraggio di discutere apertamente del futuro di Bashar al Assad. Pretenderne la cacciata senza alcun riguardo per la complessità della situazione non è il miglior modo di mandare avanti la politica estera. E' ora di ammettere che tra le nostre priorità e tra i nostri valori c'è la tutela delle condizioni di sicurezza per gli esseri umani cui si deve giungere con una soluzione politica che metta fine alle violenze, anche se questo può portare, sul piano morale, a dilemmi difficili da risolvere".
Nonostante tutto questo pare che la politica europea si stia muovendo con pochissima decisione, forse ancor più degli Stati Uniti, su quella Siria che è la più essenziale delle questioni geostrategiche. Dal punto di vista emotivo la politica europea si trova sotto il fuoco incrociato delle immagini dei profughi in ingresso da una parte e di quelle delle umane sofferenze dall'altra; i politici europei non hanno risposte per la crisi dei profughi e la politica brancola nell'incertezza, presa in mezzo tra le immagini dei profughi e quelle degli orrori e del carnaio in atto in Siria ed in Iraq.
Per rimanere sul concreto, è sufficiente paragonare le parole di Blunt con il discorso pronunciato da Cameron in parlamento il 2 settembre scorso: "Assad deve lasciare, lo Stato Islamico deve sparire, e in una certa misura questo richiedera non solo denaro, aiuti e diplomazia, ma all'occorrenza anche un duro impiego della forza militare". Questo ha detto il Primo Ministro. E' chiaro che le parole di Cameron non fanno riferimento ad una strategia coerente, ma forse l'Europa ha almeno cominciato a muoversi invece di rimanere impantanata, come gli USA ai tempi della guerra tra Iran e Iraq, in una fallimentare politica che puntava ad arginare entrambi i contendenti. Sicuramente, l'afflusso di profughi in Europa ha a suo modo contribuito, e forse questo era nelle intenzioni dei suoi promotori: ma questo contributo andrà a migliorare le cose o a peggiorarle?
Certi funzionari in Turchia starebbero facilitando l'uscita dei profughi siriani dai campi nella Turchia meridionale, nella speranza che in Europa si finisca per propendere per la cacciata del Presidente Assad come insinuato da Cameron: ad agosto il fenomeno ha avuto un picco senza precedenti ed altrimenti inspiegabile se non fosse per il fatto che la fine di Assad è il loro obiettivo fin da quando è cominciato il conflitto. Tuttavia, pare che in linea di massima si stia andando in tutt'altra direzione, dando ragione ai realisti che pensano che il governo siriano sia un alleato necessario in qualsiasi guerra contro lo jihadismo militante.
Il Regno Unito e la Francia stanno pensando ad attacchi aerei "contro lo Stato Islamico" dall'Iraq (dal sud del paese, più che dal nord) che di fatto trasformeranno la maggior parte della Siria in una no-fly zone. Anche questo ad Erdogan potrà far piacere, ma sicuramente non ne farà al Presidente Putin.
La scorsa settimana abbiamo accennato a quanto già successo in Libia, dove una no-fly zone stabilita dalla NATO in base ad una risoluzione dell'ONU venne utilizzata in modo distorto -secondo il punto di vista dei russi- perché facesse da sostegno agli insorti anti Gheddafi e per fornir loro appoggio aereo per mesi e mesi, finché la Libia non ne è uscita in pezzi.
Fin dall'inizio del conflitto in Siria i russi hanno detto che non avrebbero tollerato una riedizione del precedente libico. A partire dal 2013 i funzionari russi hanno rilasciato molte dichiarazioni in cui avanzavano obiezioni formali nei confronti di qualsiasi no-fly zone in Siria. Alcune dichiarazioni del Presidente Putin, redatte in termini perentori, non hanno lasciato dubbi sul fatto che i russi fossero propensi ad opporsi attivamente ad un simile sviluppo. Di qui la decisione dei russi di intervenire in Siria con una limitata presenza militare, per impedire agli occidentali di mettere in Siria un piede nella porta da usare per fornire appoggio ravvicinato alle proprie fazioni di riferimento, e che avrebbe finito per provocare il crollo dello stato siriano.  
Da ex funzionario dei servizi militari statunitensi, Pat Lang afferma:
Le mie fonti mi dicono che le schermaglie intrinseche all'amministrazione Obama sono alla base di quella che a mio parere è una decisione scriteriata, vale a dire opporsi all'intervento militare russo nella guerra civile in atto in Siria.
I dilettanti all'opera alla Casa Bianca, al National Security Council e al Dipartimento di Stato continuano a non capire che la colliquazione dello stato siriano porterà inevitabilmente alla creazione di un organismo statale dominato dagli jihadisti, là dove oggi c'è la Siria. Non è chiaro se questo stato sarà controllato da an Nusra o dallo Stato Islamico, ma è chiaro che in un caso o nell'altro si determinerà una situazione infetta, che sarà l'inizio della fine per qualunque governo moderato in Medio Oriente. Il trionfo dello jihadismo salafita sarebbe un esempio capace di agire come una potente leva sul capitale umano disponibile per il reclutamento e per la sovversione, e a mio parere nessun governo sarebbe in grado di opporsi ad un fenomeno del genere.
Per prevenire tutto questo i russi sembra abbiano intenzione di rafforzare il governo siriano: gli Stati Uniti stanno facendo tutto quello che possono per metter loro i bastoni tra le ruote. Gli USA hanno fatto pressione su vari governi per indurli a negare i permessi di sorvolo agli aerei cargo russi diretti in Siria. Hanno anche cercato il modo di far sì che le navi russe si vedessero negato il passaggio dal Bosforo e dai Dardanelli. Cosa diavolo stiamo pensando di fare?
Secondo noi di Conflicts Forum questo indica che sta tornando fuori l'altra vecchia storia dell'equilibrio dei poteri: col crescere della presenza aerea di Regno Unito, Francia, Turchia e Stati Uniti il contesto somiglierà sempre di più a quello della NATO in Libia. Il Presidente degli Stati Uniti sta fiaccamente collaborando in qualche misura con i russi, ma quest'altro circuito dell'equilibrio dei poteri, sempre al suo posto dai tempi della guerra fredda, sta ricevendo scariche elettriche: la NATO contro Putin. Ogni mossa russa, come nei riflessi pavloviani, deve suscitare una reazione con buona pace delle volte che si è fin lì seriamente posta attenzione agli interessi geostrategici dell'Occidente.
Il fatto che la cosa sia in mano alla NATO e non segua invece una fredda definizione di come stanno le cose sul terreno in Medio Oriente risulta chiaro da quello che succede in Bulgaria. Nello stesso momento in cui il governo bulgaro sta cercando di convincere la Russia che si può anche rivedere tutta la questione del gasdotto South Stream, arriva la NATO a fare pressioni perché ai russi siano negati i sorvoli, costringendo i bulgari a rimetterci. Lo stesso vale per la Grecia e per l'Ucraina.
Il pericolo di una stolta intromissione della NATO nel conflitto siriano è appunto questo, il mettere Russia e Stati Uniti semplicemente uno contro l'altro, invece che considerarli come stati che hanno anche vari motivi di attrito, ma che sono d'accordo sul fatto che si debba trovare una soluzione al conflitto. A trarre beneficio da un risultato del genere saranno solo gli jihadisti, o comunque gente di quel genere.

Post scriptum. Nel caso qualcuno pensi che an Nusra potrebbe dopotutto rappresentare l'alternativa più accettabile, chissà che questo resoconto dello statunitense Institute for the Study of War non possa chiarirgli le idee.
An Nusra [Al Qaeda] si comporta in modo più sottile ed insidioso dello Stato Islamico, ed è più difficile da arginare o da sconfiggere. Lo Stato Islamico intende stabilire un controllo diretto, aperto e gerarchico; an Nusra invece mantiene una forza militare di élite in grado di conquistare alleati tra le opposizioni armate, e di garantire per strutture governative tagliate a misura per i contesti locali in aree del paese prive di governo. An Nusra ha tratto vantaggi dalla mancanza di un efficace intervento occidentale in Siria, e ne ha tratti ancora di più dalla radicalizzazione dell'opposizione siriana dopo il settembre del 2013, quando la decisione degli USA di non intervenire in Siria demoralizzò vasti settori dell'opposizione. An Nusra può contare su un afflusso di combattenti stranieri e contribuisce ai contingenti dell'opposizione con la competenza che le sue forze speciali hanno nella guerra asimmetrica, assicurando consistenti vittorie alle campagne dei ribelli per mezzo del proprio contributo allo sforzo militare inteso nel suo senso più ampio... [questo] ha fatto crescere l'importanza relativa del contributo di an Nusra al conflitto: con la sua campagna militare an Nusra ha acquisito un notevole ascendente sugli altri gruppi ribelli. Alla fine del 2014 l'ascesa dello Stato Islamico ha provocato un mutamento nell'ambiente in cui si combatte ed ha costretto an Nusra a notevoli cambiamenti del proprio schieramento nel paese. E' possibile che col tempo questi cambiamenti facciano sentire le loro conseguenze sulla rete di ribelli dell'organizzazione. Comunque, l'essere riuscita ad estendere la propria influenza sulle formazioni ribelli ha impedito ad an Nusra di perdere il sostegno popolare nel breve termine, nonostante il suo atteggiamento sempre più aggressivo. Non è dunque probabile che la posizione di an Nusra tra le formazioni ribelli potrà indebolirsi senza ulteriori pressioni esterne.

venerdì 25 settembre 2015

Medio Oriente. Una interpretazione dei mutamenti strategici in atto.



Traduzione da
Conflicts Forum.

