lunedì 28 gennaio 2019

Alastair Crooke - Una guerra non soltanto commerciale e non soltanto contro la Cina, ma anche contro la Russia



Traduzione da Strategic Culture, 24 dicembre 2018.

Non è solo una guerra commerciale; dietro c'è una guerra tecnologica. E dietro la guerra tecnologica ci sono i progetti per una corsa agli armamenti a tutto campo, dalle armi spaziali a quelle per il cyberspazio. Uno dei comandanti militari in carica negli USA afferma: "La guerra moderna si fa su un campo di battaglia fatto di dati e di informazioni... Che genere di missioni portiamo a termine oggi nello spazio? Forniamo informazioni, forniamo percorsi per le informazioni, e in una guerra neghiamo agli avversari accesso ad esse". La nuova corsa agli armamenti dunque riguarda tanto il mantenimento e la conferma della leadership tecnologica statunitense nello sviluppo dei circuiti integrati, nei computer quantistici, nel big data e nell'intelligenza artificiale per utilizzo bellico quanto la supremazia tecnologica nella sfera economica, ovvero il dominio degli standard nell'industria dei beni di consumo per la prossima generazione dei gadget tecnologici intelligenti che tutti acquistiamo.
Cosa sta succedendo, allora? Il complesso militare statunitense ha preso la cosa sul serio. Si stanno facendo i preparativi per un prossimo confronto militare con la Cina.L'insistenza nell'affermare che la Cina sta rubando tecnologie, know how e dati agli USA e statuire che i cinesi si sono intromessi nel processo elettorale ameriKKKano e che vi hanno interferito (cosa che richiama il Russiagate) serve essenzialmente -ma non completamente- a mettere in piedi un casus belli contro la Cina. Il fatto puro e semplice è che i militari statunitensi sono rimasti scioccati quando hanno scoperto quanto stanno rimanendo indietro rispetto alla Russia e alla Cina nel campo degli armamenti ad alta tecnologia.
Un resoconto di esperti del Ministero della Difesa sia democratici che repubblicani, inviato al Congresso nel novembre 2018, avvertiva:
Il vantaggio dell'AmeriKKKa in campo militare è diminuito e in qualche caso è venuto meno perché i paesi avversari stanno diventando piùà esperti, più forti e più aggressivi... L'AmeriKKKa potrebbe perdere la prossima guerra... Una guerra contro la Cina o contro la Russia potrebbe vincerla con difficoltà o addirittura perderla. Se gli USA dovessero combattere contro i russi nel Baltico o contro i cinesi per Taiwan, l'AmeriKKKa potrebbe andare incontro a una sconfitta militare senza mezzi termini...
Gli avversari hanno studiato la strategia militare statunitense e hanno imparato come contrastarla", ha detto il copresidente della commissione Eric Edelman. "Hanno imparato dai nostri successi e mentre noi eravamo impegnati a combattere guerre di altro genere si sono preparati per uno scontro ai massimi livelli, un tipo di guerra che non ci ha riguardato per molto tempo".
L'ameriKKKano della strada non è abituato a considerare la Cina come una minaccia. Magari la considera una minaccia commerciale, ma non un contendente sul piano militare. Solo che la marea di affermazioni su come la Cina stia rubando all'AmeriKKKa ricchezza e posti di lavoro serve proprio a cambiare questo stato di cose; si sta coltivando l'opinione pubblica in vista di un confronto militare.
Tutto qui quello che c'è da dire sulla rivalità degli USA nei confronti della Cina nel campo della tecnologia? Purtroppo no. C'è la Russia, e in questo caso non serve neppure un casus belli. La Russia è talmente al suo posto come avversario per antonomasia e ha talmente le mani in pasta negli affari interni degli USA che lavorarsi l'opinione pubblica non serve. Che la Russia sia un nemico si dà per scontato, oggi. I falchi in politica estera dell'amministrazione Trump come John Bolton e Mike Pompeo hanno nel mirino la Russia tanto quanto la Cina. Il rapporto della Difesa diretto al Congresso lo dice chiaramente: si tratta della Cina e della Russia. I falchi tuttavia non sottolineano più che tanto la malvagità dei russi, perché è delle malvagità cinese che l'opinione pubblica deve essere convinta.
La tattica da seguire per questa guerra fredda tecnologica è stata espressa con una certa chiarezza dai funzionari dell'amministrazione: proibire l'esportazione di tecnologie "fondamentali" in via di affermazione, porre limiti all'accesso alle tecnologia sia ai singoli che alle imprese, varare sanzioni che interessino la gamma delle tecnologie fondamentali e del knowhow inerente le produzioni tecnologiche, impedire alla Cina di intrattenere rapporti con chi fabbrica componenti indispensabili alla catena di rifornimento e insistere con gli europei perché boicottino le tecnologie cinesi.
