martedì 27 agosto 2024

Firenze, culla del Rinascimento, ridotta a un degrado vergognoso che è tutta colpa del sindaco comunista

 


Sì, bene.
Ora però basta ridere.
I piagnistei telematici e gazzetteschi che vagheggiano i tempi andati di una Firenze contraddistinta dal lindore, in contrapposizione al postulato degrado contemporaneo, hanno un po' l'andamento di un fiume carsico. Nei mesi precedenti le elezioni un certo numero di scribacchiagazzettini e di "occidentalisti" rionali deplora marginalità estreme e deiezioni canine, cartacce e situazioni di penoso disagio per incolparne l'amministrazione e assicurare che il solito ben vestito spedito da Roma a rendere presentabili ciurme e programmi che presentabili non sono restituirà Firenze alla sua natura di verziere olezzante di verbena. Poi ci sono le elezioni, il ben vestito si dissolve letteralmente nell'aria lasciando il cerino in mano alla ciurma di cui sopra, e il lavorìo degli scribacchiagazzettini e degli "occidentalisti" rionali torna in sottofondo.
Quando si produce questa propaganda da due spiccioli è essenziale non identificare con precisione i tempi andati oggetto di rimpianto, perché esistono almeno cinque generazioni a coprire un'ottantina d'anni con aneddoti e testimonianze in grado di mettere zitto qualunque nostalgico. Meglio collocare tutto in un'epoca più o meno remota che ci si augura a prova di smentita. Solo che esistono gli storici e gli archivi, e gli storici e gli archivi raccontano cose non troppo in linea con la Firenze come la si vorrebbe raccontare. La narrazione propagandistica si regge essenzialmente sulla speranza che nessuno vada a disturbarli.
Che invece è proprio quello che si è fatto in questo caso.
Che è anche il minimo.
L'anno è il 1620. Ne I pidocchi del Granduca Carlo M. Cipolla tratta dei provvedimenti adottati per arginare la diffusione della febbre tifoide in un saggio in cui sottolinea tranquillo la rilevanza secondaria del problema a fronte del periodico ripresentarsi del pestifero e contagioso morbo che era letteralmente il terrore della cittadinanza e delle istituzioni. I paragrafi che se ne riportano consentono di rimettere al suo posto -dopo averlo schernito e deriso ad alta voce scandendo bene le parole- qualsiasi laudator temporis acti. E consentono di farsi un'idea su quali dovessero essere le condizioni di Firenze appena fuori dagli Uffizi.
Probabile che per prenderne atto non sarebbe stato neanche necessario uscirne.
Sarebbe bastata un'occhiata alle cantine.
Noi oggi giustamente lamentiamo gli inquinamenti d'ogni tipo e maniera che ammorbano e intristiscono le nostre città. Ma non è per questo da credere che la città preindustriale fosse un paradiso ecologico. Ne è prova tra l'altro il fatto che la mortalità cittadina era di gran lunga piu elevata allora di quanto sia oggi. Uno dei grossi problemi del tempo era quello della eliminazione dei rifiuti umani: un problema che ovviamente si assommava, aggravandoli, agli altri numerosi problemi quali quello dell'alta densità demografica nel territorio compreso entro le mura, quello della povertà diffusa, quello delle deficienti conoscenze in fatto di igiene, e cosi via.
In Firenze come altrove per la raccolta dei rifiuti le case d'abitazione disponevano in genere di pozzi neri. Capitava anche, soprattutto nel caso dei monasteri, che i canali di scarico dessero direttamente sulla strada. I votapozzi, dietro compenso, si occupavano di vuotare i pozzi neri e le cantine quando la cosa era necessaria e di portarne via il nauseabondo contenuto. Il quale nauseabondo contenuto veniva distinto in "materia soda" (chiamata anche "materia per contadini") considerata "bona per concio" (cioè buona per concimare) e "materia tenera" detta anche "acquastrone", cioè il liquame che non era buono a nulla e che nessuno voleva. I votapozzi, tradizionalmente pagati dai proprietari e non dagli inquilini, gettavano di norma l'acquastrone in Arno mentre la materia soda la vendevano ai contadini e agli ortolani.
