sabato 27 giugno 2009

Giovanni Galli palloniere malservito... se il servo è Giovanni Donzelli!


Neanche il tempo di insediarsi e di provare cuscini, mezza minerale e poggiapiedi dei banchi di spettanza.
Mentre a Prato Roberto Cenni può illustrare con calma come e qualmente si possa contribuire al risanamento del distretto tessile assecondando l'"occidentalismo" leghista -ronde e pattuglie di veterani dall'Afghanistan armati di fucili d'assalto come panacea d'ogni problema- Giovanni Galli deve registrare una prima testimonianza della sostanziale inutilità, della bassezza, dell'inconsistenza, della malafede, della pochezza, della impresentabilità e della venale idiozia di certi suoi compagni di strada, che già avevano nella pigrizia, nell'opportunismo e nell'incultura le loro uniche caratteristiche degne di nota. Gente che è riuscita a disgustare perfino lo zoccolo duro del proprio elettorato, che a cospetto della galleria di personaggi da brivido schierata dal piddì con la elle alle ultime elezioni amministrative ha travasato in un caso su tre il proprio voto sulla lista civica del palloniere.

Ricapitoliamo: Giovanni Donzelli, politicante privo di virtù memorabili, ha talmente tanto da fare a mantenersi carica e gettoni alluvionando i mass media di comunicati stampa che non ha ancora trovato il tempo di laurearsi, nonostante i tre lustri abbondanti di qualifica come "studente" universitario.
Per uno in queste condizioni, studiare e/o farsi la solita via crucis dei "colloqui" sarebbero gli unici due modi costruttivi per passare una mattinata di fine giugno evitando di essere sbranato da coscienza ed amor proprio. Chi non possiede nessuno dei due, ovviamente, può anche intraprendere con successo una carriera di partito.
La generalizzata malora della vita pubblica e politica cui abbiamo assistito in questi anni permette a Giovanni Donzelli di campare da papa -anzi, da mago- alla faccia di chi lavora, inchiavardato da una legislatura a quell'altra ad uno scranno del Consiglio comunale.
A fine giugno fa caldo e a scaldare le poltrone di Palazzo Vecchio ci pensa il sole. Perché non fare una passeggiatina fino in via Leopardi accompagnato dagli amicissimi giornalisti? E' la "giornata mondiale contro le droghe", indetta dall'ONU e celebrata di solito nell'indifferenza generale... o quasi, visto che a Firenze hanno appena finito di ripulire il centro storico da una bracciata di "bella gente" con le mucose sporche di polverina bianca; ma quella non si può andare a disturbarla, perché si sa bene per chi vota.
Come cavarsela?
Ma sicuro: si va a rompere le uova nel paniere ai titolari di un negozietto del quale la stragrande maggioranza dei fiorentini non conosce neppure l'esistenza, anche perché non ha certo il robusto sostegno economico che permette alla gang di aspirapolvere di piazza Strozzi di farsi pubblicità a vagonate. Fatto sta che arriva lui con tre o quattro ragazzotti della stessa greppia, e improvvisa una concione apposta per le telecamere, che così posson far vedere i'ddegrado e l'insihurezza di Firenze anche ai pensionati di Casalpusterlengo e di Guardia Piemontese.
Come calcolato, i gestori non ci stanno: che vorranno mai questi sciamannati piovuti dal nulla con imbrattacarte al séguito, in una mattina qualunque!?
Tempo due minuti, dunque, e Giovanni Donzelli può far arrivare i suoi amici della gendarmeria, che a Firenze sono gli unici individui cui è tollerabile relazionarsi con un elemento del genere e che probabilmente non possono fuggirne la frequentazione soltanto in considerazione dell'ufficio pubblico ricoperto. I gendarmi arrivano in tempo per verbalizzare gli schiaffi a mano piena rimediati nel corso della virile azione di ristabilimento delle patrie virtù. Tutta roba in conto, visto che mettere in atto una pensata come questa, telecamere amiche o no, può tranquillamente comportare l'essere oggetto di reazioni ben più determinate ed incisive.
Siamo soltanto ai primi giorni della legislatura. Se gli eventi seguissero un climax crescente, la prossima uscita pubblica -con o senza amici e telecamere- di Giovanni Donzelli potrebbe finire a calci, quella dopo ancora a bastonate... insomma: pur di acquistare una visibilità mediatica da tradurre in consenso e quindi in lustri trascorsi lontano dalla vendemmia, dalla solfatara, dalla pulitura stive, dalla cava, dalla fonderia, dal cantiere stradale, dalla filanda e dalla stasatura canali cui un destino meno ingiusto lo avrebbe senza dubbio destinato per l'intera durata dei suoi giorni -per tacere dell'aborrita commissione di laurea, da evitare con ogni mezzo-Giovanni Donzelli rischia di rimetterci parecchio in salute fisica.

giovedì 25 giugno 2009

La bella gente a Firenze la trovi di solito al privé... e qualche volta in galera.


Nel giugno 2009 i gendarmi di stanza a Firenze disattendono le invettive "occidentaliste" contro i'ddegrado e la mancanza di sihurezza -già disattese da un elettorato che ha dimostrato di essere giunto a saturazione, per quanto riguarda le bugie asserite in materia- e spazzano via i nidi in cui i rampolli della Firenze che ha ancora soldi da sprecare fancazzavano da anni a serate intere, tra cocaina e femmine con poca roba addosso.
Un mondo che ama definirsi, chissà perché, "esclusivo" quando invece la venalità dei buoni a nulla e delle corpivendole che ne costituiscono la parte più numerosa è una delle caratteristiche più diffuse, e dunque meno esclusive e tanto meno elitarie, dei sudditi che bivaccano nella penisola italiana.
Quella che qui si riporta è la descrizione di un paio di questi nidi, scritta in tempi non sospetti e ripresa dal sito Digispace. Si noti il registro linguistico, fastidiosamente infarcito di anglicismi inutili e tuttavia capace di sorvolare con ogni cura su aspetti della questione che la gendarmeria ha invece reputato di primario interesse...

Il rilancio del Full Up e'firmato da Emiliano Fontani, giovane imprenditore fiorentino, che rinnova la filosofia del locale ispirandosi al trend della mondanita'internazionale: così il Full Up torna a cavalcare l' esclusivita' e l'essenzialita', diventando meta privilegiata dei clubbers fiorentini.
Situato nel cuore di Firenze, a pochi passi dall' arno, il Full Up diventa nel 2005 sinonimo di modernita'e glamour, accogliendo nel proprio salotto musicale serate fashion e dj set di livello internazionale, trainati da un team di pubbliche relazioni solido e creativo. Il locale, sulla scorta del successo ottenuto nella passata stagione, ormai indirizzo di culto per i piu'sofisticati viaggiatori e clubbers globali, deve la sua nuova veste all' inventiva degli architetti Roberto e Massimiliano Morlacci. Per pura passione o per semplice serata con gli amici, la nuova tendenza in fatto di club esprime un unico chiaro concetto: l'epoca dei locali dalle stanze anonime e'finita. Ora deve trattarsi soprattutto di un'esperienza estetica, quasi sensuale, un luogo in cui vivere da protagonista, al massimo e con compiaciuta follia, il proprio leisure-time.
Nell'ambiente interno sono state accostate atmosfere degli anni'70 ad uno stile minimal chic contemporaneo con materiali hi-tech e grandi opere fotografiche updated in bianco e nero. Completamente rinnovato con impianti hi-fi Martin Audio e luci led automatizzate nelle piste da ballo e sui counter della drink area. Full Up e'uno smoking club, infatti si puo'fumare in due aree del locale: nel prive'Elvira e vicino alla pista. A definire il carattere di Full Up e' proprio l'Elvira prive', l'area piu' esclusiva del locale, ha appena 8/9 tavoli ambitissimi, affatto cheap e per pochi eletti. La selezione e' assai rigida se non hai prenotato il tavolo o non sei ''vip'' non entri! I clienti abituali cosi' per assicurarsi il tavolo lo prenotano per l'intera stagione! E'la location di tre serate: giovedì venerdì e sabato. Si alternano in consolle djs fiorentini e ospiti internazionali.
http://www.digispace.it/schedalocale.asp?id_locale=9