E la Russia, sarà forse esclusa dalle ostilità? Il caso russo è ovviamente diverso. Sul piano delle tecnologie non ha la stessa compenetrazione con gli USA, le competenze del settore in materia di difesa e di avionica le ha in larga parte sviluppate in proprio anche se soffre di qualche limitata vulnerabilità per il reperimento di certa componentistica.
L'AmeriKKKa tuttavia possiede un altro knowhow nelle tecnologie fondamentali, e il principio cardine della guerra tecnologica che impone di negarne l'accesso ai cinesi può essere senza indugio applicato anche alla Russia, sia pure in un modo leggermente diverso. Trump ha detto esplicitamente che gli USA intendono acquisire il predominio nel mercato mondiale dell'energia. E il Ministro dell'Interno statunitense ha di concerto collegato la supremazia ameriKKKana in questo campo alla possibilità di bloccare fisicamente le esportazioni petrolifere russe. Ryan Zinke ha detto lo scorso settembre allo Washington Examiner che la marina statunitense è in grado di bloccare i porti, per impedire alla Russia di controllare le fonti energetiche: "l'opzione economica per il caso dell'Iran e per la Russia è, più o meno, quella di esercitare pressioni e di sostituire le fonti di combustibili. Possiamo permettercelo perché... gli USA sono il più grande produttore di petrolio e di gas."
Nella pratica un'iniziativa del genere non è probabile. Si tratta di fanfaronate: gli USA vogliono che il prezzo del greggio scenda, non che salga. L'essenziale, piuttosto, sta nel fatto che gli USA hanno preso di mira il settore energetico russo. Le considerazioni di Zinke sono indicative della mentalità di Washington: "I russi sanno fare solo una cosa," ha detto, rimarcando il fatto che la capacità della Russia di vendere energia è indispensabile per la sua sopravvivenza economica.
Il caso della guerra tecnologica contro la Cina, in termini di negato accesso alla componentistica e di adozione di sanzioni per impedire il passaggio di tecnologie, non è solo di verosimile applicazione alla Russia, ma è di fatto già in essere; ne sono esempiuo le minacce sul NordStream 2, un riflesso delle intimidazioni che i paesi europei stanno subendo perché desistano dall'acquisto delle infrastrutture 5G prodotte dalla Huawei. Anche in questo caso, come per la Cina, gli USA stanno esercitando pressione sulla Russia su vari punti geopoliticamente sensibili e allo stesso tempo stanno cercando di stroncarla sul piano economico ricorrendo alle sanzioni. L'anno prossimo quasi sicuramente (sono legalmente tenuti a farlo) gli USA rovesceranno sulla Russia un'altra grandinata di sanzioni, a motivo dell'affare Skripal.
Questo tintinnare di sciabole serve solo a tenere desto lo spirito imperialista ameriKKKano? Dobbiamo prendere seriamente l'idea di un governo statunitense che innesca apposta dei terremoti geopolitici tali da mandare in pezzi quanto resta del "sistema mondiale"? Io penso che sia piuttosto probabile. Il Presidente Trump passerà il 2019 cercando da una parte di proteggere se stesso, la sua famiglia e i suoi interessi da una torma di indagini e dall'altra combattendo i democratici al Congresso; se per i mercati le cose si metteranno al peggio, il credito di cui gode presso i senatori repubblicani verrà meno. Ci sono abbastanza repubblicani che sono tali soltanto di nome pronti a ben accogliere un Bruto purchessia, se i tempi lo vorranno.
Al di là degli USA, si notano vari punti a rischio di deflagrazione. Il Golfo è intimorito; l'Arabia Saudita è in preda a una crisi interna e Poroshenko sta cercando di salvare la pelle, politicamente parlando. In Siria gli USA hanno cercato fino a ieri di giocare la carta di un'occupazione militare a lungo termine, a cui la Turchia si oppone armata mano. Lo stato sionista mostra i muscoli sotto casa di Hezbollah. L'Europa è sull'orlo di un possibile rovescio economico ed è probabile che in risposta ad esso esploderà una varietà di fenomeni come quello dei gilet gialli. La Brexit, lo stato che occupa la penisola italiana, lo spread nel deboto sovrano, le banche: tutte parole che evocano rischi, si vedrà se affrontabili o no.
E il punto è questo: intanto che Trump resta attaccato alla televisione a tenere d'occhio ogni sussulto e ogni giravolta della campagna politica volta a colpire la sua sensibile autostima, i suoi due guerrieri prendono il voolo: i falchi nei confronti della Cina e quelli specializzati in Medio Oriente avranno in mano i comandi del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, a capo del quale c'è il signor John Bolton.
Esistono rischi di un qualche grave errore nella linea politica, di cattiva amministrazione, di una paralisi interna degli USA, di sofferenze dei mercati se un Presidente disattento permette ai suoi falchi ideologici di attivare qualche innesco?
Esistono. Esistono e sono alti.  

