mercoledì 26 febbraio 2014

François Hollande e la disoccupazione


François Hollande sarebbe il presidente della Repubblica Francese. Si tratta di un individuo estremamente consapevole del proprio ruolo: per non essere da meno del suo predecessore non ha apportato alcun mutamento alla linea politica di fondo dell'esecutivo e tantomeno alla condotta presidenziale già nota a sudditi e gazzette.
Detto altrimenti la Repubblica Francese ha continuato con le guerre, e il suo presidente con le fornicazioni.

La foto in alto è stata scattata in uno hotel del centro di Parigi nel febbraio 2014.
La gazzetta in primo piano parla di non si sa bene quale "patto" per il lavoro promosso da Hollande, qualificato come "già compromesso". Le canard enchainé è una gazzetta un po' più autorevole; nella Federazione Russa erano in corso importanti manifestazioni sportive invernali, sicché la prima pagina annunciava con un gioco di parole adatto ai tempi che Hollande si era esibito davanti ai padroni in un magistrale numero di tapinaggio artistico [*].
In secondo piano c'è un oggetto interessante proprio per la questione lavoro, che da un po' di tempo in qua ha risvolti poco allegri anche in contesti meno maccheroneschi di quello che costituisce la quotidianità nella penisola italiana.
In sostanza si tratta di un distributore automatico di caffè ed altre bevande calde. Nella vicina sala da pranzo ce ne sono almeno altre due. Tutte insieme permettono alla struttura di fare a meno di un'attrezzatura da bar vera e propria e soprattutto dei rispettivi lavoranti: in questo modo aumentano sia la redditività dell'impresa che il tasso di disoccupazione, secondo dinamiche liberiste tanto note quanto insuscettibili della minima messa in discussione da parte della politica contemporanea, ridotta da decenni a fare da contabile ai flussi sempre più virtuali di denaro che ne sfiorano gli àmbiti di competenza.

D'altro canto esistono studi non si sa quanto attendibili che quantificano praticamente come certa la scomparsa del personale adibito alla vendita al dettaglio nei prossimi venti anni grazie all'automazione avanzata. Secondo "The Future of Employment: how susceptible are jobs to computerization" di C. Frey e M. Osborne (2013) tra vent'anni non ci sarà più bisogno nemmeno di operatori di call center, ragionieri e revisori contabili, scrittori di manualistica tecnica e neppure di agenti immobiliari, per quanto elegantemente essi possano vestire. Sarebbero a rischio persino gli economisti, cosa che ha una logica solo all'interno di un'economia in cui nulla sfugge alla centralizzazione e alla pianificazione.
Resta da vedere a quale "pact pour l'emploi" si possa pensare per evitare tutto questo. Coerenza vorrebbe che una classe politica dedita in blocco a quella che chiamano "economia di mercato" non abbozzasse neppure una soluzione, limitandosi in concreto a fare quello che ha fatto fino ad oggi, ovvero istruire le proprie gazzette sui bersagli contro cui dirigere l'opinione pubblica.
Da quando non possono più rifarsela con gli ebrei le cose si sono fatte appena un po' più difficili, ma i nostri lettori sanno bene che i sostituti adatti non sono mai mancati.


[*] Se tapiner sta per "prostituirsi".

domenica 23 febbraio 2014

Pepe Escobar - Attenzione ai sauditi, perché stanno mettendo insieme un bel casino


Bandar Bin Sultan, detto Bandar Bush. Capo dei servizi segreti sauditi e principale responsabile della guerra civile in Siria.
Su Palaestina felix se ne trova un ritratto poco lusinghiero.


Traduzione da Asia Times.


Forza, Peter O'Toole. E' arrivata l'ora di Charles d'Arabia...! Il principe Carlo è entrato in modalità Lawrence d'Arabia mercoledi passato, quando è andato a far salotto e a ballonzolare con la gente del posto in quel di Ryadh. Puntuale come un orologio, il giorno dopo il trafficante d'armi numero uno in Europa, la BAE Systems, ha annunciato che il Regno Unito e la Casa dei Saud si erano accordati per "ridefinire il prezzo" di una sostanziosa transazione: settantadue caccia Eurofighter Typhoon.
L'Eurofighter è il concorrente diretto del Rafale francese -spettacoloso insuccesso di vendite- dei carissimi F35 americani e degli F16. Nel suo dispaccio, ripreso all'istante da tutti i giornali del mondo, la Associated Press ha debitamente incluso il ritornello sostenuto da Washington; "L'Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo si stanno rafforzando militarmente per contrastare le minacce che sentono arrivare da rivali regionali, soprattutto dalla Repubblica Islamica dell'Iran". Come a Tehran si pensasse di bombardare la Casa dei Saud fin da domani mattina.
D'altra parte l'Eurofighter è già stato usato contro i paesi arabi nel bombardamento umanitario della Libia perpetrato dalla NATO, che ha ridotto il paese a uno stato fallito. Si potrebbe discutere di quale potrebbe essere il bersaglio contro cui la Casa dei Saud potrebbe essere tentata di usarli: forse le donne che aspirano alla patente di guida.
La scusa ufficiale è stata che il quasi nonagenario re Abdullah non era in condizione di riceverlo. Charles d'Arabia ha potuto così evitare di discutere con la Casa dei Saud dei diritti delle donne, degli immigrati, e in generale della situazione dei diritti umani nel Regno, che è roba da far impallidire. Se n'è guardato bene: questa materia serve solamente quando ci sono da demonizzare la Russia, la Cina o la Repubblica Islamica dell'Iran.
Charles d'Arabia, inoltre, non poteva far tante ruote di pavone perché anche i francesi stanno cercando di fargli concorrenza nel giochino del chi fa più coccole al complesso industriale dei sauditi; un giochino in cui negli ultimissimi anni sono passati settanta miliardi di dollari. Il presidente francese François Hollande, che in patria è una nullità abissale ma fuori passa per il Grande Liberatore d'Africa e di Siria- è stato a Ryadh a dicembre, e le ha tentate di tutte per carpire una qualche significativa quota di mercato agli angloameriKKKani. Il problema è che nessuno che abbia un minimo di discernimento ha la minima intenzione di prendere nemmeno in considerazione l'acquisto di un Rafale.
Ecco qui la grana, dammi una bomba.Insomma, la Casa dei Saud sta ammassando armamenti. Si noti. Il Principe saudita Bandar bin Sultan, detto Bandar Bush, è ancora sulla cresta dell'onda; arma e finanzia un crescente esercito mercenario in tutto il Levante. Si noti. E la Casa dei Saud sta tramando qualche cosa con il proprio alleato pakistano. Si noti anche questo.
Appena il giorno avanti prima della visita di Charles d'Arabia, il Ministro della Difesa -e soprattutto Principe della Corona- Salam bin Abdul Aziz era ad Islamabad. C'era da discutere un "patto difensivo" [1].
Tutto questo ha ripercussioni anche sull'Oleodottistan. A metà del 2013 il Primo Ministro pakistano Nawaz Sharif era eccitatissimo per l'idea del gasdotto Iran-Pakistan, teoricamente destinato a entrare in funzione nel 2015. Adesso ha perso questa sicurezza. Non è necessaria la perspicacia di un Charles d'Arabia per intravedere in questo cambio d'atteggiamento la mano dei sauditi e i bastoni tra le ruote messe all'intesa energetica tra Iran e Pakistan.
La paranoia saudita nei confronti dell'Iran non ha equivalenti in tutto il sistema solare. Il rovesciamento del governo siriano è un pilastro fondamentale in questo scenario di ripicche. Non importano i dinieghi non dinieghi di Washington a base di "noi non c'entriamo": la rete di Bandar comincerà presto a fornire alle sue gang di mercenari nel Levante degli armamenti antiaerei.
Indovinate chi va a Ryadh il mese prossimo, seguendo a ruota Charles d'Arabia: il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama in persona. Nell'àmbito dell'attacco su più fronti intrapreso dalla Casa dei Saud, re Abdallah praticamente implorerà Obama (d'Arabia?) di dare la spinta che manca per rovesciare il governo siriano.
Nello stesso tempo la Casa dei Saud sta cercando di ammassare quanti più "consiglieri" pakistani possibili affinché addestrino i gaglioffi prezzolati che ha piazzato in Siria. Ufficialmente, il diniego non diniego dei pakistani recita che non manderanno in Siria personale armato. [2] Tuttavia, in quello che è un remix della jihad afghana degli anni Ottanta, un pugno di "consiglieri" esperti sarà più che sufficiente.
Poi c'è anche la pantomima nucleare. Già nel 2012 la Casa dei Saud sbandierava l'intenzione di realizzare non meno di sedici reattori nucleari commerciali entro il 2030; a coronamento di questa intenzione, i sauditi hanno firmato un accordo tecnico con Pechino.
La Casa dei Saud ha speso un sacco di grana nel programma di armamenti nucleari pakistano. Non è solo questione di "acquisire tecnologia nucleare" contro l'Iran; per farlo ci vorrebbe troppo tempo. A seconda di quale sarà l'esito dei colloqui tra Tehran e i "cinque più uno" nel corso del 2014, la Casa dei Saud arrivata a livelli mai visti di paranoia potrebbe limitarsi a rovesciare una montagna di valuta pregiata nelle affamate casse di Islamabad per comprare uno degli ordigni pakistani.
In conclusione, Ryadh ha appena offerto tre miliardi di dollari tondi tondi all'esercito libanese perché li usi per comprare armamenti francesi. Qualche francese fuori di sé dall'eccitazione ha interpretato la cosa come una specie di "divorzio tattico" tra sauditi ed amministrazione Obama.
Da qualunque parti la si guardi, c'è da aspettarsi che nel prossimo futuro la Casa dei Saud finisca per provocare qualche grosso casino. Anche a Tehran ci si stanno ponendo dubbi sulla sanità mentale dei sauditi: l'ufficio della Guida Suprema Ayatollah Khamenei sa tutto quello che c'è da sapere sulla paranoia cosmica, sul senescente re Abdullah (ottantanove anni) avviato verso il tramonto, la guerra senza esclusione di colpi per la successione che si sta preparando e l'offensiva guerrafondaia di Bandar Bush.
E questo ci fa tornare al perspicace Charles d'Arabia. Non può non aver notato che esiste un legame diretto tra lo wahabismo medievale ed un Osama Bin Laden. Fino a poco tempo fa, la leadership di ogni banda di islamici arrabbiati del mondo presentava tre caratteristiche in comune: l'aver studiato in Arabia Saudita, aver avuto finanziamenti sauditi, pubbliche o private che ne fossero le fonti, ed aver trascorso un periodo di maturazione in Afghanistan. Il panorama jihadista, oggi, è più vario. Sicché è toccato a Bandar BUsh irreggimentare la nuova generazione di jihadisti in stile google all'interno di un "Fronte Islamico".
Per la Casa dei Saud l'agenda è sempre la stessa: demonizzare la Repubblica Islamica dell'Iran, fare da garzoni obbedienti alla superpotenza e alle altre potenze occidentali e comprare armi a carrettate. Non c'è da meravigliarsi che Charles d'Arabia abbia ballato alla loro canzone; dopo tutto, questi vecchi strampalati tizi buoni a tutti gli usi sono i nostri bastardi migliori.