Colle Bereto è un locale che offre un servizio a 360 gradi: a partire dalla colazione all’italiana, al pranzo con menù toscano e piatti della cucina italiana. Gran Galà dell’aperitivo tutti i giorni con ricchi buffet, ampia scelta di cocktail e selezione di vini, in particolare dell’azienda vinicola Colle Bereto, a seguire, dalle 22:00, dal mercoledì al sabato, servizio privé al piano superiore, sala attico con selezione musicale delle hit contemporanee con incursioni di sound risalenti al passato. Clientela selezionata, d’elite, il locale è frequentato da personaggi dello sport e della televisione. Uno staff frizzante e sempre disponibile contraddistinguono il Colle Bereto. Il clima fashion del locale abbraccia anche tutta la cocktaileria, con innovativi cocktail tra i quali, il più consumato l’Attico, drink in stile newyorkese preparato solo con materia prima ricercata, ingredienti top secret…Al Colle Bereto è possibile organizzare feste private su prenotazione. Ampio ed elegante spazio esterno.
http://www.digispace.it/schedalocale.asp?id_locale=351


mercoledì 24 giugno 2009

Franco Cardini sulle elezioni in Iran


Franco Cardini è uno dei pochi opinionisti che per competenza, coerenza e preparazione riescono a sfuggire al bias denigratorio nei confronti della Repubblica Islamica dell'Iran. Un bias acritico che colpisce abitualmente qualunque "new" riguardi la Repubblica Islamica e che ha, nella logica di chi lo mette in atto, molte giustificazioni, di solito non troppo onorevoli.
Gli aspetti da trattare in una linea editoriale praticamente comune a tutto il mainstream sarebbero un'infinità, così come gli esempi che si potrebbero citare; limitiamoci ad una considerazione semplicissima ed affatto dietrologica, che va a toccare i ricordi personali di quanti, negli anni Settanta del passato secolo, avessero avuto l'età sufficiente a sfogliare un rotocalco e che non avevano e non hanno estese cognizioni della realtà geopolitica dell'Iran, o degli aspetti della vita di ogni giorno in un paese mediorientale.
Negli anni Settanta il pettegolezzo che oggi costituisce l'asse portante di buona parte della stampa quotidiana era confinato alle riviste per serve e parrucchiere. Riviste per serve e parrucchiere che dell'Iran di Reza Pahlevi mostravano ad ogni numero la vita godereccia e sprecona di un ristrettissimo jet set.
La nascita della Repubblica e la cacciata della corte complicarono un po' le cose, ma non fecero certo demordere le redazioni, che per oltre vent'anni vissero accostando le vicende di qualche principessa in esilio da Tehran alle schermaglie sul processo di Verona o sul ritorno dei Savoia.
Se pensiamo quanto comodo farebbe ai rotocalchi e al giornalame d'"Occidente" il poter riempire il poco posto sottratto alla pubblicità a pagamento con i pettegolezzi su una Farah Diba o una Soraya dei giorni nostri, si capisce anche quale sia il vero aspetto dolente della situazione, per una "informazione" sempre più vicina alla pornocronaca e sempre più distante dal reale, alla quale non potrebbe importare di meno di quanto succede nelle strade e nelle piazze infiammate dalla protesta.


Le elezioni in Iran. Cerchiamo di capire.

