sabato 28 agosto 2010

Federico Tosoni e i Rom: le "radici cristiane" di un politico pratese


Abbiamo avuto occasione di dileggiare -per la verità assai meno di quanto meriterebbe- un certo Federico Tosoni in occasione di una incolore iniziativa contro l'Islàmme architettata da lui stesso qualche tempo fa, ed ovviamente finita nel dimenticatoio a tutta velocità.
Per chi non lo sapesse, Federico Tosoni è di Prato, una città entrata in quella conclamata agonia sociale ed economica che molti tra i suoi abitanti hanno costruito con le proprie mani, impegnandosi in questo per anni, anni ed anni con un accanimento degno di molto migliori cause e disprezzando scopertamente chiunque si azzardasse a far loro presenti i limiti di una certa weltanschauung.
Il modus agendi della politica "occidentalista" è sempre lo stesso: si nascondono istanze tra l'incompetente e il disumano sotto una coltre di propanda e si travestono da interessi pubblici interessi privati che come prodotto finale hanno un ulteriore aumento della disuguaglianza e dell'ingiustizia sociale; infine, alla prima occasione si intercettano in blocco i suffragi che simili contesti producono immancabilmente. Dopo la vittoria elettorale "occidentalista" alle elezioni amministrative, Prato è stata promossa sul campo a laboratorio per la politica "occidentalista", i cui esponenti locali hanno sui mass media mano libera in materia agli unici campi in cui possano apparire minimamente competenti e che si compendiano in un securitarismo d'accatto che, in corrispondenza biunivoca al clima di terrore che costituisce il primo risultato dell'opera dei mass media vicini all'"occidentalismo" politico, assicura una rendita di posizione pressoché inesauribile. Gazzettieri e politici devono solo fare attenzione ad utilizzare con cura la graduatoria dei Nemici, passando dai rom agli albanesi e dai cinesi all'Islàmme, evitando al contempo all'elettorato attivo ogni occasione per deviare i processi di attribuzione causale dai bersagli desiderabili.
Simili pratiche, indisturbate da anni in tutta la penisola italiana, hanno prodotto nei mass media e nella classe politica esattamente i risultati voluti producendo un gazzettaio impegnato in blocco in una corsa verso una degenerazione qualitativa capace di ogni abiezione, con unico limite l'appetibilità degli spazi per la raccolta pubblicitaria, ed una classe politica in cui abbondano individui che sono perfetti rappresentanti della sovversione attuale. Nulla di cui meravigliarsi: le parti sane della società hanno da tempo interiorizzato il fatto che la politica istituzionale rappresenta una realtà impresentabile e stigmatizzante da tempo chiusa ad ogni individuo che possieda un minimo di competenze e di rispetto di sé. Questo ha fatto sì che nelle istituzioni la presenza di individui impresentabili e stigmatizzabili divenisse la regola.
A livello locale, questo stato di cose si traduce in laide competizioni tra micropolitici di terza fila, costretti ad emettere quotidianamente qualunque collodio possa servire a sporcare i titoli di testa di qualche gazzetta, sotto pena di perdere visibilità e, a lungo andare, di finire a discarica. Il cicaleccio in cui si impegnano questi mangiatori di spaghetti ha una tale copertura ed una tale estensione da far pensare non abbiano altro da fare a giornate intere.
Federico Tosoni è autoschedato. E di tempo deve averne da buttar via, visto che la sua autoschedatura è piena di puntigliose informazioni sui fatti suoi: pare che possieda addirittura un apparato televisivo e che apprezzi Massimo Troisi e Vasco Rossi. Probabilmente gli piacciono anche due cose che si chiamano Nutella e Juventus o Dormire la domenica fino a tardi e Birra fredda, ma questa è una nostra illazione. Ad ogni modo, oltre a curare con amore la propria autoschedatura, Federico Tosoni è costretto anche a curare i rapporti con i mass media, per i motivi che abbiamo ancora una volta illustrato.

Nell'estate del 2010 il governo teoricamente responsabile dello stato che occupa la penisola italiana vede la totalità dei suoi rappresentanti impegnati in una rissa degna della Spaghetteria da Pulcinella in un mercoledi sera qualsiasi, le cui motivazioni, sostanzialmente, non ci interessa né ricostruire né esporre. E' se mai interessante notare che dell'esecutivo fa parte anche un partito "occidentalista" chiamato Lega Nord.
Lega Nord è il "partito" cui Federico Tosoni appartiene; la cosa piuttosto singolare è che esponenti e fondatori di questo "partito" vanno asserendo da anni la necessità di disgregare quello stesso stato del cui governo fanno parte. La "politica" peninsulare, comunque, mostra da tempo tante e tali putredini da far derubricare una simile incoerenza a mero incidente di percorso.
La situazione venutasi a creare è pericolosa: rischia di togliere dall'agenda setting i richiami al Nemico che la occupano in blocco, e i gazzettieri potrebbero essere tentati da dare troppa visibilità alle tresche in cui conventicole teoricamente responsabili del destino di quella che avevano raccontato fosse una delle prime potenze industriali del pianeta stanno sperperando tempo e risorse.
Per fortuna quello che dicono sia il presidente della Repubblica Francese è venuto in soccorso, in pieno agosto, agli "occidentalisti" in momentanea crisi. Questo Sarkozy, il figlio di un profugo ungherese dalla popolarità piuttosto malmessa e famoso più che altro per le mucose femminili di cui pretende l'accesso in esclusiva, ha avuto l'idea di deportare qualche capro espiatorio tentando di recuperare popolarità accanendosi sui mustad'afin e sul controllo repressivo delle banlieues prodotte in Francia dalla metodica applicazione dei principi base dell'ingiustizia sociale.
La presidenza della Repubblica Francese ha a disposizione aerei e gendarmeria, oltre al necessario per una rivendita mediatica fruttuosa dell'operazione. I federichitosoni dispongono soltanto di quello scampolo di visibilità mediatica che rende la loro parodia del modello ancora più irritante. Questo non è certo un limite, se in concreto si è interessati alla mera visibilità: i mass media permettono agli "occidentalisti" di presentare deportazioni e campi di concentramento come se fossero una conquista della civiltà, lasciando in ombra problemi che non si ha alcun interesse -e tantomeno alcuna competenza- per affrontare.
Federico Tosoni ha dunque raccolto il benedetto assist che gli ha permesso di riacquistare un po' di posto, e non è stato certamente l'unico. Alle gazzette ha dunque fornito, sicuramente con un sospiro di sollievo, un compendio di luoghi comuni perfettamente degno del suo elettorato e più in generale del clima sociale imperante nella penisola italiana.
E la penisola italiana, molto giustamente, è famosa in contesti più normali per il mandolino, gli spaghetti, la criminalità organizzata e la buona fedeltà della sua classe politica ai valori condivisi dai sudditi, tra i quali primeggiano l'evasione fiscale e la frequentazione di prostitute.
Ecco qui una ricerca, sicuramente parziale, sulla copertura mediatica fornita alle dichiarazioni di Federico Tosoni. Fedrico Tosoni deve essere uno cui pare semplicemente inconcepibile che esista qualcun altro cui i campi di concentramento non piacciono e che non approva l'operato dei nuovi, umanissimi sonderkommando sponsorizzati dall'"occidentalismo".

Federico Tosoni: "I rom? Li prenda il Vaticano".
Tosoni (Lega) stavolta attacca la Curia: "Perché non si prendono i Rom in Vaticano invece di farci la morale a noi"
'I rom? Li prenda il Vaticano'
Rom: Lega Nord Toscana: perché Chiesa non li prende in Vaticano?
I ROM - Tosoni(LegaNord):perche' non se li prendono in Vaticano?......
Tosoni (Lega Nord): «Monsignor Brunetti sui rom fa politica. Perché non se li prendono in Vaticano?»

La cosa essenziale da notare è che il "partito" cui Tosoni dice di appartenere ha tra i propri accessori propagandistici anche e soprattutto la difesa delle "radici cristiane della civiltà 'occidentale'"; per la verità attorno a quest'arma propagandistica si assiepano in caso di bisogno "occidentalisti" provenienti da ogni greppia, ma quel che conta è far notare la profonda ed abituale strumentalità con cui gli "occidentalisti" utilizzano qualunque costrutto possa far loro comodo.
La concezione "occidentalista" del ruolo dei religiosi è, come sempre, questa: che non passi loro dalla mente di denunciare le storture di un assetto sociale che è di per sé infero, o di adoperarsi per correggerlo in qualche modo e nei limiti del possibile. L'ideale sarebbe che i religiosi si limitassero a comparire quando servono, per esempio quando c'è da benedire il matrimonio tra l'imprenditor Caio, notissimo bestemmiatore e narratore delle proprie conquiste erotiche a pagamento a L'Avana, e la sciampista Sempronia, buddista, tatuata all'inguine e dotata di una disinvoltura celebre a livello interprovinciale.
Pare che il bizzoso pestar di piedini di Federico Tosoni abbia a motivo le asserzioni di un religioso cattolico, ossia di uno dei competenti custodi di quelle "radici cristiane" cui il suo "partito" dice di tenere tanto, reo di aver disapprovato l'operato del Sarkozy di cui si è detto.
Il motivo di tanta contrarietà è presto spiegato e non ha nulla a che fare né con il magistero pontificio né con la dogmatica o con i sacramenti. In un'ottica coerentemente "occidentalista" il religioso è sostanzialmente colpevole di aver intralciato l'uso propagandistico delle news che documentavano in modo sfruttabile un'iniziativa altrui. Le "radici cristiane" servono solo a fornire materiale identitario per la comunità escludente dell'elettorato "occidentalista" e per costruire a tavolino, in base ad essa, i nemici esterni che si rendessero necessari ad un mantenimento delle posizioni.
La sostanza del comunicato di Tosoni è ispirata, se possibile, ad una incompetenza sostanziale ed ancora più rivelatrice.