[1] Pak Saud defence cooperation agreed, The News, febbraio 2014.

sabato 22 febbraio 2014

Il Segretario di Stato Kerry si reca nello stato sionista. I risultati della visita secondo Conflicts Forum



In dieci anni l'attualità di questa vignetta non è certo venuta meno.

Traduzione da Conflicts Forum.
 
Certe cose le abbiamo già sentite parecchie altre volte. Ci risiamo con una "ultima possibilità" per una soluzione basata su due stati, e magari con "l'ultimissima" possibilità per la "pace" tra palestinesi e stato sionista? Perché dovrebbe essere una cosa diversa, stavolta? Il Segretario di Stato Kerry sta esercitando pressione con successo su Bibi Netanyahu perché faccia concessioni -vale a dire si dica d'accordo per la costituzione di uno stato palestinese- che non ha mai voluto fare prima?
I politici europei, che hanno solo una vaga idea di quello che sta venendo fuori dai negoziati dal momento che non possono intromettersi in prima persona negli scambi tra Kerry e Netanyahu, pensano che nonostante tutto stavola le cose potrebbero andare diversamente. E magari potrebbero avere ragionie; peccato che l'ottimismo europeo abbia dalla sua più che altro l'interpretazione che gli europei fanno del fuoco di fila di insulti e del tiro incrociato che hanno luogo a Tel Aviv. A far loro pensare che stavolta gli ameriKKKani potrebbero averla vinta è soprattutto questa tensione politica interna allo stato sionista; in ogni caso, gli europei non si trovano in una posizione tale da poter tratte conclusioni a freddo sulle prospettive possibili, dal momento che non conoscono i dettagli dei colloqui a porte chiuse.
AmeriKKKani ed europei sentono anche che i palestinesi si trovano probabilmente nelle condizioni di maggiore debolezza, dai tempi della prima guerra del Golfo; lo si capisce dalla raffica di concessioni che il Primo Ministro Abbas ha dovuto fare. Sentono che Hamas si è spaccato ed è arrivato sull'orlo della scissione a causa dei calcoli sbagliati sulla situazione politica siriana -che hanno privato Hamas di tre alleati fondamentali- e dei massicci attacchi egiziani contro il movimento di Gaza. Gli europei capiscono anche che le pressioni esercitate sui traffici delle colonie sioniste con l'Europa stanno facendo effetto, innescando il timore che si prospetti un futuro disconoscimento della legittimità dello stato sionista. Kerry sta pestando forte su questo punto, nonostante in patria l'aver messo sul tavolo l'argomento gli sia costato reazioni siano state piuttosto pesanti. Quello che è chiaro per tutti è che gli Stati del Golfo vogliono che i sionisti facciano la pace coi palestinesi ad ogni costo, e per questo sono pronti a forzare la mano di Abu Mazen.
Tutto questo contribuisce a definire un quadro complessivo che fa pensare che stavolta gli Stati Uniti potrebbero anche farcela. Kerry ha tenuto presente la pretesa di Netanyahu che la sicurezza dello stato sionista venga prima di ogni altra cosa, presentandogli un piano statunitense per la West Bank; ha preso in considerazione la pretesa sionista che lo stato sionista venga riconosciuto come stato-nazione del popolo ebraico, si è detto d'accordo con l'istanza sionista secondo la quale ogni accordo va considerato provvisorio, e non finale o definitivo come i palestinesi avrebbero voluto, ha accettato senza commenti la richiesta dei sionisti di mantenere una presenza nella Valle del Giordano per almeno cinque anni, in un contesto in cui il temporaneo finisce spesso per diventare permanente, e infine si è dichiarato d'accordo sul fatto che di diritto al ritorno per i palestinesi non si parli neanche più. Kerry ha fatto proprio anche l'assunto secondo cui la capitale palestinese non deve essere Gerusalemme, ma una qualche località compresa nella Grande Gerusalemme.
In breve, Kerry ha fatto di tutto e di più per rassicurare lo stato sionista per quanto riguarda la sicurezza; si è spinto ben oltre qualunque "linea rossa" palestinese. Per quale motivo non si dovrebbe arrivare ad un accordo? Perché i sionisti non colgono al volo l'occasione, adesso che Kerry ha adottato quasi del tutto le posizioni di Netanyahu?
Quasi di sicuro, alla fine verrà fuori un documento: c'è comunque la probabilità che tutto il fare la spola di Kerry non porterà ad altro che ad una riproposizione dei parametri dei tempi di Clinton; linee guida generiche per i negoziati cui le parti dànno un assenso altrettanto generico intanto che avanzano riserve circostanziate che tolgono ogni significato ai parametri di cui sopra, come già successo con la roadmap e ai tempi di Clinton. In questo modo un'altra "ultima possibilità" per la pace finirà probabilissimamente per diventare semplicemente un documento in una successione di documenti, destinato a gettare le basi per una futura ed ulteriore tornata del cosiddetto "processo di pace".
Perché le cose dovrebbero andare in questo modo? Perché gli eventi dovrebbero mostrarsi così elusivi, così irrispettosi degli sforzi ameriKKKani? La risposta forse si trova nel modo in cui il "processo di pace" è stato concepito sin dall'inizio; un modo che si è rivelato errato ma che è diventato una specie di icona dottrinale, all'interno del quale semplicemente non esiste posto per le critiche.
La premessa del processo di pace è sempre stata il fatto che lo stato sionista debba necessariamente cercare di conservare una maggioranza ebraica all'interno dei propri confini. Col passare del tempo e con la crescita della popolazione palestinese, lo stato sionista si ritroverà ad un certo punto in condizioni di dover dare il proprio benestare ad uno stato palestinese, anche solo per mantenere una maggioranza ebraica al proprio interno. Questo significa che soltanto consentendo ai palestinesi di avere un proprio stato, e liberando dunque parte della popolazione palestinese che controlla, lo stato sionista può conservarsi a maggioranza ebraica.
Questo semplice assunto è alla base della dottrina che mette la sicurezza avanti ad ogni altra cosa. Venendo incontro alle necessità di sicurezza dello stato sionista così come esso le concepisce e che vengono intese come la principale cosa cui ottemperare, esso consentirà allo stato sionista di guardare con fiducia alla soluzione basata su due stati, cosa che all'epoca era dato ampiamente per scontato fosse nei suoi interessi. Per tutti gli ultimi ventun anni si è pensato che la "soluzione" del problema palestinese passasse dal rafforzamento della sicurezza dello stato sionista. L'iniziativa di Kelly, come si può vedere, si basa per intero su questo stesso assunto.
Eppure, lo stato sionista non si è mosso in nessun modo per far fronte all'evidente fenomeno in corso, nonostante le opportunità nel corso degli ultimi diciannove anni non siano certo mancate; non si è messo al riparo dalla demografia e men che meno sembra disposto a "concedere" oggi ai palestinesi un loro stato. Ci si chiede a volte come mai ancora i due stati non si siano concretizzati, nonostante la logica sia così stringente.
Non è che sono sbagliati sia la premessa originaria secondo cui "lo stato sionista ha sicuramente necessità che esista uno stato palestinese", sia il suo corollario secondo il quale la promozione della sicurezza sionista è la conditio sine qua non per arrivare ad una soluzione basata su due stati? Non è che lo stato sionista, forse, ipotizzava qualcosa di alternativo rispetto a quello che si prospettava come l'inevitabile delinearsi di due stati sovrani con eguali diritti politici per tutti i cittadini? In concreto, le azioni sioniste sul terreno non fanno assolutamente pensare che lo stato sionista si sia mai accinto in alcun modo a preparare la transizione verso una soluzione basata sull'instaurazione di due stati con frontiere nettamente stabilite e con uno stato palestinese sovrano. Non si è neppure abbozzato un piano per una definitiva separazione e per l'autonomia di due apparati infrastrutturali differenti; tutt'altro. Al contrario, tutto fa pensare l'opposto: ovvero che si sia affossata in ogni modo la soluzione che prevedeva l'instaurazione di due stati dai confini definiti.
Tutto questo fa pensare che lo stato sionista abbia idee tutte diverse, e contrastanti con quelle che il consesso internazionale ha sempre preso per buone.
Secondo il professor Mushtaq Khan i negoziati di Oslo si basavano su un assunto fondamentale, ovvero che i margini di negoziazione per i palestinesi fossero semplicemente privi di qualunque rilevanza. Khan scrive anche che "Tutti sapevano voe si sarebbe andati a parare. Alla fine, la soluzione basata su due stati si sarebbe fatta strada perché la potenza dominante... l'avrebbe accettata, perché concideva con i suoi interessi... [e] questo era l'unico modo con cui lo stato sionista poteva assicurare al sionismo una base demografica".
Il professor Khan rilevò che la presunta inevitabilità dell'instaurazione di uno stato palestinese era insita nella struttura dei colloqui, che si tennero per intero come se si trattasse di un esercizio di costruzione della fiducia piuttosto che di un negoziato serio, basato su poteri di negoziazione. "Ci si siede al tavolo, ci si conosce l'un l'altro [e] non ci si preoccupa più di tanto... alla fine, saranno loro [i sionisti] a darci quello di cui abbiamo bisogno".
In verità le cose non sono certo andate in questo modo. E' sempre Khan a spiegare: "Fin dall'inizio sapevamo che Oslo non avrebbe funzionato.. Dopo la firma ad Oslo, lo stato sionista non si è staccato dai territori palestinesi occupati. Di fatto, lo stato sionista ha invaso in maniera sempre più rilevante i territori. Ha siglato trattato dopo trattato per prendere il controllo sulle variabili fondamentali dell'economia palestinese: il commercio estero, le tasse, la valuta, i movimenti della mano d'opera... L'integrazione con lo stato sionista ha un carattere singolare: non è né un'integrazione né una separazione, ma un contenimento [asimmetrico] le cui condizioni sono definite dallo stato sionista. Questo significa che lo stato sionista ha dilagato nei territori palestinesi occupati e cerca di controllarli dall'interno. Perché mai fare una cosa del genere, se [davvero si ha l'intenzione di] tornare ai confini del 1967? Che logica ci sarebbe?"
In concreto, si faceva strada una logica ben diversa. Una logica che non teneva in alcun conto il punto di partenza di una inevitabile costituzione di uno stato palestinese, e che ai sionisti pareva aprire la possibilità sul piano politico di evitare ai loro leader il grattacapo di come mantenere lo stato sionista come patria per tutti gli ebrei su un territorio fisico che comprendeva una numerosa popolazione palestinese.
Le implicazioni di quest'ultimo punto arrivano al nocciolo del calcolo fatto dallo stato sionista sul vantaggio di statuire una Palestina racchiusa in frontiere internazionalmente riconosciute. Il problema principale è proprio quello delle frontiere nette, e di quello che significano per lo stato sionista. La soluzione dei due stati non permette di risolvere facilmente il problema di come mantenere "una patria per gli ebrei", anzi, minaccia di aggravarlo. Tzipi Livni lo ha detto chiaramente nel 2008 a dei negoziatori palestinesi, nel corso di una precedente tornata di colloqui: "lo stato sionista è stato fondato per diventare la patria degli ebrei di tutto il mondo. Un ebreo ottiene la cittadinanza appena entra nello stato sionista, dunque non dite nulla sulla natura dello stato sionista... Il fondamento dello stato sionista è che esso esiste per il popolo ebraico... Lo stato sionista è lo stato del popolo ebraico, e mi preme sottolineare che "il suo popolo" è il popolo ebraico... Il vostro stato costituirà la risposta alle necessità di tutti i palestinesi, compresi i rifugiati" [il corsivo è nostro, n.d.a.].
In tutto il territorio della Palestina storica costituito dallo stato sionista e dai territori occupati la percentuale di popolazione palestinese può passare dal 40-50% al 20% rispetto a quella ebraica, proclamando uno "stato palestinese"; tuttavia la vulnerabilità politica intrinseca al fatto che rimarrebbe una popolazione palestinese non ebraica a diritti ridotti in uno stato ebraico rimarrebbe in ogni caso. E questo venti per cento, che diventa un quaranta o cinquanta per cento senza la proclamazione di uno stato palestinese, sarà comunque costituito da cittadini di second'ordine, non foss'altro che per il fatto che innanzitutto si dovranno fornire fisicamente abitazioni, terra, acqua ed altre risorse ad ogni ebreo che deciderà di esercitare il proprio "diritto al ritorno" nella propria "patria".
Se si devono mettere in conto diritti differenziati per il quindici o il venti per cento della popolazione e rischiare così di farsi delegittimare come stato fautore dell'apartheid -cosa che si verificherebbe certamente- perché non tenere nelle stesse condizioni il trentacinque o il quaranta per cento della popolazione, e al tempo stesso rispettare la visione sionista nella sua interezza mantenendo il controllo della West Bank o almeno di gran parte di essa? Il pensiero sionista desidera forse avere da qualche parte delle frontiere precise, da un punto di vista strategico? La risposta è no. Lo stato di ambiguità intrinseco nell'avere delle frontiere indefinite permette margini di manovra più ampi. In fin dei conti, che cosa guadagnerebbe lo stato sionista dall'abbandono di alcuni territori quando dovrebbe comunque dare agli occhi del mondo una spiegazione del perché continui a mantenere una quota significativa dei propri cittadini in condizioni di minorità, e affrontare le montanti accuse di apartheid? A meno che, ovviamente, non si riescano a convincere i palestinesi e la comunità internazionale a dirsi innanzitutto d'accordo sul fatto che lo stato sionista è "lo stato-nazione e la patria degli ebrei".
Il punto è proprio questo. Per i palestinesi sottoscrivere -come viene loro chiesto- una cosa del genere significa legittimare e sorvolare su tutte le sofferenze, sulla dispersione e sullo sradicamento dalle loro antiche terre che hanno dovuto subire perché questa "patria" venisse costruita; finirebbero per sostenere la subordinazione in stile apartheid dei palestinesi rimasti al di là della Linea Verde, e dal momento che la definizione di Netanyahu parla di una patria per tutti gli ebrei (e non per quelli che si trovano oggi nello stato sionista) si apre anche la questione di come impedire che le falde acquifere e le altre risorse condivise vengano sfruttate fino all'esaurimento dal travolgente "diritto al ritorno" degli ebrei, laddove di "diritto al ritorno" dei palestinesi non si parla neppure. I palestinesi non ci staranno. Una formula come questa, intesa come viene intesa oggi, dimostra che dall'esperienza del Sud Africa non si è imparato niente. Quello della riconciliazione è innanzitutto un processo psicologico, e non una questione politico-legale come invece la si intende oggi.
Le tensioni politiche interne allo stato sionista, chiare anche agli occhi degli europei ed alla base del loro ottimismo di questi tempi sono nella loro essenza probabilmente più complesse di quanto potrebbero esserlo se fossero solo il risultato del fatto che gli Stati Uniti stanno per arrivare ad una soluzione del problema. Le tensioni politiche esplose dopo la missione di Kerry sono con ogni probabilità il frutto di un disaccordo profondo, vivo nello stato sionista, sul fatto che Netanyahu abbia anche solo affrontato assieme a potenze esterne la questione della patria ebraica, sul fatto che abbia chiesto a palestinesi e a non ebrei di dare ad essa il loro "riconoscimento". La maniera sionista consiste nel fare le cose e basta, nel costruire dati di fatto sul terreno, piuttosto che nel cercare la "legittimazione" da parte di chissà chi. In questo senso, Netanyahu ha aperto ad un'intromissione esterna il sensibile dibattito su che cosa dovrebbe costituire al giorno d'oggi la base stessa del sionismo. All'interno dello stato sionista, è una questione che divide profondamente, una questione persino esplosiva. Le fibrillazioni della politica interna notate dagli europei potrebbero riguardare più questo argomento che non un qualche segnale sull'imminente accettazione di uno stato palestinese da parte dello stato sionista.
I vertici della politica sionista e di quella palestinese, sia pure per motivi diversi, probabilmente non sono in grado sul piano politico di arrivare ad una vera soluzione: "non hanno nulla da mettere sul tavolo". I sionisti in genere non vedono perché dovrebbero fare concessioni ai palestinesi: ai loro occhi, i musulmani di tutto il Medio Oriente "si stanno scannando a vicenda"; Siria, Iraq ed Egitto sono deboli, l'Iran sta dialogando con gli Stati Uniti, le difese dello stato sionista non sono mai state così forti e i palestinesi sono tranquilli e divisi. Perché mai turbare questa situazione? Allo stesso modo, anche ai vertici di al Fatah, sono in pochi a credere che le "misure rassicuranti" che Kerry ha in mente per lo stato sionista siano qualcosa di più che una svendita della causa palestinese. Comunque, è in corso uno scaricabarile. Abu Mazen offre concessioni cui non può ottemperare, per mettere i bastoni tra le ruote a Netanyahu; Netanyahu invece usa il riconoscimento della patria ebraica come un ostacolo che pensa insuperabile per Abu Mazen. Entrambi sperano che in questa specie di melina nessuno dei due rimarrà con il cerino in mano.
Ed anche un Segretario di Stato ameriKKKano, una volta tornato a casa, può trovarsi a cozzare contro dei limiti sia per la pressione che può esercitare sui vertici della politica sionista, sia per lo scetticismo che a Washington si nutre sul fatto che valga la pena di farsi ulteriormente coinvolgere nella diatriba tra sionisti e palestinesi.
Che succede se quest'ultima schermaglia finisce per produrre un documento che entrambe le parti terranno riservatissimo, ma che contiene comunque dei "termini di riferimento"? Probabilmente non succede gran che, almeno nel prevedibile futuro. Non esistono molte prove a favore del fatto che sia in preparazione un'altra intifada. Abu Mazen potrebbe dimettersi, e i palestinesi potrebbero a quel punto provare la delizia di concedersi a quel Mohammad Dahlan privo di ogni scrupolo, che i paesi del Golfo hanno preparato per loro. Nello stato sionista, le istanze pacifiste sono appassite da un bel po'. E gli stati mediorientali, per adesso, sono più attenti a guardarsi l'ombelico che non ad impegnarsi per la causa palestinese. Peccato per i palestinesi.