Ad alcuni giorni dalle ultime elezioni in Iran, i media di tutto il mondo occidentale, sia pure con qualche sfumatura, ci hanno proposto uno schema interpretativo abbastanza semplice. L’Iran è guidato da un regime fondamentalista che tuttavia mantiene alcune parvenze di democrazia e di pluralismo (molti partiti politici, giornali e televisioni differenti ecc.); le ultime elezioni sono state pesantemente manipolate, sia attraverso il sistematico uso dell’intimidazione e della repressione, sia attraverso autentici brogli elettorali (perfino urne scambiate); tuttavia, dinanzi alla massiccia, coraggiosa e prolungata protesta popolare, le autorità si sono spinte fino a promettere un riconteggio dei voti; senonché, a detta di alcuni osservatori e di taluni oppositori, tale riconteggio non porterebbe a nulla sia perchè si svolgerebbe comunque in un clima d’incertezza e di violenza, sia perchè le autentiche schede sono state almeno in buona parte distrutte e sostituite; per cui, l’unica strada possibile per un qualche ristabilimento della legalità democratica sarebbe procedere a nuove elezioni sotto lo stretto controllo di osservatori delle Nazioni Unite, cosa che il governo non è disposto a concedere. Si sta quindi andando o verso una situazione di compromesso che non piacerà a nessuno, soprattutto alle opposizioni; o verso uno scontro frontale.
Un quadro semplice. Ma tutti i problemi hanno sempre una risposta semplice. Peccato solo che, di solito, si tratti di quella sbagliata. Il punto di partenza, per noi, non può essere che una constatazione. Quella iraniana è una società complessa. Cerchiamo quindi di capirci qualcosa.
I media occidentali hanno quasi tutti e costantemente cercato di accreditare l’idea che in Iran viga una “dittatura”. In passato – ricordate le proteste del 1999, che nel nostro paese unirono destra e sinistra? – si è accusato di essere una specie di dittatore perfino Khatamy, oggi considerato un garante dei valori democratici; eppure, a suo tempo, gli attacchi da parte dell’Occidente furono una delle cause della sua sconfitta.
L’Iran non è soggetto ad alcuna dittatura. Il suo è piuttosto l’equilibrio complesso e non facile a riformarsi tra una società civile che per certi versi ricorda piuttosto il primitivo sistema sovietico – una pluralità di soggetti politici fluidi e litigiosi – controllato però da un “senato” religioso. Questo sistema sta cercando con scarso successo d’ingabbiare una società civile anagraficamente giovane, in generale colta e preparata (l’Iran e uno dei paesi che conta più laureati al mondo), dove l’occidentalizzazione frutto d’una sessantina d'anni circa di governo europeizzante della dinastia Pahlevi ha inciso fortemente, ma dove la “rivoluzione islamica” del 1979 è stata sul serio corale e popolare. Alla vigilia delle ultime elezioni, si è molto parlato di “conservatori” e di “riformisti” (termini superficiali e inadeguati rispetto alla situazione concreta), ma si è “dimenticato” di osservare come i quattro candidati avevano nei rispettivi programmi elettorali alcuni punti in comune: alla rivendicazione di un forte orgoglio nazionale, la ferma intenzione di procedere sulla linea della rivoluzione vinta nel ’79 da Khomeini, la volontà di continuare il programma teso a dotare il paese di un potenziale nucleare a scopi pacifici.
I candidati erano quattro: Mahmoud Ahmedinejad, cinquantatreenne, che ha promesso di continuare sulla sua strada; Houssein Mousavi, sessantesettenne, un’esperienza di primo ministro nel 1981, che rimprovera ad Ahmedinejad una politica estera dai toni troppo accesi che gli avrebbe alienato tutto l’Occidente e confida in Obama per avviare un processo di distensione; Mohsen Rezai, cinquantasettenne, ex generale dei pasdaran, che rinfaccia ad Ahmedinejad scarsa abilità e molta trascuratezza nella conduzione economico-finanziaria del paese; e Mehdi Karrubi, settantaduenne, membro del “clero” sciita, ex presidente del parlamento, considerato un “riformista”.
La costituzione iraniana è un modello di complesso equilibrio di forze. Il suo motore è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (dodici membri, per metà religiosi nominati dalla Guida Suprema e per metà giuristi nominati dal Parlamento), che seleziona i candidati alle istituzioni statali, può opporre il veto alle leggi approvate dal Parlamento e propone una lista di candidati al ruolo di Vali-e faqih (Guida Suprema) a un’Assemblea degli Esperti eletta dal popolo. La Guida Suprema ha praticamente le prerogative di un capo di stato in una repubblica strettamente presidenziale, in particolare il diritto di nomina delle alte cariche statali. Invece il Presidente della Repubblica, in carica 4 anni, è una specie di capo del governo e nomina i ministri (salvo approvazione del Parlamento).
Quel che ora è in atto è un braccio di ferro tra il “partito dei religiosi”, che in realtà è fautore di un programma di distensione con l’Occidente e si appoggia a un elettorato nel quale i ceti benestanti sono molto forti, e quello che Renzo Guolo (“La Repubblica”, 17.6.2009) chiama il partito dei “senza-turbante”, gli islamisti radicali seguaci di Ahmedinejad che propugnano una politica sociale più decisa e hanno l’appoggio dei ceti più poveri della popolazione. Contrariamente a quel che si tende a creder da noi, i più estremisti sono i “laici”, non i “religiosi” che portano il turbante. Ma Ahmedinejad negli ultimi quattro anni ha governato con il pieno appoggio di Ali Khamenei, lo ayatollah Guida Suprema: e ha riempito i suoi diretti collaboratori e i suoi seguaci di poteri, di privilegi, anche di danaro. E’ ovvio che ora essi vogliano tener duro: il loro obiettivo, del resto, è trasformare la repubblica islamica in un vero e proprio regime.
Tuttavia il punto debole degli avversari di Ahmedinejad, i moderati appoggiati da buona parte del clero, è proprio la corruzione: uno degli uomini piu ricchi dell’Iran è il Presidente dell’Assemblea degli Esperti, Akbar Hashemi Rafsanjani: e i suoi cospicui patrimoni sono alquanto sospetti. Il suo ruolo è comlesso e cruciale: egli è in realtà presidente del “Consiglio per la determinazione del bene comune” (majma’e tashkhis e maslahat, spesso tradotto in inglese con “Expediency Council”, perchèèe l’organismo che può rendere “islamica” – per mezzo appunto di un “espediente” giuridico – una legge che islamica non è, sulla base dell’interesse comune) e appunto l’Assemblea degli esperti (majles-e khobregan), che in linea istituzionale ha il potere di destituire la stessa Guida Suprema.
Forse esagerano dunque coloro che parlano, a proposito dei brogli e delle violenze, di un “colpo di stato” da parte di Ahnedinejad e dei suoi fautori. Certo però lo scontro è stato violento e l’opposizione sembra ben piu numerosa del 35% che sarebbe emerso dai conteggi ufficiali; in ogni caso, è agguerrita e non intenzionata a cedere. E un commento uscito il 14 giugno dall’autorevole penna di Ali Ansari fa pensare che i brogli ci siano stati davvero, per quanto sia difficile il provarlo.
Che cos’hanno quindi portato di nuove, queste elezioni? I conteggi ufficiali parlano di un 65% guadagnato da Ahmedinejad: ma le proteste della minoranza, soprattutto dei fautori di Mousavi, sono state tante e tanto dure e corali da indurre il prudente Khamenei a promettere un riconteggio dei voti. Alle opposizioni, ciò non basta: ma, anche se appare difficile che il governo iraniano acceda alla loro pretesa di un controllo dell’ONU su nuove elezioni – e bisogna dire che nessun paese sovrano accetterebbe mai una condizione del genere -, l’eco internazionale di quel che sta accadendo in Iran è stato troppo forte e corrisponde a una vera e propria sconfitta politica di colui che almeno formalmente è il trionfatore elettorale.
Con tutto ciò, non bisogna dimenticare due cose. Primo, la sostanziale coralità e fermezza di tutti gli schieramenti politici sui fondamenti della repubblica islamica e della sua stessa politica estera. Opposizione all’America, richiesta di soluzione del problema palestinese, esigenza di proseguire sul cammino dell’acquisizione del nucleare civile pur nel rispetto del trattato di non-proliferazione. Se questa è una crisi, lo è nel, non del sistema. E Ahmedinejad, che è subito volato a Mosca, lo ha confermato: l’era dell’impero unilateralistico statunitense è finita, il suo paese è tutt’altro che isolato, l’asse con la Russia tiene, i rapporti con la Cina e con molti paesi dell’America latina sono buoni.
D’altronde, anche da parte occidentale si sono fatti degli errori. E’ vero che la censura governativa è intervenuta pesantemente contro alcuni giornalisti, ma è non meno vero che molti servizi usciti dall’Iran durante e subito dopo la competizione elettorale non brillavano per equità: filmavano esclusivamente le manifestazioni dell’opposizione, mandavano in onda interviste prese solo nei quartieri della buona borghesia di Teheran da sempre roccaforte degli avversari di Ahmedinejad e perfino dei nostalgici dello Shah. Ci sono senza dubbio state violenze: mancano però le prove che le urne siano state sostituite e, quanto alle vittime, una decina di morti e centinaia di feriti sono senza dubbio un bilancio pesante: ma non certo un bilancio da tirannia. La repressione dei bassiji – le milizie paramilitari ahmedijaniste – ha dato risultati piu simili a quella di Genova in occasione del G8 del 2001 che non a quella di piazza Tienammen: e ciò vorrà ben dire qualcosa. Un pacato commento di Abbas Barzegar sul “Guardian” del 13 scorso, un organo molto autorevole, sottolinea che Teheran all’indomani delle elezioni sembrava sì in rivolta, ma soltanto su due viali dell’area settentrionale abitata dai ceti benestanti, mentre nel resto della città le manifestazioni di giubilo dei sostenitori di Ahmedinejad erano diffuse, imponenti e spontanee.
L’episodio politico al quale stiamo assistendo è insomma un momento “caldo” della lotta per il potere tra due fazioni: da una parte i moderati che hanno la loro punta di diamante in Rafsanjani e i loro esponenti in Mousavi e Khatami, e che auspicano una distensione con l’Occidente contando sull’apertura dimostrata da Obama; dall’altra i radicali il vero capo dei quali resta Khamenei, che mirano a un rafforzamento del carattere islamico dello stato e che credono non tanto nell’intesa con l’Occidente, quanto nella creazione di un fronte internazionale politicamente, economicamente, tecnologicamente e militarmente alternativo ad esso. Obiettivo ultimo del fronte radicale è la trasformazione della jomhuri, la Repubblica Islamica, in un “Sistema” – nezam, così definisce costantemente la stato islamico l’ispiratore religioso di Ahmadinejad, l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah-e Yazdi – non contaminato da strutture politiche non islamiche. Il fatto che la Guida Suprema abbia ammesso la possibilità dei riconteggi (quindi, implicitamente, dei brogli) fa intravedere un progetto tattico teso a evitare sia lo scontro frontale sia la repressione troppo pesante facendo “rientrare” la protesta mediante patteggiamenti e concessioni politiche.
Restano comunque del tutto inutili per comprendere la situazione, anzi pericolosi e dannosi, gli appelli come quello lanciato sul “Corriere” del 16 scorso da Bernard-Henry Lévy: il clima a Teheran è pesante, ma non “di terrore”; e il riferimento a un eventuale rafforzamento di Ahmedinejad come “un pericolo terribile per il mondo intero, perchè dotato di un arsenale nucleare che non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione” sarebbe solo ridicolo, se non fosse irresponsabile. Tutti sanno che l’Iran non dispone ancora nemmeno del nucleare civile: come potrebbe mai minacciare sul serio di distruzione nucleare Israele, che invece il nucleare militare ce l’ha eccome? E si può davvero continuare a fingere di non sapere che eventuali pulsioni fondamentaliste e apocalittiche allignano anche in Israele, e che da lì non sono mancate voci che hanno affermato di esser pronte a servirsi dell’arma nucleare?
Sono state comunque elezioni importanti. Auguriamoci che esse non conducano a un aggravarsi della tensione – ma la prospettiva d’una “guerra civile” appare improbabile - o al prevalere della repressione nella sua forma più dura, che condurrebbe all’autoritarismo teorizzato da Mesbah-e Yazdi. La richiesta di nuove elezioni, avanzata ora con fermezza dalle opposizioni, serve in realtà ad alzare il costo della normalizzazione della vita civile: forse si punta a un “governo di unità nazionale”, nel quale il potere di Ahmedinejad verrebbe ridimensionato. I principi della repubblica islamica, quelli del 1979, appaiono ben radicati tra gli iraniani e confermati dal fatto che tutti gli schieramenti li condividono: che a Mousavi sia andato anche il voto degli antikhomeinisti irriducibili è poco rilevante, dal momento che essi sono obiettivamente una minoranza. Ma il vero duello è tra la fazione di Khamenei e quella di Rafsanjani-Khatami, che prospettano due differenti configurazioni del sistema mondiale di alleanze. Il prevalere dei “moderati” dipenderà dunque in una qualche misura dalle mosse dell’Occidente, soprattutto del presidente degli Stati Uniti: al quale spetta il difficile compito di comporre le esigenze di riaprire il dialogo con l’Iran con le richieste che gli provengono da Israele, e che a loro volta sono spesso ispirate da istanze estremistiche. Questo appare, a tutt’oggi, il vero rischio.