“La Chiesa - prosegue Tosoni - dovrebbe aiutare gli immigrati che decidono di stabilirsi sul nostro territorio aiutandoli a integrarsi nel rispetto delle nostre leggi e della nostra cultura, e non come espresso dallo stesso monsignor Brunetti che qualche mese fa invitò gli stranieri di Prato a ribellarsi alle leggi del Governo nazionale. Ma, soprattutto, non dovrebbe fomentare chi sfrutta in maniera parassitaria le risorse dei cittadini che pagano regolarmente le tasse. I rom infatti sfruttano gli allacciamenti del Comune a spese dei contribuenti. Perché la Chiesa non accetta insediamenti di questo genere anche a Città del Vaticano? Perché il Vaticano – conclude Tosoni – non apre le proprie porte all’ondata di clandestini e nomadi che solo l’Italia, a quanto pare, dovrebbe accogliere?

In queste poche righe, un politico pratese cerca di dare lezione di etica ad un'istituzione bimillenaria.
Se questo non fosse abbastanza spassoso, si noti il femminile fastidio con cui Tosoni ricorda che questo monsignor Brunetti avrebbe invitato "gli stranieri di Prato a ribellarsi alle leggi del Governo nazionale". La Lega Nord deve la propria fortuna ai continui appelli all'obiezione fiscale, se non alla lotta armata da attuarsi tramite doppiette bergamasche. Ci risulta aperto anche un processo per banda armata proprio a carico della parte mediaticamente più visibile dell'establishment del "partito". Lo stato del dibattito politico, nella penisola dove si mangiano spaghetti, è arrivato al punto che nessuno trova alcunché di strano nel fatto che un Tosoni che milita in un "partito" del genere ciarli continuamente di legge e di ordine.
Il richiamo al "parassitismo" e al "pagamento regolare delle tasse" ispirano, se possibile, una ripugnanza ancora maggiore dal momento che vengono come sempre dai pilastri umani di un sistema politico che dei condoni, fiscale, edilizio... fino ad un inquietante "condono tombale", ha fatto una vera e propria specializzazione. Su una cosa, tuttavia, possiamo rassicurare Federico: i clandestini e i "nomadi" sono in molti casi assolutamente di passaggio in quel paese che il suo "partito" aveva promesso di disgregare a suon di secessioni: scossa la polvere dai sandali, molto giustamente si recano in tutta fretta in altre e meno mandolinesche terre.
E' molto strano che Federico Tosoni si sia dimenticato di aggiungere, già che c'era, che gli zingari rapiscono i bambini; ma una dimenticanza può capitare a tutti.

venerdì 27 agosto 2010

Giornalismo e "libertà": altre riflessioni


Anni fa riportammo un passo di Incontri con uomini straordinari in cui George Ivanovic Gurdjieff faceva tracciare ad un narratore persiano un ritratto niente male dei gazzettieri della sua epoca e delle sue latitudini.
Il testo che segue attiene allo stesso argomento e viene da un volumetto memorialistico su Gurdjieff redatto da Tchesslav Tchechovitch. Il Prieuré citato nel testo è il Prieuré d'Avon, dove Gurdjieff si era stabilito nel 1922 con i suoi allievi.
I corsivi sono nostri.


A partire dal 1923, quando la Study House fu terminata, Gurdjieff intensificò gli esercizi di movimenti. Da allora, ogni sabato sera ci furono dimostrazioni pubbliche dei nostri esercizi [...] All’estero come in Francia, i giornali parlavano dei nostri saggi pubblici, e questo scatenò una vera e propria invasione di giornalisti al Prieuré. Gurdjieff li accolse molto amichevolmente e fu sempre disponibile a fornire loro informazioni supplementari.
Una volta, a pranzo, parlando con un gruppo di quegli informatori fedeli dell’attualità mondiale, disse:
“Voglio mostrarvi i movimenti che hanno lo scopo di sviluppare diverse facoltà nell’uomo e dargli nuove capacità”.
I signori giornalisti si fecero attenti ed estrassero i loro taccuini.
Presero nota di ciò che volevano, quindi si rifecero attenti.
“E se non deformerete il senso delle mie parole, vi darò informazioni molto interessanti per voi, in quanto giornalisti”.
Dopo pranzo, molti di noi si cambiarono e si esibirono in una dimostrazione di danze e preghiere di diversi popoli nei loro costumi nazionali, subito fotografati dai signori giornalisti. L’inondazione giornalistica durò qualche settimana. Vedendo tutti quei giornalisti non eravamo in grado di dire per quale giornale lavorasse ciascuno di loro, così come leggendo su un giornale un articolo sull’Istituto non sapevamo quale di quei giornalisti ne fosse l’autore. Già molti giornali pubblicavano articoli e foto su Gurdjieff, il suo insegnamento e i nostri esercizi di movimenti. Ma in nessun articolo c’erano le spiegazioni fornite. Uno descriveva le nostre dimostrazioni come degni di figurare in un numero da circo, un altro prevedeva che sarebbe nato uno scandalo, un terzo parlava di un nuovo sistema filosofico e lo giudicava con la competenza di un asino calzato e vestito. A credere a tutto ciò, si sarebbe detto che l’opera di Gurdjieff era la più grande mistificazione dell’epoca. Lo stesso Gurdjieff vi appariva come un ciarlatano o un Cagliostro del ventesimo secolo. Invece di informare il pubblico, questo genere di giornalisti lo sfruttano, e presentano l’attualità deformata a tal punto da renderla irriconoscibile a quelle stesse persone che l’hanno vissuta.
Uno dei giornalisti a cui Gurdjieff aveva promesso informazioni supplementari, e per i quali avevamo posato nelle danze sacre e di preghiera di diversi popoli nei loro costumi nazionali, accompagnò le foto con un testo che dava a quelle pose un senso immorale. Quel giorno Gurdjieff apparve davvero indignato, cacciò via tutti i giornalisti e noi fummo ben felici di rifiutare loro l’ingresso. Molti di coloro che furono mandati via scrissero articoli con un linguaggio paragonabile a quello rivolto dalla volpe al caprone nel pozzo o al corvo sotto l’albero [*]. Essendo sensibile, confesso di aver pensato che Gurdjieff fosse stato ingiusto verso di loro.
Il tempo passò, ed ebbi occasione di venire in contatto con i signori giornalisti. E un giorno lessi come due persone a pranzo in un ristorante udirono un gran clamore che veniva da fuori. Due individui ne stavano picchiando un terzo. I due avventori ne furono indignati e non potendo restare passivi di fronte a una simile vigliaccheria uscirono per difendere la vittima da una tale brutalità. Mentre si avvicinavano, sentirono dire dalla folla intorno:
“E un giornalista quello che stanno picchiando”.
“Ah, un giornalista...”, e tornarono tranquillamente a finire il loro pranzo.
La cosa accadde ai tempi di Turgenev, ed lui che racconta questa storia. La tipologia del giornalista, dunque, non cambia nel corso di un’intera epoca, anche di millenni. La mia compassione verso quelle buone volpi sparì, e capii perché Gurdjieff non concesse mai più interviste.

[*] Allusione a due favole di La Fontaine sui profittatori dell'ingenuità altrui. (N.d.T.)

Tchesslav Tchechovitch, Tu l'amerai - Ricordi di G.I. Gurdjieff, Roma 2004.

giovedì 26 agosto 2010

Roberto Maroni. Pallone, pallonieri, pallonate e Berghem Fest.


Berghem Fest, 25 agosto 2010. Un'accoglienza calorosa.