venerdì 21 febbraio 2014

La Repubblica dell'India, le gazzette, i fucilieri e l'expo di Milano


Nella penisola italiana le gazzette hanno un rapporto con la realtà tutt'altro che ambiguo, dal momento che si limitano ad evitare qualsiasi cosa abbia a che fare con essa.
Solo che la realtà è eludibile fino ad un certo punto, e a volte se ne coglie l'essenza letteralmente tra le righe, come in questo caso.
La politica "occidentalista" sta da anni tentando di piazzare ai primi posti dell'agenda setting la vicenda di due militari tutt'ora detenuti nella Repubblica dell'India. Lo impongono questioni lobbistiche abbastanza precise ed esigenze elettorali relativamente ben identificabili. Della professionalità e dell'autorevolezza con cui questo viene fatto abbiamo già trattato a suo tempo.
Nel corso dell'ultimo anno le ubbidienti gazzette hanno fatto quanto in loro potere per ridurre la Repubblica dell'India -potenza industriale e potenza nucleare con tre milioni e cinquecentomila uomini tra effettivi e riservisti- ad un aggregato di violentatori di bambine. Il solito modo di preparare il terreno. L'idea degli "occidentalisti", adesso, sarebbe quella di impedire alla Repubblica dell'India di prendere parte alla "Expo di Milano", altra questione che abbiamo già sfiorato auspicandone ovviamente l'avocazione a favore di realtà organizzative e sociali più normali.
Nella gazzetta on line che riferisce dell'iniziativa, compare immediatamente sotto anche il titolo di uno scritto che rivela uno dei più autentici e concreti aspetti della esposizione universale milanese.
La verità tra le righe, appunto.
C'è da augurarsi che in India se ne prenda atto; l'umanità consiste anche nel non partecipare in alcun modo ad una cosa del genere.

domenica 16 febbraio 2014

Moni Ovadia e l'essenza del consumismo


Maledetti quelli che mancano il bersaglio.
Una sedicente "attivista" accolta con molta più gentilezza di quanta ne avrebbe meritata. Parigi, aprile 2013.

"...Voglio rammemorare un episodio che ho vissuto una decina di anni fa a Gerusalemme. Ero in compagnia di un grande maestro dell’ebraismo ortodosso -aveva anche una solida formazione occidentale, credo fosse laureato in filosofia alla Sorbonne di Parigi- che a proposito di ciò su cui si stiamo riflettendo ora, mi ha chiesto: "Scusa, ma io in cambio di cosa dovrei cedere i miei valori, i quattromila anni di cammino nella storia, le mie regole etiche, il pensiero della Toràh? Qual è la grande proposta dell'Occidente? Fare finta di leggere un buon libro per discuterne in un salotto? Mettere il sedere su una macchina e fare trecento chilometri insieme a migliaia di altri pecoroni per andare a fare il weekend? Vivere solo sulla base del valore dei soldi, visto che le grandi conquiste dei diritti sono state svendute a un iperliberismo forsennato? Questo avete da proporre? Non vi sembra un po' pochino?”. Ora, l’Occidente che ha fatto bancarotta pretende ancora di dare lezioni a destra e a manca senza avere più nessun valore se non quello della vendita di sé e del denaro! Io critico aspramente le regole di sistemi valoriali occlusivi, ma devo riconoscere che Jovica ha detto una cosa di un’importanza fondamentale: vai pure fuori dalla comunità se vuoi, però se stai dentro un quadro di riferimenti, devi stare in quelle regole, semplicemente per rispetto degli altri. Per esempio, io non vivrei come vivono gli ebrei ortodossi, ho una distanza critica rispetto ai loro sistemi educativi, ma devo riconoscere che la loro vita è carica di senso. La nostra è diventata completamente insensata. L’Occidente, dopo avere perpetrato il più vasto crimine della storia, il colonialismo, continua a conservarne l'arroganza e pretende che il proprio modello sia il paradigma di ciò che è buono e giusto per tutti, mentre è solo uno dei modi possibili e neppure il migliore. […]
Trovo una lezione mollo significativa in una cosa che dice Jovica: “Se vuoi, puoi andare, però se vuoi stare in questo quadro, devi stare dentro queste regole. Se non ti piace, esci da questa società e sei libero dì fare quello che vuoi”. Prendiamo il mio caso: se voglio relazionarmi agli ebrei ortodossi -ebrei con i quali non condivido gran che a parte certi valori etici molto belli-, se voglio incontrarli nel loro ambito per misurarmi con loro, devo rispettarne le regole.
Così come non entro in una chiesa in brachette corte. Se voglio entrare in una chiesa, lo faccio abbigliato in modo dignitoso per rispettare ii sentire di quei credenti.
Invece, il consumismo è un’ideologia totalitaria che avoca a sé il diritto di irrompere in qualsiasi società, tacciandola di essere retrograda per imporre il proprio misero pensiero omologato. Questo è inaccettabile!"