In prosieguo di tempo i proprietari ed i contadini si resero conto che era possibile far a meno dell'intermediazione dei votapozzi e divenne sempre più frequente il caso di un proprietario che si accordasse direttamente col contadino. In tal caso il contadino stesso andava a vuotare il pozzo nero o la cantina, il proprietario risparmiava la spesa del votapozzi e il contadino in compenso della sua fatica si teneva la materia bona per concio senza dover sborsare soldi. "E cosi si costumava che la tenera da cert'hora di notte in là si buttava in Arno et il sodo per tempo la mattina si cavava fuori della città e si portava in varij luoghi secondo l'occorrenza de' contadini et ortolani"(1). E quelli furono gli anni delle vacche magre per i votapozzi.
Evidentemente però il diffondersi della pratica del rapporto diretto tra proprietari e contadini significò la scomparsa di quella professionalità di cui i votapozzi erano i legittimi e benemeriti rappresentanti. L'acquastrone veniva buttato malamente in Arno e la mattina i Fiorentini trovavano i loro ponti e le loro rive imbrattati da un qualcosa che offendeva la vista non meno che l'olfatto. Poi ci si misero anche gli ecologi del tempo cui non andava giù tutto quel buttar di rifiuti nel fiume — e loro si preoccupavano non solo dei rifiuti umani ma anche dei rifiuti delle macellerie, e di quelli dei tintori, e di quelli dei conciatori. E cosi, dietro una sollecitazione dopo l'altra, fu decretato che i pozzi e le cantine dovessero essere vuotati solo dai votapozzi i quali, garanti egregi della più alta professionalità, vennero impegnati sotto pene gravissime per ogni contravvenzione, a portare i rifiuti, sodi e teneri che fossero, a determinati "scaricatori e buche" appositamente approntati giusto fuori le mura. Questi scaricatori furono situati in punti strategici avendo l'Amministrazione avuto attenta cura di studiare i siti in relazione ai bisogni dei vari sestieri ed al regime dei venti. Cosi per esempio uno scaricatoio fu piazzato lungo le mura fra Porta S. Piero e S. Friano, un altro fu approntato fra la Porta al Prato e la Porta S. Gallo, un altro ancora fu posto tra Porta Pinti e Porta la Croce. Pareva la più razionale di tutte le possibili soluzioni - ma non fu cosi.
I votapozzi andavano pagati dai proprietari ma costoro s'erano oramai abituati, grazie all'opera dei contadini, ad essere sgravati della spesa della vuotatura dei pozzi neri e delle cantine. Quando entrò in vigore la nuova legislazione, molti proprietari, e soprattutto gli ecclesiastici, presero il vezzo di includere nei contratti di locazione che la spesa per il vuotamento dei pozzi neri e delle cantine fosse a carico dell'affittuario. Molti degli inquilini però erano "poveri e meschini che non possono mettere insieme con che vivino" e tanto meno "quei tre o quattro scudi che vanno in tali votamenti". La conseguenza inevitabile fu che gli inquilini poveri "lasciano stare detti pozzi neri pieni e traboccanti e sono necessitati stare e vivere in questi fettori"(2). Buona parte di Firenze stava cosi per venire sommersa da un qualcosa che non era l'acqua dell'Arno.
I "buoni huomini" di San Martino avvertirono la puzza nauseabonda e mefitica e ne informarono la Sanità. La Sanità diede ordine a Maestro Filippo Lasagnini, capomastro alla parte e ministro sopra le strade, di indagare sulla situazione con procedura d'urgenza. E Maestro Lasagnini, fatta una prima ed affrettata indagine, redasse un rapporto interinale che arrivato sul tavolo del Magistrato vi fece l'effetto di una bomba: "siamo stati di maniera meravigliati — scrissero i Magistrati al Granduca il 3 gennaio 1621 — che ci ha dato da pensare un pezzo e ridotto a credere che caminando innanzi in questo modo sia miracolo se non si precipiti in una