martedì 22 gennaio 2019

Alastair Crooke - La guerra tecnologica ed economica degli USA finirà col dividere l'economia mondiale in due tronconi



Traduzione da Strategic Culture, 18 dicembre 2018.


"La guerra commerciale fra USA e Cina ha una ragione vera che ha poco a che vedere con i traffici commerciali veri e propri... Alla base del conflitto di civiltà che contreappone Cina e Stati Uniti... c'è l'ambizione cinese di acquisire un ruolo di primo piano nelle tecnologie della prossima generazione come l'intelligenza artificiale. Questa ambizione dipende dalla capacità o meno di progettare e produrre integrati all'avanguardia, ed è per questo che Xi ha stanziato almeno centocinquanta miliardi di dollari per investimenti nel settore", si legge su Zerohedge.
Fin qui nulla di nuovo. Ma dietro questa ambizione se ne cela un'altra, oltre a un fenomeno talmente grande da passare pressoché ignorato: questa guerra commerciale è anche il primo livello di una nuova corsa agli armamenti fra USA e Cina, anche se si tratta di una corsa ad armamenti di un genere diverso. Una corsa agli armamenti di nova generazione, in cui la posta in palio è costituita dalla supremazia tecnologica nel lungo termine, per mezzo dei computer quantistici, dei Big Data, dell'intelligenza artificiale, degli aerei da guerra ipersonici, dei veicoli elettronici, della robotica e della cybersicurezza.
In Cina esiste per questo un progetto di pubblico dominio, il "Made in China 2025", al momento passato in secondo piano ma tutt'altro che abbandonato. I centocinquanta miliardi di dollari stanziati dalla Cina per conseguire la supremazia tecnologica si scontreranno "frontalmente" (per dirla con Zerohedge) "con la strategia AmeriKKKa first [messa in atto dalla controparte]: perciò la "corsa agli armamenti" a base di stanziamenti per la tecnologia... è in stretta relazione con le spese per la difesa. Si noti: il Fondo Monetario Internazionale prevede che le spese militari degli USA e della Cina cresceranno sensibilmente nei prossimi decenni, ma il dato rimarchevole è che si prevede che nel 2050 la Cina avrà superato gli USA e avrà destinato alle spese militari quattromila miliardi di dollari, contro i tremila degli USA... Questo significa che verso il 2038, fra vent'anni circa, la spesa militare cinese supererà quella degli Stati Uniti."
Lo stretto legame che esiste fra tecnologia e difesa nella concezione che gli USA hanno del proprio futuro nel settore difesa è chiaro. Sarà tutta una questione di dati, big data e intelligenza artificiale; un articolo di Defense One spiega molto chiaramente che
I campi di battaglia dello spazio e del cyberspazio sono in larga parte disgiunti dalla mera realtà fisica della guerra. Secondo Hyten [il generale John E. Hyten, a capo dello Space Command delle forze aeree statunitensi] questi due spazi privi di abitanti sono altrimenti specchio uno dell'altro: sono entrambi campo di informazioni e dati, ed è così che funziona la guerra moderna. "Che missioni conduciamo oggi nello spazio? Forniamo informazioni, forniamo canali alle informazioni; in guerra neghiamo agli avversari l'accesso a queste informazioni," ha detto il 12 dicembre al pubblico della conferenza annuale della Air Force Association fuori da Washington D.C.. Lo stesso vale per il cyberspazio.
Gli USA fanno la guerra con strumenti che necessitano molte informazioni... Sempre più avversari -è inevitabile- finiranno per impiegare anch'essi droni e apparecchi d'attacco a guida remota. La sostanziale importanza che le informazioni hanno negli armamenti di oggi, specie per quelli in dotazione alle aeronautiche militari, li rende anche vulnerabili. QUesta settimana i vertici dell'Air Force hanno discusso di come ridurre queste vulnerabilità per gli Stati Uniti e di come accrescerle invece per i loro avversari.
La supremazia, in questa guerra commerciale, tecnologica e difensiva, spetta sempre più concretamente a chi riesce a progettare e costruire semiconduttori all'avanguardia, dal momento che la Cina già ha la meglio nel campo dei big data, dei computer quantistici e dell'intelligenza artificiale. In questo contesto le considerazioni del generale Hyten sul ridurre le vulnerabilità per gli USA e sul farle crescere per i loro avversari acquistano un significato importante: per Washington, il piano è quello di intensificare i controlli sulle esportazioni -ovvero, in concreto, di bandirle- per tutte quelle che vengono considerate "tecnologie fondamentali", ovvero le tecnologie che permettono di avviare lo sviluppo di un'ampia gamma di settori.
La strumentazione per produrre integrati o semiconduttori costituisce ovviamente uno dei settori in discussione.
I controlli sulle esportazioni sono solo un aspetto di questa strategia bellica fondata sul negare dati agli avversari. E i semiconduttori sono un campo in cui la Cina è vulnerabile perché l'industria mondiale dei semiconduttori dipende da soli sei produttori di strumentazioni, tre dei quali si trovano negli USA. Queste sei società in complesso producono praticamente tutto lo hardware e il software indispensabili alla produzione di integrati. Questo significa che impedire l'export statunitense in questo campo restringerebbe drasticamente per la Cina la possibilità di accedere a quanto serve per produrre gli integrati di recente sviluppo, anche se la Cina potrebbe rispondere impedendo l'export delle terre rare da cui dipendono le tecnologie sofisticate.