Non sappiamo con esattezza cosa sia la Berghem Fest e neppure ci interessa gran che saperlo: a grandi linee dovrebbe essere una faccenda di palchi, gazebi e alimentazione di second'ordine, resa peculiare dal fatto che una sera d'agosto avrebbe dovuto fare da passerella per una mezza dozzina di ministri del governo dello stato che occupa la penisola italiana.
Nel 2010 i redditi individuali hanno continuato a scendere, il lavoro a non valere più niente, la cultura ad essere considerata praticamente un insulto, i sudditi ad assumere cocaina e a frequentare prostitute ad immagine e somiglianza dei loro governanti. In altre parole, si deve constatare ancora una volta come l'esecutivo, non avendo alcuna concreta possibilità e alcun concreto strumento per fare per lo meno finta di arrestare il decadimento generalizzato del corpo sociale e delle condizioni di vita nel loro complesso, non possa fare altro che aggrapparsi alla propaganda e alla repressione, unico settore in cui si sta rivelando -peraltro in modo minimo- competente e versata una classe politica che è stata capace soltanto di riempire le galere in politica interna, e di fare da palo alle aggressioni amriki in politica estera.
Come tutti sanno, la frontiera più avanzata della carcerizzazione di ogni aspetto della vita sociale è da tempo rappresentata dal pallonaio.
Si ricorderà -le considerazioni espresse in questa sede sono state molte, in proposito- che nella penisola italiana ai frequentatori di un pallonaio benedetto come valvola di sfogo di un sistema sociale sempre più escludente ed ingiusto, sostanzialmente basato su comportamenti di consumo divenuti di fatto obbligatori pena la scoperta stigmatizzazione da parte di politici obesi e di gazzettieri obesi, per decenni è stato concesso tutto ed il contrario di tutto. Una sostanziale inversione di rotta, con la distruzione repentina di un intero sistema di relazioni sociali e di valori condivisi, si è verificato con la massiccia iniezione di denaro provocata dall'irrompere, sulla scena del pallonaio, di Rupert Murdoch e delle sue televisioni.
Si ricorderà come gli obiettivi di questo miliardario australiano -la totale virtualizzazione del pallone e la vendita del prodotto ottenuto ai quattro angoli del globo- siano stati fatti propri dalle istituzioni. In buona sostanza l'appassionato di pallone deve sedere compostamente per non disturbare le riprese, cantare cose politicamente corrette ed acquistare solo merchandising autorizzato. La "tessera del tifoso" recentemente istituita, una carta di credito malamente camuffata, lo aiuterà a indebitarsi anche meglio, consentendo ai pallonieri e ai miliardari che tramite loro si giocano l'ego per procura di ostentare un tenore di vita ancora più insultante di prima. In un'epoca in cui sfuggire a nefandezze come l'autoschedatura di massa imposta dai social network è considerata quasi una bestemmia, politici e miliardari del pallonaio hanno anche buon gioco nel far finta di non capire come mai l'ulteriore schedatura -per giunta a pagamento- imposta da questa faccenda risulti tanto ostica.
Il primo risultato di tutta l'operazione è sotto gli occhi di tutti: ricavi a picco, code -ma in uscita- da tutti gli impianti, diserzioni in massa. Probabilmente la buona fede dei frequentatori del pallonaio, per tacere della loro disponibilità a farsi trattare come fellahin al valico di Erez, del loro potere d'acquisto e in fin dei conti del loro stesso interesse per uno spettacolo che è strutturalmente robaccia truccata, sono arrivati al limite dell'usura.
Lo stato che occupa la penisola italiana, sostanzialmente per tutelare l'impegno economico e le rendite (quando di rendite si può parlare) di un gruppetto di miliardari, sta tentando di chiudere la stessa valvola di sfogo che per tanti anni ha distolto i sudditi dal chiedere conto al politicame del perché di tante promesse non mantenute, rendendo la vita facile ad esecutivi uno più impresentabile dell'altro.
Il contrasto tra la propaganda governativa, massicciamente impegnata a favore della schedatura di massa e delle entusiasmanti possibilità di indebitamento individuale che comporta, ed un target che molto giustamente sta vivendo una fase di resipiscenza e di rifiuto che ci auguriamo il più lunga ed il più scopertamente e dichiaratamente distruttiva possibile, è nettissimo. Una sera d'agosto centinaia di frequentatori abituali del pallonaio di Bergamo sono andati ad esprimere la loro contrarietà alla Berghem Fest di cui sopra, alla quale uno che fa il ministro dell'interno era intervenuto certissimo di non avere nulla da temere da parte di un auditorio più che addomesticato.
Bergamo è una città nel nord della penisola italiana ed è una delle culle del partito "occidentalista" cui appartiene Roberto Maroni, ministro dell'interno per quello stesso stato che il suo partito avrebbe dovuto disgregare. Il pallonaio di Bergamo, al pari degli altri pallonai, rappresenta da sempre un bacino elettorale "occidentalista" capace di spiccare nei tradizionali settori dell'incultura, della disumanità e della violenza quale rafforzativo identitario che sono le principali caratteristiche di questo tipo di comunità escludenti.
Il fatto che secondo le gazzette centinaia di individui condividenti simili "valori" abbiano contestato in modo violentissimo il proprio carceriere è indicativo per più versi. Abbiamo in altre parole ragione di credere che tra i contestatori vi fossero non pochi elettori attivi di formazioni "occidentaliste", quelle stesse che stanno mantenendo la promessa elettorale di trasformare la penisola in un immenso carcere. Il comportamento dei frequentatori di pallonaio è dunque un buon esempio di condotta "occidentalista": la galera va bene, finché è più probabile che tocchi solo agli altri, preferibilmente mustad'afin di quelli costretti a forzare un sottoscala per passare una notte al chiuso.
In secondo luogo, i report gazzettieri sull'accaduto lasciano pensare che la sihurezza governativa abbia rischiato grosso, andando assai vicina a farsi mettere nel sacco da un gruppo di individui animati da non altro che dal proprio rancore e da qualche petardo. E' dunque probabile che i membri dell'esecutivo abbiano una visione eccessivamente ottimistica della propria popolarità.
In terzo luogo c'è l'ennesimo, reiterato tentativo da parte dei contestati di stabilire quali sono i veri frequentatori di pallonaio e quali no. Pare di capire che i veri frequentatori di pallonaio siano quelli graditi all'esecutivo, ossia quelli che non hanno obiezioni a farsi schedare e ad indebitarsi a beneficio di un'oligarchia palloniera distante in tutti i sensi dalla propria clientela almeno quanto la classe politica lo è dal proprio elettorato.
In ultimo, è interessante anche il persistere di un bias mediatico molto preciso. Secondo il gazzettaio, la contestazione della palloneria di Bergamo si è conclusa con quattro o cinque autoveicoli incendiati, due dei quali appartenenti a gendarmerie di vario genere, e con qualche gendarme ferito. Tutto questo ha avuto come unica conseguenza la solita lercia passacaglia di solidarietà incrociate tra straricchi. Se la stessa cosa si fosse verificata nel corso di una manifestazione politica, il canaio dei gazzettieri e dei politici avrebbe assunto toni semplicemente mestruali, così come la voglia di forca della torma di sudditi incompetenti, vigliacchi, buoni a nulla e dotati del senso di autoconsapevolezza di uno scarafaggio, che costituisce il grosso dell'elettorato "occidentalista".
Mentre scriviamo non risulta alcun prigioniero a séguito di quanto successo: è probabile che la gendarmeria sia stata colta più o meno di sorpresa, al pari dei membri dell'esecutivo tirati per qualche minuto giù dal loro mondo lunare, e che a questo si debba la stizzita rispostina del ministro dell'interno, che prima fa finta di non capire e poi molla un "si scordino lo stadio" che sa di sciabolata nel nulla.
E chissà che almeno qualcuno, tra gli schedandi del pallonaio bergamasco, non si scordi davvero lo stadio, trovando un impiego più costruttivo e meno asservito per le proprie energie e per il proprio tempo.

mercoledì 25 agosto 2010

Oriana Fallaci. La Rizzoli ripubblica, Giovanni Sartori riscribacchia


Quelli della Rizzoli non mollano. L'operazione di Ferruccio de Bortoli che portò i "libri" di Oriana Fallaci negli uffici postali e negli autogrill a insegnare a tutti come la si doveva pensare,se non si voleva che qualche obeso con la cravatta ti tacciasse di terrorista a reti unificate, va sfruttata oltre ogni decente limite.
Il quindici settembre è l'anniversario della morte di quella "scrittrice"; una morte a suo tempo accolta dall'assoluta indifferenza di quegli ex concittadini sui quali aveva sputato finché le era bastato il fiato, e dall'aperta e rumorosa letizia di quanti, invece, si erano trovati come stranieri in patria, meritevoli di linciaggi di ogni tipo, per aver trattato i suoi assunti per gli sprechi di cellulosa che erano.
Il tempo è passato e perfino le amministrazioni comunali più servili hanno messo sotto cenere i progetti toponomastici su quella donna. Un minimo di decenza, contrariamente a quanto ci si attenderebbe, sopravvive anche in una piccola parte della classe politica.
Il quindici settembre la Rizzoli ha messo in cantiere la riedizione di uno dei "libri" di Oriana Fallaci, primo di una serie di reprint destinata a sporcare il mainstream fino a gennaio prossimo.
Il 25 agosto, tanto per scaldare un po' i motori, ha dato una botterella al battage facendo sprecare a Giovanni Sartori una mezza paginata di Corriere della Sera.
Per chi non lo ricordasse, Sartori ha avuto in merito alla vulgata islamofoba diffusa a piene mani ad uso dei sudditi un atteggiamento abbastanza ondivago, alternando buone produzioni a roba compresa tra il ridicolo e il cialtrone. In una di queste ultime occasioni coniò il vocabolo "pensabenisti", sotto la cui definizione tentò di intruppare tutti quelli che non hanno mai voluto saperne della propaganda della Rizzoli e delle sue sanguinose sconcezze così come anni prima altri tentarono di comprendere sotto la definizione di "pacifinti" tutti coloro che osavano dissentire dall'aggressione all'Iraq perpetrata dall'ubriacone Bush e dalle sue lobbies di assassini benvestiti.
Ci facemmo un piacere di demolire l'articolo di Sartori, una dozzina di righe in cui il pensabenismo nacque e crepò nell'indifferenza che meritava.
Il 25 agosto 2010 Sartori fa qualcosa di addirittura più irrilevante -e sì che ci voleva impegno- producendo un amarcord irritante e piagnucoloso, che andiamo a demolire riga per riga.

IL BIGLIETTO SULLA PORTA DI ORIANA « VATTENE »
Aveva appeso un cartello davanti al suo ufficio di New York. Non voleva scocciatori.
Ci siamo conosciuti a Firenze poco dopo la guerra. Oriana era minuta, bellina, vitale. Ci ritrovammo a New York, quando lei aveva fatto tutte le guerre come inviato. Il suo caratterino era diventato un cattivo carattere. Durante la malattia, la convinsi a farsi visitare da un luminare, ma non volle compilare il questionario clinico e tornò a casa. Negli ultimi anni è stata una donna sola e infelice. Sulla porta del suo ufficio c’era un cartello che diceva: «Vattene». Ci siamo conosciuti, Oriana e io, poco dopo la fine della guerra. A Firenze, visto che eravamo entrambi fiorentini. Oriana era minuta, bellina, e molto attraente. Colpiva subito per la straordinaria vitalità, per l’energia, per la risolutezza.