Franco Cardini
Fonte: http://www.francocardini.net/
17.06.2009

martedì 23 giugno 2009

Giovanni Galli, palloniere trombato


I ballottaggi di fine giugno li ha dominati anche a Firenze il partito del chissenefrega, prima formazione politica cittadina con il quarantadue per cento dei consensi. Il resto dell'elettorato ha decretato la sconfitta del palloniere.
La sconfitta del palloniere non è una sconfitta qualsiasi. Testimonia l'ostinata resistenza della città e delle sue forze politiche ad una campagna denigratoria e delegittimante continua, martellante, ineludibile e basata su un allarmismo menzognero, ingiustificato e demenziale. Una campagna pseudopolitica a cui i media mainstream hanno partecipato al gran completo, aiutando il palloniere ed i suoi agghiaccianti compagni di strada con un fuoco di fila di bordate perentorie, costruite con quella mescolanza di incompetenza e di malafede che da solo costituisce l'impalcatura dei nove decimi delle produzioni mediatiche "occidentali" gabellate per "informazione".
Possiamo anche prendere un po' in giro il cicalame gazzettaro affermando che a Firenze vince la libertà di scegliere di non cambiare. Una frase all'apparenza contorta, ma che contiene tutte le parole d'ordine del pollaio "occidentalista", a tratti fatte proprie dallo stesso Giovanni Galli, in più di un caso ritrovatosi a sparare a zero come un titolista mediocre mentre aveva già il suo bel da fare a cercare di trasformare la voglia di questura e i deliri nazisti della base centrodestrorsa in una parvenza di programma politico credibile.
La sopravvivenza di forti énclaves come quella fiorentina, stante il controllo mediatico totale che permette alle menzogne della propaganda "occidentalista" di allagare senza veri contrasti ogni spazio informativo, è a suo modo sorprendente ma fa anche sperare che l'azione della propaganda sia finalmente arrivata a saturazione e stia perdendo efficacia. La realtà quotidiana è sempre più distante dalle lunari mostruosità prodotte da media che non si sa più in quale misura siano autoreferenziali e in quale semplicemente servili, ma che da un pezzo hanno comunque esaurito ogni parvenza di funzione critica per trasformarsi in pure e pericolose fabbriche di conformismo e di consenso impermeabili ad ogni critica.
Scrivevamo tempo fa che l'areale politico "occidentalista" è rappresentato a Firenze più che altrove da un aggregato di guitti, piccini, ignorantelli, buoni a nulla, cianciatori, maneggioni, amici degli amici, scarti di anticamera, yes men, falliti, elegantoni, piazzisti, marmaglia da stadio, culturame spicciolo e mentitori di professione. Giovanni Galli si è addossato la responsabilità, certo non piccola, di rendere presentabili individui che riescono ad urtare perfino il loro elettorato; lo zoccolo duro del centrodestra ha lasciato il piddì con la elle al venti per cento (record negativo probabilmente unico nella penisola) preferendo in un caso su tre votare direttamente per la lista civica del palloniere.
Nelle stesse ore in cui si tiravano le somme di tutta la questione, la gendarmeria concludeva un'operazione durata, forse per sapiente caso, quanto la campagna elettorale. Non è stata un'operazione qualsiasi perché una volta tanto non si è trattato di accanirsi contro mustadafin colpevoli di respirare, di fare piazza pulita di qualche bidonville di disperati o di disperdere a manganellate un corteo di ragazzini. E qui ci vanno due parole di spiegazione.
Nella sua Borghesia, un ritratto triste, impietoso e sempre più attuale nonostante i trenta e passa anni dalla sua prima redazione, Claudio Lolli fa riferimenti precisi a gente che non si sa se faccia più rabbia, pena, schifo o malinconia, sempre a spettegolare in nome del civile rispetto. L'"occidentalista" contemporaneo, praticamente, sempre pronto a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa, sempre pronto a leccar le ossa del più ricco e dei suoi cani.
Claudio Lolli spiega bene che il rapporto con la gendarmeria agli "occidentalisti" piace immaginarlo a senso unico:

Godi quando gli anormali sono trattati da criminali,
chiuderesti in manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali,
ami ordine e disciplina, adori la tua polizia
tranne quando deve indagare su un bilancio fallimentare...


La notte dello strombazzato voto la gendarmeria dislocata a Firenze ha tradito le aspettative dei suoi incensatori. Le fozzedellòddine hanno perquisito e sprangato quattro di quei localini trendy e stronzy in cui l'ideologia "occidentalista" concretizza al suo meglio la propria base ideologica di consumismo insultante e di tossicodipendenza.
Uno di questi posti, il cui nome fa venire in mente qualcosa che sta tra l'azienda agricola ed il cronicario per dementi terminali, ha sede nella stessa piazza in cui avvenne il famoso sgazzebamento del palloniere ed al cui perimetro sono solitamente -e giustamente- confinate le comparsate dei politicanti "occidentalisti" di passaggio in città.
Pare che la gendarmeria abbia ascoltato anche diverse fanciulle in fiore, iniziate alla cocaina in uno o nell'altro dei locali sbaraccati. Volendoci concedere una facile battuta, diciamo che se dipendesse da noi queste signorine passerebbero dallo Yab allo hijab in men che non si dica...!

venerdì 19 giugno 2009

Giovanni Galli, palloniere epistolare


A pochi giorni dal voto di ballottaggio piove nelle cassette della posta dei fiorentini un'altra lettera del comitato elettorale di Giovanni Galli. Anche questa non richiesta, come la prima.
L'intestazione con foto del palloniere su fondo di carne sorridente e sciarpette da palloneria -palloneria e politica sono la stessa cosa, nel linguaggio "occidentalista": si tratta di vincere, non di amministrare o di essere responsabili di qualcosa- insiste su slogan da propaganda "occidentalista" in cui, stranamente, è assente la parola "libertà" e sono state omesse, sicuramente per non appesantire inutilmente il testo, gli altri due cavalli di battaglia: "sicurezza" e "degrado"; spicca invece lo "scegliere".
Nel complesso nulla di nuovo, né nel linguaggio né tantomeno nelle menzogne statuite ed erette a Verità rivelata, contestabile solo da qualche terrorista suscettibile di carcerazione preventiva.
Il 52.5% "ha già scelto di cambiare"? Può essere. Il risultato del primo turno svoltosi il 6 - 7 giugno mostra piuttosto un 68% degli elettori contrario al palloniere e alle sue liste, senza contare coloro che hanno scelto di non sporcarsi le mani con questa roba imboccando diritti la via dell'astensionismo.
Guardandosi bene dall'accennare a programmi o dal suggerire soluzioni, l'accolita di nullafacenti inquadrata nel "comitato elettorale" pallonistico si rivolge al lettore con fastidiosa familiarità e postula una Firenze "invasa dai tappetini [di che tipo, quelli da bagno o quelli per auto?], piena di traffico, buche nelle strade e deturpata da una tramvia che è una vera e propria sciagura".
Passare gli anni a contare buche nelle strade è valso ad un "occidentalista" esperto in hijab, lo Jacopo Bianchi che irridemmo a suo tempo, la cacciata da Palazzo Vecchio. Secondo la regola che vuole che in certi ambienti per far carriera si debba fare come l'aceto, il suo posto l'ha preso qualcuno del plotoncino di vitelloni di adamantina incompetenza che al contrario di lui ha impestato firenze di manifesti elettorali vecchio stile.
La tramvia in sede propria è un'opera indispensabile in una città come Firenze, e già funzionante da decenni in città più avanzate, come Tashkent o Kazan. Nel corso della campagna elettorale il piddì con la elle non ha fatto alcun cenno a soluzioni più realistiche per il trasporto pubblico, tranne un'esilarante proposta di metropolitana, proponendo la quale sono perfino riusciti a rimanere seri.
"Non si tratta più di votare per un partito o per un'area politica". Tradotto dal politichese: siamo assolutamente consci di fare schifo in maniera assoluta ed irrimediabile. Talmente consci che da tre mesi e per preciso ordine superiore abbiamo tappato la bocca a tutto il pollaio, mandando avanti solo il palloniere perché ci riparasse tutti quanti con la sua prestanza fisica di tutto rispetto. Vi imploriamo, continuate pure a dimenticarci, ancora per qualche giorno, votate il palloniere e poi vi godrete per cinque anni filati la magnificenza del padrone che sfila per Firenze col suo seguito da basso impero. Vedrete che differenza.
Si passa poi al taumaturgico intervento del palloniere sulla "crisi" e su i'ddegrado.
La "crisi" è fuori dalla portata di chiunque perché un'adesione minimamente coerente all'ideologia che ha permesso al padrone del palloniere di fare la carriera che ha fatto, postulerebbe il darwinismo economico: le realtà che non funzionano vadano allegramente a quel paese. La ricetta ha affascinato generazioni di incoscienti; non piace più, ora che in tanti si ritrovano dalla parte sbagliata del mirino? Affari vostri, tutto era perfettamente prevedibile; potevate pensarci prima invece di imbottirvi vita e cervello con la pornografia delle televisioni.
Contro i'ddegrado l'amministrazione comunale ha fatto dei mezzi miracoli, risanando zone del centro date per perse da decenni in mezzo al canaio ebete diffuso dai comunicati stampa di questa marmaglia, capacissima di mandare soldati armati di AR70 a dirimere i litigi da bar e al tempo stesso di gridare all'assassinio se qualcuno usa gli stessi sistemi a Caracas o a Tehran.
Il palloniere è contento comunque: "sono quasi il doppio quelli che hanno scelto il mio nome, dentro un simbolo, rispetto a quello del mio avversario". Bene, vediamo quanto c'è di vero.
Il piddì con la elle ha preso il 20%. La lista del palloniere, alleata con quello, il 9%. L'effetto palloniere, cui Giovanni Galli deve essenzialmente la propria (s)fortuna politica, c'è stato ma non gli ha fatto guadagnare neppure un voto, rivelando piuttosto che il piddì con la elle conta a Firenze su una rappresentanza talmente ributtante che anche l'elettorato ad essa ideologicamente vicino ha preferito, in un caso su tre, scegliere altri nomi alla prima occasione possibile.
La spettacolare chiusura di quella che non si saprebbe se chiamare raccomandazione, implorazione, ultimo avviso o ingiunzione fa riferimento ai "destini di una città intera", neanche ci fosse di mezzo un assedio stile Carlo V, ed ammonisce perentoria che "non ci saranno altre occasioni come questa". Nella persecutoria visione "occidentalista" la vittoria di un avversario significa la fine, il precipitare di ogni sorte, la fine della democrazia rappresentativa.
Con il ballottaggio del 21 e del 22 giugno si potrà valutare l'obiettiva efficacia di questa strategia politica, che abbiamo ottimi motivi per augurarci molto al di sotto delle aspettative.