"Non si può realizzare una fabbrica di semiconduttori senza ricorrere alle grandi società produttrici di strumentazione, nessuna delle quali è cinese," ha detto Brett Simpson, fondatore del gruppo di analisi finanziaria Arete Research. "Come rileva anche il Financial Times, la vera difficoltà non sta [tanto] nel progettare gli integrati, ma nel produrre integrati all'avanguardia."
Ed eccoci al punto. Gli USA stanno cercando di riservarsi l'esclusiva sia della competenza tecnologica, sia della pratica nella catena produttiva e del know how al fine di respingere la cina ai margini della sfera tecnologica occidentale.
Al contempo, un altro pilastro della strategia statunitense -come c'è stato modo di constatare con il caso della Huawei, un leader mondiale per la tecnologia delle infrastrutture a 5G (un campo in cui gli USA stanno rimanendo indietro)- è quello di scoraggiare chiunque dall'inserire nelle proprie infrastrutture nazionali il 5G cinese, e di farlo con metodi come l'arresto di Meng Wanzhou, compiuto in base all'accusa di aver violato le sanzioni statunitensi.
Anche prima del suo "arresto", l'AmeriKKKa stava sistematicamente estromettendo Huawei dall'implementazione mondiale delle infrastrutture per il 5G, col magico pretesto delle "questioni di sicurezza". Adducendo il pretesto di proteggere le competenze tecnologiche, gli USA stanno anche cercando di estromettere la Russia dal mercato degli armamenti mediorientale: in Medio Oriente nessuno dovrebbbe acquistare sistemi di difesa aerea russi perché questo fornirebbe alla Russia una finestra sulle competenze tecnologiche della NATO.
Come ha spiegato il generale Hyten, non si tratta solo di acquisire maggiori competenze tecnologiche, di togliere agibilità agli avversari e di aumentare le loro vulnerabilità in materia di elettronica; gli USA pensano anche di estendere quest'area esclusiva agli equipaggiamenti spaziali e cibernetici, all'avionica e al settore militare.
Insomma, un'altra guerra fredda, stavolta centrata sul negare agli avversari l'accesso alle tecnologie e ai dati.
La Cina, con la sua economia centralizzata, profonderà denaro e competenze per creare linee di rifornimento proprie e svincolate dalla sfera del dollaro sia per i semiconduttori che per i componenti di uso civile e militare. Ci vorrà tempo, ma alla fine ce la farà.
Ovviamente una delle conseguenze di questa nuova corsa agli armamenti fra USA, Cina e Russia è che ciascun contendente dovrà disfare le linee di rifornimento specializzate e costituite da poche componenti e ricostruirle nella propria sfera esclusiva, vale a dire quella della NATO e del dollaro per il caso statunitense, e quella svincolata dal dollaro in cui dettano legge la Cina e la Russia.
Quest'opera di scioglimento e di rifondazione delle linee di rifornimento non si limiterà al piano materiale. Se gli USA continueranno a usare i metodi da "Guerra al Terrore" che hanno usato con la Huawei e che consistono nell'incarcerare uomini e donne d'affari presuntamente colpevoli di aver infranto una qualsiasi delle moltissime sanzioni che interessano il campo della tecnologia, si dovrà procedere anche a disarticolare le sale riunioni a partecipazione mista per evitare di esporre funzionari di questa o quella società al rischio di essere individualmente arrestati e processati. Già è entrata nell'uso la tendenza a limitare le trasferte dei funzionari per i contesti in cui il loro campo d'azione condivide alcunché con altri -visto quello che è successo a Meng Wahzhou, che gli USA hanno cercato di farsi estradare- per evitare che vengano trattenuti come ritorsione.
La biforcazione dell'economia mondiale era un fenomeno già in atto. Un fenomeno nato innanzitutto dal regime di sanzioni finanziarie che l'AmeriKKKa ha adottato sul piano geopolitico, le cosiddette "guerre del Tesoro", e dei conseguenti tentativi degli stati così bersagliati di sganciarsi dalla sfera del dollaro. I falchi che circondanto il Presidente stanno inventando proprio adesso una gamma tutta nuova di "reati tecnologici" passibili di sanzioni, ufficialmente per mettere in mano a Trump quegli argomenti ancora più forti che tanto ambisce per potersene servire in sede negoziale. Ovviamente quello dei negoziati è un pretesto di cui i falchi si servono per alzare la posta nei confronti della Cina, della Russia e dei suoi alleati, e per scopi assai più ambiziosi che non il fornire al Presidente altre buone carte da giocare. Forse per rimettere in discussione l'intero equilibrio di poteri fra AmeriKKKa da una parte e Russia e Cina dall'altra.
Ovvia e inevitabile conseguenza è stata una sempre più rapida separazione finanziaria dalla sfera del dollaro e lo sviluppo di un'architettura senza di esso. In una parola, la de-dollarizzazione.