Sembra proprio, fatti salvi i margini di incertezza che sono una costante del mondo di oggi, che il Presidente Obama abbia accolto le suppliche dei senatori democratici e abbia promesso il veto per ogni risoluzione negativa che possa venire dal Congresso: senza dubbio le schermaglie legislative destinate ad intralciare le questioni iraniane andranno avanti, vigorosamente sostenute da quanti si oppongono all'accordo sul nucleare raggiunto dai "cinque più uno" e dai loro amici nello stato sionista; dal canto suo l'Arabia Saudita continuerà a lamentare ancora più forte il terrorismo iraniano per caldeggiare nuove ondate di sanzioni. Ma in buona sostanza, cosa comporta l'accordo raggiunto con l'Iran?
In due parole, esso implica un mutamento epocale. Il panorama mediorientale ne uscirà completamente cambiato. L'accordo apre la strada ad interpretazioni della politica e degli eventi del tutto diverse, fino ad oggi tenute fuori dal mainstream mediatico e faciliterà cambiamenti nel sentire politico in un significativo numero di stati sovrani. Cambiamenti attesi molto a lungo.
In parecchi dei suddetti stati potrebbe finalmente togliere di mezzo le vecchie tiritere della politica estera da guerra fredda, occidentali e neoconservatrici, secondo cui in diplomazia non si deve mai concedere nulla all'avversario ma anzi si deve darci dentro con ogni genere di angheria economica e militare fino a quando l'avversario non schianta o non viene rimpiazzato (o rimpiazzata) da un "uomo del Bilderberg".
Per qualcosa come trentacinque anni dal 1979 in poi i paesi mediorientali che godono di credito in Occidente -lo stato sionista e i paesi del Golfo- hanno insistito perché si tagliasse la testa alla vipera iraniana, per dirla con le parole dell'ultimo re saudita, o perché si bombardasse il paese, come pretenderebbe lo stato sionista fin dai tempi della sconfitta elettorale dei laburisti nel 1996. E se proprio non si poteva, che almeno lo si ingabbiasse, lo si isolasse totalmente dal resto dal mondo e lo si riducesse ad un paria. L'Occidente si è mostrato contento di far propria questa istanza, dopo il colossale imbarazzo del Presidente Carter per la vicenda degli ostaggi all'ambasciata statunitense di Tehran. Solo che si è trattato di una linea politica molto costosa da seguire.
Ovviamente, l'Iran non si è fatto mettere in gabbia senza recalcitrare e specialmente dopo esser stato incasellato nell'"asse del male" da Bush ha messo in piedi un bell'ensemble di insofferenti alla subordinazione. Per tutto questo tempo, lo scontro fra due dinamiche opposte non ha fatto che inasprirsi. Da una parte il Golfo, sempre più timoroso nei confronti del "fronte della resistenza" e sempre più propenso ad invocare misure di isolamento sempre più drastiche. Dall'altra un Iran sempre più ostinato nei tentativi di trovare vie di fuga tra una sbarra e l'altra e di uscire dall'angolo. Il tentativo di stabilire una dinamica in cui il potere stava da una parte sola, dove per gli uni c'erano solo costrizioni e umiliazione e per gli altri c'era il riconoscimento pieno dello status di alleati e il diritto di stabilire come stavano le cose, ha fatto germogliare conflitti di resistenza e di reazione in tutto il Medio Oriente.
Una delle principali conseguenze di tutto questo è stato che la regione ha inziato ad essere vista e dunque interpretata in Occidente secondo l'ottica dei paesi del Golfo e di quella dello stato sionista, sempre più coincidenti. L'Occidente ha scatenato delle guerre che hanno rispecchiato vecchie ruggini regionali o colpito gli orticelli personali come quello di Gheddafi, più che servire ad un'autentica definizione degli interessi occidentali.
Ed ora, ecco che l'Iran ha il suo momento. Non è chiaro se gli Stati Uniti continueranno a cercare di circoscriverne l'influenza in qualche altro modo anche dopo la ratifica dell'accordo: oggi come oggi per tutto il resto del mondo l'Iran è alla ribalta. Il suo status di potenza regionale rappresentava già un dato di fatto, e adesso è da tutti riconosciuto. La cosa, sicuramente, cambierà il bilancio dei poteri in Medio Oriente a detrimento dei paesi del Golfo e dello stato sionista. Per la prima volta dopo decine di anni un certo modo di intendere il Medio Oriente perderà il proprio diritto al sostegno garantito e troveranno posto anche altre concezioni, altre versioni sugli eventi regionali. Dopo molto tempo ricominceremo a vedere che ogni evento ha un aspetto molteplice.
Ad essere ancora più significativo è il fatto che il riconoscimento dello status di potenza regionale per la Repubblica Islamica dell'Iran avviene in un momento in cui il mondo sunnita è in crisi; una crisi che non è stata creata dall'Iran in quanto tale ma dal lungo crollo del "sistema arabo", e della parallela crisi intrinseca al mondo sunnita. A prescindere dalle circostanze, l'accordo raggiunto con l'Iran rappresenta il trionfo del Presidente Obama sull'approccio distruttivo alla diplomazia che caratatterizza i neoconservatori e i neoliberisti; per questo la cosa ha un'importanza simbolica di per sé. L'Occidente è dovuto venire a patti con uno stato sovrano che si oppone nettamente al preteso "eccezionalismo" degli Stati Uniti ed alle loro pretese di egemonia regionale secondo la dottrina Carter. Ovviamente questo non significa essere antioccidentali tout court.
Al centro dei timori dei paesi del Golfo e dello stato sionista c'è proprio questo. Per tutti questi anni i paesi del Golfo hanno potuto delegare la propria politica estera, appoggiandosi pesantemente agli USA e all'Europa, sicuri di aver diritto a canali privilegiati in quante parte del campo occidentale. Oggi però l'accordo con l'Iran ha permesso l'effettivo rafforzarsi di un altro ethos politico: i paesi non occidentali hanno il diritto di essere non occidentali, nelle varie accezioni che il concetto può assumere. Iran, Russia e Cina si adoperano tutti in quest'ottica, sia pure secondo modalità molto differenti. Può sembrare che l'idea di appartenere ad una non meglio definita "sfera non occidentale" abbia in sé qualcosa di astratto, ma possiamo considerarla meno significativa dell'insistere sulla propria "europeicità" da parte di un'Europa in cui ci sono divergenze tanto profonde?  
Per più versi, che coloro che appartengono al "non occidente" abbiano il diritto di essere "non occidentali" ciascuno a suo modo è un concetto che potrebbe rivelarsi dotato di maggiore concretezza di quanta non ne abbia il costrutto di "europeicità" degli stati europei. Oggi, il fatto di essere "non occidentali" all'ombra di una supremazia rusa e cinese viene associato in misura sempre maggiore al proteggersi dall'egemonia direttiva sulla finanza e sul commercio mondiali esercitati dalla potenza degli Stati Uniti -più che dalla loro egemonia militare- oltre che dalla stretta ideologica rappresentata dall'approvazione di Washington. Si tratta, in altre parole, di una riappropriazione di sovranità economica, dell'abbandono dei legami imposti dalla finanza mondiale (le cosiddette treasury wars) in favore di una sfera commerciale sicura, libera dalla minaccia di sanzioni e dell'esclusione da tutti i meccanismi della finanza.
L'espressione "non occidentale" può anche sembrare piuttosto astratta, ma le intenzioni dei "non occidentali" sono concrete e sono costituite da una praticissima scaletta di interessi in comune: i paesi "non occidentali" intendono realizzare un sistema commerciale e finanziario parallelo fuori dalla portata delle pretese di giurisdizione degli Stati Uniti, che al momento attuale riguardano più di seimila istituzioni finanziarie e bancarie.
In questo momento, e paradossalmente, l'Unione Europea sta andando nella direzione opposta, centrando il proprio sistema finanziario su un sistema che subordina la direzione dell'economia globale al benestare di Washington.
E qui iniziano i problemi. Di fatto Obama, negoziando con uno stato che si oppone senza mezzi termini ad ogni tipo di egemonia statunitense, ha fatto passare il concetto che la vecchia dottrina per il Medio Oriente formulata da Lord Curzon e poi inglobata nella dottrina Carter[*] sia ampiamente giunta a scadenza. Inoltre, così com'è è una dottrina che non si addice più ai fini economici e militari degli Stati Uniti in un mondo ormai cambiato. Il presidente degli USA lo ha capito ed è stato chiaro: con l'Iran o si va al negoziato o si va alla guerra, e la guerra non la vuole nessuno ad eccezione di Netanyahu. Tenergli il fiato sul collo non è servito a nulla.
Tutto questo lascia chiunque abbia passato decine e decine di anni ad abbuffarsi alla più importante greppia occidentale in una situazione in cui dominano ansia e senso di precarietà. Questo cambiamento di rotta nella diplomazia statunitense potrebbe rivelarsi di per sé significativo come quello operato dopo il secondo conflitto mondiale dalla Gran Bretagna, che decise di abbandonare le vecchie élite indiane. Bruce Reidel centra la questione quando scrive che oggi come oggi non c'è comunanza di interessi tra USA ed Arabia Saudita, e che i due paesi stanno prendendo ciascuno la sua strada. Certo, a Washington non metterebbero mai la cosa in questi termini, anzi direbbero il contrario: per le vecchie colonie garanzie di sicurezza e buoni del tesoro di qui all'eternità, come fece Mountbatten in un'altra epoca in cui a cambiare erano gli interessi ed anche le capacità del Regno Unito.
All'indomani di una visita ufficiale di re Salman negli USA Tom Friedman -che è noto per i suoi ottimi rapporti con la Casa Bianca- si è prodotto nell'epitaffio della vecchia amicizia, e non è certo possibile che si tratti di una coincidenza. Friedman ha scritto sul NY Times quello che la diplomazia non ha permesso ad Obama di dire in faccia al re saudita:
"Se pensate che l'Iran sia l'unica fonte di problemi in Medio Oriente, si vede che l'undici settembre dormivate: quindici dei diciannove dirottatori venivano dall'Arabia Saudita. Nulla ha fatto più male alla stabilità e alla modernizzazione del mondo arabo e del mondo islamico in generale delle carrettate di miliardi di dollari che i sauditi hanno investito dagli anni Settanta in poi per spazzar via il pluralismo dall'Islam -i sufi, i sunniti moderati, le diverse tendenze dell'islam sciita- per imporre al suo posto l'islam salafita e wahabita puritano, antimoderno, antifemminile ed antioccidentale promosso dall'establishment religioso del loro paese.
Non è certo un caso che migliaia di sauditi si siano uniti allo Stato Islamico, o che le organizzazioni caritatevoli dei paesi del Golfo gli abbiano elargito donazioni. Tutti gli jihadisti di ispirazione sunnita -lo Stato Islamico, Al Qaeda, il Fronte an Nusra- sono i frutti ideologici dello wahabismo inoculato dall'Arabia Saudita nelle moschee, dal Marocco al Pakistan fino all'Indonesia.
Noi, in USA, non abbiamo mai chiamato l'Arabia Saudita a rendere conto di tutto questo. Noi siamo dipendenti dal loro petrolio, e un tossicodipendente non dice mai la verità al suo spacciatore".
In questo mutamento di prospettiva il problema è che dopo il raggiungimento di un accordo da parte dei "cinque più uno" quanti pensano che Iran, Russia e Cina dovrebbero mostrarsi più condiscendenti e più accomodanti nei confronti di quella che l'Arabia Saudita considera una soluzione alla questione siriana potrebbero rimanere delusi. Per l'Iran, la Russia e la Cina la sconfitta dello jihadismo radicale armato è questione di primario interesse nazionale, e la Siria in questa guerra rappresenta la trincea di prima linea. La Guida Suprema e il ministro degli esteri Lavrov hanno di recente rilasciato una dichiarazione che fa pensare ad un rafforzarsi dell'appoggio fornito allo stato siriano nella guerra contro lo jihadismo, e non certo il contrario. In altre parole, invece che mostrarsi accomodanti, i "non occidentali" sembra si sentano più forti. Ancora una volta, questo non significa affermare che siano antioccidentali per partito preso: i "non occidentali", semplicemente, sono in disaccordo con l'Occidente su questioni fondamentali che riguardano i loro interessi.
Pat Lang è stato un funzionario civile di alto livello nei servizi segreti dell'esercito statunitense e facendo riferimento alle proprie fonti a Washington afferma a proposito dei resoconti mediatici sull'arrivo di una componente aerea russa in Siria che "il governo statunitense crede che la Russia abbia deciso di alzare il livello del proprio intervento nella guerra civile siriana, e dei connessi rischi. I motivi e la consistenza di questo accresciuto coinvolgimento non sono ancora chiari". Lang suppone che "abbiamo motivo di credere [questo, secondo le fonti cui Lang ha accesso] che i russi piazzeranno unità aeree in Siria [esistono resoconti credibili sulla consegna all'aeronautica militare siriana di sei Mig 31 ordinati nel 2007] per fornire supporto aereo ravvicinato all'esercito siriano. I russi costruiranno un'altra base navale sulla costa siriana nella zona di Latakia... Questa base potrebbe avere molte funzioni utili, ma è ovvio che ad una maggiore presenza russia corrisponde il bisogno di vie di approvvigionamento più ampie in grado di accogliere le merci trasportate via mare. Per una presenza corposa, l'aviotrasporto non è mai sufficiente". Inoltre, Lang scrive:
"Diventa sempre più chiaro che la sola presenza di missili da difesa Patriot controllati da personale della NATO nella provincia turca dello Hatay si è rivelata un fattore significativo per permettere ad an Nusra (Al Qaeda) di impadronirsi della provincia siriana di Idlib e della zona della provincia di Aleppo posta a nord del capoluogo. Facile capire come sono andate le cose. I radar delle batterie di Patriot hanno una portata che va ben al di là della frontiera tra Turchia e Siria. Gli aerei militari siriani che entrano in questo spazio aereo vengono rilevati da questi radar. Per ogni pilota militare essere individuato da un radar che acquisisce bersagli per conto di una batteria antiaerea è qualcosa di profondamente scoraggiante. Quindi, l'aviazione siriana non ha avuto un ruolo rilevante nel cercare di fermare l'avanzata jihadista nella zona [il nord della Siria e Kobane]. E questo è proprio quello cui Erdogan stava pensando quando ha chiesto che la difesa aerea della NATO si schierasse alla frontiera turca" [Si noti che lo schieramento dei missili è iniziato nel gennaio del 2013].
Noi di Conflict Forum prendiamo atto del fatto che i missili Patriot, a seguito di un accordo tra russi e statunitensi, verranno ritirati dalla Turchia meridionale e ridispiegati in Lituania. Sembra anche che il discusso accordo del generale Allen sulla zona a divieto di sorvolo verrà riconsiderato, alla luce di una cooperazione russo-statunitense. L'invio dei Mig 31, che sono degli intercettori sofisticati e non aerei per il supporto ravvicinato, punta chiaramente a respingere il tentativo della Turchia di instaurare una no-fly zone di fatto lungo il confine nord della Siria. Si afferma anche, e sono affermazioni credibili, che la Russia stia fornendo alla Siria immagini satellitari. Anche questo rappresenta un rovesciamento della situazione: erano i ribelli siriani a ricevere dalla NATO immagini in tempo reale, in un flusso che adesso si è interrotto e che passava presumibilmente dalla Turchia, mentre le forze regolari nulla ricevevano dalla Russia.
Come scrive Patrick Bahzard, "Fin dall'inizio della guerra civile in Siria i russi hanno detto con chiarezza che non avrebbero tollerato che si ripetesse quanto successo in Libia. Già nel 2013 funzionari russi avevano rilasciato molte dichiarazioni in cui si dicevano formalmente contrari all'instaurazione di una zona a divieto di sorvolo. Alcune dichiarazioni in cui il Presidente Putin si esprimeva in proposito senza mezzi termini avevano tolto ogni dubbio circa l'intenzione dei russi di opporsi attivamente a qualsiasi sviluppo in quella direzione".
Qui a Conflicts Forum non pensiamo che la Russia intenda intervenire massicciamente in Siria perché questo incrinerebbe gli accordi con Washington. Pensiamo che non sarà in ogni caso necessario. L'arrivo dei Mig 31, di nuovi armamenti, di apparati per la visione aerea notturna, di personale russo per il supporto a terra e la fornitura di immagini satellitari dovrebbero essere sufficienti a rovesciare le sorti della guerra. Con questo non si intende dire che Turchia ed Arabia Saudita non cercheranno di lanciare un'altra ondata di jihadisti in Siria attraverso la frontiera settentrionale, stavolta composta per lo più di combattenti turkmeni.  
I profondi mutamenti strategici in corso nella regione all'indomani dell'accordo con l'Iran hanno implicazioni portentose. Per l'Arabia Saudita le cose sono chiarissime: il corsivo di Tom Friedman descrive l'aria che tira. La Russia, in coordinamento con gli USA pur con tutti gli evidenti limiti che un coordinamento ha in simili casi, manderà all'aria ogni calcolo fatto sul conflitto in Siria. La guerra dei sauditi nello Yemen sta diventando una palude, proprio come le loro iniziative in Libia. Dal punto di vista politico e dal punto di vista economico il regno ha fatto il passo più lungo della gamba, e sta mostrando vulnerabilità significative.
La frase con cui Tom Friedman chiude il suo articolo, "Noi, in USA, non abbiamo mai chiamato l'Arabia Saudita a rendere conto di tutto questo. Noi siamo dipendenti dal loro petrolio, e un tossicodipendente non dice mai la verità al suo spacciatore" non corrisponde più alla verità. E' la produzione di greggio saudita che danneggia oggi l'industria statunitense del fracking. Paradossalmente, l'acclamatissima e crescente autosufficienza energetica degli Stati Uniti potrebbe respirare, se la produzione saudita per un motivo o per l'altro non raggiungesse i mercati. Il grande, autentico cambiamento è questo. 
 