Non voleva scocciatori ma in compenso ha scocciato lei le corti di mezza penisola allagandole di querele e, come riferisce Massimo Fini, neppure degnandosi di presentarsi a processi in cui figurava come parte civile. Un comportamento coerentemente "occidentalista": querele (od offese) al posto di argomentazioni, e persone competenti trattate come nemmeno gli uscieri. Conosciamo sciampiste di Busto Arsizio dotate di un senso civico e di un'educazione incommensurabilmente maggiori, per non parlare dei giocatori di domino coi quali abbiamo conversato nelle chaykhuné di Esfahan e che i lettori -e soprattutto le lettrici- dei libercoli della Rizzoli vedrebbero volentieri "democratizzati" a mezzo di missili sionisti.
"Aveva fatto tutte le guerre come inviato"? E pensare che ce chi se le è fatte come coscritto, e dalla Rizzoli non ha preso una lira; il mondo è proprio pieno di idioti. Le prime righe dell'articolo servono a descrivere ecoicamente lo stile relazionale di un individuo che in una realtà quotidiana più normale, quindi non in quella autoreferenziale dei gazzettieri e delle gazzette, verrebbe astiosamente marginalizzato da qualunque gruppo di lavoro, addetto a qualunque lavorazione immaginabile, e prevedibilmente abbandonato al suo destino alla prima occasione possibile.

Spiccò il volo da Firenze molto presto, molto prima di me. Per parecchio tempo ci siamo persi di vista. Poi ci siamo ritrovati a New York, dove io ero alla Columbia University e Oriana aveva preso casa (per pura combinazione a trenta metri da quella di Ugo Stille), e si era finalmente accasata; ci stava davvero.

E chi se ne frega, verrebbe da rispondere. Sullo "spiccare il volo da Firenze" e sulla quotidianità in cui questo avvenne spese ben più di due parole Camilla Cederna, attorno al 1990, facendo di una Oriana Fallaci ai tempi ben viva un ritratto per nulla agiografico.

Si era fatta, come inviato speciale, tutte le guerre del dopoguerra. Tra queste anche la prima guerra del Golfo, la guerra di George Bush padre. Saddam Hussein incendiò allora, mentre le sue truppe fuggivano in ritirata, i pozzi petroliferi dei quali si era impadronito. I fumi di quegli incendi erano oleosi, densissimi, e Oriana, che era lì come sempre in prima linea, se li inghiotti tutti.

Proprio tutti? Abbiamo ragione di dubitarne. E il pensiero non può non andare a chi, quella guerra, invece che da inviato speciale se la fece da richiamato, in quelle gallerie che i tank amriki facevano crollare semplicemente passandovi sopra e sepellendo vivi tutti gli occupanti.

Dopo, maledicendoli, diceva che la sua malattia ai polmoni l’aveva respirata lì. Ma l’aveva respirata anche fumando, sempre e fino all’ultimo, sigarette a catena.

Cosa statisticamente assai più probabile. Sarebbe interessante -e la Rizzoli potrebbe pubblicarlo, sprecando un altro po' di cellulosa che avrebbe fatto miglior fine a concludere la propria esistenza come costitutivo di un assorbente igienico- un pamphlet che raccogliesse le risposte elargite da questa donna a chi le raccomandava di smetterla di rovinarsi in quel modo.

A New York ci ritrovammo come vecchi amici di sempre. Il «caratterino» innato di Oriana era allora diventato un cattivo carattere da primato.

Un ottimo motivo per chiudere con certa gente ed elevare il livello delle proprie compagnie, andandole a scegliere, magari, tra gli operai della metropolitana. Non occorre fare i sociologi o gli elzeviristi alla Rizzoli per rendersene conto.

Litigava con tutti, insolentiva tutti, querelava tutti. Qualche scatto lo ebbe anche con me; ma io me li prendevo tranquillamente, e lei il giorno dopo mi invitava, facendo finta di niente, a cena a casa sua. Oriana era una cuoca bravissima, e quando era tranquilla tra le mura di casa la sua conversazione era straordinaria, di eventi ne aveva vissuti tanti. Era riuscita a intervistare quasi tutti i «grandi» (ivi inclusi i grandi in cattiveria) dell’epoca.

Ognuno utilizza il proprio tempo nel modo che gli pare migliore; personalmente preferiamo la lettura di un libro, una passeggiata in un centro storico o la compagnia di individui dallo stile relazionale meno imprevedibile alla compagnia e alla cucina di certe donne.

Un giorno chiese i miei buoni uffici per farci ricevere da Zbigniew Brzezinski, chiamato Zbig per semplificare, che era stato l’ispiratore dell’elezione a presidente di Carter, nel quale divenne National Security Advisor e anche Segretario di Stato.
Zbig era mio collega alla Columbia, ed eravamo in ottimi rapporti. Lo cercai di persona, ma lui mi bloccò subito: «Dopo aver letto l’intervista con Henry (Kissinger), io a quella signora non dirò mai nulla»: finì così. Ma quella fu una delle poche «interviste ritratto» mandate da Oriana.

Il che significa che Zbigniew Brzezinski aveva capito benissimo con chi aveva a che fare.

Dicevo che Oriana litigava con tutti. Un giorno mi telefonò, furiosa, perché avevo invitato alla casa italiana della Columbia, della quale ero direttore, Umberto Eco, a parlare dello strepitoso successo del libro Il nome della rosa. Oriana mi disse: «Ma come, inviti Eco (ometto gli epiteti di contorno) e non inviti me?». Risposi: «Certo, ti invito volentieri, perché tu parli di te stessa, delle tue esperienze, dei tuoi libri, ma non di politica. Perché (aggiunsi secco) di politica non capisci nulla».

Bravo Sartori. Omette "gli epiteti di contorno" che erano con ogni probabilità la parte più carnosa di tutta la conversazione. Da parte nostra avanziamo esplicitamente il dubbio che la competenza di Oriana Fallaci comprendesse, ben condita di facondia, i tre argomenti elencati e sostanzialmente riducibili al primo, ossia lei stessa, con l'assoluta esclusione non soltanto della politica, ma di qualunque altro campo dello scibile. Un modello che ha trovato fin troppe ed ancora più irritanti imitatrici.

Lei, con mia sorpresa, incassò senza vituperi. Non venne mai alla Columbia, né torno mai sull’argomento. Un anno o due dopo fu lei a farmi uno scherzo da prete. Oriana stava ormai male, tossiva continuamente. La convinsi a farsi visitare allo «Sloan Kettering», il maggiore istituto per la cura dei tumori del mondo.
Non fu facile ottenere l’appuntamento; ma una bella mattina di una bellissima giornata andai a prenderla a casa e andammo a piedi allo «Sloan Kettering». Lì, come per tutti, un segretario le presentò un lungo questionario da compilare. Oriana si infuriò ( «io sono Oriana Fallaci, non un paziente qualsiasi») e si presentò al luminare con il questionario in bianco; e lui, tempo un minuto, la rimandò a casa.

Abbiamo motivo di credere che le neoplasie polmonari non scelgano le proprie vittime utilizzando criteri anagrafici o nominali. I capricci assertivi, specialmente quelli delle donne, si scontrano invariabilmente contro quei limiti ferrei, dolorosi e inamovibili di cui è generoso il principio di realtà, con buona pace dei berci e delle cause civili: incredibile che adulti vissuti nella sedicente élite culturale del XX secolo in mezzo ad agi inimmaginabili per vastissimi strati della popolazione mondiale non siano riusciti neppure ad interiorizzare un concetto tanto semplice.
Sartori poteva lasciar perdere questo particolare aneddotico perché non aggiunge niente alla nostra convinzione che un elemento come questa "scrittrice", che per una breve stagione ebbe anni fa nella penisola italiana uno stuolo di imitatrici relativamente fitto, capace di ostentare in pubblico le stesse movenze e le stesse risibili asserzioni, dovesse essere accolto da chiunque ed in ogni circostanza della vita sociale adottando un contegno improntato alla sufficienza e alla scostanza più esplicite.

Oriana tornò allo «Sloan» circa un anno dopo; ma era troppo tardi, e forse lo era già la prima volta.

Le lezioni di modestia sono spesso salutari, ma altrettanto spesso si pagano salate. Un concetto che qualunque trentenne medio ha avuto modo di far proprio innumerevoli volte nel corso della vita, ma dal quale secondo ogni evidenza certe "scrittrici" sono esentate d'ufficio.

Negli ultimi anni credo che Oriana abbia conversato en amitié, in amicizia, solo con me o comunque con pochissime persone. Con gli altri, gli avvocati, i suoi editori, le sue numerose segretarie (furono in pochi a reggere) parlava strillando e per strillare contro qualcuno.
Nel suo ufficio alla Rizzoli di New York sulla 57ma strada andava di rado; e chi la cercava lì trovava sulla sua porta un cartello che diceva go away, vattene.
Oriana è stata, negli ultimi anni, una donna molto sola e molto infelice. Anche per questo le volevo molto bene.