Gli USA sembrano effettivamente pronti a fare strame del loro status di detentori della valuta di riserva pur di salvarsi, pur di "Rendere un'altra volta ricca l'AmeriKKKa", e pur di mettere un freno all'ascesa della Cina. E mandando in pezzi l'egemonia del dollaro, l'amministrazione manda in pezzi anche l'ordine mondiale degli USA che da mondiale si ridimensiona a quello di una sfera di alleati in materia di tecnologia e di sicurezza, contrapposti alla Cina e al mondo non occidentale. Sul piano interno le conseguenze per l'AmeriKKKa si concretizzeranno nel senso di frustrazione che gli verrà dal riuscire con più difficoltà a finanziarsi come era abituata a fare da una settantina d'anni a questa parte. Una cosa nuova, per gli ameriKKKani.
Peter Schiff, amministratore delegato e responsabile strategico globale della Euro Pacific Capital, dice:
[Gli USA] controllano il dollaro, che è la valuta di riserva, [e stanno mettendo] a rischio [questo] dato di fatto. Io non credo che il mondo accordi di buon grado all'AmeriKKKa il potere di imporre le proprie regole e di pretendere che tutti vi si adeguino. Sono quindi convinto che la cosa abbia conseguenze molto più vaste ed ampie di quanto si può notare oggi da quanto accade nei mercati. Credo che nel lungo termine tutto questo indebolirà il dollaro e la sua prerogativa di valuta di riserva. A quel punto, lo stesso succederà al tenore di vita ameriKKKano, perché esso crollerà.
La gente pensa che abbiamo noi il coltello dalla parte del manico, per via di questo ampio deficit commerciale con la Cina. Ma io penso che le cose stiano in un altro modo. Penso che dal momento che sono loro a fornire tutte quelle merci che servono alla nostra economia e che hanno in tasca un mucchio dei nostri buoni del tesoro [ovvero del nostro debito], e dal momento che continuano a prestarci un sacco di soldi così che possiamo vivere al di sopra dei nostri mezzi, sono loro che comandano la musica. E siamo noi che dobbiamo ballare.
Questa nuova guerra fredda basata sulla tecnologia e sui dati polarizzerà in due sfere l'economia mondiale, e giù sta polarizzando la politica secondo il paradigma ameriKKKano che recita "o con noi o contro di noi". Politico scrive:
La campagna mondiale dell'amministrazione Trump contro il gigante delle telecomunicazioni Huawei sta mettendo l'Europa contro se stessa sulla questione della Cina. Nel mezzo di una guerra commerciale fra Cina e USA che si sta ingigantendo, Washington ha passato gli ultimi mesi facendo pressione tramite gli ambasciatori sui propri alleati della UE perché prendessero posizione più duramente contro le imprese di telecomunicazioni cinesi come la Huawei e la ZTE.
La pressione ameriKKKana... sta facendo emergere le crepe che esistono fra gli alleati degli USA in Europa e anche [fra] gli appartenenti ai cosiddetti "cinque occhi" del mondo dei servizi segreti; in gran parte hanno seguito i dettami statunitensi, ma altri resistono alle pressioni ameriKKKane e non si sono messi a invocare l'esclusione degli operatori cinesi.
Su quest'altro versante ci sono la Germania, che vuole che gli USA esibiscano prove della pericolosità di Huawei per la sicurezza, la Francia, il Portogallo e altri paesi dell'Europa centrale e orientale aderenti alla UE.
Queste divergenze sempre più ampie indicano che Donald Trump sta costringendo gli alleati a schierarsi in una contesa globale, e mette a confronto i loro interessi economici (spesso profondamente legati ai fornitori cinesi) col valore di un'alleanza con Washington nel nome della sicurezza.
Il richiamare in patria intere linee di rifornimento non si presta soltanto ad un sempre più veloce abbandono del dollaro; intrinsecamente presenta anche un altro problema. I guadagni delle società statunitensi sono cresciuti a dismisura nel corso degli ultimi vent'anni. Parte di questo impennarsi dei profitti è nato da una liquidità e da un credito facili; ma un ruolo fondamentale lo ha avuto anche il taglio dei costi, ovvero la delocalizzazione delle produzioni troppo costose da effettuare negli USA (a causa del livello dei salari, dei costi normativi e dei diritti dei lavoratori) in paesi dove i salari sono inferiori al pari delle tutele normative. La prospettata divisione in due tronconi dell'economia mondiale porta come conseguenza inevitabile il ritorno di lavorazioni a basso costo oggi svolte in Cina e altrove in contesti dove i costi sono più alti e dove più alte sono le tutele, quello statunitense e quello europeo.
Magari è anche una buona cosa; di sicuro però significa che negli USA e in AmeriKKKa costi e prezzi saliranno, e che i modelli di business delle società risentiranno dell'abbandono della delocalizzazione. Come prevede Peter Schiff, il livello di vita degli ameriKKKani ne soffrirà ulteriormente.
Il senso di alienazione e il malcontento degli "impresentabili" d'AmeriKKKa e dei "gilet gialli" in Europa rappresentano un malessere profondo, che una nuova guerra fredda non risolverà certamente. A monte dell'attuale scontento c'è proprio il paradigma della liquidità e del credito facili, che ha avuto sulle società l'effetto di una centrifuga per cui in una società il dieci per cento è patrimoniale e il novanta per cento non lo è. Una cosa che ha in pari misura fatto scadere la sensazione che si tratti di società sicure e in salute.
Questo scontento può trovare una vera soluzione solo ponendo in discussione il vigente paradigma economico, finanziarizzato oltre ogni limite. Una questione che le élite non vogliono -e non vorranno- sfiorare.