[*] "[Ci serve una] facciata araba, governata e amministrata sotto guida britannica, controllata da maomettani del posto e nella misura del possibile da personale arabo... Il territorio conquistato non dovrebbe essere oggetto di una vera e propria annessione da parte del conquistatore; il suo assorbimento può essere coperto da artifici costituzionali e prendere la forma di un protettorato, di una sfera di influenza, di uno stato cuscinetto e così via".

lunedì 21 settembre 2015

L'Arabia Saudita e l'effetto domino



Traduzione da Conflicts Forum.

Che il calo del prezzo del greggio rappresenti una brutta batosta per l'economia dell'Arabia Saudita è scontato. Solo che il petrolio non rappresenta un cespite come un altro: nel sistema finanziario mondiale il petrolio è qualcosa di unico nel suo genere e questo significa che un crollo del suo prezzo ha oggi ed avrà un domani conseguenze molto più ampie di un mero taglio alle entrate dei sauditi. Detto altrimenti, le minori entrate dovute al calo del prezzo sono solo un aspetto della questione, e forse un aspetto che non è quello che più impatta sulle sorti del regno. Esistono fattori globali, legati al ruolo strutturale che il petrolio ha nel sistema globale, che sono altrettanto importanti delle entrate pure e semplici, e che possono diventarlo anche di più.
Uno di questi fattori globali è rappresentato dal fatto che il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime in genere sta rendendo sempre più insostenibili i tassi di cambio ancorato di vari paesi, Emirati Arabi ed Arabia compresi. Questo indebolimento sta causando una fuga di capitali, al crollo del mercato azionario e al conseguente depauperamento delle riserve valutarie, messo in atto per proteggere il valore della moneta. La mera diminuzione delle entrate dovuta al ribasso del greggio ne esce amplificata ed inasprita.
Il crollo del prezzo del petrolio ha anche innescato un circolo vizioso negativo: la caduta del mercato azionario, così come quella del greggio e delle materie prime hanno contribuito di per sé a indebolire la fiducia in altri settori, dalla solidità delle imprese a quella dei titoli di stato. L'ultimo crollo azionario alla borsa di Shanghai ha vaporizzato qualcosa come cinquemila miliardi di dollari, che sono il doppio di tutti gli scambi delle borse brasiliana, indiana, russa e sudafricana. Anche le borse mediorientali hanno sofferto di questa perdita di fiducia. Secondo Citi Bank il PIL dell'Arabia Saudita crollerà quest'anno del 22%, cosa che imporrà quasi di sicuro una politica di privatizzazioni e di taglio delle spese. L'aspetto globale del problema, in questo caso, è che quando crolla il prezzo di un cespite importante come il greggio si ricorre alla vendita di qualcos'altro per colmare l'ammanco o per contrastare la fuga dei capitali. Questo, in un momento in cui il sistema finanziario presenta bolle enfiate e pronte ad esplodere può causare un crollo della fiducia caratterizzato da un effetto domino. L'Arabia Saudita ed altri paesi mediorientali come l'Egitto saranno particolarmente epsosti a qualunque crollo di fiducia di dimensioni appena più ampie che si verifichi nel sistema finanziario globale. Questo ha implicazioni geopolitiche profonde: paesi che devono la loro sopravvivenza ad un generoso apparato di assistenza sociale e ad un altrettanto pervasiva repressione potrebbero non sopravvivere alle conseguenze.
Gli ultimi trent'anni hanno visto il ricorso ad una politica di stimolo monetario su una scala senza precedenti, che ha avuto lo scopo essenziale di mantenere alto il valore dei titoli. Il problema è che il valore di certi settori fondamentali del pantheon dei titoli è crollato, ed in qualche caso continua a crollare a tutt'oggi. Per qualsiasi economia che goda di una fiducia praticamente per intero basata sull'alto valore dei titoli -il che comprende tutte le economie basate su politiche monetarie poco rigide- scossoni di questo genere che riguardino il prezzo di pur pochi cespiti di alto valore finiscono per trasformarsi in interrogativi sul valore di qualunque altro cespite che può essere necessario liquidare per coprire le perdite nei settori strategici: il prezzo del petrolio e delle materie prime è precipitato. Non tutti riescono a comprendere il valore strutturale che il greggio ha all'interno del sistema finanziario; al contrario, domina una corrente di pensiero che è arrivata alla conclusione che il petrolio che crolla vuol dire più soldi in tasca ai consumatori dal momento che la benzina costa meno, e questo ne fa un qualche cosa di positivo. Stesso discorso per le materie prime. La massiccia immissione borsistica saudita, fatta per colmare le perdite, ha invece eroso ancor di più la fiducia nell'economia saudita nel suo complesso.
Per decine e decine di anni i produttori di energia hanno reinvestito i loro un tempo consistenti surplus in valori quotati in dollari. Questo creava liquidità nei mercati occidentali e rafforzava il valore dei titoli denominati in quella valuta. La cosa aiutava soprattutto a tenere alto il valore del dollaro rispetto alle altre valute; tutte cose cose positive secondo Washington, perché permettevano al dollaro di mantenere la propria condizione di valuta egemonica e di valuta di riserva.Dal punto di vista di chi si mette nella prospettiva dei mercati borsistici occidentali il prezzo del petrolio e delle materie prime, crescendo e rimanendo alto, aveva creato un circolo virtuoso di crescente liquidità e di crescente domanda di dollari e di valori mobiliari in dollari.
Certo, finché sale è un circolo virtuoso. Quando scende, invece, vale a dire quando interi gruppi di quotazioni vanno in caduta libera. Il crollo del prezzo di un cespite strategico si ripercuote sugli altri, che cadono come tessere del domino. In Arabia Saudita, come scrive il noto commentatore su Twitter Mutjtahid, il crollo è già in corso:
La ragione [del vistoso crollo della borsa saudita] è che il fondo pensioni [statale] e quello degli investimenti pubblici hanno ceduto alcuni dei loro pacchetti più corposi su ordine di Mohammed bin Salman. C'era da fare cassa. I due fondi sono i maggiori investitori presenti sul mercato saudita e Mohammed bin Salman, il figlio del re, ha ordinato le vendite in quanto presidente del consiglio per l'economia e lo sviluppo. Il governo si è assicurato del denaro liquido in questo modo invece che con l'emissione di buoni del tesoro, che si pensava potessero nuocere alla solidità finanziaria dello stato. Il prossimo passo prevede la vendita delle quote che lo stato possiede nella SABIC, la principale industria chimica saudita, nell'elettricità e nelle telecomunicazioni, perché non esistono più riserve di liquido (Mujtahid, 22 agosto 2015).
I sauditi possono anche evitare di vendere beni quotati in dollari perché a suo tempo ci si è intesi col governo statunitense sul fatto che vendite del genere non sarebbero state intraprese senza il suo assenso. Tuttavia questo non riguarda né i produttori di energia né quelli di materie prime. La Cina è un grande consumatore di energia più che un grande produttore, ma la caduta nel prezzo del petrolio l'ha indirettamente costretta a mettere sul mercato, in due settimane, l'equivalente di centosei miliardi di dollari per sostenere il valore dello yuan.
Un effetto secondario ma sostanziale del crollo del prezzo del petrolio è stato anche l'indebolimento nei confronti del dollaro di tutte le valute dei mercati emergenti. Storicamente, il dollaro e il prezzo del greggio sono in relazione inversa. Questo aveva laciato lo yuan, il cui valore non era cambiato, in una condizione di sopravvalutazione rispetto al dollaro che secondo certe valutazioni arrivava al 20% mentre le altre valute si indebolivano. Certo, per decenni e praticamente fino ad oggi lo yuan è rimasto ancorato al dollaro che saliva; la Cina ha finalmente deciso di svalutarlo e la cosa non sorprende, ma questa operazione l'ha costretta ad intervenire nei mercati esteri con massicce vendite di buoni del tesoro statunitensi, effettuate per acquistare yuan e contrastare così una volatilità che stava mettendo in discussione la possibilità di stabilizzare la moneta. Tutto questo ha un'importanza geopolitica sostanziale perché le vendite massicce di buoni del tesoro statunitense renderanno difficile a Stati Uniti ed Europa continuare con le politiche monetarie fin qui adottate. E' anche probabile che in futuro la Cina si appoggerà di più alla Russia per approvvigionarsi di greggio piuttosto che all'Arabia Saudita, se la Russia accetterà pagamenti in yuan invece che in dollari.
In questo la Cina non è sola. Il Kazakhstan ha sganciato la propria moneta dal dollaro e l'ha svalutata, ed anche l'aggancio al dollaro dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi scricchiola, perché il tasso contrattato per i prossimi dodici mesi per entrambe le monete tiene conto del fatto che i mercati si attendono che anch'esse si sgancino e si svalutino. Circostanze del genere, vale a dire la possibile uscita dal cambio fisso col dollaro, si presentano quasi sempre assieme a fuga di capitali e a rapido esaurimento delle riserve in valuta estera. Non saranno solo la Cina e il Kazakhstan a vendere le loro riserve di titoli in dollari per puntellare le loro monete dopo lo sganciamento, ma anche altri paesi produttori, inclusa forse in un futuro non troppo lontano la stessa Arabia Saudita.