Mal voluto non è mai troppo.
Negli ultimi dieci anni certe "esportazioni di democrazia" hanno causato e continuano a causare centinaia e centinaia di vittime.
E tutte sono state appoggiate da un battage propagandistico cui questa donna ha prestato, sicuramente non gratis, la propria penna. Alluvioni di propaganda realizzati in concreto da individui che davanti alle distruzioni causate e al sostanziale spettacoloso fallimento delle cause cui avevano fabbricato l'unica chiave interpretativa possibile -tutti quanti, al minimo distinguo o alla minima obiezione, sono stati classificati come terroristi da schedare, perquisire e incarcerare, tutta gente cui tappare la bocca con ogni sistema lecito o illecito che fosse- non solo non hanno pensato ad attaccarsi ad una trave, ma neppure, più semplicemente, a chiedere scusa.
Non ci si meraviglierà del fatto che certo memorialismo piagnucoloso vada ritenuto ancora più insultante, ancora più irritante e ancora più spregevole.

Per finire di riempire la pagina, il Corriere della Sera dà spazio a un certo Dario Fertilio.
Dario Fertilio è andato a ripescare l'intervista di Oriana Fallaci con Ruhullah Musavi Khomeini, facendo rammentare a Furio Colombo che

"Con lei non potevi scampare una domanda o evitare una risposta, chiunque tu fossi. Come ha dovuto imparare Khomeini, di fronte a tutta la sua corte di ayatollah".

Verissimo. Che Oriana abbia tolto il foulard in presenza del fondatore della Repubblica Islamica dell'Iran è uno di quegli episodi che il dominante femminismo da rotocalco, quello che considera sinonimi la libertà e lo smalto sulle unghie, interpreta come una vittoria epocale. Uomo di spirito assai più di quanto comunemente si creda, Khomeini lasciò fare, come lasciano fare i contadini degli Haraz quando arrivano a fare trekking le donne "occidentali" in shorts e maglietta; poi continuò tranquillamente a trattarla in modo assai più benevolo di quanto non avrebbe meritato, specialmente alla luce delle sue ultime produzioni.
Dopo aver imparato, Khomeini ritornò a guidare la Repubblica Islamica dell'Iran.
Oriana Fallaci ritornò ai suoi vestiti e ai suoi berci.
A ciascuno il suo.

lunedì 23 agosto 2010

Di rom, di rumeni, di clandestini e di altre cose


Ad agosto gli argomenti dovrebbero, in teoria, scarseggiare; invece il materiale degno di qualche speculazione non è mancato, grazie alle ultime riprovevoli boutades dell'"occidentalismo" militante fiorentino.
In attesa del quindici settembre, quando in un pieno mercoledi pomeriggio lavorativo uno zero di nome Marco Cordone dovrebbe insozzare una piazza fiorentina leggendovi estratti di un libercolo di Oriana Fallaci, possiamo infierire su tutto il mazzo avvalendoci di qualche articolo di gazzetta e di una memoria più lunga di quanto la spazzatura politicante desidererebbe.
Come si ricorderà, in una notte d'estate e adottando molto giustamente precauzioni ai limiti del paranoico, una decina di militanti di "Azione Giovani" hanno affisso qualche foglietto in cui se la prendevano con una legge toscana che assicura le prestazioni sanitarie indifferibili ed urgenti anche a chi non possiede quel tesserino di plastica che secondo la volontà "occidentalista" fa la differenza tra chi merita di vivere e chi no. Lo scagnare "occidentalista" ha trascinato la cosa fino ad un organo del potere giudiziario che nell'ordinamento dello stato che occupa la penisola italiana viene definito "Corte Costituzionale".
La Corte Costituzionale ha dato torto marcio ai ricorrenti.
Si ricorderà anche che nei volantini diffusi, in mezzo ad irritanti distinguo e ad annaspi assortiti, si capiva che per gli "occidentalisti" il legislatore toscano era colpevole di non consegnare supinamente questo o quell'essere umano ad una fine spaventosa, capace di far impallidire la peggiore iconografia sulle pestilenze medievali. Nulla di inconcepibile per la pratica politica "occidentalista", sistematicamente vòlta a suscitare gli istinti più deteriori al nobile fine del tornaconto elettorale.
Si ricorderà anche del video che testimoniava la sortita, in cui comparivano ragazze "vestite" in modo apertamente criticabile.
Poche settimane dopo questa costruttiva pensata, una gazzetta on line documentava un fatto verificatosi nella vicina Prato, il laboratorio delle politiche "occidentaliste" su cui ci siamo più volte soffermati, infierendo doverosamente suo segni di una ostentazione quotidiana e reiterata di "valori" e comportamenti diametralmente opposti a quelli propugnati dalle "radici cristiane" che la schiuma "occidentalista" tiene tanto a riscoprire.
Secondo questa gazzetta, una donna "clandestina", qualunque significato si voglia attribuire al termine, ha somministrato a causa di una cattiva traduzione una iperdose di antistaminico alla propria bambina di tre mesi, che si è salvata grazie all'operato del reparto pediatria dell'ospedale del luogo.
Ecco, è bene che sia chiaro che nell'infera utopia "occidentalista" sarebbe stato giusto che questa bambina fosse crepata in un modo che in tempi più normali, quelli per intenderci in cui assumere cocaina e frequentare prostitute non erano considerate virtù, nessuno avrebbe augurato neppure ad un cane.

Ovviamente l'"occidentalismo" gazzettiero non va in vacanza: ogni giorno la macchina della propaganda deve macinare esistenze e produrre suffragi. L'agosto 2010 è il mese in cui le deportazioni di cittadini rumeni organizzate nella Repubblica Francese da un certo Sarkozy, al quale non sapremmo attribuire alcun merito al di là della gelosissima frequentazione di mucose femminili da rotocalco, hanno riacceso la verve forcaiola degli "occidentalisti" toscani, che hanno pensato bene di infierire -nihil sub sole novum- su qualcosa che non si capisce bene se siano i rom o i rumeni. "Il Giornale della Toscana", per il quale non esiste alcuna differenza così come nessuna differenza esiste per il suo pubblico, se ne usciva infatti con questo capolavoro di titolo.



Chi scrive non ha mai patito alcun torto, neppure minimo, né da un rumeno né tantomeno da un rom. E dire che se l'atteggiamento "occidentalista" nei confronti dei rom è rimasto costantemente improntato ad una scoperta ed esplicita voglia di sterminio ampiamente avallata dalla gran parte dei sudditi, quello nei confronti dei rumeni ha conosciuto, in nome delle citate necessità elettorali, delle virate sorprendenti. Nel 1989 i trei culori con il buco al centro, a testimoniare la fine del governo comunista, erano un vessillo irrinunciabile, criticare il quale voleva ovviamente dire essere intruppati senza diritto alla difesa tra i coltivatori di nostalgie inconfessabili. Oggi i cittadini della Repubblica di Romania vengono considerati una sorta di extracomunitari onorari.
Rom e rumeni, peraltro, hanno avuto ed hanno a tutt'oggi un rapporto che definire conflittuale è riduttivo; non vogliamo fare torto a nessuno dal momento che entrambi hanno altro da fare che leggere le gazzette; per questo si propongono qui, per ciascuno di essi, un canto comunemente associato all'appartenenza di gruppo.


Treceţi batalioane române Carpaţii dovrebbe risalire agli anni del primo conflitto mondiale e rievocare l'intervento in esso del Regno di Romania, che aspirava ad annettersi le terre "irredente" controllate dall'impero austriaco. Partita nel peggiore dei modi, l'avventura rumena raggiunse alla fine i risultati sperati, costruendo una nazione con genti e territori fino a pochi decenni prima spartiti da tre imperi in un clima sociale e politico che aprì la strada all'esperienza antisemita ed ultranazionalista della Garda de Fier.


Un cântec istoric ne-aduce aminte
Că fraţii în veci vor fi fraţi
Un cântec de luptă bătrân ca Unirea
Voi compatrioţi ascultaţi

Treceţi batalioane române Carpaţii
La arme cu frunze şi flori
V-aşteaptă izbânda, v-aşteaptă şi fraţii
Cu inima la trecător

Ardealul, Ardealul, Ardealul ne cheamă
Nădejdea e numai la noi
Sărută-ţi copile părinţii şi fraţii
Şi-apoi să mergem la război

Nainte, nainte spre Marea Unire
Hotarul nedrept să-l zdrobim
Să trecem Carpaţii, ne trebuie Ardealul
De-o fi să ne-ngropăm de vii

Cu săbii făcură Unirea, ce inimi!
Spre Alba cu toţii mergeam
Toţi oamenii ţării semnau întregirea
Voinţa întregului neam

Cu toţii eram regimente române
Moldova, Muntenia, Ardeal
Fireasca unire cu patria mumă
Ne-a fost cel mai drept ideal

Aceasta-i povestea Ardealului nostru
Şi-a neamului nostru viteaz
Istoria-ntreagă cu lupte şi jertfe
Trăieşte-n unirea de azi

Dreptatea şi pacea veghează Carpaţii
Şi ţara e frunze şi flori
A noastră izbânda, ai noştri sunt fraţii
Trăiască în veci trei culori

Vrem linişte-n ţară şi pace în lume
Dar dacă-ar veni vreun blestem
Carpaţii şi fraţii sări-vor ca unul
Urmând comandantul suprem

Treceţi batalioane române Carpaţii
La arme cu frunze şi flori
V-aşteaptă izbânda, v-aşteaptă şi fraţii
Cu inima la trecător.
Un vecchio canto ci ricorda
Che i fratelli saranno sempre fratelli;
un canto di battaglia dei tempi dell’Unificazione
voi compatrioti ascoltate.

Avanti nei Carpazi o battaglioni rumeni,
le armi ornate di fronde e di fiori;
vi attende la vittoria, vi attendono i vostri fratelli
con il cuore rivolto a chi marcia.

La Transilvania, la Transilvania, la Transilvania ci chiama
e noi siamo la sua sola speranza;
baciate i bambini, i genitori e i fratelli
e poi andiamo alla guerra.