Moni Ovadia, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, 2013.

sabato 8 febbraio 2014

Ramzy Baroud - In Iraq si teme per l'implosione del paese


Il "democracy export" yankee è da molti anni oggetto di scherno. La gamma  di discipline in cui era sufficiente avere competenze anche minime per accoglierne gli intenti con scettico disprezzo (sin dal loro primo manifestarsi) è pressoché sterminata.

Traduzione da Asia Times

Il Segretario di Stato John Kerry non aveva ancora fatto in tempo a salire sull'elicottero dopo la visitina in Iraq dello scorso anno, che già era chiaro che gli ameriKKKani hanno perso ogni controllo su quel paese che qualche tempo fa volevano riplasmare secondo i loro gusti.
Il 24 marzo 2013 Kerry se ne andò dopo una visita "a sorpresa" che doveva servire a ricordare il decimo anniversario dell'invasione statunitense dell'Iraq. Dieci anni prima gli Stati Uniti avevano investito Baghdad, scatenando uno dei più lunghi e brutali conflitti del secolo. Da allora, l'Iraq non ha mai smesso di versare sangue.
Nel corso della sua visita Kerry non ha offerto alcunché di rilevante, a parte i soliti e prevedibili luoghi comuni sugli asseriti successi nella democratizzazione del paese che suonano più che altro come un epitaffio per quello che si era immaginato come un trionfo per i valori ameriKKKani. Kerry in pratica ha mostrato che dieci anni di guerra non sono stati nemmeno sufficienti a permettere ad un diplomatico ameriKKKano di recarsi in Iraq in modo normale. Gli è toccato fare "una sorpresa" perché in nessun modo un coordinamento tra l'ambasciata ameriKKKana, allora gonfia di sedicimila impiegati, ed il governo iracheno avrebbe potuto garantire per la sua sicurezza.
La maggior parte dei capoclan sunniti sono stati imbeccati con il paradigma politico imposto dagli ameriKKKani quasi immediatamente dopo l'invasione, basato sulla divisione del paese secondo linee confessionali. Le zone sunnite al centro e ad est hanno pagato uno scotto spaventoso all'invasione statunitense, che ha rafforzato le élite politiche che pretendevano di parlare a nome degli sciiti. Gli sciiti nei primi tempi erano per lo più propensi ad assecondare gli interessi iraniani, ma hanno cominciato lentamente a diversificare le proprie istanze.
Dapprincipio gli sciiti sono stati al gioco degli statunitensi e si sono mossi col pugno di ferro contro coloro che osavano resistere all'occupazione. Col passare degli anni però il Primo Ministro in carica Nouri al Maliki ha trovato nell'Iran un alleato più affidabile e adatto agli interessi confessionali ed economici. Di conseguenza l'Iraq è caduto nelle mani di una strana e mai esplicitata troika in cui gli Stati Uniti e l'Iran hanno una grossa influenza politica e dove un governo a predominanza sciita ha saputo barcamenarsi con intelligenza ed è riuscito a sopravvivere.
Ovviamente, un paese grande come l'Iraq, con la storia che si ritrova, non finisce da solo in mezzo ad un marasma confessionale. Solo che i politici sciiti e sunniti, gli intellettuali che hanno rifiutato di aderire all'archetipo di politica intollerante che domina largamente sono stati da un bel po' messi da parte, improgionati, uccisi, deportati, o semplicemente laciati senza alcuno spazio nell'Iraq di oggi. L'identità nazionale è stata soppiantata dall'identità confessionale, tribale, religiosa e razziale.
Oggi lo staff dell'ambasciata statunitense conta cinquemilacento addetti, ma le imprese ameriKKKane stanno abbandonando i loro investimenti nel sud, laddove si trova la maggior parte dei giacimenti di petrolio del paese; ed è al sud che Maliki prevale.
Maliki ovviamente non fa testo per tutti gli sciiti e non ha alcuna tolleranza nei confronti di chi dissente. Nel 2008 intraprese una guerra brutale per riprendere Bassora alle milizie sciite che avevano osato sfidarlo. In seguito ha colpito l'Esercito del Mahdi del religioso Muqtada al Sadr, in un quartiere alla perfieria di Baghdad. Ha vinto in tutti e due i casi, ma gli è costato caro. I suoi antagonisti sciiti sarebbero felici di vederlo perdere il potere.
Maliki, comunque, è stato ancora più brutale nei confronti della dissidenza sunnita; il suo governo, secondo un copione adottato dalla maggior parte delle dittature arabe, va dicendo di aver combattuto il terrorismo sin dal giorno del suo insediamento.
I gruppi sunniti militanti, alcuni dei quali affiliati da Al Qaeda, hanno potuto trarre vantaggio dalla situazione caotica per promuovere la loro ideologia. I sunniti iracheni hanno subito ogni genere di umiliazione, nei lunghi anni che hanno preceduto l'arrivo di Al Qaeda nel paese per gentile concessione dell'invasione statunitense.
I gruppi tribali sunniti del paese, nonostante tutti i tentativi fatti per arrivare a negoziare per loro una qualche consistenza sul piano giuridico che aiutasse milioni di persone a sfuggire all'inferno della guerra, sono stati messi da parte ed umiliati. L'ex Segretario alla Difesa statunitense Ronald Rumsfeld, come si sa, aveva una spiccata preferenza per l'accanimento contro i sunniti di qualsiasi appartenenza che sostenessero o anche solo tollerassero la resistenza.
Nel dicembre del 2011 l'ultima colonna militare statunitense si è snodata come un serpente sulla via per il Kuwait, lasciando un Iraq nella peggior situazione possibile: un governo centrale settario e corrotto oltre ogni limite, e un mucchio di partiti litigiosi in guerra tra loro per il potere o la vendetta.
Nonostante tutto l'Iraq è ancora molto importante per gli ameriKKKani. Dal punto di vista militare è stato un esperimento fallito, ma le sue risorse di petrolio e gas naturale sono ancora abbondanti. Per di più il paese sta diventando più ricco, la quota del budget iracheno per il 2014 "prevede esportazioni medie di tre milioni e quattrocentomila barili al giorno; oltre un milione di barili in più rispetto all'anno precedente", secondo gli esperti dell'Economist. Forbes invece riferisce che per quanto riguarda il mercato degli idrocarburi "all'orizzonte si prospettano sicuramente dei cambiamenti radicali".
In prospettiva la produzione potenziale di greggio in Iraq è tale da "minimizzare tutto il resto", afferma il Canada's Globe and Mail facendo riferimento a Henry Groppe, un ascoltato esperto in materia: a suo dire "Si tratta di qualcosa che tutti vorrebbero vedere e seguire, più vicino possibile".
Nelle conclusioni tratte in materia di prospettive per l'energia in Iraq nel 2012, l'Agenzia Internazionale per l'Energia affermava che la produzione irachena avrebbe potuto "raggiungere gli oltre nove milioni di barili al giorno nel 2020", cosa che avrebbe "eguagliato la più alta crescita nota in tutta la storia dell'industria estrattiva mondiale".
Ci sono ancora molti occhi attenti sulla situazione. Kerry e l'amministrazione statunitense non si fidano molto di Maliki, che considerano troppo vicino a Tehran per essere affidabile. Tuttavia l'uomo forte in Iraq è lui, e secondo la BBC ha ai suoi ordini novecentotrentamila armati "nell'esercito, nella polizia e nei servizi". Una cosa di cui gli ameriKKKani devono pur tenere conto.
E poi, è difficile mettere le mani sulle risorse irachene. Chi comanda fida nel fatto che la lotta dell'esercito regolare contro i gruppi sunniti, contro gli affiliati di Al Qaeda e contro gli altri gruppi armati nella provincia di Al Anbar ed altrove si svolge fuori dai principali campi petroliferi del paese. Ma non dovrebbe dimenticare che la guerra civile è qualcosa che sfugge velocemente ad ogni controllo: il conto dei morti -ottomila persone nel solo 2013, per lo più civili- desta allarme: secondo le Nazioni Unite è la cifra più alta dal 2008 ad oggi.
Pare che l'Iraq stia tornando ai propri anni peggiori. Stavolta gli Stati Uniti hanno troppo poca influenza sul paese per poter pensare di controllare gli eventi da lontano. "Questa lotta è affare degli iracheni", ha detto Kerry nel corso di alcune dichiarazioni rilasciate durante una visita a Gerusalemme. Con la scarsa presenza militare e diplomatica che hanno, gli Stati Uniti possono fare poco. Ma a voler dirla tutta, hanno già fatto abbastanza.

Ramzy Baroud è un editorialista di levatura internazionale, un consulente mediatico e redattore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è My father was a freedom fighter. Gaza's untold story (Pluto Press, Londra).

martedì 4 febbraio 2014

Claudia Cernigoi fa saltare con la dinamite il Magazzino 18. Con Simone Cristicchi dentro e sotto gli occhi di Casaggì Firenze.


Copricapo, vestiti e sigarette da ghetto yankee di sei generazioni fa, ma refezione identitaria.
Un ggiovane "occidentalista" dall'aria compostissima e consapevole celebra la "giornata del ricordo" imposto per decreto legge.