Pressioni sul rial saudita, contratti a dodici mesi: si veda Zero Hedge blog.
Il Primo Ministro del Kazakhstan Karim Massimov ha detto a Bloomberg a metà agosto che il mondo è entrato "in una nuova epoca" e che presto tutte le petrovalute ancorate al dollaro andranno in terra una dopo l'altra come tessere del domino. "Alla fine la maggior parte dei paesi produttori di petrolio adotterà la libera fluttuazione della moneta, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti compresi", ha detto Karim Massimov. "Non penso che per i prossimi tre, cinque, forse sette anni il prezzo delle materie prime tornerà ai livelli del 2014".
Esiste un altro aspetto della questione, che riguarda in modo particolare i paesi del Golfo. Il meccanismo di riciclo dei petrodollari è entrato in una fase negativa. David Spegel, capo del settore ricerche su imprese e debito sovrano nei mercati emergenti della BNP ha scritto che "quando ha raggiunto il suo massimo [nel 2006, quando alla Goldman Sachs sostenevano che il petrolio sarebbe arrivato a duecento dollari al barile] ogni anno [i paesi produttori di petrolio] reimmettevano circa cinquecento miliardi di dollari nei mercati finanziari. Quest'anno [il 2014] per la prima volta dopo molto tempo i paesi esportatori di energia ritireranno capitali, anziché metterne". Spegel riconosceva che questi ritiri erano stati poca cosa [sette miliardi e seicento milioni] ma aggiungeva anche che "la cosa interessante è il fatto che si stanno ritirando capitali, e non il fatto che se ne stanno aggiungendo, a muovere la liquidità a livello globale. Se nei prossimi anni il prezzo del greggio continuerà a calare i paesi produttori avranno bisogno di altri capitali solo per pagare gli interessi sui buoni del tesoro che hanno emesso". Bloomberg ha calcolato che "l'industria petrolifera ha bisogno di cinquecento miliardi di dollari per reggere alla caduta dei prezzi... ci sono settantadue miliardi di debiti collegati al petrolio che giungono a scadenza quest'anno, ottantacinque nel 2016, centoventinove nel 2017 ed un totale di cinquecentocinquanta miliardi in buoni del tesoro e prestiti di qui al 2020."
Questo "richiamo in patria" dei petrodollari indica più che altro che a differenza di quello che è successo con la crisi del 1998, stavolta i produttori mediorientali ci sono dentro fino al collo, almeno per la spesa pubblica. Si sono dovuti creare molti posti nei lavori socialmente utili, e ancora di più ne serviranno; c'è più edilizia pubblica, ci sono più sussidi perché è aumentato l'utilizzo di carburanti e di elettricità, l'istruzione cosa più cara eccetera. Anche gli standard di vita che i cittadini del golfo si attendono sono molto più alti di quanto non lo fossero nel 1998.
Tutte condizioni mutate, che possono spiegare perché l'Arabia Saudita potrebbe non cavarsela a buon mercato come nel 1998: all'epoca il prezzo del greggio toccò il minimo mai raggiunto in oltre dieci anni, le riserve in valuta vennero falcidiate, i mercati emergenti finirono nel caos ed in Arabia Saudita cominciò a serpeggiare il panico. "Passammo davvero un brutto quarto d'ora" afferma Khalid Alsweilem, ex capo del settore investimenti alla Saudi Arabian Monetary Agency, la banca centrale del paese. "Per fortuna il prezzo del greggio ricominciò a salire: ma non perché la cosa fosse studiata, si trattò di pura e semplice fortuna".
Le previsioni di Citibank per l'Arabia Saudita sono poco rosee. "Il Brent nel 2015 si manterrà sui cinquantaquattro dollari al barile. Se i prezzi rimangono questi, possiamo aspettarci che gli introiti del governo saudita crollino quest'anno del 41% e crediamo che con ogni probabilità i sauditi taglieranno drasticamente la spesa pubblica il prossimo anno. Secondo i nostri calcoli, se l'Arabia Saudita mantenesse i livelli di spesa dell'anno in corso e dell'anno passato il deficit di bilancio arriverebbe a centotrenta miliardi di dollari, il 22% del PIL. Per quanto ne sappiamo noi sarebbe insostenibile perché le riserve fiscali riescono a coprire solo tre anni di un regime del genere. Il totale sarebbe anche tre volte più alto del livello di deficit messo in programma dal governo. Pensiamo che probabilmente ci sarà una stretta del 20% sulla spesa pubblica, cosicché il deficit complessivo arriverebbe al 13% del PIL".
Queste considerazioni della Citibank possono anche sembrare ragionevoli anche perché già circolano relazioni in cui si legge che i sauditi starebbero pensando di ridurre il loro budget totale di centodue miliardi. Ora, il bilancio costituisce o no un ritratto fedele della spesa pubblica del paese? Il già citato Mujtahid ci mostra con una certa regolarità esempi di casi in cui grandi entrate statali vengono semplicemente rimosse dal bilancio, sia per finanziare iniziative politiche all'estero, sia per finire in tasca a questo o a quello. Ecco il motivo per cui le entrate non sono più sufficienti a far fronte alle spese previste. 
In questo momento l'Arabia Saudita è coinvolta in quattro guerre (Yemen, Siria, Iraq e Libia) e sta anche cercando di fare in modo che il governo del Presidente Sissi, in Egitto, non imploda. Tutte spese previste? Della guerra nello Yemen magari magari è stata anche prevista una copertura almeno parziale, anche se è più probabile che non sia stato fatto. In Siria i sauditi stanno cercando di rovesciare il Presidente Assad, ed in questo le spese sono aumentate a dismisura: tutta roba prevista nel bilancio? Le spese per i servizi segreti sono comprese, o si tratta di spese di cui è omessa l'indicazione, come in molti altri paesi? Non è possibile saperlo. Sappiamo soltanto che a tutt'oggi Mohammed bin Salman non ha mostrato alcun segno di voler tagliare le spese indispensabili alle sue operazioni di prestigio, anzi.
Si tratta di operazioni militari che non presentano soltanto rischi di tipo economico, ma anche rischi di tipo politico non ben quantificabili. L'Arabia Saudita non si sta soltanto esponendo molto dal punto di vista economico, ma ha puntato tutta la propria credibilità politica sull'esito delle guerre che ha intrapreso per "ricacciare l'influenza iraniana".
In termini politici, cosa significa tutto questo per il Medio Oriente? Significa che probabilmente Mohammed bin Salman non avrà altra scelta che quella di cambiare registro per i motivi di forza maggiore avanzati dalla situazione economica, se non vorrà trovarsi a dover affrontare una crescente instabilità interna. Lo sganciamento dello yuan dal dollaro per la Cina indica e simboleggia una cosa che i paesi del Golfo non possono in nessun caso ignorare, ovvero il fatto che la Cina non sarà certo la barca che resterà a galla sulla bonaccia dell'economia mondiale. Anzi, essa è il segnale che l'intera domanda mondiale si sta contraendo. I prezzi delle materie prime in calo al pari delle tariffe degli spedizionieri, dei trasporti via nave e di tutti gli altri parametri che servono a misurare le attività commerciali conferiscono ulteriore concretezza a tutto questo.
Secondo il World Trade Monitor La prima metà del 2015 ha assistito al peggior declino nel commercio mondiale dopo la crisi del 2009. Nel primo trimestre del 2015 il volume del commercio mondiale è calato dell'1,5%, nel secondo dello 0,5% portando a un -2% complessivo. I primi sei mesi del 2015 sono stati i peggiori dopo il crollo del 2009. Sono circostanze che fanno pensare che qualsiasi tentativo dei paesi produttori di far risalire il prezzo del greggio sia destinato al fallimento, almeno fino a quando la domanda resterà così debole, a meno che non succeda che qualche importante paese produttore cada nel caos sul piano interno uscendo così dal mercato. Al contrario, come da noi ipotizzato è più probabile che i produttori si rassegnino a colmare i vuoti nei loro bilanci nazionali e producano quindi al massimo.
Il raffreddamento dell'economia colpirà tutti i paesi del Medio Oriente, Iran compreso. Se l'accordo cui sono arrivati i "Cinque più uno" supererà le secche del congresso -e al momento tutto fa pensare che ce la farà- sarà difficile che l'Iran passi quel periodo dorato che qualcuno aveva previsto per il prossimo anno. Certamente la fine delle sanzioni aiuterà l'economia, anche se ptobabilmente in misura minore rispetto a quello che speravano le autorità e su cui il Presidente Rohani faceva conto. Il paradossale risultato delle sanzioni e di quanto appreso in queste circostanze è che l'Iran si trova comunque in una posizione più favorevole rispetto agli altri paesi dell'area: si è esposto meno di altri per quanto c'è di virtuale nell'economia finanziaria globale ed ha trascorso gli anni delle sanzioni cercando di ravvivare e di modellare la propria economia reale. Per l'Iran le cose non andranno così bene come qualcuno aveva previsto, ma nemmeno si ritroverà in crisi al punto in cui potrebbero venirsi a trovare altri paesi.

sabato 19 settembre 2015

Un orrore per tutte le tasche - 3



Anche questa sedicente "birra aromatizzata alla tequila" dall'appropriatissimo nome di Desperados fa parte dell'inesistente Messico venduto nei supermercati, come gli scagliozzi col pomodoro di cui scrivemmo qualche tempo fa.
L'hanno sistemata accanto alla cera per pavimenti.
La collocazione più adatta, senz'altro.

martedì 15 settembre 2015

Medio Oriente. Si ricomincia da zero?