Avanti, avanti verso la Grande Unione;
abbatteremo la frontiera ingiusta;
passiamo i Carpazi e prendiamo la Transilvania,
anche a costo di farci seppellire vivi.

Con le loro spade realizzarono l’Unità, che cuori!
Verso Alba Iulia andiamo tutti insieme.
Tutti gli uomini del paese hanno firmato per l’unificazione,
la volontà di una nazione intera.

Eravamo tutti reggimenti rumeni,
Moldavia, Muntenia e Transilvania;
l’unità naturale della madre patria
fu il nostro giustissimo ideale.

Questa è la storia della nostra Transilvania,
e della nostra coraggiosa nazione;
l’intera nostra storia, di battaglie e sacrifici,
vive nell’Unione di oggi.

Giustizia e pace vegliano sui Carpazi,
e tutta la terra è coperta di verde e di fiori;
la vittoria è nostra, sono nostri i fratelli,
evviva per sempre i tre colori.

Vogliamo tranquillità per la nostra terra e pace nel mondo,
ma se una minaccia dovesse presentarsi,
i Carpazi e i nostri fratelli si leveranno come un solo uomo
dietro al loro comandante supremo.

Avanti nei Carpazi o battaglioni rumeni,
le armi ornate di fronde e di fiori;
vi attende la vittoria, vi attendono i vostri fratelli
con il cuore rivolto a chi marcia.



Gelem gelem, "Sono andato, sono andato", è l'inno ufficioso degli zingari. Dovrebbe essere attribuito a Žarko Jovanović e Jan Cibula, che lo avrebbero redatto nel 1969 usando come base una melodia tradizionale e presenta molte varianti nel testo, adattato a lingue e dialetti di un po' tutta l'Europa orientale. La Kali Lègia del testo identifica con ogni probabilità i reparti SS responsabili del porrajmos, la distruzione degli zingari d'Europa.


Gelem, gelem lungone dromencar
Maladilem baxtale Romencar
A Romalen kotar tumen aven
E chaxrencar bokhale chhavencar

A Romalen, A chhavalen

Sasa vi man bari familiya
Mudardas la i Kali Lègiya
Saren chhindas vi Romen vi Romnyan
Mashkar lende vi tikne chhavoren

A Romalen, A chhavalen

Putar Devla te kale udara
Te shay dikhav kay si me manusha
Palem ka gav lungone dromencar
Ta ka phirav baxtale Romencar

A Romalen, A chhavalen

Opre Roma isi vaxt akana
Ayde mancar sa lumaqe Roma
O kalo muy ta e kale yakha
Kamava len sar e kale drakha

A Romalen, A chhavalen

Sono andato, sono andato per lunghe strade,
ho incontrato romà fortunati.
Ehilà, romà? Da dove venite
con le tende e i bambini affamati?

Oh, romà! Oh, fratelli!

Anch'io avevo una grande famiglia,
l'ha sterminata la Legione Nera.
Uomini e donne furono squartati,
e tra di loro anche bambini piccoli.

Oh, romà! Oh, fratelli!

Dio, apri le nere porte
così che possa vedere dov'è la mia gente.
E tornerò a andare per le strade,
e vi andrò con uomini fortunati.

Oh, romà! Oh, fratelli!

In piedi, gitani! E' ora il momento,
venite con me, romà di tutto il mondo
il volto bruno e gli occhi scuri
mi piacciono tanto, come l'uva nera.

Oh romà! Oh, fratelli!

La prima cosa che risulta evidente è che non potrebbero esistere costruzioni identitarie fondate su valori ed esperienze più opposte di queste. Ma per l'incompetenza "occidentalista", evidentemente, non c'è alcuna differenza. Basta non avere in regola le carte per le quali è un manipolo di indossatori di cravatte a decidere le regole, per risultare meritevoli di campo di concentramento, di deportazione e peggio. Tanto i capri espiatori hanno altro da fare che occuparsi di come gazzette e scaldapoltrone li trattino, sistematicamente e finora -purtroppo- impunemente, come appestati sui quali è lecito infierire con ogni mezzo.
Gli ultimi anni hanno visto lo smantellamento della democrazia, trasformata in eurocrazie e natocrazie, guerre incessanti e la fine dello stato di diritto, per non parlare dello sfascio dello stato sociale in tutti i suoi aspetti, dalla scuola pubblica alle pensioni: eppure la gente rimane incredibilmente sotto controllo, perché teme e quindi odia. Teme ed odia perché ogni giorno, sfruttando ogni possibile debolezza psicologica ed ogni luogo comune, c'è chi induce in tutti una fantasia ossessiva fatta di mostri assetati di sangue che si annidano come gli alieni di qualche pellicola dozzinale tra gente comune da anni avviata verso una lotta canina per le sempre minori risorse a disposizione. E si avvicina sempre di più il giorno in cui ogni altra spiegazione, ivi comprese le franche risate in faccia alla spazzatura umana che sporca la carta del gazzettame "occidentalista", verrà considerata apologia di terrorismo.
La "legalità occidentalista" è il nulla della Legione Nera; il deserto chiamato pace, Satana il Lapidato.

domenica 22 agosto 2010

Massimo Pieri, Alberto Locchi e la moschea a Firenze


Quello di una moschea a Firenze sembra essere una specie di refrain agostano, quest'anno propagandisticamente più utile che mai come diversivo stanti le repellenti -e rivelatrici- condizioni in cui versa il "governo centrale" dello stato che occupa la penisola italiana, per intero controllato dagli "occidentalisti".
Massimo Pieri ed Alberto Locchi sono due "occidentalisti" del Consiglio Comunale della città di Firenze. Nell'agosto 2010 hanno emesso un comunicato stampa ad uso dei fiancheggiatori redazionali che è un piccolo capolavoro di pochezza inutile, cui va comunque ascritto, come va ascritto a qualunque asserzione "occidentalista" su qualsivoglia campo dello scibile, un merito considerevole: quello di mettere una volta di più in luce il miscuglio di malafede, incompetenza e cialtroneria che della pratica politica "occidentalista" costituisce il fondamento.
Eccone dunque la confutazione, riga per riga.

“Sì alla moschea a patto però che sia soltanto un luogo dove si prega e non diventi un centro di indottrinamento dove potrebbero attecchire frange dell’Islam più integralista”.

Si potrebbe cominciare col chiedere a Massimo Pieri e ad Alberto Locchi che cosa intendano per "Islam più integralista", dal momento che non ci risulta esista una "scala dell'integralismo" operazionalmente traducibile. La fonte delle preoccupazioni "occidentaliste" è, come sempre, incoffessabile ma non verte certo su questo punto, come avremo modo di spiegare in breve più avanti.

“Da tempo si discute dell’ipotesi di aprire un luogo di culto per i musulmani in città e non siamo contrari per principio. Non è infatti più accettabile che, nel 2010, i fedeli dell’Islam siano costretti a pregare in scantinati o garage. Si tratta di una situazione incivile e per questo è giusto individuare uno spazio adeguato dove i musulmani possano riunirsi per pregare. Uno spazio che però non deve essere necessariamente a Firenze. Anzi il ragionamento su una possibile localizzazione dovrebbe allargarsi anche al territorio dei comuni limitrofi e della provincia in generale”.

Traduzione: complice lo stesso ciarlare propagandistico al quale dobbiamo la poltrona che stiamo scaldando, gli scantinati ed i garage frequentati da persone che non mangiano carne di maiale, non bevono vino e si riuniscono il venerdì al tramonto fanno decrescere il valore degli immobili e le rendite della torma di parassiti che rappresenta uno dei target della comunicazione politica "occidentalista". Non ci interessa dunque il più o meno alto grado di "civiltà" legato a questa o quella pratica religiosa, quanto il fatto che questa gente si tolga di torno il prima possibile. Se poi la questione si spostasse in qualche negletto comune di campagna, tanto meglio: basterebbero tre o quattro fannulloni ripresi dalla televisione un mercoledì pomeriggio qualsiasi per attestare la contrarietà dei sudditi del comune di Chissaddove Valdisieve o di Vattelappesca in Chianti alla presenza di una moschea, e ci risparmieremmo anche la fatica di indire manifestazioni e raccolte di firme per avere il ritorno di immagine che ci è necessario se non vogliamo tornare a fare la fila all'ufficio di collocamento.

“la moschea deve rimanere un luogo di culto, uno spazio dove i fedeli dell’Islam vanno a pregare come accade per i cattolici nelle chiese. Non deve diventare un centro di indottrinamento dove potrebbe prosperare l’odio predicato dalle frange più radicali ed estremiste dell’Islam. È questo che dobbiamo evitare”.

Se qualcuno pensava davvero che l'esperienza di Locchi e Pieri in materia di Islam andasse oltre la lettura di qualche pamphlet fallacianesco, si consideri servito. La nostra visita alla moschea di Shiraz che ospita la tomba di Sayed Amir Ahmad, compiuta un venerdì pomeriggio all'inizio del 2005, ci mostrò un imam che stava sviscerando con calma chissà quale argomento -rimpiangiamo amaramente di non conoscere il farsi, al contrario di molti "occidentalisti" che trovano vanto e giustificativo perfino nell'ignoranza di quella che dovrebbe essere la loro lingua madre- davanti ad un gruppo di una decina di giovani seduti sui tappeti, mentre un undicesimo girava con un vassoio su cui stavano datteri e bicchieri di tè forte. Il tutto in un ambiente che un "occidentalista", ammesso e non concesso che sappia dove si trova Shiraz, considererebbe sicuramente come un deposito delle bombe nucleari del dittatore Ahmadinejad.