lunedì 14 gennaio 2019

Alastair Crooke - Il G20? Più che quanto vi è accaduto, conta ciò che non vi è accaduto.



Traduzione da Strategic Culture, 10 dicembre 2018.

A volte quello che non succede ci dice assai di più di quello che succede. Come nel caso di Sherlock Holmes e del cane che non abbaiò di notte. Insomma, al G20 della prima settimana di dicembre non sono successe due cose. Perché? E quale significato hanno?
Questi due mancati avvenimenti ci dicono una cosa importante: la presidenza Trump è giunta ad un punto critico, la fine dell'inizio o forse addirittura l'inizio della fine.
In primo luogo, non c'è stato alcun accordo con la Cina. Come ha detto senza mezzi termini Christopher Balding, ex docente associato di affari ed economia alla HSBC Business School in Cina, "Non si finirà mai di sottolinearlo abbastanza: questo non è un accordo, questa non è una soluzione. Questo è un accordo per procrastinare un ulteriore inasprirsi dei rapporti. Nessuno ha ceduto su nulla, a parte cosucce di nessuna rilevanza. Nulla di sostanziale."
La maggior parte degli editoriali e dei commenti si è soffermata sulla prospettiva di un ritorno ai trinceramenti della guerra fredda di qui a novanta giorni (limite che la Cina, sia detto per inciso, deve ancora confermare) o anche prima, col ritorno di Trump alla guerra via Twitter. Ma la vera questione non è quello che può succedere di qui a tre mesi, ma perché si è arrivati a un nulla di fatto.
Trump aveva promesso grandi cose: "Io sono uomo da dazi", scrive su Twitter: e aggiunge anche "Rendiamo nuovamente ricca l'AmeriKKKa". Il governo continua a ripetere che l'economia statunitense è forte e che quella cinese è deboole: "Abbiamo in mano tutto noi", dicevano quelli del governo ogni tre per due. Possiamo raddoppiare i dazi sulle merci e raddoppiare i dazi stessi dice Trump, intanto che gli USA gonfiavano i muscoli del loro apparato militare proprio sotto il naso di Xi.
Poi arriva il G20, e non si combina niente. Trump si mantiene ai margini dell'iniziativa e sembra teso e sulla difensiva. Non è certo stato un maschio alfa in grado di dominare gli eventi. Sembrava impacciato. Ha davvero deluso.
Va comunque detto che il G20 c'è stato subito dopo che l'ex avvocato e uomo di fiducia di Trump Michael Cohen ha rivolto una "dichiarazione di colpevolezza" a Robert Mueller, reo di avere mentito al Congresso. Come rileva il docente di giurisprudenza di Harvard Dershowitz, è chiaro che Mueller sta costruendo nuove accuse (tramite l'induzione al reato) invece di indagare su eventuali illeciti passati; Mueller comunque sta ancora alle calcagna di Trump ed è possibile che non trovi nulla da contestare perché la collusione non è comunque un reato, sempre che si sia verificata. Il punto però non è questo. Muller sta mettendo Trump all'angolo sul piano politico e non su quello legale, raffigurandolo come un sordido individuo circondato da bugiardi e cialtroni. Muller sta colpendo Trump nella sua vanità, appannando l'immagine di figura eroica intenta a ripristinare la grandezza ameriKKKana -rendiamo l'AmeriKKKa ricca di nuovo- che egli si è costruito. Muller sta lentamente paralizzando le prerogative presidenziali a furia di farlo apparire come un pallone gonfiato.
L'ex diplomatico statunitense James Jatras suggerisce che dietro il nulla di fatto ci sia questa spiegazione:
Coi democratici in procinto di prendere di qui a un mese la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti, ci troveremo davanti a un intensificarsi delle indagini coordinate da Muller per trovare qualunque pretesto, nella vita professionale o privata di Trump, per metterlo in stato d'accusa. La convinzione diffusa è che seppure una Camera a maggioranza democratica potrà trovare qualcosa per soddisfare i requisiti necessari, a proteggere Trump penserà il Senato, che è a maggioranza repubblicana. I democratici fecero quadrato attorno a Clinton, ma sono stati i repubblicani a gettare Nixon in pasto alle belve. Esiste una decina di senatori repubblicani pronti a rovesciare Trump e a mettere Mike Pence nell'Ufficio Ovale? Ci potete scommettere. A cominciare da Mitt Romney.
Secondo Trump, cosa potrebbe impedirgli di provare l'insopportabile umiliazione -lo schiaffo al suo ego- di venir disconosciuto dal proprio partito e di essere ulteriormente umiliato con la cacciata? Un crollo dei mercati e una stagnazione economica con una recessione incombente non lo aiuterebbero di sicuro. Una cosa del genere alla fine lo metterebbe proprio in mano a quanti, fra i senatori repubblicani, lo disprezzano e che non ci metterebbero nemmeno un secondo per unirsi ai democratici nel caso percepissero la possibilità di liberarsene facendolo cadere. Proprio come suppone Jatras.