Traduzione da Conflicts Forum

Insomma, arriva un po' di luce su quello che hanno in mente a Washington e a Mosca. Già da qualche tempo, a cominciare dalla visita del signor Kerry a Soci, è chiaro che i rapporti diplomatici tra USA e Russia hanno smesso di andare al ribasso e che hanno invece registrato un'impennata, almeno per la frequenza delle loro relazioni, che in gran parte avrebbero avuto nella Siria il loro argomento centrale. A non essere molto chiara, ancora, era la sostanza di tutto questo tramestìo.
Un po' di tessere del mosaico stanno finalmente andando a posto e il quadro generale pare essere quello di una iniziativa di ampio respiro per ridefinire tutto il panorama della sicurezza mediorientale, con particolare riguardo alla situazione della Turchia e dell'Arabia Saudita, in considerazione dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante. Se tutto va bene, il Presidente Obama potrà finalmente dire di avere una politica credibile per sconfiggere lo Stato Islamico e magari anche per gettare le basi di una ricomposizione regionale del conflitto siriano. Per Putin sarebbe invece l'occasione buona per reimpostare le relazioni con Washington, dato l'aiuto fornito dai russi per il raggiungimento dell'accordo sul nucleare iraniano, su canali propriamente diplomatici anziché su quelli di una crescente militarizzazione (Ucraina).
Quello che non è chiaro è se l'apparente virata di centoottanta gradi che Erdogan ha compiuto nei confronti dello Stato Islamico (sotto forti pressioni statunitensi) è qualche cosa di autentico o se egli non stia coprendo le sue vere intenzioni dietro la cortina fumogena di una ridefinzione dei rapporti con lo Stato Islamico fatta per metter buono l'Occidente. Erdogan sta contemporaneamente cancellando il processo di pace con il PKK, attaccandone ed arrestandone i sostenitori in Turchia e bombardando i suoi collaterali dello YPG in Siria ed in Iraq: si direbbe che il suo vero obiettivo sia quello di polarizzare la politica interna del suo paese incendiando il nazionalismo turco, in contrapposizione al PKK ed anche allo Stato Islamico, soprattutto dopo che un attacco suicida ha ucciso trentun giovani attivisti turchi. Il governo ne ha attribuito la responsabilità allo Stato Islamico, e questo ha causato una levata di scudi presso certi settori dell'opinione pubblica.
E' ragionevole sospettare che Erdogan stia cercando di usare il montante fervore nazionalista per dragare consensi a favore del suo AKP e per ottenere una netta maggioranza alle elezioni anticipate. Secondo la costituzione turca se il governo ad interim non riesce a formare una coalizione entro un determinato limite di tempo, si convoca una nuova consultazione parlamentare. Se la nuova tornata elettorale porterà l'AKP ad una netta maggioranza sui rivali è materia dibattuta: di sicuro c'è il fatto che il presidente del partito MHP e il vicepresidente dello AKP chiedono che allo HDP venga impedito di partecipare. Lo HDP è un partito curdo che alle passate consultazioni politiche ha ottenuto il dodici per cento dei voti. Si chiede che venga messo al bando perché avrebbe affermato che due poliziotti uccisi dal PKK nel sud est del paese avrebbero svolto attività in favore dello Stato Islamico.  
Un'altra cosa da chiarire è se questo riposizionamento generale salverà in ultima analisi il re saudita Mohammed bin Salman dal suo continuo scendere sul sentiero di guerra: a tutt'oggi si è imbarcato in quattro conflitti per affermare la predominanza dell'Arabia Saudita sul mondo sunnita, e con un fallimento si giocherebbe l'avvenire politico, suo e di tutta la famiglia reale.
Innanzitutto ecco un po' di retroscena e di contestualizzazione. Abbiamo già detto che la caduta di Tal Abayad ha consentito ai curdi siriani dello YPG di controllare una fascia di territorio che va da quella cittadina (una borgata alla frontiera con la Turchia, in precedenza in mano allo Stato Islamico) fino agli estremi confini orientali del paese, dove inizia il Kurdistan iracheno. Se i curdi riuscissero a conquistare il centinaio di chilometri che li separano dal "cantone" curdo che si trova a nord ovest della Siria, l'intera zona a nord del paese sarebbe controllata da forze ostili allo Stato islamico. In prospettiva, questo taglierebbe le linee di rifornimento che dalla Turchia raggiungono sia al Qaeda (an Nusra) che lo Stato Islamico. Inoltre -e soprattutto- una simile estensione di territorio potrebbe essere considerata come una nuova "zona autonoma" curda che sarebbe parzialmente contigua alle aree curde sotto sovranità turca. A suo tempo abbiamo avanzato l'ipotesi che al solo pensiero di una "zona autonoma" del genere Erdogan sarebbe uscito di testa.
La nuova zona a divieto di sorvolo lunga novanta chilometri e larga quaranta lungo la frontiera siriana serve solo a questo. Istituita col pretesto di creare un'area libera dallo Stato Islamico, in realtà serve solo a far sì che la Turchia impedisca allo YPG di realizzare un corridoio senza soluzione di continuità che va dall'oriente siriano al confine con le aree curde in Iraq fino, in prospettiva, al Mediterraneo. E' chiaro che gli aerei e l'artiglieria turchi stanno bersagliando lo YPG più che lo Stato Islamico; d'altro canto la "repressione dello Stato Islamico in Turchia" che ha portato a cinquecentonovantatré arresti tra i quali si contano solo trentadue possibili sostenitori dello Stato Islamico è diretta più che altro contro il PKK.  
Per quale motivo Washington ha acconsentito a questa no fly zone, dopo esservisi nettamente opposta per tanto tempo? Innanzitutto perché la Turchia è stata obbligata a concedere agli statunitensi l'uso della base aerea di Incirlik nel sud del paese: da tempo il Pentagono ambiva di avervi accesso per poterla usare nelle sortite contro lo Stato Islamico in Iraq ed in Siria. La ragione vera però, almeno ufficialmente, è che la Turchia doveva passare all'offensiva contro lo Stato Islamico nella zona interdetta al sorvolo.  Alla base di tutto questo ci sono gli eventi dello scorso maggio: le forze speciali statunitensi compirono un'incursione contro il cosiddetto "ministro del petrolio", quello Abu Sayyaf che controllava il contrabbando di greggio per conto dello Stato Islamico. "Un esperto funzionario occidentale in buoni rapporti con il personale dei servizi che affollava la residenza del leader ucciso ha detto che era innegabile l'esistenza di contatti diretti tra funzionari turchi e quadri dello Stato Islamico". Allo Observer quel funzionario riferì che erano state trovate "centinaia di penne flash e di documenti". "Adesso le stiamo analizzando, ma i legami sono già così evidenti che la cosa potrebbe finire per avere profonde implicazioni sul piano politico nei rapporti tra noi ed Ankara".
In poche parole, gli USA avrebbero trovato la "pistola fumante" dei saldi legami che legano Ankara allo Stato Islamico e della cui esistenza si sospettava da tempo. Una nutrita delegazione di funzionari statunitensi si è recata ad Ankara il sette luglio, e ha detto a Erdogan che altre scelte non ce n'erano: era stato beccato, e ora doveva darsi da fare contro lo Stato Islamico.
A mettersi sul serio contro lo Stato Islamico Erdogan si prenderebbe un grosso rischio perché oggi come oggi la Turchia ha con lo Stato Islamico lo stesso tipo di rapporti che negli anni Ottanta il Pakistan aveva con il radicalismo sunnita. In Pakistan gli estremisti esercitarono tali pressioni che il paese, da allora, non è più uscito da una situazione di cronica instabilità. Erdogan si metterà davvero contro lo Stato Islamico? O forse si limiterà a mostrare i muscoli intanto che cerca di fare il doppio gioco mantenendo i legami con lo Stato Islamico e allo stesso tempo cercando di convincerlo -per evitarne le possibili ritorsioni- che si trova in condizioni da dover per forza esercitare una specie di repressione di facciata?
Anche Mohammed bin Salman si trova davanti a scelte non facili. E' chiaro che gli serve qualcosa cui aggrapparsi per uscire dal ginepraio yemenita in cui è rimasto impelagato: gli serve anche l'aiuto di Mosca, che ha validi contatti con tutte le parti in causa nello Yemen. In realtà, se possibile, bin Salman si trova in una situazione anche peggiore: cercando di mostrare le capacità di leadership della nuova generazione e di atteggiarsi a uomo d'azione ha di fatto permesso ai suoi gregari di definire esattamente come un jihad il conflitto con l'Iran e con i suoi alleati ed ha iniziato una politica di condiscendenza verso il clero wahabita più conservatore, sperando magari che esso insisterà sul concetto di quella obbedienza civile che è dovuta alla "legittima autorità". Il fatto è che invocando una guerra di religione contro l'Iran e contro i suoi "fiancheggiatori" egli rischia di aprire il vaso di Pandora del radicalismo wahabita anche sul fronte interno, e non solo all'estero.
Opporsi a parole allo Stato Islamico potrebbe essere una soluzione, intanto che in concreto si combatte da alleati con al Qaeda nello Yemen, ed altrove con altre compagini dell'Islam sunnita. In pratica il re potrebbe buttare sul tavolo la carta dello Stato Islamico e tenere le altre carte sunnite che si ritrova in mano, e che sono Al Qaeda e gli altri movimenti vicini ai Fratelli Musulmani adducendo a pretesto il fatto che Al Qaeda e le sue filiazioni sarebbero diventate dei movimenti "nazionalisti" che oggi come oggi non rappresentano dei gravi pericoli per l'Occidente. Ma il problema arriva a questo punto: invocando uno jihad wahabita contro l'Iran il re pone le basi per quella sinergia su base religiosa che può ampliare il sostegno di cui lo Stato Islamico gode all'interno del regno saudita: lo Stato Islamico e lo wahabismo saudita cui si è infusa nuova energia sono fatti della stessa sostanza.
Putin si sta cercando di cavare sangue da rape del genere. Gli USA gli hanno di sicuro fatto sapere di aver trovato la pistola fumante che dimostra la collusione della Turchia con lo Stato Islamico e magari gli hanno anche comunicato il loro sgomento a fronte della gravità della cosa. Putin avrà anche saputo della decisione degli USA di costringere Erdogan a troncare ogni complicità con lo Stato Islamico. Probabile che Putin abbia saputo direttamente da Mohammed bin Salman che lo Stato Islamico viene considerato una vera minaccia per la casa dei Saud.
Sembra che Putin abbia davvero intravisto, assieme agli Stati Uniti, l'occasione per ridefinire da capo gli equilibri del mondo sunnita (Turchia, Arabia Saudita, Giordania) per farlo diventare una forza più efficace contro lo Stato Islamico. Mosca sta cercando di riplasmare l'islam sunnita come forza di opposizione allo Stato Islamico: un impegno politico sicuramente molto pesante per la Russia. Se si potessero tagliare le vie di rifornimento con la Turchia e chiudere i rubinetti del finanziamento saudita, lo Stato Islamico si indebolirebbe e forse potrebbero emergerne le condizioni per un accordo onnicomprensivo in Siria.
Le nostre sono tutte ipotesi, ma, come riferisce il quotidiano libanese As Safir, qualcosa si sta muovendo. Il Ministro degli Esteri siriano è stato invitato a Mosca per presenziare all'annuncio di una nuova rete internazionale per la sicurezza, e pochi giorni dopo il governo siriano si è detto interessato a parteciparvi. I delegati della nuova coalizione hanno già iniziato a tenere i loro incontri a Mosca. Per adesso l'Iran non è compreso in questa operazione di riconfigurazione del mondo sunnita, ma l'altro pilastro della lotta contro lo Stato Islamico, composto da Iran, milizie irachene, Hezbollah e gli Houti, sta già agendo in stretto coordinamento con Mosca.
Fin qui tutto bene, ma pare che l'abbandono dei curdi alla merce' della Turchia da parte di Washington sia compreso tra i costi di questa nuova coalizione. Nella prima settimana di agosto l'aeronautica turca ha compiuto centocinquantanove sortite contro quattrocento bersagli del PKK in Iraq, senza che a Washington si facesse una piega davanti a quella che è l'incoercibile affermazione del "diritto" di Ankara di attaccare il PKK. Possiamo anche ricordare che gli attacchi aerei verso cui si è tanto indulgenti vengono sferrati contro le stesse forze che si sono rivelate le più efficaci nella lotta allo Stato Islamico in Iraq, e che sono alleate dello stesso YPG con cui gli Stati Uniti agiscono in stretto coordinamento.
Gli Stati Uniti hanno operato di concerto con i curdi siriani dello YPG sin dai tempi dell'assedio di Kobane da parte dello Stato Islamico. Sicuramente il Pentagono ha appprovato l'interruzione delle linee di approvvigionamento dello Stato Islamico praticata dallo YPG e si è prestato all'operazione. Solo che forse in materia di intervento statunitense i curdi siriani fanno un calcolo politico opposto rispetto al PKK iracheno. In risposta ai bombardamenti e ai cannoneggiamenti turchi il leader dei curdi siriani si è formalmente offerto di riconciliarsi con il governo siriano: in pratica, i curdi siriani non hanno mai davvero voltato le spalle ad Assad. A Washington la cosa potrebbe anche andare abbastanza a genio perché se i curdi siriani cessassero del tutto di sostenere l'esercito siriano la cosa potrebbe comportare un significativo mutamento degli equilibri in Siria.
In complesso si tratta di questioni politiche complesse, in cui molte cose possono andare a catafascio in qualsiasi momento. La Turchia e l'Arabia Saudita azzereranno davvero la loro politica? Occorre osservare con molta attenzione le azioni concrete di Erdogan. Già il Pakistan ha tentato di fare il doppio gioco con gli Stati Uniti e con i mujaheddin: solo che questi ultimi sono riusciti ad usare il governo pakistano almeno quanto il Pakistan era riuscito ad usare loro. Non c'è dubbio che sia i russi che gli ameriKKKani si dimostreranno attenti osservatori.

lunedì 14 settembre 2015

Ad Eugenio Giani su Oriana Fallaci


A Firenze la morte di Oriana Fallaci fu accolta nel 2006 con indifferenza. Difficile pretendere altro quando si è vomitato disprezzo fino agli estremi, trovando persino il tempo di lodare i più abituali e rappresentativi comportamenti della feccia da pallonaio. A dolersene furono qualche ben vestito, qualche gazzettiere e qualche "occidentalista" di seconda e terza fila.
La morte di molti bulli di quartiere ha lasciato maggiori rimpianti.
Nel 2015 Eugenio Giani ricopre una carica pubblica importante, quella di Presidente del Consiglio della Regione Toscana. In tale veste esprime approvazione per uno "spettacolo di musica e di danza" che dovrebbe svolgersi nel cimitero(!) in cui è sepolta quella "scrittrice" in occasione dei nove anni dalla morte. La gazzetta che riporta le sue affermazioni scrive tra l'altro che a sentir lui
Su ciò che Oriana Fallaci ha espresso sul piano del pensiero politico e civile, ognuno può avere la sua opinione. Però mi sento di dire una cosa in più: ciò che Oriana aveva detto in modo magari molto duro e provocatorio, alla luce di qualche anno ritorna anche nel suo significato di verità. Le sue preoccupazioni su certe tendenze nel mondo islamico, basta vedere la tv e cos'è successo con l'Isis, purtroppo si sono rivelate oggettivamente vere.
Abbiamo scritto ad Eugenio Giani (e.giani@consiglio.regione.toscana.it) quanto segue.
Salve signor Giani.