Gli argomenti "foibe" e "confine orientale" vengono trattati qui a cadenze fisse, in occasione della passeggiata tra amici organizzata ogni anno da Casaggì Firenze. Si tratta dell'unica iniziativa pubblica che l'occidentalame fiorentino riesce a realizzare in un ambiente che ha sempre accolto le istanze "occidentaliste" con indifferenza scostante o -più spesso- con scoperta ed ostile derisione. A renderla possibile provvede uno schieramento di gendarmi degno delle migliori giornate al pallonaio, e l'intera iniziativa ha in comune con il pallonaio e con le sue logiche alcuni assunti di base. Nel "pensiero" condiviso dalla maggior parte dei sudditi, il pallonaio è inizio, termine e paragone di ogni fenomeno sensibile e non esiste aspetto del reale che non possa essere categorizzato dicotomizzandolo allo stesso modo. Quando si ha a disposizione un pubblico che "ragiona" secondo questi schemi è possibile servirgli la propaganda desiderata contando sul rapido smaltimento della dissidenza, specie se si tratta di una dissidenza rimasta ai tempi in cui argomentazioni, logica, sobrietà e memoria storica avevano la preminenza sulle ciance, sul "tifo" e sull'arroganza di tipo televisivo, per non parlare del cicalceccio cinguettatorio da Libro dei Ceffi diventato ormai coessenziale ad una pratica politica sempre più impotente ad influire sul piano del reale.
Nel gennaio del 2014 un certo Simone Cristicchi ha avuto un guizzo di popolarità a Firenze: della contestazione subita in un teatro di periferia si è già detto, e a strettissimo giro di cinguettio o di Libro dei Ceffi sarebbe arrivato a questo signore anche un invito da parte del lehendakari fiorentino Matteo Renzi.
Similia similibus, e qui si fermano le gazzette.
Dopo le gazzette -e nonostante le gazzette- ci sono le persone serie.
Alcune persone serie erano tra i contestatori. Ed indicano dove trovare la sceneggiatura dello spettacolo di Cristicchi. Leggerla è doppiamente utile: evita di esibire cartamoneta a costui e chiude la bocca agli "occidentalisti" delle gazzette, che in questi casi delegittimano il dissenso proiettando su di esso la propria incompetenza.
Un'altra persona seria si chiama Claudia Cernigoi; questa è la sua recensione di Magazzino 18 tratta da Contropiano e qui riportata integralmente perché utile a confutare una certa quantità di operazioni propagandistiche dello stesso genere, che di solito vengono realizzate secondo una prassi dello stesso tipo e che prevede innanzitutto la scotomizzazione degli eventi.
Nello scritto viene più volte nominato lo stato che occupa la penisola italiana: ce ne scusiamo come d'uso con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Quattro anni fa l’editrice Mursia ha pubblicato un libro dal titolo “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, scritto dal giornalista Jan Bernas (oggi portavoce del vice presidente vicario del parlamento europeo Gianni Pittella (PD), figlio dell’ex parlamentare socialista Domenico Pittella che nel 1992 si era candidato nella Lega delle Leghe di Stefano Delle Chiaie.
Il libro non riporta nulla di nuovo dal punto di vista storiografico (risulta dalla stessa sinossi del testo che “Questo non è e non vuole essere un libro di storia” (cit.): oltre ad alcune testimonianze di esuli istriani e di “rimasti”, si limita a ripetere cose già pubblicate più volte (e spesso anche più volte smentite in base a documentazione ufficiale), ciononostante, pur non essendo un’opera innovativa, è corredata da una prefazione di Walter Veltroni (curiosamente, nel sito di Bernas e nella nota biografica inserita nella pubblicazione curata dal Teatro Rossetti di Trieste compare anche una “postfazione di Gianfranco Fini”, che però non risulta pubblicata nel libro messo in commercio). Il libro è stato presentato per la prima volta a Roma in modo bipartisan da Luciano Violante e Fabio Rampelli, allora deputato del PDL (oggi in Fratelli d’Italia), anche se nella nota di cui sopra si legge che sarebbe stato Roberto Menia a presentarlo.
Ed è a questo libro che dice di essersi ispirato il cantautore Simone Cristicchi per il suo spettacolo Magazzino 18 (Bernas infatti risulta coautore del testo teatrale): lo avrebbe comprato dopo averlo visto “per caso” in una libreria, incuriosito dal titolo. In seguito Cristicchi sarebbe venuto a Trieste dove Piero Delbello (direttore dell’IRCI Istituto Regionale Cultura Istriano-giuliano-dalmata) lo avrebbe accompagnato al Porto vecchio a prendere visione delle masserizie degli esuli istriani ancora conservate al Magazzino n. 18. Di questa visita Cristicchi usa dire che trovarsi in quel magazzino pieno di mobili e di altri oggetti è un po’ come visitare Auschwitz (paragone che ci sembra offensivo nei confronti delle vittime di Auschwitz, dato che gli oggetti trovati nei magazzini di quel lager erano stati rubati agli internati che poi furono uccisi, mentre qui si tratta di cose abbandonate dai loro proprietari, che hanno abbandonato le proprie città, ma non furono assassinati), ed ha quindi deciso di mettere in scena la “tragedia degli esuli”, perché, a suo parere, è stata finora ignorata.
Va ribadito a questo punto che a Trieste della questione dell’esodo istriano si è sempre parlato, ed a livello nazionale è quantomeno da vent’anni, dalla dissoluzione della Jugoslavia, che sentiamo ribadire la necessità di parlare di questa tragedia “finora ignorata” ogniqualvolta viene pubblicato un libro o un articolo, quando esce un film, e nel corso delle celebrazioni e commemorazioni indette nel Giorno del ricordo (10 febbraio).
In realtà la legge istitutiva del Giorno del ricordo (n. 92/2004) contempla che in questa occasione vadano approfondite, oltre alla questione dell’esodo e delle foibe, “le più complesse vicende del confine orientale”; e la lettura completa della norma ha creato, e crea tuttora, svariate polemiche sul come raccontare la storia di queste vicende, dato che le associazioni degli esuli hanno ritenuto di dover avere il monopolio delle commemorazioni e pertanto di imporre ad enti ed istituzioni varie di non far parlare relatori non omologati alla loro interpretazione della storia.
In questo panorama si è inserito ora anche Cristicchi, considerato da alcuni un autore “impegnato” per certi suoi spettacoli sulla malattia mentale, sui minatori e sulla guerra. Senza entrare nel merito degli altri suoi lavori parliamo di Magazzino 18, del quale l’autore spiega che “la cosa più complicata è stata raccontare lasituazione storica. Il rischio era ovviamente quello di annoiare e quindi abbiamo sintetizzato un arco di tempo di quarant’anni in cinque minuti di orologio. Anche da qui sono nate diverse critiche, perché sono stato accusato di aver dimenticato, o addirittura omesso di dire certe cose: io non ho omesso niente, ho solo avuto rispetto di un pubblico che viene a teatro, non ad ascoltare una conferenza, ma a emozionarsi, a provare rabbia, a ridere. Lo spettacolo vuole essere anche uno spunto per incuriosire la gente ad approfondire questa storia. Di certo non volevo fare lo storico”.
Cristicchi dunque “non voleva fare lo storico”, ma “emozionare”: intento rispettabilissimo, se solo l’avesse rispettato e non avesse dato in quei “cinque minuti” (che nei fatti si sono però dilatati in tutto lo spettacolo) una lettura storica del tutto falsata, dato che non si è basato su testi storici ma ha riprodotto pedissequamente i vecchi testi di propaganda nazionalista inframmezzati da qualche appunto “antifascista”, probabilmente per apparire bipartisan, coerentemente con la promozione del testo di Bernas. E va detto subito che nella narrazione non viene rispettata la cronologia dei fatti e spesso non è inquadrata correttamente la sequenzialità delle vicende, il che sicuramente non aiuta lo spettatore a chiarirsi le idee su quello che è accaduto.
Nello spettacolo Cristicchi impersona un archivista un po’ burino, Duilio Persichetti, che alla stregua di un Dante Alighieri de noantri si fa accompagnare alla scoperta della storia non da un poeta come Virigilio, ma da un oscuro “spirito delle masserizie” che gli appare nel deposito dei mobili abbandonati dagli esuli giuliano dalmati. E questo Spirito, lungi dal fornirgli dati storici, sembra il portavoce dell’antica agenzia Stefani che lavorava sotto il fascismo (o forse si ispira semplicemente al testo di Bernas, dal quale cita abbondantemente).
“Un’intera regione svuotata della propria essenza. Gente costretta a lasciare la sua terra non per la fame o per la voglia di migliorare la propria condizione, ma perché non si può vivere senza essere italiani”, declama lo Spirito, non considerando che l’Istria non era esclusivamente italiana, ma una regione popolata anche da sloveni, croati ed istrorumeni, e l’essenza istriana, se vogliamo mantenere questa definizione, è data dalla commistione di queste etnie, non dalla presenza dei soli italiani, molti dei quali peraltro rimasero in Istria, restando italiani, come dimostra il fatto che ancora oggi la comunità italiana in Slovenia e Croazia è viva e vitale. Perché in Jugoslavia gli italiani potevano mantenere la propria nazionalità italiana, a condizione di acquisire la cittadinanza jugoslava (ed i cittadini jugoslavi di nazionalità italiana hanno da subito avuto il diritto alle scuole con insegnamento nella madre lingua, a finanziamenti per circoli culturali ed editoria, al bilinguismo nei rapporti con le istituzioni, fino ai seggi garantiti nei parlamenti locali: molto di più di quanto abbiano mai visto le comunità minoritarie in Italia); mentre nel caso in cui non volessero rinunciare alla cittadinanza italiana, il Trattato di pace prevedeva che, in quanto “optanti”, lasciassero la Jugoslavia per andare in Italia. Nessuna “pulizia etnica” (con buona pace del Presidente Napolitano, che con tutto il rispetto, non è un esperto di storia), dunque, ma una banalissima questione di diritto internazionale.
E che non vi fosse un clima di terrore nei confronti degli italiani è dimostrato dalle stesse parole dello Spirito, quando parla di “un’emorragia durata dieci anni”. Per fare un paragone, i tedeschi dei Sudeti dovettero lasciare le proprie case dalla sera alla mattina, senza poter portare via nulla, mentre se gli istriani poterono portare via “persino le bare dei propri cari” e riempire delle proprie masserizie, poi non ritirate, il Magazzino 18, si può ben comprendere la diversità dei due eventi. Infine un altro appunto: lo Spirito dice che “se ne andarono in trecentomila”, ma va precisato che nel 1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati pubblicò una sorta di censimento dal quale appare che i “profughi legalmente riconosciuti” erano 190.905 (i numeri poi furono fatti lievitare con operazioni di conteggio quantomeno discutibili, ma su questo vi rinviamo ai titoli in bibliografia).
Quando poi lo Spirito si mette a raccontare (nei famosi cinque minuti) la storia del confine orientale, sembra essersi ispirato a qualche filmino dell’Istituto Luce: “quei luoghi settant’anni fa erano Italia, anche le pietre parlano italiano”, ma non dice che quei luoghi diventarono italiani meno di cento anni fa, e lo rimasero per una ventina d’anni, dopo la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. “Il tricolore viene issato “non solo a Trento, a Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola, nell’Istria e nelle isole del Quarnaro; ed alla fine “anche Fiume qualche anno dopo si ricongiunge all’Italia”: che ciò sia avvenuto in barba al Trattato di Rapallo e con un colpo di mano, questo lo Spirito non lo ricorda. Non ce n’era il tempo? O perché non era intenzione di Cristicchi di parlare di storia?
Così il “processo di riunificazione si conclude, ma per poco, perché vent’anni dopo il Fascismo (maiuscolo? n.d.r.) “sfalda il delicato equilibrio”: ma lo Spirito non spiega che l’Italia fissò il proprio confine orientale ben oltre a quelli che potevano essere considerati “luoghi dove le pietre parlavano italiano”, come Postumia, Tolmino, Villa del Nevoso (per usare i nomi italianizzati dallo Stato vincitore). Del resto, se Cristicchi più di una volta ha affermato che “un tempo l’Istria si chiamava Italia ed ora si chiama Slovenia e Croazia”, non ci si può aspettare che conosca la geografia, ma dà l’impressione che si sia limitato a ripetere gli slogan della propaganda nazionalista ed irredentista. Per “emozionare”, certamente. E va da sé che l’emozione, non essendo di per se stessa razionale, non ha bisogno di considerare la realtà dei fatti.
Segue una carrellata, piuttosto confusa, che vorrebbe spiegare come il fascismo (noi lo scriviamo minuscolo, signor Spirito delle masserizie), si rese colpevole di violenze antislave (vengono citati l’incendio del Narodni Dom del 1920, il cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi, l’impedimento di parlare nella propria lingua, l’invasione della Jugoslavia nel 1941, i campi di internamento per civili) e da ciò si arriva alla conclusione che gli “slavi”, di fronte a questo fecero l’equazione “italiano = fascista”. Altra mistificazione che serve a creare uno stato emozionale e non razionale, mistificazione diffusa dalla propaganda antijugoslava e non corrispondente al vero, perché l’Esercito di liberazione jugoslavo, così come i militanti antifascisti del Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta) accoglievano nelle proprie file antifascisti di tutte le etnie, e le stesse direttive emanate da Edvard Kardelj parlavano di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”.
In questo modo anche la lettura dello scritto di una bambina che era stata internata ad Arbe serve come apripista per ribadire quell’interpretazione fascista del fenomeno delle “foibe” che risale ancora al 1943, dopo gli eventi istriani post-armistizio: sentiamo come lo Spirito delle masserizie narra i fatti.
Dopo l’armistizio l’esercito italiano si sfalda, arrivano i nazisti e a Trieste viene messo in funzione il lager della Risiera, ma non viene neppure accennato a quante vittime costò il ripristino dell’“ordine” in Istria nell’ottobre 1943, quando le truppe nazifasciste rivendicarono di avere fatto dai diecimila ai tredicimila morti (così i comunicati ufficiali apparsi sulla stampa dell’epoca). E poi, senza che si comprenda la conseguenza temporale dei fatti: “i partigiani slavi agli ordini di Tito scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati e di città in città di paese in paese, di casa in casa arrivano e arrestano i nemici del popolo”.
Da questa descrizione un ignaro spettatore si fa l’idea che durante tutta la guerra i partigiani sarebbero stati “accampati in montagna” (a non fare niente, si suppone) in attesa di “scendere” (è interessante come certo tipo di propaganda insista sul fatto che i comunisti, i partigiani, gli “slavi” non arrivano mai normalmente da qualche parte, ma “scendono”, “calano”, “dilagano” e via di seguito) nelle città a dare la caccia ai “nemici del popolo” (termine questo usato dalla propaganda anticomunista perché mutuato dalle epurazioni staliniane, ma non usato dai partigiani).