La borsa statunitense si stava già impantanando una settimana prima del G20. I timori di una guerra commerciale considerata scontata aveva iniziato a intimorire i mercati. Si cominciano a intravedere, sia pure a sprazzi, gli uccelli del malaugurio che parlano di economia in recessione: la parziale flessione della curva dei rendimenti delle emissioni del Tesoro e di quella sui futures petroliferi si sono verificate di pari passo, ed entrambi i fenomeni sono considerati indice di un possibile rallentamento nell'economia mondiale.
La questione è semplice. Trump ha esplicitamente agganciato le sorti della propria presidenza a un mercato azionario vivace e a un'economia che tira. Se la cosa lo aiuta a impedire che i mercati vadano a punzecchiare la sua immagine di sfinge degli affari, perché non pensare ad una tregua nella guerra commerciale con la Cina? Perché non dare una spintarella ai mercati proprio prima di Natale?
Poi c'è stato l'altro considerevole atto mancato del G20: un altro cane holmesiano che non ha abbaiato. I presidenti di due potenze militari e nucleari di primo piano, preposti al controllo di grosse faglie geopolitiche e che hanno bisogno di dialogare, si sono evitati, hanno distolto lo sguarto e non si sono neppure stretti la mano. Non sono riusciti nemmeno a trovare un pretesto per sedere allo stesso tavolo.
Per quale motivo? In via ufficiale, perché un rimorchiatore e un paio di guardacoste ucraini armati hanno avuto l'ordine di entrare nel mare di Azov omettendo di seguire le norme che impongono di chiedere l'autorizzazione. Ma davvero? Per una cosa del genere? Davvero strano. Trump non può neanche più portare in disparte Putin e mandar via i suoi assistenti per mettersi a tavolino a discutere? Ancora più interessante è il fatto che il portavoce del Cremlino ha in seguito detto che con Washington "c'erano stati degli scambi" e che John Bolton sarebbe andato a Mosca per parlare di un possibile futuro incontro fra Trump e Putin. E a Buenos Aires non si potevano parlare per via di un rimorchiatore sequestrato? E per un incontro del genere serve ora tirare in mezzo Bolton e il suo nulla osta preventivo?
Insomma, da questo vertice Trump esce come un micio. Gran discorsi e poco di fatto: poco di fatto sul piano interno, poco di fatto nel prosciugamento della palude, poco di fatto in tutti i campi. Secondo Jatra, che è più dispiaciuto che arrabbiato, "si esagererebbe poco a dire che sul piano della politica estera e della sicurezza Trump è ormai solo una figura rappresentativa dello establishment. Anche se Trump e Putin si incontreranno un'altra volta, cosa può mai aspettarsi Putin di sentirsi dire di sostanzioso?"
Perché tutto questo? Possiamo fare solo delle ipotesi. Può anche essere che Trump tema semplicemente che i mercati e l'economia gli si stiano ritorcendo contro. Forse teme che un Bruto repubblicano abbia sentore della sua debolezza, senza gli orpelli da mago delle finanze, e gli cacci un pugnale nella schiena?
In un suo libro intitolato Principles for Navigating Big Debt Crises Ray Dalio della Bridgewater Associates distingue diversi cicli debitori: i cicli a breve termine e i supercicli. I cicli debitori a breve termine si muovono più o meno parallelamente ai sottostanti cicli economici e durano sui sette-otto anni; una lunghezza mediamente in linea con quella dei cicli economici. I supercicli invece durano fra i cinquanta e i settantacinque anni, e hanno una storia lunga. Dalio ricorda che vengono citati anche nel Vecchio Testamento, che indicava la necessità di azzerare i debiti ogni cinquant'anni circa in quello che veniva indicato come "anno di giubileo".
"i supercicli debitori finiscono sempre con un bel botto", scrive Nils Jensen. "Il precedente ciclo è finito con lo scoppio della seconda guerra mondiale, e un nuovo ciclo è iniziato quando hanno taciuto le armi nel 1945. Sono passati quasi settantacinque anni, il che significa che esso passerà alla storia come uno dei cicli più lunghi."
Purtroppo per Trump, sembra che la sua presidenza coincida non solo con la fine di un superciclo, ma con la fine di un superciclo in cui il debito globale è enfiato al di là di ogni limite grazie alla radicale depressione dei tassi di interesse e alla massiccia creazione di crediti. Cose che possono spiegare la sua lunga durata. Trump è forse doppiamente sfortunato perché al tempo stesso e per ragioni dello stesso tipo gli USA stanno esaurendo i loro spazi di agibilità fiscale. Il Tesoro per quest'anno e per i prossimi avrà bisogno di ottenere prestiti per trilioni e trilioni di dollari, e all'estero il debito statunitense non trova più acquirenti. Per la prima volta da settant'anni a questa parte chi controlla la valuta delle riserve mondiali ha difficoltà