Prendo atto di quanto riportato dalle gazzette di oggi, con particolare riferimento all'edizione on line dell'edizione fiorentina de "La Repubblica", di cui è qui riportato il link.
L'articolo presenta una serie di affermazioni che suscitano nelle persone serie una sprezzante repellenza.
In particolare, va considerato di assoluta gravità il fatto che chi ricopre ruoli di pubblica responsabilità si documenti su questioni vitali attraverso la televisione. E' appena il caso di ricordare che i massimi responsabili di tutti i canali televisivi maggiormente fruiti nella penisola italiana, tra il 2002 ed il 2003 non avanzarono dubbio alcuno sull'esistenza dell'arsenale chimico iracheno e sulla liceità dell'aggressione statunitense ad un paese in ginocchio.
Senza quella guerra demenziale presentata come "esportazione di democrazia" difficilmente saremmo oggi a parlare di Stato Islamico in Iraq e nel Levante, a tutti gli effetti frutto delle mene statunitensi in Medio Oriente e del loro avvalersi dell'estremismo sunnita per il perseguimento dei propri scopi.
Il mondo "occidentale" conta già tra i propri difensori un numero sufficientemente rappresentativo di incompetenti viziati. Ad ulteriore disdoro di Oriana Fallaci non si può che rammentare la deteriore aneddotica che ne dileggia a tutt'oggi la memoria.

A questo punto, signor Giani, tocca concludere che è davvero impossibile distinguere le posizioni del "Partito Democratico" da quelle dei suoi sedicenti avversari. La strada è stata un po' lunga, ma finalmente ci siete riusciti.

Saluti.


venerdì 11 settembre 2015

Panorama per l'undici settembre


Località Torre mozza.
Lungo la costa tirrenica, nei pressi di Piombino.

mercoledì 2 settembre 2015

Nafeez Mosaddeq Ahmed - Secondo alcuni funzionari lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante è nato dal sostegno che gli statunitensi hanno fornito ad Al Qaeda in Iraq


Traduzione da MintPress News.


Un ex capo dei servizi del Pentagono, fonti del governo iracheno ed un diplomatico statunitense in pensione alzano il velo sulle complicità degli USA nella nascita dello Stato Islamico.

Un nuovo memoriale di un ex analista del Dipartimento di Stato rivela dettagli impressionanti su come l'aver sostenuto per decenni militanti islamici collegati ad Osama Bin Laden abbia infine contribuito alla nascita dello Stato Islamico.
Il libro costituisce l'inquadramento indispensabile alle recenti rivelazioni di Michael T. Flynn, ex capo dei servizi del Pentagono (DIA), che confermavano il fatto che i funzionari della Casa Bianca avevano scientemente deciso di sostenere in Siria gli jihadisti affiliati ad Al Qaeda, nonostante la DIA li avesse avvertiti del rischio che questo potesse portare in Medio Oriente alla nascita di qualche cosa di analogo allo Stato Islamico.
J. Michael Springmann è un ex diplomatico statunitense che come ultimo incarico ha lavorato nell'ufficio servizi del Dipartimento di Stato; nel suo ultimo libro rivela che le operazioni sotto copertura degli USA condotte di concerto con paesi mediorientali che finanziano il terrorismo antioccidentale non sono una novità: operazioni di questo genere sono state portate a termine, in un'ottica di breve respiro, fin dai tempi della Guerra Fredda ed anche dopo la sua conclusione.
Nel corso degli anni Ottanta del passato secolo gli Stati Uniti fornirono sempre maggiori aiuti ai combattenti mujahiddin in Afghanistan perché l'Unione Sovietica venisse cacciata dal paese: all'epoca Springmann si trovò involontariamente al centro di una serie di operazioni segretissime che permisero ai combattenti islamici legati a Osama Bin Laden di stabilire un punto d'appoggio all'interno del sistema statunitense.
Secondo Springmann, dopo la fine della Guerra Fredda altre operazioni del genere si sono svolte in altri contesti e per i motivi più vari: nella ex Yugoslavia, in Libia ed anche altrove. A suo dire, la nascita dello Stato Islamico rappresenta il prevedibile risultato di questa politica controproducente.


Parla un capo dei servizi del Pentagono

Non passa giorno che non emerga qualche orrenda storia sulle atrocità commesse dai combattenti dello Stato Islamico. Il 14 agosto 2015 ad esempio il New York Times ha pubblicato un resoconto molto preoccupante su come lo Stato Islamico abbia formalmente adottato una visione teologica e politica che contempla lo stupro sistematico delle donne e dei bambini non musulmani. Questa prassi è entrata in uso in tutti i territori controllati dallo Stato Islamico per mezzo di un processo di sistematica messa in schiavitù, avallato dagli studiosi del movimento.
In una recente intervista a Head to Head, che è il principale talk show di Al Jazeera, il luogotenente generale ed ex capo della DIA Michael Flynn ha riferito al suo interlocutore Mehdi Hasan che la nascita dello Stato Islamico è diretta conseguenza del sostegno che gli Stati uniti hanno fornito all'insurrezione siriana, il cui zoccolo duro arriva dalle file di Al Qaeda in Iraq.  
Lo scorso maggio Insurge Intelligence ha sottoposto di propria iniziativa ad indagine accurata un controverso documento desecretato dalla DIA dal quale pare che fin dall'agosto del 2012 alla DIA sapessero che tra gli insorti siriani sostenuti dagli USA predominavano i gruppi islamisti militanti, tra i quali "i salafiti, i Fratelli Musulmani ed Al Qaeda in Iraq".
Hasan ha chiesto di questo documento e ha detto che "gli USA stavano aiutando a coordinare il trasferimento di armi a quegli stessi gruppi". Flynn ha confermato che le informazioni ivi esposte erano assolutamente accurate. Flynn ha spiegato a Hasan che aveva letto di persona quel documento, e gli ha detto che faceva parte di una serie di documenti che circolava tra gli appartenenti ai vari servizi statunitensi e che lo aveva infine spinto a cercare di dissuadere la Casa Bianca dal fornire sostegno a quei gruppi. Senza successo.
Flynn ha aggiunto che informazioni del genere erano disponibili ben prima che si decidesse il ritiro dall'Iraq.
"Il mio compito era quello di fare in modo che l'accuratezza delle informazioni che fornivamo fosse la più alta possibile: queste cose si sapevano ben prima del 2012, devo dire. Quando ancora eravamo in Iraq e c'erano ancora decisioni da prendere prima che infine ci si risolvesse al ritiro nel 2011, sapevamo già molto chiaramente a cosa stavamo andando incontro".
In altre parole, ben prima che scoppiasse in Siria un'insurrezione armata e fin dal 2008, anno in cui l'amministrazione Bush decise irrevocabilmente il ritiro dall'Iraq, i servizi statunitensi sapevano benissimo che i gruppi militanti islamici costituivano una minaccia, primo tra tutti Al Qaeda in Iraq.


Il sostegno al nemico

Nonostante tutto questo, il racconto di Flynn indica che il sostegno degli USA all'insurrezione siriana contro Bashar al Assad ha fatto sì che gli Stati Uniti si trovassero ad aiutare gli stessi gruppi di Al Qaeda che avevano combattuto in Iraq fino a poco tempo prima.
E non è che si siano limitati a chiudere un occhio. Flynn racconta che la Casa Bianca ha scelto deliberatamente, e non per errore, di sostenere i ribelli collegati ad Al Qaeda nella loro lotta contro Assad.
Hasan: "In poche parole sta dicendo che all'epoca anche al governo si sapeva che c'erano in giro gruppi come quelli, che conosceva queste analisi e che si espresse contro le decisioni governative senza che nessuno la stesse a sentire?"
Flynn: "Penso sia stata colpa dell'amministrazione."
Hasan: "Vale a dire che l'amministrazione ha fatto finta di non conoscere le vostre informazioni?"
Flynn: "Non so se abbiano fatto finta o meno: penso che comunque abbiano preso una decisione deliberata."
Hasan: "Pensa che abbiano deliberatamente deciso di sostenere un'insurrezione di cui facevano parte i salafiti, Al Qaeda e i Fratelli Musulmani?"
Flynn: "Io penso che abbiano deciso deliberatamente di fare quello che stanno facendo... Bisognerebbe proprio chiedere al Presidente cosa stia davvero combinando, perché la politica che ha adottato è estremamente confusa"
Prima di passare alla DIA, Flynn è stato responsabile del servizio informazioni del Joint Special Operations Command (JSOC) e comandante del Joint Functional Component Command.
Flynn è l'ex funzionario dei servizi informazioni statunitensi più alto in grado a confermare il fatto che il resoconto informativo della DIA dell'agosto 2012 reso pubblico qualche tempo fa prova l'esistenza di una strategia sotto copertura attuata dalla Casa Bianca per sostenere i terroristi islamici in Iraq ed in Siria, fin da prima del 2011.
Lo scorso giugno Insurge ha riferito in esclusiva che sei ex funzionari dei servizi statunitensi e britannici concordavano con questa interpretazione del documento.
Il racconto di Flynn è rafforzato da altri ex funzionari di alto grado. La televisione francese ha intervistato l'ex ministro degli esteri Roland Dumas, che ha detto che il principale alleato degli USA, la Gran Bretagna, era andata progettando azioni sotto copertura in Siria fin dal 2009 dopo che i servizi statunitensi erano riusciti ad otternere informazioni che secondo Flynn confermavano che Al Qaeda era una minaccia per la Siria.
"Due anni prima che scoppiassero i disordini in Siria mi trovavo in Inghilterra per altri motivi. Mi incontrai con funzionari britannici dei massimi livelli, che mi confessarono che stavano preparando qualche cosa in Siria. Questo è successo in Gran Bretagna, non negli Stati Uniti: era la Gran Bretagna che stava preparando uomini armati all'invasione della Siria".
Il precursore di quello che oggi è noto come Stato Islamico è Al Qaeda in Iraq. All'epoca stava declinando sotto i colpi delle operazioni antiterrorismo degli Stati Uniti e dell'Iraq, che erano andate avanti fra il 2008 e il 2011 con la collaborazione delle locali tribù sunnite. In quegli anni Al Qaeda in Iraq si trovò in condizioni di crescente isolamento che le fecero perdere la capacità di imporre la propria intransigente concezione della Legge Sacra nelle aree che controllava e che le fecero perdere sempre più terreno.
Alla fine del 2011 erano stati uccisi oltre duemila combattenti di Al Qaeda in Iraq. Quasi novemila erano stati presi prigionieri e la direzione del gruppo praticamente spazzata via.
A questo stato di cose fanno riferimento i mezzibusti della destra, che sono andati spesso dicendo che la decisione di ritirarsi dall'Iraq è stato il fattore chiave che ha permesso la resurrezione di Al Qaeda in Iraq e in fin dei conti la sua trasformazione in Stato Islamico.
Le rivelazioni di Flynn provano il contrario. L'ascesa dello Stato Islamico non si deve al vuoto di potere creatosi con il ritiro delle truppe statunitensi ma alle operazioni sotto copertura portate a termine nel periodo successivo dagli Stati Uniti e dai loro alleati, i paesi del Golfo e la Turchia, che riempirono di armi e di denaro Al Qaeda in Iraq nel più ampio quadro della loro strategia contro Assad.
Anche in Iraq le rivolte avevano preparato il terreno per gli eventi successivi. Tra le centinaia di migliaia di sunniti qualunque che ricevevano assistenza militare e logistica dagli Stati Uniti c'erano anche simpatizzanti di Al Qaeda ed insorti antioccidentali che in precedenza avevano combattuto fianco a fianco con essa.
Nel 2008 una relazione della RAND commissionata dall'esercito statunitense aveva confermato il fatto che gli USA stavano cercando di "creare delle divisioni nel campo jihadista. Oggi come oggi in Iraq, questa strategia costituisce una scelta tattica". In questo quadro rientravano anche le "alleanze temporanee" con "gruppi di insorti nazionalisti" affiliati ad Al Qaeda che avevano combattuto per quattro anni contro gli Stati Uniti, e che ora dagli Stati Uniti ricevevano "armi e denaro".
L'idea era quella di corrompere gli insorti che avevano fatto capo ad Al Qaeda perché si separassero da Al Qaeda in Iraq e si unissero agli ameriKKKani. Anche se questi nazionalisti sunniti "avevano collaborato con Al Qaeda contro le forze statunitensi", adesso ricevevano sostegno per combattere "la comune minaccia che adesso Al Qaeda rappresenta per entrambe le parti".
Nel corso dello stesso anni l'ex funzionario del servizio informazioni della CIA e specialista in antiterrorismo Philip Geraldi disse che gli analisti dei servizi di informazioni degli Stati Uniti "stavano armando o comunque fornendo assistenza a tutti e tre i più importanti gruppi armati iracheni" e che c'era motivo di credere che "è probabile che questo castello di carte crolli appena uno dei gruppi si sentirà abbastanza forte o abbastanza ben messo da farsi avanti". Giraldi fu buon profeta:
"In questo ginepraio hanno finto per averla vinta tutti quelli che volevano vedere una guerra civile."
Secondo Flynn i servizi statunitensi nel 2008 sapevano anche che rafforzare gli insorti che provenivano da Al Qaeda significava nel lungo periodo sostenere e rafforzare Al Qaeda in Iraq, anche in considerazione del fatto che il governo iracheno dominato dagli sciiti e sostenuto dagli USA continuava a discriminare la popolazione sunnita. 