giovedì 18 giugno 2009

Massimo Fini e George Friedman sulle elezioni in Iran


Riprendiamo da http://www.comedonchisciotte.org due articoli sulle elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica dell'Iran.
Massimo Fini è praticamente l'unica penna a cui la stampa "occidentalista" consenta di uscire dal seminato, probabilmente nella convinzione che le sue asserzioni possano da una parte far figurare certi giornalini come pluralisti, dall'altra legittimare
a contrario una linea editoriale ebefrenicamente orientata verso tutt'altra direzione.
Il
politologo statunitense George Friedman invece ha prodotto un lungo scritto sulla situazione nella Repubblica Islamica dell'Iran, sui rapporti di forza, sulla figura di Ahmadinejad e sui suoi sostenitori. Friedman si allontana di molto dalla visione scotomizzata dei gazzettieri e dei bellimbusti televisivi: aiuta ad avere più chiare un po' di questioni tra le più trascurate da una "libera informazione" che in trent'anni fittissimi di produzioni mediatiche in cui all'incompetenza abituale si unisce anche una dose di malafede maggiore del consueto, ha saputo demonizzare non soltanto la Repubblica e la rivoluzione, ma lo stesso popolo iraniano.
Questo non significa che le posizioni di Friedman siano da accettare acriticamente. L'asserito misoneismo della popolazione iraniana, ad esempio, è molto relativo e riguarda essenzialmente gli aspetti della modernità che vengono percepiti come forieri di ingiustizia sociale o di colonialismo economico o culturale. Le contraddizioni che questo comporta sono in genere soltanto apparenti: nessuna autorità religiosa ha mai detto parola contro gli hamburger, e la Repubblica Islamica è piena di fast food che ne servono... ma non di catene internazionali dedicate allo stesso tipo di servizio, la cui presenza farebbe un deserto del tessuto commerciale locale.
In tutti i casi è interessante notare come i mass media "occidentali" considerino "democratica" se non "rivoluzionaria" la mera esibizione di comportamenti di consumo, o l'adesione a questo o a quello dei "social network" che stanno nei fatti omologando, schedando e istigando al conformismo chiunque abbia l'occasione di averci a che fare. Allo stesso modo, la presentazione mediatica della Repubblica Islamica è instancabilmente incentrata su nostalgie da rotocalco: ai tempi dello Shah tanto rimpianti, l'ingiustizia sociale era la norma: mentre una minoranza assoluta della popolazione ostentava lussi e sprechi oltre il tollerabile, l'analfabetismo era al sessanta per cento, le infrastrutture inesistenti, le spese militari vòlte alla costruzione di un esercito pletorico e dipendente in tutto e per tutto dalle potenze colonialiste. Il Concorde, caviale a bordo e tutto il resto, volava tra Parigi e Kish.
Il "democratismo" degli "occidentalisti" si spegne all'istante quando le urne producono risultati opposti a quelli sperati. Al suo posto, partono campagne denigratorie sempre uguali, di cui i casi palestinese e venezuelano sono solo i casi più recenti.


Ma Ahmadinejad ha ragione: l'Iran della povera gente è con lui

Il ministro Bondi, replicando a certe farneticazioni di D’Alema, ha affermato: “Chi ha vinto le elezioni ha il diritto di governare”. Ineccepibile. Ma questo principio non vale a Teheran, dove il presidente uscente Ahmadinejad ha vinto le elezioni con il 62,64% contro il 34,7% del suo principale avversario, il “moderato” Mousavi.
I sostenitori di quest’ultimo, affermando che la vittoria di Ahmadinejad è frutto di brogli, non hanno accettato il verdetto delle urne e sono scesi in piazza incendiando automobili, cassonetti, spaccando vetrine, creando posti di blocco. E tutta la stampa occidentale si è schierata al suo fianco. Ora, spostamenti attraverso brogli, del 30% dei voti non sarebbero possibili nemmeno in una dittatura bulgara. Se così non fosse Mousavi non avrebbe potuto svolgere del tutto liberamente la propria campagna elettorale, con cortei, manifestazioni di piazza e tutto quanto occorre per cercare il consenso.
Ha detto Ahmadinejad: “Per gli occidentali le elezioni sono valide quando vincono i loro amici, sono nulle se le vincono i loro avversari”. Purtroppo ha ragione. C’è il precedente del 1991 in Algeria quando le prime elezioni libere dopo trent’anni di una dittatura sanguinaria furono vinte dal Fis (Fronte islamico di salvezza) con il 78% dei voti e subito annullate, con il plauso e le pressioni dell’Occidente, dando così origine alla sanguinosa guerra civile algerina.
Noi abbiamo una percezione completamente distorta dell’Iran, lo consideriamo un residuo del Medioevo. Nella Repubblica teocratica si può abortire fino al 45° giorno, esiste il divorzio, l’operazione per cambiare sesso è pagata dalla mutua, la prostituzione è legale, il numero dei laureati è superiore al nostro, le donne votano e, benché portino il velo (il gran chiodo fisso dell’Occidente), possono accedere a tutti i mestieri.
Quando negli anni ’80, seguendo la guerra che Saddam aveva sostenuto contro l’Iran, sono stato a lungo a Teheran, notai che anche la piccola borghesia iraniana non solo conosceva i nostri grandi, Dante, Petrarca, Boccaccio, ma leggeva Moravia e Calvino, gli autori del momento. Noi della cultura persiana conosciamo, quando va bene, Omar Kayam.
Caliamo quindi le arie.
Se Ahmadinejad ha vinto è perché rappresenta gli interessi e i valori dei due terzi della popolazione iraniana, quella più povera, disagiata anche se non necessariamente la più incolta, mentre Mousavi rappresenta i ricchi che strizzano l’occhio all’Occidente. E a noi piacerebbe tanto che si tornasse all’Iran dello Scià (propagandato dai nostri Oggi e Gente che ci facevano vedere Soraya o Farah Diba che passavano da una vacanza all’altra), dove una sottilissima striscia di borghesia, il 2%, faceva vita da nababbi e il resto della popolazione pativa la fame.

Massimo Fini
Fonte; http://lanazione.ilsole24ore.com/index.shtml
16.06.2009


I travisamenti occidentali di fronte alla realtà iraniana

Nel 1979, quando ancora eravamo giovani e sognatori, in Iran ebbe luogo una rivoluzione. Quando chiesi agli esperti cosa sarebbe successo, si divisero in due campi.
Il primo gruppo d'iranisti sosteneva che lo Scià ne sarebbe senz'altro uscito indenne: i disordini non erano altro che un evento ciclico agevolmente gestibile dalla sua polizia, ed il popolo iraniano sosteneva compatto il programma di modernizzazione promosso dalla monarchia. Questi esperti avevano maturato la loro previsione parlando con gli stessi funzionari e affaristi iraniani con cui colloquiavano da anni: potenti persiani cresciuti nell'opulenza sotto lo Scià e che parlavano inglese, dato che di frequente gl'iranisti non parlavano il farsi molto bene.
Il secondo gruppo d'esperti considerava lo Scià un tiranno oppressore, e attribuiva alla rivoluzione l'intento di liberalizzare il paese. Le loro fonti erano professionisti e accademici sostenitori dell'insurrezione: persiani che conoscevano le idee della guida suprema ayatollah Ruholla Khomeini, ma non credevano avesse molto seguito nel popolo. Pensavano che la rivoluzione avrebbe aumentato i diritti umani e la libertà. Gli esperti di questo gruppo parlavano il farsi ancor meno di quelli del primo.