“I senesi non hanno abdicato all’arrivo degli stranieri, come è accaduto invece ai fiorentini o ai pratesi che, nel tempo, hanno ceduto locali e attività commerciali e adesso si lamentano della situazione. L’identità di una città, la coesione della società sono valori importanti che devono essere mantenuti e consolidati”.

La coerenza "occidentalista" non è qualcosa che ogni tanto tocca il fondo. E' qualcosa che sul fondo -su tutti i fondi- striscia stabilmente, abitualmente e sempre. Ecco dunque gli esponenti di una formazione politica che del libero mercato aveva fatto un dogma ritornare precipitosamente sui loro passi, nonostante essa formazione debba alla distruzione del residuo tessuto sociale pratese, voluta e sistematicamente perseguita da tutti in nome del tornaconto, gli ultimi successi elettorali a livello locale. E' intressante notare che "l'identità di una città" come Siena, sbrigativamente condensata dagli "occidentalisti" nella tradizione inventata del palio che vi si svolge due volte l'anno, è stata considerata minacciata fino a ieri proprio dall'islàmme. Sul palio del due luglio 2010 dipinto dall'architetto Ali Hassoun, e sulle forsennate reazioni "occidentaliste" in proposito, abbiamo già avuto modo di soffermarci.

“Come è giusto che in Italia ci siano luoghi di culto per i musulmani, sarebbe altrettanto giusto che nei paesi di fede islamica i fedeli di altre religioni, come per esempio i cattolici, possano avere a disposizione uno spazio dove poter pregare. Possiamo essere noi a dare il buon esempio, nella speranza che poi venga seguito anche dai paesi islamici”

La crestomazia di pochezze che precede le righe qui sopra avrebbe già costituito di per sé un'ulteriore ed ennesima testimonianza della profondissima incompetenza che caratterizza pressoché per intero l'elettorato passivo "occidentalista", le cui fortune elettorali continuano a dipendere dal clima monolitico di terrore instaurato da anni dalla loro propaganda e dalla perenne individuazione di nemici esterni contro cui dirigere le paure di sudditi altrimenti tentati dall'andare a chieder loro conto di anni di un declino economico, culturale, sociale ed etico palpabile e forse irreversibile. Un declino di cui gli "occidentalisti" più involuti e consapevoli del proprio ruolo non cessano di bearsi come di una conquista della civiltà, avallandone a getto continuo le manifestazioni più abiette.
Locchi e Pieri non fanno torto alla loro incompetenza, almeno questo va loro riconosciuto: eccoli considerare "i paesi di fede islamica" come un monolitico hic sunt leones che corrisponde sicuramente al ritratto di un nemico metafisicamente malvagio indispensabile alla loro propaganda ed alle loro miserabili fortune elettorali, ma che è ovviamente privo di qualunque rapporto con una realtà pressoché opposta. Una realtà sulla quale non intendiamo ritornare per non abusare della pazienza e della competenza dei nostri lettori.

Il timore "occidentalista" dell'Islam nasce in realtà da motivi di tutt'altro genere, tra i quali potremmo identificare, in un'elencazione sicuramente incompleta e senza alcuna pretesa di approfondimento, quelli che seguono.
Le istanze di giustizia sociale che alcune correnti del pensiero islamico, sopratttutto quelle legate allo sciismo duodecimano interpretato in senso non quietista, intendono perseguire sono veleno puro per gente che dell'ingiustizia sociale e della morale da campo di sterminio che vi sovrintende ("mangia il tuo pane, e se puoi anche quello del tuo vicino") ha fatto una specie di dogma.
In secondo luogo, è interessante un esame anche rapido delle differenze che esistono tra la comunicazione politica "occidentalista" e quella delle organizzazioni sociali e statali che essa identifica con il Male metafisico. Mentre gli "occidentalisti" affidano tutto ad una continua narrazione da società dello spettacolo che magnifica le tresche, gli sprechi da vomito, gli sciali e la prevaricazione sistematica e quotidiana dei propri rappresentanti politici, la comunicazione politica della Repubblica Islamica dell'Iran presenta i successi dell'intero paese nei campi della tecnologia, della prosperità sociale, della cultura e della lotta al colonialismo. Gli organi di "governo" controllati dagli "occidentalisti" rigurgitano di scarti, guitti, buoni a nulla e femmine da trivio laddove in Iran si impone, almeno in linea di principio, che l'elettorato passivo sia scelto per la propria competenza e per la propria adesione ai principi fondanti della Repubblica Islamica.
La comunicazione politica indica dunque come condivisibili due differenti sistemi di valori: dalla parte "occidentalista" quelli legati all'ostentazione di consumi sempre più insultanti e di comportamenti sempre più ebeti, triviali, repellenti e distruttivi; quella della Repubblica Islamica quelli legati alla competenza, al lavoro ed allo studio.
In terzo luogo, l'Islam è temuto anche -e forse soprattutto- per la morigeratezza di costumi richiesta ai credenti. In una "civiltà dei consumi" peraltro arrivata al parossismo da molti anni in cui gli "occidentalisti" identificano l'unico sistema di vita degno di esistere (per tutti gli altri ci sono le "esportazioni di democrazia" e le bombe intelligenti) un principio simile è inammissibile, e forse il più autenticamente rivoluzionario di tutti.
Queste sono soltanto alcune delle motivazioni per cui auspichiamo, e non da oggi, che a Firenze sorga una moschea degna della città. Il nostro auspicio è che venga realizzata con fondi pubblici esplicitamente distolti dalle spese per la sihurezza e per la lotta a i' ddegrado, dalle spese militari e da quelle per la gendarmeria e che venga realizzata in pieno centro, magari abbattendo i brutti edifici che stanno sul lato orientale di Piazza Ghiberti e dentro i quali si svolgono quotidianamente attività autenticamente minatorie della pace e della giustizia. Il modello architettonico da noi prospettato lo scorso anno, quello della Behram paşa di Diyarbakir, resta più valido che mai.

giovedì 12 agosto 2010

venerdì 6 agosto 2010

Il "Giornale della Toscana" e Pietro Badoglio



«Fini? È come Badoglio»

Bianconi, vicecapogruppo del Pdl alla Camera, attacca il fondatore del Fli: «Ha tradito il mandato elettorale, ma in Toscana l’unità del partito resiste»
Con l’uscita di Fini l’attuale legislatura è arrivata a una svolta. Maurizio Bianconi, vicecapogruppo del Pdl alla Camera, però avverte il presidente di Montecitorio: «È come Badoglio, ha tradito il mandato elettorale. Per questo dovrebbe dimettersi, lui e tutti i parlamentari che lo hanno seguito».


Maurizio Bianconi dovrebbe essere un avvocato di Arezzo. Eppure non è necessaria alcuna formazione universitaria per prendere un qualsiasi manuale di storia ed apprendere che Pietro Badoglio da Grazzano tutto fece meno che tradire un mandato elettorale.
Gli era materialmente impossibile dal momento che nessuno lo aveva eletto.
In compenso, ostentò equidistanza, nicchiò, tramò e titubò per quaranta giorni con i costruttivi risultati a tutti noti. Intanto che il peggio scopertamente si preparava, Pietro Badoglio non trovò di meglio che dichiarare che "la guerra continua e l'Italia resta fedele alla parola data [...] chiunque turbi l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito". Privilegi, scranni e prebende distribuite come prima, ai mustad'afin piombo.
E' molto strano che un politico "occidentalista" consideri Badoglio come un esempio da non imitare: la sua condotta fu perfettamente rappresentativa degli interessi e del modus agendi dell'"occidentalista" tipico.