Syriana

I militari statunitensi hanno generosamente sostenuto gli insorti che provenivano da Al Qaeda per tutto il periodo compreso tra il 2006 ed il 2008 affinché si opponessero ad Al Qaeda in Iraq: effettivamente, gli statunitensi riuscirono per un certo periodo a sloggiare Al Qaeda in Iraq alle roccaforti di cui disponeva nel paese.
Allo stesso tempo però, se quello che dice Roland Dumas è vero, gli USA e i britannici iniziarono fin dal 2009 con le iniziative sotto copertura in Siria. Dal 2011 in poi il sostegno fornito dagli USA agli insorti siriani, di concerto con i paesi del Golfo e la Turchia, ha portato una considerevole quantità di armamenti e di denaro ai combattenti di Al Qaeda.
La natura permeabile dei rapporti tra fazioni di Al Qaeda in Iraq ed in Siria, e di conseguenza l'abituale scambio di armamenti e combattenti dalle due parti della frontiera, era ben nota a chi operava nei servizi statunitensi attorno al 2008.
Nell'ottobre di quell'anno il Maggiore Generale John Kelly, il militare statunitense responsabile di quella provincia di Anbar in cui si svolgeva il grosso delle attività di sostegno in favore degli insorti sunniti che combattevano Al Qaeda in Iraq, si lamentò aspramente del fatto che i combattenti di Al Qaeda in Iraq fossero riusciti a riorganizzarsi sull'altro lato della frontiera e che avessero stabilito un proprio "santuario" in Siria.
Kelly disse che da quella frontiera entravano ogni giorno in Iraq combattenti di Al Qaeda, che portavano a segno attacchi contro le forze di sicurezza irachene.
Ironia del destino, all'epoca il governo di Assad tollerava la presenza in Siria di combattenti della Al Qaeda irachena. Un resoconto del luglio 2008 del centro antiterrorismo dell'accademia militare statunitense di West Point riferiva delle ampie reti che Al Qaeda in Iraq aveva stabilito attraverso la frontiera tra i due paesi.
"Il governo siriano ha deliberatamente ignorato, e magari anche agevolato, i combattenti stranieri diretti in Iraq. Preoccupato per possibili azioni militari straniere, il governo siriano ha preferito sostenere gli insorti e i terroristi che stanno mettendo l'Iraq a ferro e fuoco".
Secondo Dumas dal 2009, ma sicuramente dal 2011 in avanti secondo quanto riferito da Flynn, gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno iniziato a fornire sostegno agli stessi combattenti di Al Qaeda in Iraq affinché destabilizzassero Assad in Siria. Una politica che combacia con la strategia occulta degli Stati Uniti di cui parlò Seymour Hersh nel 2007: usare l'Araba Saudita per mascherare il sostegno fornito ad Al Qaeda e ai simpatizzanti dei Fratelli Musulmani per isolare l'Iran e la Siria.


Un'ondata di ritorno

Per tutto il tempo che gli USA, i paesi del Golfo e la Turchia hanno sostenuto gli insorti siriani legati ad Al Qaeda in Iraq ed i Fratelli Musulmani, Al Qaeda in Iraq ha conosciuto una rifioritura mai provata prima.
Le truppe statunitensi si sono definitivamente ritirate dall'Iraq nel dicembre 2011: questo significa che un anno dopo, secondo quanto si legge nel rapporto della DIA che risale ad agosto del 2012 e secondo quanto si apprende dal ritratto che Flynn fa dello stato dei servizi di informazione statunitensi nello stesso periodo, fra il personale dei servizi USA c'era consapevolezza del fatto che sostenere Al Qaeda in Iraq come stavano facendo gli USA e i loro alleati significava far crescere in pari misura anche gli episodi violenti al di qua della frontiera.
Nonostante questo, per dirla con le parole di Flynn, la Casa Bianca ha deciso in piena consapevolezza di continuare su questa strada, nonostante la possibilità che si potesse arrivare alla "fondazione di un principato salafita più o meno dichiarato nell'est della Siria (Hasakah e Deir Ez Zor)", come si legge sul resoconto della DIA dell'agosto 2012.
Il documento del Pentagono avvertiva anche del fatto che l'apparizione di un "principato salafita" nell'est della Siria sotto le armi dell'Al Qaeda in Iraq avrebbe potuto portare "amare conseguenze" per l'Iraq, instaurando "il clima ideale affinché Al Qaeda in Iraq potesse riconquistare le sue vecchie piazzaforti di Mossul e di Ramadi" e "tirando la volata" per uno jihad unificato "tra i sunniti di Iraq e Siria".
Soprattutto, il resoconto avvertiva del fatto che Al Qaeda in Iraq, che allora aveva cambiato il proprio nome in Stato Islamico in Iraq, "...potrebbe anche dichiarare uno Stato Islamico, grazie ai propri legami con altre organizzazioni terroristiche in Iraq ed in Siria, che rappresenterebbe un grave pericolo per un Iraq unito e per la sua integrità territoriale."
Con il progredire delle operazioni sotto copertura degli USA in favore di Al Qaeda in Iraq in territorio siriano, anche le operazioni di Al Qaeda in Iraq in territorio iracheno sono cresciute di intensità, solitamente di concerto con la filiazione di Al Qaeda in Siria, Jabhat an Nusra.
Secondo Anthony Celso del dipartimento di studi strategici della Angelo State University in texas, "gli attacchi suicidi, le autobomba e le bombe a bordo strada" messi a segno in Iraq "sono raddoppiati nell'anno successivo al ritiro delle truppe statunitensi". Allo stesso tempo, Al Qaeda in Iraq ha iniziato a fornire sostegno ad an Nusra spostando combattenti, denaro ed armi dall'Iraq alla Siria.
Ad aprile 2013 Al Qaeda in Iraq si è formalmente dichiarata Stato Islamico in Iraq e nel Levante, proprio come i servizi di informazione del Pentagono avevano detto che sarebbe successo.
Nel corso dello stesso mese l'Unione Europea ha votato in favore dell'alleggerimento dell'embargo contro la Siria, in modo da permettere ai ribelli -la cui maggioranza appartiene ad Al Qaeda e allo Stato Islamico- di vendere petrolio sui mercati mondiali, compagnie petrolifere europee comprese. Di lì ad un anno, al momento in cui lo Stato Islamico si è impadronito di mossul, vari pasi dell'Unione Europea stavano acquistando petrolio dallo Stato Islamico, esportato dai campi petroliferi siriani sotto il suo controllo.
In altre parole, la strategia statunitense contro Assad ha avvantaggiato i gruppi di Al Qaeda contro cui gli USA avevano combattuto in Iraq, mentre al tempo stesso si servivano dei paesi del Golfo e della Turchia per finanziare gli stessi gruppi in territorio siriano. Una diretta conseguenza di tutto questo è stata il fatto che gli elementi laici e moderati del "Libero" Esercito Siriano sono stati messi sempre più ai margini dai virulenti estremisti islamici sostenuti dagli alleati degli USA.