Sentimenti fraintesi in Iran

Limitandosi alle informazioni che giungevano dagli oppositori anglofoni del regime, entrambi i gruppi d'iranisti avevano maturato una visione erronea degli esiti della rivoluzione: la rivoluzione iraniana, infatti, non era portata avanti dalla gente che parlava l'inglese. Era fatta dai mercanti dei bazar cittadini, dai contadini, dai chierici: persone che non parlavano agli Statunitensi, non conoscendone la lingua. Questa gente dubitava dei pregi della modernizzazione, e non era per niente certa di quelli del liberalismo; ma fin dalla nascita coltivava le virtù musulmane ed era convinta che lo Stato iraniano dovesse essere uno Stato islamico.
Europei e Statunitensi stanno male interpretando l'Iran da 30 anni. Anche dopo la caduta dello Scià, è sopravvissuto il mito d'un movimento massiccio di popolo che guarderebbe alla liberalizzazione: un movimento che, se incoraggiato dall'Occidente, riuscirebbe alfine a formare una maggioranza e governare il paese. Noi definiamo questo punto di vista “liberalismo iPod”: l'idea che chiunque ascolti rock 'n' roll su un iPod, tenga un blog e sappia cosa significhi “Twitter” debba essere un entusiasta sostenitore del liberalismo occidentale. Ancor più significativo che questa corrente non sia riuscita a capire che i possessori di iPod sono una ristretta minoranza in Iran – un paese povero, religioso e complessivamente soddisfatto degli esiti della rivoluzione di trent'anni fa.
Senza dubbio c'è gente che vorrebbe liberalizzare il regime iraniano. La si può trovare tra le classi professionali di Tehran così come tra gli studenti. Molti parlano inglese, cosa che li rende accessibili a giornalisti, diplomatici e agenti segreti di passaggio. Sono loro quelli che possono parlare agli occidentali; anzi, sono loro quelli che vogliono parlare agli occidentali. E questa gente dà agli occidentali una visione assolutamente distorta dell'Iran. Possono dare l'impressione che una fantastica liberalizzazione sia a portata di mano. Finché non si capisce che gli anglofoni possessori di iPod, in Iran, non sono esattamente la maggioranza. Venerdì scorso [il 12 giugno 2009, n.d.r.] il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad è stato rieletto coi due terzi del voto. I sostenitori dei suoi rivali, dentro e fuori dall'Iran, sono rimasti basiti. Un sondaggio dava per vincitore l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi. Sarebbe ovviamente interessante meditare su come si possa condurre un sondaggio in un paese dove il telefono non è universalmente diffuso, e fare una chiamata, anche dopo aver trovato un telefono, resta una scommessa. Un sondaggio, perciò, raggiungerebbe probabilmente la gente dotata di telefono che abita a Tehran e nelle altre aree urbane. Probabile che tra questi Mousavi abbia vinto. Ma fuori da Tehran e dalla gente facile da contattare, i numeri sono cambiati parecchio.
Alcuni accusano ancora Ahmadinejad di brogli. È possibile che vi siano stati, ma è difficile capire come si possa rubare un'elezione con un margine tanto ampio. Farlo avrebbe richiesto il coinvolgimento d'un numero incredibile di persone, ed avrebbe rischiato di generare numeri palesemente in disaccordo coi sentimenti prevalenti in ciascuna circoscrizione. Brogli su ampia scala implicherebbero che Ahmadinejad abbia manipolato i numeri a Tehran senza alcun riguardo per il voto. Ma ha tanti potenti nemici che l'avrebbero subito rilevato e denunciato. Mousavi insiste ancora d'essere stato frodato, e dobbiamo rimanere aperti alla possibilità che sia così, per quando sia arduo immaginare il meccanismo attraverso cui ciò sarebbe accaduto.


La popolarità di Ahmadinejad

Manca pure un punto cruciale: Ahmadinejad gode di grande popolarità. Non parla delle questioni che interessano i professionisti urbani, ossia economia e liberalizzazione; ma affronta tre problemi fondamentali che interessano il resto del paese.
Innanzi tutto, Ahmadinejad parla di religiosità. Entro ampi strati della società iraniana, è cruciale la volontà di parlare genuinamente della religione. Sebbene possa essere difficile da credere per gli Europei e gli Statunitensi, nel mondo ci sono persone per cui il progresso economico non è la cosa fondamentale; persone che vogliono mantenere la loro comunità così com'è, e vivere così come vivevano i loro antenati. Questa gente prova ripulsa per la modernizzazione – che venga dallo Scià o da Mousavi. Essa perdona a Ahmadinejad i suoi fallimenti economici. In secondo luogo, Ahmadinejad affronta la corruzione. Nelle campagne è diffusa la sensazione che gli ayatollah – che hanno enorme ricchezza ed enorme potere, riflessi nel loro stile di vita – abbiano corrotto la Rivoluzione Islamica. Ahmadinejad è inviso a molti in seno all'élite religiosa, proprio perché ha sistematicamente sollevato il problema della corruzione, che risuona nel contado.
Infine, Ahmadinejad è un portavoce della sicurezza nazionale iraniana: posizione tremendamente popolare. Va sempre tenuto a mente che l'Iran negli anni '80 combatté una guerra con l'Iraq che durò 8 anni, cagionando perdite e sofferenze inenarrabili, e di fatto conclusasi con la sua sconfitta. Gl'Iraniani, ed i poveri in particolare, hanno vissuto quella guerra ad un livello molto intimo. La combatterono in prima persona, o vi persero mariti e figli. Come succede in altri paesi, la memoria d'una guerra persa non necessariamente delegittima il regime. Semmai, può generare speranze di rinascita, così da non vanificare i sacrifici bellici: un tasto su cui batte molto Ahmadinejad. Affermando che l'Iran non deve ridimensionarsi ma diventare una grande potenza, parla ai veterani ed alle loro famiglie, che desiderano veder emergere qualcosa di positivo da tutti i loro sacrifici in epoca bellica.
Forse il principale fattore della popolarità di Ahmadinejad è che Mousavi ha parlato per i distretti-bene di Tehran – un po' come correre per le presidenziali statunitensi facendosi portavoce di Georgetown e del Lower East Side. Questa cosa ti segna, e Mousavi ne è uscito segnato. Brogli o no, Ahmadinejad a vinto e pure di tanto. Che abbia vinto non è un mistero; il mistero è come gli altri potessero pensare che non avrebbe vinto.
Venerdì, per un tratto, era sembrato che Mousavi fosse in grado di scatenare un'insurrezione a Tehran. Ma il momento è passato quando le forze di sicurezza di Ahmadinejad sono intervenute sulle loro motociclette. E ciò ha lasciato l'Occidente con lo scenario peggiore: un antiliberale democraticamente eletto.
Le democrazie occidentali credono che il popolo eleggerà i liberali che tutelano i loro diritti. In realtà, il mondo è più complicato di così. Hitler è l'esempio classico di chi è giunto al potere seguendo la costituzione, e poi l'ha violata. Analogamente, la vittoria di Ahmadinejad è nel contempo il trionfo della democrazia e quello della repressione.