peste"(3). In sintesi nella sua relazione il Lasagnini diceva di aver trovato 109 cantine piene ricolme di liquami, 20 cantine chiuse mescolate con pozzi neri, 49 pozzi neri stracolmi ridondanti e 8 pozzi da bere "guasti" perché in essi traboccavano le acque nere(4). E questo fu solo il risultato della prima sommaria ispezione perché poi, proseguendo l'indagine il Lasagnini trovò che le cantine colme di liquami non erano 109 bensì 114, le cantine chiuse mescolate con pozzi neri non erano 20 bensì 24, i pozzi neri stracolmi e ridondanti non 49 bensì 221, e i pozzi da bere contagiati dalle acque nere non 8 bensì 18(5). Né questo era tutto perché il Lasagnini oramai scatenato non stava chieto "dì e notte continuamente" e il 4 marzo segnalava ancora che "ci resta pieni di porcherie e cattive materie" tre case di Firenze "fra vicoli e stradelle private e chiuse"(6).
Il Magistrato agì con decisione. Sostenne che lo svuotamento dei pozzi dovesse essere eseguito a spese della finanza pubblica a fondo perduto "che facendosi questa spesa dal pubblico per esserne di poi rimborsato si farà una gran massa di debitori"(7). Incontrò difficoltà finanziarie perché l'Ufficio della Parte che era quello che date le sue competenze avrebbe dovuto fornire i mezzi finanziari per lo svuotamento dei pozzi era "esausto di denari per le continue spese dei lavori d'Arno"(8), ma riuscì a manovrare nel dedalo delle finanze granducali e il 4 marzo potè annunciare al Granduca che "il vuotamento de pozzi neri e pozzi da bere è finito e tutto il numero di quelli che si sono votati ascende a 377"(9). Ovviamente vuotare i pozzi neri stracolmi non bastava. "Questo rimedio pare a noi che sia per durar poco tempo poiché fra due mesi al più lungo torneremo nelle medesime miserie e s'incontrano molte difficoltà perciò che fra queste case una buona parte sono di religiosi et Ecclesiastici duri et difficili ad ubedire"(10). Il male andava tagliato alle radici e il Magistrato proponeva di "levar via li scaricatoi e bucche alle mura" e "ridurre il tutto all'uso di prima" e cioè a ridare ai proprietari e agli affittuari la libertà di accordarsi coi contadini e gli ortolani i quali avrebbero portato la roba soda dove loro comodava e l'acquastrone l'avrebbero buttato in Arno. Per avvalorare la propria tesi il Magistrato cercò di dimostrare che gli scaricatoi erano nefasti e che i quartieri vicini agli scaricatoi erano in effetti i quartieri che più soffrivano dell'epidemia [di tifo], e cioè il quartiere di S. Spirito, Costa San Giorgio, il Fondaccio e Borgo S. Nicolò(11). La Corte tergiversò (e certo non gli piacque quell'accenno ai "Religiosi et Ecclesiastici duri et difficili ad ubedire") e ricordò "che quando si gettavano i rifiuti in Arno cagionavano fetore et mali effetti ne' principali luoghi della città"(12). Ma il Magistrato insistette precisando quel che si sarebbe dovuto fare con una minuziosità ed una precisione esemplari:
che fusse lecito a ciascuno di far votare i pozzi neri e che la materia tenera e liquida con barili si gettasse in Arno doppo la campana dell'arme e non prima dalli tre Ponti, cioè Rubbaconte, Ponte Vecchio e dalla Carraia con haver l'occhio di gettarla dove sia la corrente dell'acqua e senza imbrattare le sponde e pile con imporre sopra questo pena pecuniaria et afflittiva di corpo contro li trasgressori. E per abbondare in cautela e tor via ogni occasione di brutture che si ordinasse un huomo a posta ... quale havesse obligo ogni mattina all'alba visitare detti Ponti e trovando le sponde imbrattate lavarle molto bene e darne conto a' Capitani di Parte o Uffiziali di Sanità per procedere contro i trasgressori e gastigarli. Et sebene questa tenera e liquida nel gettarla in Arno farà qualche fettore, bisogna considerare che è materia quale in ogni modo maneggiata è necessario che puzzi; nondimeno il tempo dalla campana in là pare proportionato perché all'hora il popolo si è ridotto alle case et si sta con le finestre serrate, massime l'inverno...