Mescolando assieme, senza contestualizzarli, i due momenti delle esecuzioni sommarie, quello dell’Istria del settembre 1943 e quello degli arresti del maggio 1945, lo Spirito ipotizza che potrebbe essersi trattato di vendette verso i fascisti e di vecchi rancori; ma quando “cominciano a sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri, sacerdoti, impiegati statali”, i “processi sommari e le esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti”, e ci si mette a “colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente”, allora si domanda: perché tutto questo?
Come al solito, quando l’intenzione non è di ricostruire fatti storici, ma di “emozionare”, è facile, partendo da un presupposto sbagliato, arrivare a dimostrare un fatto non vero. Perché innanzitutto bisogna dividere i due eventi di cui abbiamo parlato: nell’Istria del 1943 ci furono sì delle vendette sommarie contro i rappresentanti del fascismo (piccoli gerarchi, in genere, non gli alti papaveri), ma fu infoibato un carabiniere solo, nessun podestà, nessun farmacista (perché poi allo Spirito sono venuti in mente proprio i farmacisti fra tutte le possibili categorie professionali, forse perché la famiglia di Luigi Papo, il futuro rastrellatore del 2° Reggimento MDT Istria, gestiva a Montona una farmacia che sotto il fascismo veniva usata come luogo di interrogatorio di partigiani?), sacerdoti uno (che sembra fosse un informatore dell’Ovra).
Poi va ricordato che ai quei tempi le guardie forestali erano militarizzate e che gli “impiegati statali” erano in genere funzionari del fascio, così come i maestri erano coloro che intimidivano i bambini per impedire loro di parlare nella propria lingua, e che le donne potevano essere fasciste esattamente come gli uomini, così come potevano essere ausiliarie nelle forze armate. E se nel 1945 vi furono altre vendette personali, la maggior parte dei morti si ebbero tra i militari internati nei campi (l’internamento in campi lontani dal luogo di cattura era previsto dalle leggi di guerra, ed i militari italiani furono internati anche in campi britannici e statunitensi, dove le condizioni di vita non erano tanto migliori di quelle dei campi jugoslavi), mentre furono arrestati coloro che erano stati segnalati come criminali di guerra; gli antifascisti arrestati erano quei reparti del Corpo volontari della libertà italiani che si erano opposti in armi all’esercito jugoslavo (che era un esercito alleato: sarebbe accaduto lo stesso con il CVL milanese se si fosse opposto agli statunitensi); infine, per quanto riguarda i partigiani “comunisti”, va detto che vi furono anche un paio di esecuzioni (avvenute durante il conflitto) sul motivo reale delle quali d’altra parte non si è mai ricostruita la storia (ma fatti di questo genere avvennero in tutti i corpi della Resistenza, non solo in Italia).
Tutta questa mistificazione (che dura da settant’anni) ha un preciso scopo, che nel testo di Cristicchi (fatto per “emozionare”, ricordiamolo) viene così spiegato: “forse perché gli italiani sono un ostacolo al Sogno (maiuscolo? n.d.r.) di Tito di realizzare una sola grande regione e quindi annettersi anche le zone a maggioranza italiana”, come Zara, l’Istria, Fiume, Trieste per creare “una sola grande Jugoslavia”, dove la “lotta per la liberazione dal nazifascismo giusta e sacrosanta” (bontà loro, n.d.r) qui “sembra un mezzo per raggiungere l’obiettivo del confine all’Isonzo e quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come Liberazione qui prende le sembianze di occupazione”.
Come abbiamo detto prima, per dimostrare una cosa inesistente (il “sogno della grande Jugoslavia”) l’autore (Bernas? Cristicchi?) è partito da presupposti falsi (l’eliminazione di chi non voleva la Jugoslavia), e riesce in tal modo a diffondere dal palcoscenico dei teatri di tutta Italia (ma anche dell’Istria) quelle teorie anti-jugoslave che fino a pochi anni fa erano peculiarità della destra irredentista ma ora sembrano avere preso piede anche in ambienti “antifascisti” e “di sinistra”.
E così arriviamo ad uno dei momenti più bassi (dal punto di vista artistico e civile) dello spettacolo: quando Cristicchi si avvolge un fazzoletto rosso attorno al collo e declama “per realizzare il sogno della grande Jugoslavia bisogna solo dare un calcio allo stivale” ed a questo punto parte il coro dei bambini che cantano la canzone della foiba, “Dentro la buca” (“un colpo alla nuca e giù nelle buca”, davvero delle parole adatte da far cantare a dei ragazzini).
Viene poi data la parola ad un certo Domenico, “staffetta del Regio Esercito”, si presenta, “praticamente un postino” (un militare in guerra sarebbe un postino? se questa non è manipolazione, come la vogliamo chiamare?), che sarebbe stato infoibato ancora vivo assieme a tantissimi altri, recuperato da una foiba… no, non lo sa da che foiba sarebbe stato recuperato perché ce ne sono 1.700 in Istria (i recuperi verbalizzati si riferiscono a molte meno foibe, lo diciamo per tranquillizzare gli spettatori: il maresciallo dei Vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Harzarich, dichiarò agli Alleati di avere esplorato dieci foibe istriane tra l’autunno e l’inverno 1943-44, dalle quali furono estratte 204 salme ed indicò altre cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi). Come Domenico sarebbero stati infoibati Luigi, Tonin, Giovanni, Norma… e qui parte la storia di Norma Cossetto, con le consuete falsità che vi sono state ricamate attorno negli anni, in base ad una inesistente testimonianza di una donna, mai identificata, che avrebbe assistito alle violenze.
Nomi e cognomi degli scomparsi stanno scritti ci spiega Persichetti (che non ha detto i cognomi degli infoibati chiamati per nome, né nell’elencare le categorie degli uccisi ha fatto nomi: perché è uso consolidato, quando si parla di questi argomenti di generalizzare, e teniamo a mente che non è scopo di Cristicchi, come non lo era di Bernas, “fare storia”), per poi contraddirsi dicendo che non si saprà mai quanta gente è sparita in questo modo; si parla genericamente di persone “uccise in tempo di pace” termine che può significare tutto e niente, perché le vendette personali proseguirono per anni in tutta Europa, così come le condanne a morte eseguite dopo i processi ai criminali di guerra furono fatte “in tempo di pace”, basti pensare a Norimberga. Viene citata a questo punto la dichiarazione fatta da Milovan Gilas in un’intervista, pochi anni prima di morire, di essere stato incaricato assieme a Kardelj di andare in Istria per mandare via gli italiani con ogni mezzo. Considerando che Gilas era diventato “dissidente” già negli anni ’50, tale affermazione, fatta a tanti anni di distanza, lascia il tempo che trova, innanzitutto perché non ha alcun riscontro documentale, e poi perché il governo jugoslavo riconobbe alla comunità italiana tutte quelle garanzie che abbiamo descritto in precedenza.
Poi si parla della strage di Vergarolla del 18/8/46 (della quale non vi è alcuna prova che si sia trattato di un attentato e tanto meno di un attentato organizzato per “terrorizzare” gli italiani), come motivo per cui quel giorno “la maggioranza degli italiani che abitava a Pola scelse come l’unica via l’esodo”. Però noi leggiamo sulla Voce del popolo del 5/4/08 che tre settimane prima della strage il CLN di Pola “aveva raccolto 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla Jugoslavia”: il che dovrebbe dimostrare che “l’esodo” era già stato deciso prima della tragedia.
Interessante il punto in cui si sente dire che “tutta l’Istria è occupata dai titini” già prima della firma del Trattato di pace “firmato dai potenti della Terra” (togliendo l’emozione, più prosaicamente, si trattava delle potenze che si erano alleate contro la guerra scatenata dall’Asse, Germania, Italia, Giappone) che “consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana”, come “prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale”. Una riflessione sul fatto che l’Italia avrebbe anche potuto non dichiarare guerra al mondo intero assieme al suo alleato tedesco? Naturalmente no, perché non è di queste emozioni che si occupa uno Spirito delle masserizie.
Ed ancora notiamo come si parli sempre di “titini” e non di Esercito jugoslavo: sentiamo mai parlare di “churchilliani” a proposito dei britannici o di “hitleriani” a proposito dei nazisti? È tanto difficile riconoscere alla Jugoslavia di essere stata uno dei Paesi alleati nella lotta contro il nazifascismo? Certamente, perché se le si riconoscesse questo ruolo si dovrebbe anche riconoscere che l’Esercito jugoslavo aveva il diritto e l’autorità di fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i presunti criminali di guerra per sottoporli a processo, così come fecero gli eserciti delle altre nazioni alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la costruzione dei crimini jugoslavi rivolti contro gli innocenti italiani.
Altro punto interessante è che il diritto di conquista militare viene riconosciuto per l’Italia che aveva annesso i territori occupati militarmente dopo la prima guerra mondiale, anche quelli dove non vivevano italiani; mentre lo stesso discorso non sembra valere per la Jugoslavia, che anzi a seguito del Trattato di pace rinuncerà a zone che aveva conquistato militarmente.
Persichetti poi parla della partenza dall’Istria e della miseria dei campi profughi: “pensi che voleva di’ passà da una casa magari co vista mare… ad un casermone di cemento armato in periferia o a un ex campo di concentramento!”, dice al suo superiore romano. I campi profughi non sono mai piacevoli, è vero, è così è una tragedia quella della bambina morta di freddo nel comprensorio di Padriciano, ma si rende conto il narratore di quanti italiani in Italia, nell’immediato dopoguerra, avrebbero fatto firme false per avere un appartamento in un “casermone di cemento armato in periferia” invece di continuare a vivere nelle baracche o negli appartamenti privi di servizi igienici che erano la norma e non l’eccezione a quei tempi? Non tutti gli esuli istriani abbandonarono la “casa con vista mare” (ed anche questa spesso era un appartamentino privo di tutto) ma provenivano da condizioni di vita di miseria, come la maggior parte della popolazione d’Europa prima del boomeconomico e dopo essere uscita da una guerra disastrosa.
Si passa poi all’elenco di una serie di esuli “diventati famosi”, tra cui Alida Valli (che però viveva a Roma già prima della guerra, dato che Cinecittà si trovava lì e non a Pola, ma questo particolare evidentemente è sfuggito agli autori); una canzoncina è dedicata ai “rimasti”, descritti come disprezzati da tutti, ma alla fine “ancora italiani” com’erano sempre stati (altra contraddizione che non pare preoccupare gli autori: se vi furono dei “rimasti” e “rimasti italiani” vuol dire che non si era “svuotata una regione intera”, che non si aveva paura di parlare italiano, che non c’era alcuna manovra politica per far andare via gli italiani dall’Istria).
Alla fine arriviamo all’altro momento bassissimo dello spettacolo, quando Persichetti, dirigendo il coro dei bambini, prende in giro gli operai che da Monfalcone si erano recati in Jugoslavia per dare una mano a ricostruire le infrastrutture distrutte durante la guerra e per partecipare alla realizzazione di una società socialista dopo vent’anni di fascismo. Alcuni di essi rimasero vittime dello scontro tra Tito e Stalin, quando molti filosovietici (che erano però per la maggior parte jugoslavi, e molti dei quali avevano commesso omicidi ed attentati contro il proprio governo) furono internati nell’isola di Goli Otok. Si tratta indubbiamente di una pagina buia della storia jugoslava, che però avrebbe dovuto essere affrontata diversamente, proprio per la sua tragicità, e non mediante lo spregio di coloro che avevano creduto in un ideale e coerentemente avevano cercato di realizzarlo.
Infine il burino Persichetti dice allo Spirito delle masserizie che giocherà al lotto il numero 18 (spiegando che nella Smorfia tale numero significa “sangue”, sempre per emozionare il pubblico?) e che lui archivia tutto, tranne una lettera inviata alla figlia del proprietario di alcuni mobili rinvenuti, la quale aveva chiesto notizia delle masserizie dei suoi genitori che non li avevano mai “reclamati indietro”. Il che dovrebbe stroncare tutto il plot su cui si basa questo spettacolo: i mobili sono stati abbandonati dagli stessi proprietari, evidentemente perché non ne avevano più bisogno o sarebbe stato troppo complicato farseli mandare nel luogo in cui erano andati a vivere.
Cosa del resto confermata da Piero Delbello in un articolo apparso sul Piccolo del 24 gennaio scorso: nel Magazzino 18 sono conservate “più o meno la metà delle cose che arrivarono subito dopo la guerra dall’Istria, ma che negli anni successivi dalle Prefetture di più città d’Italia continuarono a essere inviate nel capoluogo giuliano. Fatte arrivare dalle varie ditte di spedizioni nelle località di destinazione delle famiglie che ne erano proprietarie, in più casi rimasero nei depositi. Senza che nessuno più le reclamasse. E dunque furono fatte infine convergere in Porto Vecchio, dove oggi occupano una parte del primo piano del 18”.
In pratica si tratta di oggetti che agli esuli (od optanti che dir si voglia) una volta giunti nella città di destinazione, non interessava di conservare, per cui li hanno abbandonati. Cosa comprensibile per i mobili, che forse non potevano trovare posto nelle nuove case consegnate, ma perché non reclamare almeno gli oggetti di famiglia, le fotografie, i quaderni? Quale valore simbolico si vuole attribuire a delle che sono state abbandonate perché i loro proprietari se ne sono disinteressati, non sequestrate né rapinate; e con quale sentimento questo materiale viene paragonato ai magazzini dove venivano accatastate le cose rubate ai prigionieri assassinati ad Auschwitz?
Alla fine di tutto si parla delle vittime dell’una e dell’altra parte, e l’autore conclude “io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà, all’odio, alla guerra”.
Ecco, se Cristicchi fosse partito da queste due belle, significative frasi, ed avesse parlato delle tragedie degli esodi, di tutti gli esodi, senza pretendere di fare storia su un evento specifico (asserendo peraltro di non volerla fare), avrebbe potuto realizzare uno spettacolo di indubbio interesse, emozionando (in questo caso positivamente) e coinvolgendo lo spettatore. Invece il risultato di questa sua ambizione ha prodotto uno spettacolo di propaganda, in quanto il suo intento di creare emozione è degenerato nel voler creare piuttostosuggestione, fornendo agli spettatori dati falsi da cui trarre conclusioni errate.
Come opera di propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito molto bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste terre, vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente intollerabile; ed inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato, a livello mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per gli equilibri delicati del confine orientale.