Il futuro: lo stesso, di più

La domanda è ora cos'avverrà in seguito. Internamente, possiamo aspettarci che Ahmadinejad consolidi le sue posizioni sotto la copertura della lotta alla corruzione. Lui vuole ripulire gli ayatollah, molti dei quali sono suoi nemici. Avrà bisogno del sostegno della guida suprema ayatollah Alì Khamenei. Quest'elezione ha fatto di Ahmadinejad un presidente potente, forse il più potente che ci sia mai stato in Iran dalla rivoluzione. Ahmadinejad non vuole sfidare Khamenei, e la sensazione è che Khamenei non vorrà sfidare Ahmadinejad. Si profila un matrimonio obbligato, che forse metterà in una posizione difficile molti altri capi religiosi.
Di certo le speranze che la nuova dirigenza politica ridimensionasse il programma nucleare iraniano sono state annullate. Il campione di quel programma ha vinto, in parte proprio perché se n'è fatto paladino. Riteniamo l'Iran ancora lontano dallo sviluppare un'arma nucleare utilizzabile, ma di certo la speranze dell'amministrazione Obama che Ahmadinejad sarebbe stato rimpiazzato o quanto meno indebolito e ridotto a più miti ragioni, sono state infrante. È interessante che Ahmadinejad abbia inviato congratulazioni al presidente Barack Obama il giorno della sua investitura. Ci aspetteremmo che Obama ricambi la cortesia, vista la sua politica d'apertura, che il vice-presidente Joe Biden pare aver affermato, assumendo che parlasse per conto di Obama. Non appena la questione dei brogli si sarà risolta, avremo un'idea migliore se la politica di Obama proseguirà (e crediamo che sarà così).
Ora abbiamo due presidenti in posizione politicamente sicura, cosa che normalmente garantisce buone basi per negoziati. Il problema è che non si capisce su cosa gl'Iraniani siano pronti a negoziati, né quali concessioni gli Statunitensi siano disposti a dare agl'Iraniani per indurli a negoziare. L'Iran vuole maggiore influenza in Iraq ed il riconoscimento del suo ruolo di maggiore potenza regionale, cose che gli Stati Uniti non vogliono concedergli. Gli USA vogliono la fine del programma nucleare iraniano, cosa che l'Iran non vuole accettare. A prima vista, questo sembrerebbe aprire le porte ad un attacco contro le installazioni nucleari iraniane. L'ex presidente George W. Bush non ebbe alcuna voglia di condurre un simile attacco, né l'ha ora Obama. Entrambi i presidenti hanno impedito agl'Israeliani d'attaccare, posto che quest'ultimi abbiano mai voluto farlo davvero.
Per ora, le elezioni sembrano aver congelato lo status quo. Né Stati Uniti né Iran sembrano pronti a mosse significative, e non vi sono terze parti che vogliano farsi coinvolgere nella questione, eccettuate le occasionali missioni diplomatiche europee o le minacce russe di vendere qualcosa all'Iran. Alla fin fine, ciò dimostra quel che sappiamo da molto: il gioco è bloccato sul posto, e va avanti.


Versione originale: George Friedman direttore di “Stratfor”
Fonte: www.stratfor.com
Link: http://www.stratfor.com/weekly/20090615_western_misconceptions_meet_iranian_reality
15.06.2009

Versione italiana:
Fonte: www.eurasia-rivista.org
Link: http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli
18.06.2009

Traduzione a cura di Daniela Scalea.


mercoledì 17 giugno 2009

Genova e Tehran: due pesi e due misure


Col passare dei giorni la situazione elettorale nella Repubblica Islamica va prendendo una piega piuttosto chiara.
Se è vero che i vertici del Mossad non si sono scomposti più di tanto e che Barack Hussein Obama Ikkinchi ha considerato che non vi sono "grosse differenze" tra i due pretendenti alla carica, si tratta di una piega contraria a quanto "occidentalisticamente" desiderabile.
Ma su questo avremo modo di tornare con calma.
Per intanto, ricordiamo un episodio della storia recente. Ed usiamolo come al solito, per trattare la weltanschauung "occidentalista" ed i suoi propagandisti con tutto il disprezzo che meritano.

Il 20 luglio 2001 avvennero a Genova scontri piuttosto violenti, tra manifestanti e gendarmeria. Nel corso di uno di questi un manifestante finì ucciso, secondo ogni evidenza dal colpo di pistola esploso da un gendarme.
Morì con la testa trapassata, gli passarono sopra con la jeep e lo esibirono alle telecamere.
In un "paese" dove ci fu chi ebbe la spudoratezza di paragonare a Cristo uno straricco polipregiudicato e latitante, sulla cui tomba andò a meditare l'occidentalissimo Marcello Pera, per Carlo Giuliani si scomodarono paragoni molto meno lusinghieri. Massacrato da vivo, fu massacrato anche da morto. Ecco che fine fanno i drogati e i fannulloni.
Tra le tante iniziative tese a solleticare il perbenismo meglio orientato verso comportamenti conformisti, vili, obesi e teledipendenti, vi fu quella di un fogliettista tutt'ora in circolazione, che lanciò una pubblica sottoscrizione per il gendarme, che divenne per lo spazio di un mattino l'eroe delle gazzette più "occidentaliste".
Al gendarme, peraltro congedato con discrezione appena possibile e fatto sostanzialmente sparire, piovvero addosso un bel po' di quattrini.
Bene: al termine delle manifestazioni pro Moussavi tenutesi a Tehran il 15 giugno 2009, i Bassij hanno ucciso non uno ma sette manifestanti. Secondo la versione ufficiale, stavano tentando l'assalto ad una caserma.
I Bassij sono numerosissimi e suscitano sentimenti contrastanti: chi ne fa parte dice di adoperarsi con estremo orgoglio per ottemperare alle direttive del movimento; molti tra i non appartenenti li considerano come il fumo negli occhi perché sono costretti a tollerare l'intromissoria curiosità e la molesta efficienza con cui i Bassij svolgono certi loro compiti.
Gli "occidentalisti" delle gazzette dovrebbero guardare ai sacri valori della legge e dell'ordine pubblico sempre e comunque. Se non fossero gente che il vocabolo coerenza è costretta a cercarlo sul dizionario, dovremmo aspettarci che qualcuno di loro lanci di una pubblica sottoscrizione in favore delle fozzedellòddine di Tehran.
Sarebbe logico, no?


Un po' di scontri di piazza. A Tehran si possono fare. A Genova no.


sabato 13 giugno 2009

Mahmoud Ahmadinejad al suo secondo mandato




Gli yankee sono rimasti col grugno spaccato nella Terra dei Due Fiumi, sulla quale dovevano passare come un rullo compressore e che invece riescono a tenere solo a prezzo di compromessi costosissimi e nella crescente indifferenza (se non insofferenza) dell'opinione pubblica mondiale, perpetuando sotto un'altra bandiera le mostruose ingiustizie sociali un tempo ascritte in toto alle colpe di Saddam Hussein e della sua élite di fiancheggiatori.
Nell'Afghanistan invaso pare che il peggio debba ancora venire e che in otto anni la resistenza quella vera non sia stata neppure intaccata.
In queste condizioni il giornalame ha dovuto mettere un brusco freno al trionfalismo, sia quello prodotto in proprio sia quello prodotto per i poteri di riferimento.
Qualche mese fa il cambio di segno politico della presidenza yankee ha anche messo all'angolo "teocon" ed altra spazzatura "occidentalista" in servizio 24/7 (come dicono loro, "tutti i santi giorni" come diciamo noi), risparmiando al pubblico i Mel Gibson, le esegesi d'accatto sugli scritti di Samuel Huntington, la sbrigativa sicumera di businessmen alla Madoff e molti altri prodotti di una visione del mondo coerentissima coi tempi, che più di altre univa dilettantismo, cattiveria deliberata, piccineria, incompetenza, consumismo ed egoismo manicomiali.
Il mutare del contesto non è certo dovuto a chissà quale fulminazione sulla via di Damasco: è solo l'esito forzato dei risultati pazzeschi conseguiti da otto anni di guida planetaria improntati ai criteri suddetti. Di fatto ha però imposto un certo freno all'arditezza "occidentalista", di cui rimangono comunque in giro per il mondo anche troppi alfieri, come il cadavere politico Saakashvili, il governo dell'entità sionista e le lobby connesse, il governo dello stato che occupa la penisola italiana.