E cosi via per pagine e pagine. Impressionati da argomentazioni cosi dettagliate e stringenti, il Granduca e le sue Tutrici accolsero la proposta del Magistrato. Già che si è in tema di esalazioni mefitiche, conviene dire che al Magistrato toccò d'occuparsi non soltanto del puzzo che esalava dai pozzi neri e dalle cantine. La gamma dei miasmi nauseabondi che ammorbavano la città medievale e rinascimentale era pressoché infinita. C'erano gli odoracci dei tintori, quelli dei conciatori, quelli degli osti con i loro vini guasti, quelli dei macellai con le loro dannate sanguinaglie, c'era il puzzo della gente che si lavava poco e quello dei rifiuti dei cavalli e dei muli e degli asini e dei cani e poi, soprattutto in certi tempi dell'anno c'era il tanfo mefitico, insopportabile dei bachi da seta. Già nel 1616 il Magistrato aveva avuto sentore che in molte strade di Firenze si operavano caldaie per la cottura dei bozzoli. Finita la cottura le acque venivano buttate per le strade mentre "quelli rimasugli che restano nel fondo delle caldaie" venivano lasciati a macerare nelle caldaie stesse e producevano indicibili "fettore e puzzo". Il Magistrato aveva allora decretato che finita la bollitura dei bozzoli le acque "et ogni altra cosa che avanza" fossero subito buttate in Arno oppure portate fuori porta "in luoghi remoti et non frequentati"(13). Con questo provvedimento s'era messo fine ad un abuso, ma altri restavano. Molti tra la gente minuta di Firenze allevavano bachi in casa per arrotondare il reddito. Erano degli stoici perché allevar bachi in casa vuol dire vivere in mezzo al tanfo. Gli italici sono gente stoica e sono anche un qualcosaltro e i fiorentini erano italici e una volta cavati i bachi usavano gettare i letti sulla strada con disinvolta noncuranza per il prossimo, cosi come quelli delle caldaie si preoccupavano dei bozzoli ma non del prossimo. Il Magistrato discusse della cosa nell'aprile del 1621 e ventilò l'idea di proibire del tutto la tenuta dei bachi in città in vista della corrente epidemia. Poi però prevalsero le considerazioni economiche — "considerato che dal far questi bachi le povere persone ne possono cavar utile" — e ci si limitò a proibire "che i letti che si cavano di sotto a detti bachi che son quelli che ordinariamente fan puzzo e cagionano fettore" fossero gettati per le strade o trattenuti nelle case. E si ordinò che fossero portati fuori porta o gettati in Arno, nel gran fiume che raccoglieva tutto(14).
 
ASF: Archivio di Stato, Firenze.


1 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1059 (2 gennaio 1621).
2 Per tutto quanto precede cfr. ASF, Sanità, Negozi, 138, cc. 1058 ss. (2 gennaio 1621), cc. 1060 ss. (5 gennaio 1621).
ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1058 (2 gennaio 1621). Cfr. qui addietro cap. I, p. 35.
3 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1144 (27 febbraio 1621).
4 Ibidem.
5 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1164 (4 marzo 1621).
6 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1060 (5 gennaio 1621).
7 Ibidem.
8 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1198 (4 marzo 1621).
9 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1058v (2 gennaio 1621).
10 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1059 (2 gennaio 1621).
11 ASF, Sanità, Negozi, 138, c. 1083v (3 gennaio 1621).
12 ASF, Sanità, Negozi, 138, cc. 1061 ss. (5 gennaio 1621), Per il lungo seguito della maleodorante storia cfr. ASF, Sanità, Negozi, 139, c. 487 (1 maggio 1622).
13 ASF, Sanità, Negozi, 139, c. 611.
14 ASF, Sanità, Negozi, 139 (19 aprile 1621).

Tratto da Carlo M. Cipolla, Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell'Italia del Rinascimento. Bologna 1985.


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