Un ultimo avvertimento

Nel febbraio 2014 il luogotenente generale Flynn ha illustrato alla commissione militare del Senato l'annuale valutazione delle potenziali minacce elaborata dalla DIA. La sua testimonianza racconta che l'avanzata dello Stato Islamico in Iraq non è stata un fulmine a ciel sereno come ha detto Obama, ma che era stata prevista dai servizi.
Nelle dichiarazioni fatte davanti alla commissione, che si accordano con molto di quanto ha riferito poi ad Al Jazeera, Flynn aveva detto che "Al Qaeda in Iraq, nota anche come Stato Islamico in Iraq e nel Levante... cercherà di impossessarsi di altri territori iracheni e siriani nel corso di quest'anno per dimostrare di cosa è capace, proprio come ha recentemente fatto a Ramadi e a Falluja". Flynn ha detto anche che "alcuni gruppi tribali sunniti e alcune formazioni ribelli sono intenzionati a collaborare con Al Qaeda in Iraq a liello tattico, perché ne condividono gli obiettivi antigovernativi".
Flynn ha criticato il governo di Baghdad, che "rifiuta di accogliere le proteste dei sunniti che vanno avanti da molto tempo" ed ha specificato che "le maniere decise con cui sono state portate a termine le operazioni antiterrorismo" hanno spinto alcuni gruppi sunniti della provincia di Anbar "a mostrarsi maggiormente tolleranti nei confronti di Al Qaeda in Iraq". Al Qaeda in Iraq, diventata Stato Islamico, si è servita di questa tolleranza "per intensificare le proprie operazioni e per estendere la propria presenza in molte località" in Iraq, così come "in Siria ed in Libano" e che tutto questo ha fatto crescere "gli attriti in tutto il Medio Oriente".
Va notato che in quello stesso istante l'Occidente, i paesi del Golfo e la Turchia, secondo le relazioni interne dei servizi della DIA, stavano sostenendo Al Qaeda in Iraq e le altre fazioni islamiche affinché "isolassero" il governo di Assad. Secondo Flynn, nonostante egli stesso avesse avvisato la Casa Bianca di un imminente attacco dello Stato Islamico in territorio iracheno che avrebbe portuto portare alla destabilizzazione di tutto il teatro regionale, i funzionari superiori di Obama hanno continuato imperterriti a fornire appoggio sotto copertura a questi gruppi.
I servizi statunitensi erano pienamente coscienti anche dell'incapacità degli iracheni di respingere l'attacco dello Stato Islamico, ed hanno sollevato anche altri interrogativi sull'inerzia della Casa Bianca.
Alla commissione del Senato Flynn ha detto che l'esercito iracheno "non è stato capace di fermare la crescente violenza" e che non sarebbe stato in grado di "contrastare Al Qaeda in Iraq o altre minacce provenienti dal fronte interno", soprattutto in zone sunnite come Ramadi e Falluja o in zone miste come la provincia di Anbar o quella di Ninive. L'esercito iracheno "non è coeso, manca di uomini, di addestramento, di equipaggiamento e di rifornimenti", ed è "vulnerabile agli attacchi terroristici, alle infiltrazioni e alla corruzione".
Da una fonte governativa irachena che ha chiesto di restare anonima lo scrivente ha saputo che sia i servizi statunitensi che quelli iracheni avevano previsto un attacco dello Stato Islamico contro l'Iraq, con particolare riguardo alla città di Mossul, fin dall'agosto del 2013.
I servizi non avevano indicato con precisione la data dell'attacco, rivela la stessa fonte, ma si sapeva che varie potenze regionali sarebbero state complici della programmata offensiva dello Stato Islamico, con particolare riguardo a Qatar, Arabia Saudita e Turchia.
"Si sapeva bene all'epoca che lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante stava seriamente preparando un attacco all'Iraq. L'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia hanno avuto un ruolo fondamentale nel sostegno allo Stato Islamico, ma nel campo del sostegno finanziario ancora più importante è stato il ruolo degli Emirati Arabi Uniti, sul quale deve ancora essere fatta piena luce."
Gli statunitensi avevano cercato di accordarsi con l'Iraq in modo da prepararsi all'attacco, visto che l'incapacità dell'esercito iracheno di far fronte da solo ad un'emergenza del genere era chiara a tutti? L'anonimo funzionario iracheno ha detto che non è successo nulla di simile: "Gli USA hanno permesso l'ascesa dello Stato Islamico perché vogliono cacciare Assad dalla Siria. Ma non hanno previsto che le conseguenze gli sarebbero sfuggite di mano fino a questo punto."
Non si è trattato di un fallimento dei servizi di informazione. Anzi: il fatto che gli USA non siano riusciti ad impedire l'ascesa dello Stato Islamico e la destabilizzazione dell'Iraq e della Siria non è stato certo dovuto a mancanza di informazioni accurate, perché informazioni accurate e puntuali ce ne sono state; al contrario è stato dovuto ad una infelice decisione politica, quella di rovesciare il governo siriano a qualsiasi costo. 


Un circolo vizioso

Questo non è certo il primo caso in cui a Washington si decide politicamente di impedire ai servizi di indagare su attività terroristiche e di impedir loro di segnare a dito i più alti patrocinatori di queste attività.
Secondo il nuovo libro di Michael Springmann intitolato "Visas for Al Qaeda, CIA handouts that rocked the world", gli stessi problemi a livello strutturale spiegano l'impunità con cui gruppi terroristici hanno compromesso le difese occidentali e gli apparati di sicurezza nel corso degli ultimi decenni.
Buona parte del volume rappresenta un chiaro sforzo di dare senso all'esperienza personale dell'autore, con una rassegna di fonti secondarie e le interviste ad altri ex funzionari del governo e dei servizi statunitensi. Una certa parte del materiale esposto in effetti è molto problematica, ma a rendere prezioso il libro di Springmann è la quantità di dettagli con cui arricchisce i racconti di spionaggio di prima mano per conto del Dipartimento di Stato, e nelle enormi implicazioni che esso ha per la comprensione della "guerra al terrore" dei nostri giorni.
Springmann è stato un diplomatico statunitense ed ha lavorato al ministero dell'economia e alla sezione affari esteri del Dipartimento di Stato, ricoprendo incarichi in Germania, in India ed in Arabia Saudita. La sua carriera è iniziata come attaché commerciale all'ambasciata statunitense di Stoccarda nel 1977-1980, è proseguita in India nei due anni successivi e poi lo ha portato a rivestire il ruolo di capo dell'ufficio visti all'ambasciata statunitense a Gedda, in Arabia Saudita, negli anni tra il 1987 ed il 1989. Infine, come funzionario politico-economico, Springmann è tornato a Stoccarda tra il 1989 ed il 1991.
Prima di essere licenziato per aver fatto troppe domande sulle pratiche illegali svolte nell'ambasciata statunitense a Gedda, Springmann aveva avuto come ultimo incarico quello di funzionario superiore per l'economia nell'ufficio informazioni e ricerca del Dipartimento di Stato (1991); qui aveva potuto accedere a cablogrammi diplomatici protetti da segreto e a riservatissime informazioni provenienti dalla NSA e dalla CIA.
Springmann afferma che durante la sua permanenza all'ambasciata di Gedda gli era stato chiesto più volte, dai suoi superiori, di fornire illegalmente dei visti a combattenti islamici che arrivavano a Gedda da vari paesi islamici. Alla fine capì che l'ufficio visti pullulava di funzionari della CIA, che usavano il loro status di diplomatici per svolgere sotto copertura attività segrete di ogni genere, tra le quali rientrava anche la concessione di visti agli stessi terroristi che avrebbero poi condotto gli attacchi dell'undici settembre.
Tra i funzionari della CIA che operavano all'ambasciata di Gedda, secondo Springmann, c'erano il responsabile locale Eric Qualkenbushm il console Jay Frere e il funzionario politico Henry Ensher.
Su quindici sauditi che facevano parte del gruppo di dirottatori dell'undici settembre, tredici avevano avuto visti per gli Stati Uniti. Dieci di questi avevano avuto il visto all'ambasciata di Gedda. Di fatto, nessuno di loro aveva i requisiti richiesti e avrebbe dovuto loro essere vietato di entrare in territorio statunitense.
Springmann venne cacciato dal Dipartimento di Stato dopo aver presentato decine di richieste di accesso a documenti segreti, lamentele formali e richieste per l'apertura di inchieste a vari livelli del governo e del Congresso perché fosse fatta chiarezza su quanto aveva scoperto. Non soltanto ogni sua richiesta andò a schiantarsi contro un muro, ma tutto questo suo affannarsi finì per costargli la carriera.
Il suo non è l'unico caso. Springmann racconta che lo sceicco Omar Abdel Rahman, accusato di aver progettato gli attacchi del 1993 al World Trade Center, aveva ricevuto il suo primo visto per gli USA da un funzionario della CIA che operava sotto le mentite spoglie di funzionario consolare all'ambasciata statunitense di Khartoum, in Sudan.
Questo "sceicco cieco", come lo chiamavano, tra il 1986 ed il 1990 ebbe sei visti per gli USA con l'approvazione della CIA, richiedendoli anche all'ambasciata statunitense in Egitto. COme scrive Springmann, "Lo 'sceicco cieco' era già in una lista di potenziali terroristi del Dipartimento di Stato quando gli furono concessi i visti con cui poté recarsi negli USA partendo dall'Arabia Saudita, dal Pakistan e, nel 1990, dal Sudan."
Negli USA Abdel Rahman si mise in luce presso il centro per rifugiati al Kifah, una centrale per il reclutamento di mujahiddin da mandare in Afghanistan controllato da Abdullah Azzam, Osdama bin Laden e Ayman al Zawahiri. Non soltanto ebbe un ruolo fondamentale nelle operazioni di reclutamento per l'Afghanistan, ma continuò a reclutare combattenti islamici da mandare in Bosnia, anche dopo il 1992.
Anche dopo gli attacchi al World Trade Center del 1993, disse Springmann alla BBC nel 2001, "la fiducia che il Dipartimento di Stato nutriva verso i sauditi non venne meno, e non vacillò neppure dopo l'attacco al campo militare di Khobar in Arabia Saudita avvenuto tre anni dopo e che costò la vita a diciannove statunitensi".
Il legame con la Bosnia è significativo, molto. Springmann afferma che Khalid Sheikh Muhammad, considerato l'ideatore degli attacchi dell'undici settembre, "aveva combattuto in Afghanistan (dopo aver studiato negli Stati Uniti) e poi aveva continuato a combattere nella guerra in Bosnia nel 1992..."
"Inoltre, altri due dirottatori dell'undici settembre, Khalid al Mihdhar e Nawaf al Hazmi, sauditi entrambi, avevano combattuto in Bosnia. Altri legami emergono se consideriamo Mohammed Haydar Zammar, che si pensa abbia aiutato Mohammed Atta a mettere a punto i piani per gli attacchi al World Trade Center. Zammar aveva prestato servizio nelle unità dei mujahiddin dell'esercito bosniaco. Anche Ramzi Binalshibh, amico di Atta e di Zammar, aveva combattuto in Bosnia."
I servizi statunitensi ed europei hanno scoperto prove imbarazzanti su come il corridoio che portava i mujahiddin in Bosnia con la benedizione dei sauditi abbia avuto un ruolo fondamentale nell'incubazione della presenza di Al Qaeda in Europa.
Secondo i verbali di un'inchiesta svoltasi a febbraio a New York per conto delle famiglie colpite dagli attacchi dell'undici settembre, il sostegno sotto copertura per i combattenti in Bosnia e l'addestramento loro fornito dall'Arabia Saudita si è rivelato "oltremodo prezioso nel permettere ad Al Qaeda di acquisire le competenze necessarie a lanciare attacchi contro gli Stati Uniti".
Dopo l'undici settembre, nonostante simili conclusioni fossero di dominio comune presso gli addetti ai servizi di informazione in USA ed in Europa, sia Bush che Obama hanno continuato a collaborare con i sauditi per mobilitare estremisti affiliati ad Al Qaeda a servizio di quella che la CIA ha definito come l'azione di contenimento della "strategica profondità dell'espansione sciita" in Iraq, in Iran ed in Siria.
A confermare l'esistenza di questa politica ci ha pensato Alastair Crooke, per trent'anni nell'MI6 ed esperto di Medio Oriente. Il risultato di questo modo di fare, vale a dire il rafforzamento delle più virulente forze dell'Islam estremista in tutto il medio Oriente, era prevedibile e difatti era stato previsto.
Nell'agosto del 2012, nello stesso periodo in cui il discusso rapporto della DIA prevedeva l'ascesa dello Stato Islamico- chi scrive citava le stranamente profetiche considerazioni di Michael Scheuer, che aveva comandato l'unità della CIA che si era occupata di Bin Laden e che prevedeva che il sostegno degli USA ai ribelli islamici in Siria avrebbe portato probabilmente "al massacro di una parte più o meno estesa delle comunità alawite e sciite del paese", al "trionfo delle forze di ispirazione islamica, anche se momentaneamente camuffate in vesti più rassicuranti", allo "scatenarsi di migliaia di insorti islamici sunniti che avevano sperimentato la durezza della guerra" ed anche al "saccheggio degli arsenali dell'esercito siriano, che sono pieni di armamenti convenzionali e di armi chimiche".
Chi scrive pensava anche che una "ulteriore militarizzazione" del conflitto siriano avrebbe giocato contro le "rispettive ambizioni geostrategiche" delle varie potenze regionali "intensificando i conflitti settari, facendo accelerare le operazioni terroristiche antioccidentali e potenzialmente destabilizzando tutto il Levante al punto da portare potenzialmente allo scoppio di una guerra regionale".
Queste previsioni si sono in parte concretizzate in maniere persino più spaventose di quanto si sarebbe potuto immaginare. La coalizione guidata dagli USA sta continuando a farsi del male, il che significa che è possibile che il peggio debba ancora venire.