In questo contesto è avvenuta, nella Repubblica Islamica dell'Iran, la riconferma di Mahmoud Ahmadinejad alla carica di presidente, secondo l'andamento fin qui seguito che ha visto la riconferma di tutti i presidenti uscenti.
Quattro anni fa il voto fu disertato da una grossa percentuale degli elettori, sfiduciati nella possibilità di un cambiamento e nelle prospettive stesse della Repubblica Islamica. Questa volta non è stato così, anche se il risultato è stato opposto a quello che l'affluenza avrebbe portato a pensare. Quando si presentò per il suo primo mandato, Ahmadinejad fu eletto di misura dopo una campagna elettorale che aveva impostato sulla lotta alla corruzione, sulla valorizzazione del contributo dato dai poveri alla sopravvivenza della Repubblica durante la "guerra imposta" con l'Iraq, e sulla propria fama di individuo modesto, schivo ed alieno da ogni ostentazione. La fama di antisemita di ferro, costruita in "occidente" travisando un linguaggio politico imbevuto di allegorie ed immagine familiari per il credente sciita secondo una prassi in cui si profondono quella malafede e quell'incompetenza che sono la vera essenza della "informazione" prodotta dai mass media "occidentali", è stata smentita dai fatti: Ahmadinejad, di cui circolano varie immagini che lo ritraggono insieme a rappresentanti del Neturei Karta, ha incassato addirittura il voto della comunità ebraica iraniana.
Al di là dei brogli, che in considerazione dei risultati numerici avrebbero dovuto avere una portata imponente, è probabile che Ahmadinejad non sia stato votato solamente dagli ex combattenti, o da quella parte della popolazione rimasta esclusa dai benefici portati dalla modernizzazione del paese.
Nel corso del suo mandato Ahmadinejad non ha ostacolato affatto la modernizzazione tecnologica ed infrastrutturale del paese ed ha praticamente dato fondo alle risorse economiche destinate alle emergenze sociali, costruite ai tempi del petrolio a centoottanta dollari al barile, per migliorare il tenore di vita degli impiegati pubblici e degli insegnanti, secondo una prassi che farebbe inorridire un "liberale" europeo, ma la cui logica è avallata dalla costituzione iraniana e dal substrato ideologico del fondatore della Repubblica Islamica.
Se si scorrono i molti articoli presenti sui media mainstream in merito alla realtà della Repubblica Islamica, è facile notare che le critiche perennni che la sedicente libera stampa "occidentale" rivolge alla Repubblica Islamica ed ai suoi governanti ruotano a grande maggioranza su due argomenti cardine: la pena capitale ed il contrasto a determinati comportamenti di consumo.
Sulla pena capitale c'è da chiedersi quale diritto abbia un aggregato di sudditi animato da un'autentica foia forcaiola nei confronti di tutto e di tutti, quale è quello amorevolmente accudito dai mass media che operano nella penisola italiana, di esprimere la propria opinione in merito ai metodi repressivi adoperati altrove. Un volgo che accetta acriticamente i campi di concentramento in corso di realizzazione, che idolatra l'ingiustizia sociale ed i suoi fautori e che si presta supino ad ogni demonizzazione dell'Altro che i politicanti decidano di mettere in atto, è l'ultimo a poter trarre conclusioni su contro di qualcuno.
Il contrasto a determinati comportamenti di consumo è ammesso in società in cui essi comportamenti hanno, giustamente, la valenza residuale che deve essere loro propria. Logico che venga considerato inammissibile in un contesto come quello "occidentale", in cui l'utilizzo demenziale -se non distruttivo- delle nuove tecnologie, il consumismo fine a se stesso e la valorizzazione dei comportamenti mercificatori costituiscono parte integrante e in qualche caso primaria della vita sociale comunemente intesa.
In queste condizioni è poco realistico pensare che con la lettura delle gazzette e dei materiali che ne derivano si possa inquadrare la realtà della Repubblica Islamica con il minimo di obiettività necessaria. Chi riuscisse ad assecondare il sano proposito di fare a meno di tutta la spazzatura che inonda edicole e televisori, rivolgendosi a fonti letterarie più serie, non avrebbe motivo per stupirsi delle apparenti contraddizioni continuamente citate da un mainstream per il quale è impensabile diffondere qualcosa che non sia improntato alla denigrazione e al suscitare odio.
Scoprirebbe ad esempio che il fondamento della Repubblica è rappresentato dalla competenza e dalla responsabilità di coloro che sono chiamati a governare, dal loro sincero spirito di servizio e dal rapporto di reciproca fiducia che deve esistere tra governanti e governati. Un rapporto su cui si basa la legittimità dell'azione di governo.
Scoprirebbe che la Guida, l'ayatollah Khamenei, è stato tra i più accesi sostenitori della diffusione di internet nel paese: il suo sito istituzionale è ricco di contenuti e povero di spazzatura, in direzione opposta a quella delle gazzette che lo denigrano.
Scoprirebbe che la sobrietà è imposta alla classe politica dalla costituzione, che al suo articolo 142 prevede per le massime cariche del potere giudiziario il preciso dovere di esaminare la consistenza patrimoniale delle più alte cariche della Repubblica, dalla Guida spirituale ai deputati ai ministri e quella dei loro parenti prima e dopo la durata della loro carica, per verificare che nessuno si sia arricchito in modo contrario alla legge.
L'aneddotica sull'ayatollah Khomeini insiste sulla sua sobrietà e la regolarità della sua vita. Una condotta che l'opinione pubblica iraniana considera a tutt'oggi in modo favorevole, se si esprime in massa in favore di un Ahmadinejad che agli occhi "occidentali" spicca per il vestire dimesso (se non trasandato) e per la poca o nulla attenzione prestata alla propria immagine pubblica così come viene intesa nel pollaio starnazzante della politicanza "occidentale".
Si facciano tutti i paragoni che si vogliono con l'osceno spettacolo dei politicanti peninsulari, uno spettacolo che l'accettazione neanche tanto tàcita da parte dei sudditi ha finito in pochi anni per far percepire come coessenziale alla loro funzione e al loro ruolo.
Il furore mediatico contro la Repubblica Islamica non è assolutamente guidato da senso di umanità o da sincero interesse per le condizioni di vita della popolazione, ma dalla necessità di demonizzare qualunque prospettiva si discosti dalla dittatura del consumismo su cui ogni "occidentale" è tenuto a basare la propria esistenza, pena l'emarginazione di fatto. Denunciare questo stato di cose non significa idealizzare la Repubblica Islamica, ma restituire un minimo di correttezza all'ottica profondamente e scientemente deformata con cui essa viene presentata dal suo nascere.

mercoledì 10 giugno 2009

Toscana. Il Buco Nero dell'Occidente ospita Abbas Kiarostami


Giugno 2009. I risultati elettorali toscani e quelli fiorentini in particolare, pur con qualche svarione di cui si deve ringraziare l'incessante campagna di odio e di propaganda esercitata dalle gang delle redazioni, confermano la famosa definizione tortoliana della Toscana come buco nero dell'"Occidente".
Il regista iraniano Abbas Kiarostami, una persona troppo seria per perdere tempo (o prendere in giro) facendo vedere quant'è trasgressivo e liberatorio leggere Lolita a Tehran, ha iniziato in Toscana le riprese di Copia conforme, suo primo lungometraggio girato fuori dalla Repubblica Islamica dell'Iran.
Il film è ambientato a Cortona, Lucignano e Arezzo.

giovedì 4 giugno 2009

Firenze, una sera di giugno n'i'ddegrado, senza sihurezza...


Una sera d'inizio giugno nella centralissima zona di San Lorenzo. Un quartiere pieno di gente per le strade e vivissimo a tutte le ore del giorno grazie ai mercati e ai molti, utilissimi, negozietti di alimentari e di prodotti etnici. I tempi in cui nel centro di Firenze era un problema comprare un po' di pane perché c'erano solamente negozi di stracci dai prezzi osceni paiono proprio finiti.
La cosa è servita, e serve, per la propaganda "occidentalista" che altro non ammette che la tetraggine cupa e la vita schifosa che sono le caratteristiche salienti della forma mentis del servitorame rancoroso che ha il preciso compito di plasmare.
Un quartiere intero popolato da una umanità varia, che lavora invece di vendere aria fritta a caro prezzo, con le strade usate come strade e le piazze come piazze? Intollerabile.
Qualunque diverbio avvenga in zona riempie giornalini per tre giorni, permettendo loro di statuire l'incombere d'i'ddegrado e la mancanza della sihurezza. La conclusione cui porta ogni riga di scritto, ogni fotogramma, ogni secondo di trasmissione è che mettendo la città in mano agli scarti d'"Occidente" che ne hanno alluvionato le strade di propaganda azzurrastra, si assisterebbe ad una taumaturgica sparizione d'i'ddegrado e ad un incremento della sihurezza. Sicuramente occuperebbero meno posto sulle gazzette, secondo un giochetto pre-elettorale tentato più volte negli ultimi decenni.
Ora, la presa dell'operazione sulla società fiorentina non sembra delle più incoraggianti.
L'immagine qui allegata, scattata di fretta in un affollatissimo vinaio (non wine-bar o altre lochéscion per indebitati, ma un vinaio vero e proprio) mostra come le potenzialità ed i "valori" dell'"occidentalismo" contemporaneo siano stati interiorizzati nella loro essenza. Peccato per i propagandisti.