Le citazioni sono tratte da “Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda, testo completo dello spettacolo + CD”, I Quaderni del Teatro, edizioni Il Rossetti – Promo Music, Trieste dicembre 2013.

31 gennaio 2014


BIBLIOGRAFIA.

CERNIGOI Claudia, Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu 2005.
COLUMMI Cristiana (e altri), Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 1980.
CONTI Davide, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” 1940-1943,Odradek 2008.
GOBETTI Eric, L’occupazione allegra, Carocci 2007.
MICHIELI Roberta – ZELCO Giuliano, Venezia Giulia la regione inventata, Kappa Vu 2008.
PIRJEVEC Jože, Foibe, Einaudi 2010.
PURINI Piero, Metamorfosi etniche, Kappa Vu 2010.
SCOTTI Giacomo, Goli Otok, LINT 1991.
VOLK Alessandro, Esuli a Trieste, Kappa Vu 2004.


domenica 2 febbraio 2014

Casaggì Firenze sfida gli antagonisti


La politica "occidentale" continua ad avere il proprio pilastro fondante nella propaganda, nonostante il democratismo ciarliero e inconsistente dei "nuovi media" faccia pensare il contrario. Questo vale ad ogni livello, dal contesto internazionale ai più minuscoli organi elettivi.
E minuscolo è l'ambiente "occidentalista" di Firenze, che si segnala da sempre per l'inettitudine, l'idiozia, la distruttività e la ridicolaggine dell'operato di chi vi si riconosce, in più di un caso controproducente al punto da lasciare perlplessi circa il mancato scioglimento d'autorità di molte organizzazioni ufficiali, attuabilissimo con un paio di fax e due o tre rampogne per interurbana.
La propaganda presenta moltissimi vantaggi per l'elettorato passivo, ma ha il grosso difetto di presentare un rapporto col reale piuttosto labile, ammesso che ce l'abbia.

Alla fine di gennaio 2014 un certo Simone Cristicchi ha portato a Firenze uno zoppicante spettacolo teatrale su temi che la politica "occidentalista" considera proprio feudo intoccabile, ed ha subìto una compostissima contestazione da parte di persone competenti. Abbiamo sin troppo annoiato i nostri lettori con la materia per trattarne ancora estesamente, sicché basterà ricordare che la propaganda sulle foibe, nel contesto fiorentino, ha avuto l'unico risultato di insegnare alle persone serie un metodo sicuro, pratico ed economico per liberarsi fisicamente degli avversari politici.
L'intromissione della competenza nel campo della propaganda non è cosa che l'occidentalame possa subire senza resistere; due giorni dopo i fatti "La Nazione" di Firenze ospita un trafiletto dall'aria bellicosa sotto il titoletto Raid anti-Cristicchi: Casaggì sfida gli antagonisti.
"E' facile entrare in cinquanta in un teatro popolato da esuli istriani di ottant'anni e fare i prepotenti. Vi aspettiamo il 15 marzo in piazza, come ogni anno. Noi saremo là a centinaia per difendere la memoria dei nostri martiri. Oggi come ieri non si molla di un metro".
Solo che la propaganda è una cosa, la realtà un'altra. Di solito opposta.
Casaggì Firenze è un'organizzazione che i nostri lettori conoscono bene. Ha fatto per anni da pied-à-terre fiorentino per la politica "occidentalista" ed ha ottenuto il massimo della visibilità mediatica e del credito nei pochi anni in cui ha amplificato le istanze del maggior partito "occidentalista" della politica peninsulare, fondato da un fornicatore con la passione per le minorenni. In concreto, si tratta di una quindicina di spaghettifresser specializzati in Libro dei Ceffi ed affissioni abusive, quest'ultime con ogni probabilità condotte usando gli avanzi degli spaghetti come colla da parati.
La sfida non è che la rassegna della servitù che Casaggì organizza ogni anno, cui non sempre si degnano di presenziare i massimi mantenuti -e le massime mantenute- dell'occidentalismo politico. Sullo squallore sconfortante di manifestazioni "nazionali" che rastrellano ogni volta qualche decina di persone abbiamo fornito resoconti piuttosto esaurienti. La situazione politica non lascia prevedere nell'immediato alcun mutamento sostanziale per l'andamento di iniziative del genere e tantomeno per la loro consistenza numerica.
I punti interessanti però sono altri, ed hanno a che fare con quel principio di realtà che pare fatto apposta per contrastare ogni bel proposito.
Il primo è che le sfide annuali di Casaggì Firenze sono rese possibili esclusivamente dalla loro militarizzazione integrale. Questo significa che soltanto un nutrito e parimenti costoso schieramento di gendarmi impedisce agli "occidentalisti" di fare le spese della propria arroganza.
Il secondo è che il "partito" attuale riferimento di Casaggì Firenze ha già presentato Achille Totaro come candidato alle imminenti elezioni amministrative. Sulle competenze di storiografo di questo signore ci siamo già espressi: sulle sue predilezioni esiste una letteratura consistente. E il fatto che "La Nazione" presenti i fermi propositi di Casaggì impaginati con la pubblicità di una casa infame mette su tutto quanto il più adeguato dei sigilli.

sabato 1 febbraio 2014

Le prospettive della conferenza di Ginevra II secondo Conflicts Forum



 Traduzione da Conflicts Forum.