martedì 3 agosto 2010

Monte Melkonian, studioso e combattente



Monte Melkonian nacque nel 1957 in California, nella contea di Fresno; i genitori erano entrambi armeni. I nonni provenivano dall'Anatolia ed erano emigrati tra il 1883 ed il 1913; uno di essi, a meno di trent'anni, era già stato arrestato tre volte dai turchi perché membro di quella che era solito chiamare "una società segreta rivoluzionaria".
Nel 1969, con la famiglia, Monte fece un lungo viaggio in Europa il cui culmine fu una permanenza a Merzifon, la cittdina natale della nonna materna nei pressi di Amasya. Nel corso degli anni Melkonian fece spesso riferimento a questa esperienza considerandola come il punto di partenza per la riscoperta delle proprie origini. La passione per i viaggi e per lo studio occupò la sua prima giovinezza. A quindici anni trascorse un anno a studiare in Giappone; l'anno successivo visitò il Viet Nam. Negli anni Ottanta la sua padronanza del giapponese era tale da permettergli di fare da interprete nelle conferenze; nel 1992 considerava ancora la lotta di liberazione vietnamita come un esempio importante per i combattenti dell'Artchak.
Al ritorno negli Stati Uniti si diplomò, e tre anni dopo si laureò a Berkeley in archeologia e storia dell'Asia antica, con una tesi sul taglio della roccia nelle tombe reali urartee.
Nel 1978 insegnò inglese in Iran, dove contribuì ad organizzare scioperi tra gli insegnanti; dopo aver visitato il Kurdistan iraniano, mentre in Iran la rivoluzione si radicava, si spostò a Beirut dove partecipò alla difesa del quartiere armeno della città dagli attacchi falangisti. Venuto rapidamente in contatto con i combattenti marxisti dell'ASALA, l'Esercito Rivoluzionario per la Liberazione dell'Armenia, ne fece parte per tre anni. Catturato in Francia nel 1981 con un falso passaporto cipriota, venne rilasciato e rimandato in Libano dopo che ASALA ebbe fatto esplodere varie bombe a Parigi reclamando la sua liberazione.
La sanguinosa implosione di ASALA, nel 1983, costrinse Monte Melkonian a vivere clandestinamente per anni, fin quando non riuscì a passare di nuovo in Francia dove venne arrestato ancora, nel 1985, per possesso di documenti falsi e porto abusivo di arma. Dopo il rilascio, nel 1989, raggiunse lo Yemen del Sud dove si riunì a Seta Kbranian, sua compagna da oltre dieci anni. Intanto che il blocco sovietico si disgregava, Melkonian trascorse circa un anno di vita errabonda in Europa orientale, fin quando non raggiunse l'Armenia ancora sovietica, nell'ottobre 1990. Qui lavorò per qualche mese approfondendo il tema della propria tesi di laurea; divennne membro dell'accademia armena di scienze e si sposò a Gheghard nell'agosto 1991.
Nel corso degli anni, tra studi regolari, contatti con persone della più diversa origine e impegno di autodidatta, oltre all'inglese e al giapponese aveva acquisito una buona padronanza della lingua armena, del castigliano e del francese; parlava in modo accettabile l'arabo ed il turco, oltre ad un po' di farsi e di curdo. Al momento della sua morte, tra le sue cose fu trovata una copia logorata dall'uso dell'arte della guerra di Sun Tzu.
Nel 1991 ebbe a scrivere che pensava che gli armeni fossero in preda ad una grande confusione. Mentre il loro paese si dibatteva in problemi politici, economici ed ambientali che lo avrebbero attanagliato per decenni, le nuove forse politiche emerse a seguito della dissoluzione dell'Unione Sovietica stavano portando l'Armenia su un percorso che secondo Melkonian non avrebbe fatto altro che peggiorare i già gravi problemi presenti. A Yerevan si respirava infatti un'atmosfera in cui ad un nazionalismo esasperato si mescolavano illusiorie aspettative nei confronti dell'"Occidente". Monte Melkonian concentrò la sua attenzione sull'Artchak, asserendo che la sua perdita, con la deportazione della popolazione armena, avrebbe significato l'irrompere delle forze azere nello Zangezur ed un pericolo mortale per l'esistenza stessa dell'Armenia come territorio abitato da persone in grado di autodeterminare il proprio destino.
Nel settembre del 1991 Monte Melkonian partì per il nord dell'Artchak e combatté per tre mesi prendendo parte alla liberazione di tre villaggi.
Nel febbraio del 1992 divenne comandante nella regione di Martuni; con tre-quattrocento uomini, armati con materiali catturati alle forze azere, il comandante Avo riuscì a sottrarre la zona dal raggio di azione dell'artiglieria e dei missili nemici.
Nel 1993 Melkonian contribuì alla pianificazione della strategia che portò alla cattura della regione di Kalbajar, la striscia di territorio azero che separava l'Artchak dalla repubblica di Armenia. A tutt'oggi il Kalbajar è controllato dalle forze armene dell'Artchak.
Durante i primi mesi in cui prese parte ai combattimenti, Monte Melkonian ebbe una cattiva impressione dei fedayi armeni, dovuta alla loro scarsa preparazione, all'atteggiamento ed alle monture fasciste frequentemente ostentate, alla loro tendenza ad accanirsi sulla popolazione civile e sui prigionieri catturati. Quando divenne comandante a Martuni fece in modo che i fedayi non finissero, per quanto possibile, in prima linea. Animato da un forte realismo prima ed ancora che dalla propria esperienza di combattente marxista, si comportò spesso in modo diametralmente opposto a quello corrente, usando i (pochi) blindati e le forze a disposizione per allontanare i civili azeri dalle zone di combattimento.
Esiste una certa aneddotica che lo riguarda, e che fa riferimento essenzialmente ai mesi che Melkonian trascorse come comandante militare a Martuni. Melkonian non ebbe mai atteggiamenti spavaldi armi alla mano, non fumava, manteneva un linguaggio corretto, non beveva mai alcolici quando era in uniforme ed era altrettanto parco nel mangiare. Questi ultimi sono elementi da non considerare scontati in un contesto in cui l'ostentato consumo di alcool e di carne di maiale poteva servire alla polarizzazione delle posizioni ed al rafforzamento dell'identità dei combattenti. Melkonian aiutava di tasca propria chiunque ne avesse bisogno e tenne sempre a vivere nelle stesse condizioni in cui vivevano i combattenti che gli erano stati affidati. Martuni è una regione vinicola e Melkonian impose a chi contrabbandava vino verso Stepanakert di contribuire alla difesa stessa del territorio fornendo carburante o munizioni ai combattenti. Pare che due settimane prima di morire fosse incorso nelle ire della criminalità organizzata per aver incendiato un campo intero di canapa indiana.
A Martuni Melkonian contribuì anche a rimettere in piedi una panetteria cooperativa, scuole elementari ed ospedali; morì mentre stava lavorando alla realizzazione di una cooperativa di tessitori di tappeti. In un contesto che definire patriarcale è perfino riduttivo, Melkonian scoraggiò apertamente la discriminazione delle donne lavorando insieme alla moglie ogni volta che questo era possibile e considerando le ausiliarie delle comunicazioni e della sussistenza come combattenti a tutti gli effetti.
Un giorno di giugno del 1993, dopo una battaglia vinta contro delle postazioni di artiglieria, Monte fu informato via radio della cattura di un T72. Un colpo di fortuna non da poco per una formazione armata che viveva praticamente di armamenti presi al nemico. Melkonian decise di ispezionare subito il carro armato, insieme a cinque commilitoni. Lungo la strada vicino al villaggio di Merzuli la sua jeep si imbatté in un BMP senza contrassegni, i cui occupanti risultarono essere azeri. Una scheggia uccise Melkonian mentre rispondeva al fuoco.
Il 19 giugno Melkonian venne sepolto nel cimitero militare di Yeraphur ad Erevan. Davanti alla sua bara sfilarono in quindicimila.

Il materiale per questo scritto viene dalla pagina dell'edizione inglese di Wikipedia, la cui principale fonte risulta essere una biografia scritta dal fratello Markar Melkonian, e da The Right to struggle - La forza di combattere, antologia di scritti di e su Monte Melkonian tradotti da Garagin Gregorian per Editziones de su Arkiviu-bibrioteka "T. Serra" nel 2004.
Il sito del Monte Melkonian Fund presenta tra l'altro una galleria fotografica, dalla quale proviene l'immagine su riportata.

lunedì 2 agosto 2010

Isaac Newton a Firenze



La fisica classica contempla l'esistenza di un terzo principio della dinamica, desunto dal Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Nella forma corrente di enunciato, il principio afferma che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
Nulla di strano, quindi, che il piccolo darsi da fare di qualcuno che ha riempito il quartiere di Gavinana di croci celtiche e di attestazioni di stima per una mangiatoia "occidentalista" attualmente pressoché virtuale causa sfratto sia stato seguito a ruota dall'opera di qualcun altro, che ha assolto al dovere civico di rimettere le cose al loro posto. Mostrando tra l'altro di avere le idee molto chiare in merito a dove vadano cercati i primi responsabili d'insihurézzeddegràdo.

domenica 1 agosto 2010

Luglio 2010: l'Iraq democratico è prospero e stabile



Nell'aprile del 2003 il presidente amriki George Diabolus Bush scagliò la macchina bellica più potente e costosa del mondo contro un paese in ginocchio.
I gazzettieri a libro paga statuirono che chi sollevava il minimo dubbio era un terrorista passibile e meritevole della stessa fine, ed ebbero in questo l'approvazione a tratti isterica di intere torme di omuncoli il più delle volte obesi anche mentalmente, accomunati da un'incompetenza e da un'autoconsapevolezza indegne di uno scarafaggio ma presentati -e probabilmente con ragione- come perfettamente rappresentativi della volontà popolare.
In altre parole, ad applaudire alle aggressioni e a decidere se affidare o meno responsabilità nucleari ad una pitbull con il rossetto c'era e c'è un corpo elettorale che in sei casi su dieci non sa trovare l'Iraq sulla cartina.
In una certa penisola dell'Europa meridionale, in cui bivacca un aggregato di assuntori di cocaina capaci solo di frequentare prostitute e mangiare spaghetti, al megafono si abbarbarono da un anno all'altro casi umani di vario ordine e sesso, imbrattacarte di repulsiva grassezza e altri avanzi di avanspettacolo. In questo non c'è nulla di strano; ognuno si fa rappresentare come crede sia meglio ed i sudditi di uno stato giustamente identificato con maccheroni e mandolini non potevano produrre di se stessi una rappresentazione mediatica più degna.
Il primo maggio dello stesso anno il presidente amriki George Diabolus Bush decise che la guerra era finita e vinta.
Nel luglio del 2010 la visibilità mediatica dell'Iraq aggredito è ridotta ai trafiletti come quello qui riportato.
Anni di menzogne demoliti in quattro righe.
Della torma di servi cui si è fatto cenno, non ce n'è stato uno che abbia avuto la decenza non diciamo di attaccarsi ad una trave, ma per lo meno di cambiare mestiere.

Iraq: luglio il mese più sanguinoso dal 2008, 535 morti

L'Iraq esce dal cono d'ombra in cui era calato: con 535 morti luglio e' stato il mese piu' sanguinoso dal 2008. E' quanto emerge da un bilancio fornito dai ministeri iracheni della Sanita', della Difesa e dell'Interno secondo cui tra le vittime si contano 396 civili. Le cifre fornite mostrano una netta recrudescenza della violenza nel Paese, che, a cinque mesi dalle elezioni, non ha ancora un governo
[repubblica.it].