Ginevra II. Molte cose dipenderanno da come finirà la guerra in Siria. L'esito del conflitto influirà sugli equilibri geostrategici della regione, e se non darà ad esso ulteriore slancio, aiutandone la diffusione in Medio Oriente, in Asia Centrale e in Nord Africa, metterà un qualche limite all'ascesa dello jihadismo takfiri. Le sorti del conflitto saranno determinanti anche nel plasmare l'ordine mondiale; la Siria potrebbe o meno rivelarsi la nemesi dell'Arabia Saudita. Sul fatto che Ginevra avrà una qualche influenza su tutto questo, comunque vadano le cose, non è possibile esprimersi con altrettanta certezza. Le prospettive della conferenza sono incerte e persino l'andamento della conferenza intesa come processo decisionale non segue un percorso definito, dal momento che manca un vero programma. Semplicemente, è troppo presto per trarre conclusioni sulla sua importanza, sempre che un'importanza ce l'abbia.
Di cosa si tratta, a Ginevra II? A Ginevra I era chiaro che gli ameriKKKani e i loro alleati volevano imporre un "governo di transizione" su cui vi fosse accordo "ai massimi livelli" -vale a dire su cui fossero d'accordo ameriKKKani ed alleati, e magari anche i russi- che semplicemente usurpasse il Presidente Assad del governo e dei poteri militari riducendolo ad una specie di pallone sgonfio capace soltanto di collaborare alla propria messa da parte. All'epoca si dava per scontato, da parte degli USA e da parte di alcuni dei loro alleati europei, che il presidente della Repubblica Araba di Siria non avrebbe potuto fare alto che chinare la testa davanti alla potenza delle forze scatenate contro di lui. Questi propositi iniziali, in pratica, erano una riproposizione del modello yemenita: le potenze straniere che si mettono d'accordo tra loro in anticipo sull'assetto da dare al paese, e che poi ammanniscono in una conferenza convocata apposta la ricetta già pronta agli yemeniti, che devono soltanto accettare e mettere in pratica.
Ginevra I è fallita innanzitutto perché all'epoca gli USA non avevano alcuna intenzione di arrivare a decisioni condivise con i russi, cosa che si è rivelata possibile soltanto con l'accordo sulle armi chimiche siriane, o perché i "massimi livelli" non erano d'accordo sul da farsi. In secondo luogo, perché gli editti emessi da questi protagonisti di primo piano non avevano nulla a che vedere con le forze in campo, in modo particolare con le forze jihadiste di vario genere, che non accettano la democrazia, non accettano lo stato-nazione, non accettano il laicismo. In altre parole, quanto deciso ai piani alti è servito a poco o nulla perché i combattenti hanno semplicemente ignorato tutto quanto, perché sapevano che c'erano potenze straniere che avrebbero continuato a sostenerli nello scontro militare.
Oggi come oggi, la situazione è molto diversa nonostante Kerry e tutto il coro dei think tank occidentali insistano con la trita retorica sul "necessario" abbandono da parte di Assad, istanza che eloquentemente non trova alcun riscontro tra i servizi di sicurezza e di spionaggio occidentali. I timori sull'ascesa dello jihadismo e sul suo diffondersi in tutto il Medio Oriente ed oltre, nel tempp che è trascorso sono diventati la cosa più importante. Cacciare Assad non è più una priorità. Anzi, il fatto che egli continui a rivestire la propria carica è diventato indispensabile per la sicurezza, sia perché c'è da portare a termine quanto previsto dall'accordo sulle armi chimiche, sia perché c'è da sovrintendere alla vitale guerra contro gli jihadisti.
Si potrebbe dire che Ginevra II sia cambiata fino a diventare un ponticello piuttosto instabile per il passaggio dalla vecchia politica (occidentale) che prevedeva la cacciata di Assad ad una nuova politica finalizzata ad assicurare la stabilità del Medio Oriente con la sconfitta dello jihadismo in quella Siria che ne rappresenta il fronte. Negli Stati Uniti questo cambiamento non è gradito a tutti, e il Segretario di Stato ha qualche problema a fare ammissioni esplicite a coloro cui deve rispondere sul fronte interno. La strategia degli interventisti, negli Stati Uniti e nei loro alleati nel Golfo Persico, che è una reazione al non interventismo del governo statunitense, è quella di alzare le necessità umanitarie della popolazione siriana fino a farle diventare il cavallo di Troia che porterebbe, nascoste nel suo ventre di legno ed ovviamente con i più nobili pretesti, i militari di potenze estere interventiste a tutela dei corridoi umanitari, "per stabilire posti di frontiera non controllati da Damasco che permettano alle Nazioni Unite l'ingresso in Siria, per recare a centinaia di migliaia di persone gli aiuti di cui hanno disperato bisogno" o per definire delle "aree sicure" per i profughi.
Nel caso si arrivasse a questo, le aree sicure all'interno del territorio siriano servirebbero come teste di ponte, come già successo a Bengasi, per far crescere il coinvolgimento straniero entro i confini di uno stato sovrano. Russia e Siria hanno intuito quello che si preparava, e la Siria ha deciso di prevenire il colpo mettendo in anticipo sul tavolo la propria proposta per un raffreddamento del conflitto e per il soccorso umanitario, secondo le proprie condizioni. Condizioni che non prevedono alcuna concessione in materia di sovranità. A Ginevra, tolte le altre questioni essenziali, il problema umanitario è probabile che si gonfi fino a diventare oggetto principale delle schermaglie, dietro il quale si nascondono le vere motivazioni degli interventisti e di tutti coloro, come la Siria, la Russia e l'Iran, che non intendono ammettere alcuna forma di intervento occidentale. La lezione della Libia è stata preziosa.
Per il governo statunitense, ora come ora, il principale obiettivo sembra sia solo quello di mostrare il governo siriano e un settore molto ristretto delle "opposizioni" intenti a dialogare tra loro: di qui l'affermazione del Dipartimento di Stato perché ci si prepari ad un processo di durata indefinita. L'Occidente sta cercando sostanzialmente di mettere dei limiti agli scontri e di evitare di farli divampare fino al punto di minacciare i paesi vicini. Non è probabile che a Washington si attendano molto da questa conferenza: sanno che la delegazione dell'opposizione non ha praticamente alcuna legittimazione sul terreno, che è divisa da conflitti interni e che Assad, sul terreno, è forte. Nondimeno Stati Uniti e Russia sperano che a partire da questo confusionario inizio la palla passi di nuovo nel campo della politica, dopo molto tempo. Anche il governo siriano riconosce il bisogno di un dialogo a livello nazionale per definire il futuro assetto del paese e già da tempo, senza tanto apparire, promuove ampie consultazioni a livello nazionale. Arrivare ad un dialogo concreto, tuttavia, sarà difficile: ne fanno fede le tante occasioni in cui -dicono- l'ambasciatore Ford ha dovuto rampognare e minacciare l'opposizione perché si recasse a Montreux.
Cambiare posizione il più impercettibilmente possibile per arrivare a dare per assodato che Assad rimarrà al suo posto -e c'è poco, in verità, che a questo punto gli Stati Uniti possano fare per cacciarlo- dando al tempo stesso l'idea di mantenere la parola data al Congresso nazaionale Siriano e all'opinione pubblica statunitense, abituata da moltissimo tempo a considerare il Presidente Assad come una specie di mostro, non sarà per il Segretario di Stato John Kerry un'impresa facile. Gli ameriKKKani se ne renderanno conto. A complicare ulteriormente le cose c'è il fatto che la questione Siria sta diventando inscindibile dal negoziato con l'Iran. In realtà lo è sempre stata, ma un nuovo garbuglio in questo nodo ha fatto sì che l'Iran si vedesse ritirato l'invito per la conferenza proprio nel momento in cui gli ameriKKani più che mai avevano bisogno che l'Iran esercitasse la propria influenza, che potrebbe facilitare il passaggio morbido di Kerry ad una nuova linea politica per sconfiggere lo jihadismo nuovamente in ascesa. La caduta di Falluja nelle mani di Al Qaeda negli Stati Uniti ha avuto una potente rilevanza simbolica.
L'altro problema è il fatto che Russia ed Iran pare siano sul punto di siglare un importante accordo in materia di idrocarburi; un accordo che nell'ottica statunitense costituisce una minaccia alla dottrina degli Stati Uniti secondo cui soltanto la pressione delle sanzioni contro l'Iran può portare ad una "soluzione" della questione nucleare. L'esportazione di mezzo milione di barili al giorno alla volta della Russia, che non importerebbe il petrolio per sé ma per inviarlo ai propri clienti in Asia, viene considerata da Washington come il potenziale inizio della perdita di efficacia per le sanzioni. Il Congresso statunitense ha sviluppato un'ossessione per le sanzioni, spalleggiato in questo dallo stato sionista; la Russia no. Alcuni mezzibusti statunitensi hanno cominciato a mugugnare di sanzioni contro la Russia, ma sono solo chiacchiere. La Russia non si è mai aggregata alle sanzioni unilateralmente decise dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea: le considera una mossa illegale perché priva dell'avallo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Fino ad oggi i russi si sono limitati a riferire ai funzionari americani che questo potenziale scambio -l'Iran otterrebbe valuta e beni di consumo- non è affare che riguardi gli Stati Uniti. La cosa farà crescere di centoottantadue milioni di barili la produzione annuale dell'Iran, cosa che avrà la sua importanza per le pressioni che l'OPEC e l'Arabia Saudita esercitano affinché si tagli la produzione da qualche altra parte se si intende mantenere a cento dollari al barile il prezzo del greggio.
Il problema qui è che Obama ha difficoltà ad impedire al Congresso di decidere per ulteriori sanzioni contro l'Iran: un atto che influirebbe molto negativamente sui negoziati con la Repubblica Islamica. Obama è abbastanza vulnerabile ma fino ad ora è riuscito a muoversi in sintonia con il Congresso. L'accordo russo-iraniano potrebbe causare dei problemi, in considerazione del fallace assunto degli Stati Uniti secondo cui soltanto il mantenimento delle sanzioni causerebbe la resa dell'Iran come pensano quelli del Congresso. E' possibile che alla Casa Bianca ci si sia resi conto che l'accordo tra russi ed iraniani e la contemporanea presenza dell'Iran alla conferenza di Ginevra rappresentavano per il Congresso un boccone troppo duro da mandare giù. Di qualcosa si doveva fare a meno: l'Iran si è visto ritirare l'invito per azzittire il coro della politica interna, che ritraeva Obama come troppo tenero nei confronti degli iraniani. C'è da pensare che la Casa Bianca faccia più conto sui negoziati con l'Iran di quanto consideri produttivi i risultati della conferenza di Ginevra.
Cosa permette di concludere tutto questo sul conto di Ginevra II? Intanto, che non ci sono ancora le condizioni essenziali per arrivare ad una soluzione politica del conflitto. Certo, ora i "massimi livelli" dispongono di una base per intendersi e -sì- a Montreux è arrivata una malleabile delegazione di oppositori. Sia Stati Uniti che Russia, poi, stanno cercando di raffreddare il conflitto. Ma questo raffreddamento interessa davvero ai paesi mediorientali che stanno spalleggiando le parti in campo? Se le relazioni disponibili sono accurate, l'incontro dell'ambasciatore Ford con l'opposizione siriana farebbe propendere per il sì. Nel mese di marzo le opposizioni si accorgeranno di drastici cambiamenti nella politica dell'Arabia Saudita perché il principe Bandar e Saud al Faisal scompariranno dalla scena. Anche l'Iran ha rassicurato Russia ed AmeriKKKa che sta cercando di calmare la situazione. Hanno una base, le previsioni di Ford? Da marzo in poi si avrà una conferma, in un senso o nell'altro. Oggi come oggi non c'è alcun segno che i paesi del Golfo intendano disimpegnarsi sul terreno, ad eccezione del Libano, come da noi già illustrato.