a finanziarsi e con l'aria che tira in una Washington dagli opposti schieramenti gli USA non possono neppure pensare a una riforma di se stessi. Un bel pasticcio.
Il paradosso fondamentale che ha legato le mani al Presidente è questo. Sul piano politico gli servono mercati in salita e un'economia in grossa espansione, ma le cassandre vanno in giro a dire che i giorni in cui i mercati gli erano favorevoli potrebbero essere già passati. Trump vuole che la Fed intervenga in favore dei mercati, ma alla Fed sono più che altro intenti a prepararsi alla prossima fase del ciclo economico. Per farlo hanno bisogno dello spazio di manovra che serve per far crollare del 4% i tassi di interesse, cosa che oggi come oggi è ovviamente infattibile. E alla Fed hanno bisogno anche di un bilancio più magro, nel caso ci sia bisogno di intervenire in soccorso dell'economia.
Questo è il punto critico che lega le mani a Trump. Trump può muoversi sul piano politico, e rischiare che il ciclo finisca con un botto ancora più rovinoso, o muoversi con saggezza in modo da limitare le potenziali conseguenze di una possibile crisi debitoria. Muoversi con saggezza però implica la comprensione delle condizioni in cui si trova l'AmeriKKKa sul piano fiscale. La sua necessità di dover vendere una montagna di debito fatto di carta su un mercato disertato dagli acquirenti stranieri farà probabilmente impennare i tassi di interesse e farà crollare i prezzi in borsa perché gli investitori istituzionali venderanno azioni per comprare questi titoli di stato dagli interessi elevati. Insomma, sul piano politico Trump vuole che le azioni salgano e i tassi di interesse scendano, ma è verosimile che l'attuale situazione fiscale degli USA imponga il contrario e lo esponga così alle attenzioni di qualche potenziale Bruto in agguato nei corridoi del Senato.
Cosa deciderà di fare? Qualcosa già si vede: Trump sta cercando disperatamente di tenere alto il valore del mercato. Le sue certezze dipendono da questo, e sta pungolando Jerome Powell perché non dia luogo al previsto aumento dei tassi di interesse da parte della Fed. Trump vuole poi che il prezzo del petrolio scenda, così che Powell non abbia la scusa dell'inflazione in aumento per alzare ulteriormente i tassi. Sembra che Trump abbia una tale premura da prepararsi a consentire a vari acquirenti di accedere al petrolio iraniano. Il suo tweet del 25 novembre collega in modo piuttosto esplicito il calo nel prezzo del greggio al mantenimento dei tassi di interesse da parte della Fed ai livelli attuali:
Gran cosa che il prezzo del greggio stia crollando (grazie Presidente T). Aggiungiamo anche questa, che è come un sostanzioso taglio alle tasse, alle altre buone notizie economiche. L'inflazione scende (Fed, mi stai ascoltando)!
Cosa significa? Significa che Trump, che ha un'esperienza negli affari che è per intero a favore del debito -debito in crescita e tassi di interesse bassi o a zero- spera di fare come vuole e magari ci riuscirà anche in parte. Ci sono segnali che fanno presagire un ritocco dei tassi da parte della Fed entro la fine del mese, ma anche un rallentamento dei rialzi per il prossimo anno. O almeno, questo è quello che implicherebbe l'andamento della curva dei futures.
I presagi tuttavia vanno in direzione opposta. Il commercio mondiale sta rallentando, la Cina sta rallentando, il Giappone sta rallentando, la Germania e l'Europa stanno rallentando, e spuntano le prime avvisaglie che fanno pensare che gli USA abbiano raggiunto un picco nella seconda metà del 2018. Alla fine Trump potrebbe ritrovarsi senza un mercato borsistico vivace e, peggio, con un mercato dei buoni del tesoro che digerisce senza problemi i trilioni di dollari del debito statunitense.
In politica estera i falchi hanno il vento in poppa; Pence, Navarro e Lighthizer continueranno schierando l'intero governo nella loro guerra fredda contro la Cina, ma chissà in che condizioni saranno i mercati statunitensi di qui a novanta giorni. Non c'è da scommettere su ulteriori dazi e su tassi del 25% nel mese di aprile. Xi si è comportato come meglio non si poteva, Sun Tzu sarebbe orgoglioso di lui.
...E il signor Bolton continuerà a fare pressioni sulla Russia a tutte le frontiere; a squinternarla economicamente a furia di sanzioni, a rimestare nel torbido in Ucraina, a cercare di rendere inefficace il processo di Astana, il processo politico che i russi hanno intrapreso in Siria.

lunedì 7 gennaio 2019

Alastair Crooke - Lo stato che occupa la penisola italiana, l'Unione Europea e la caduta dell'impero romano




Traduzione da Strategic Culture, 3 dicembre 2018.

I vertici dell'Unione Europea stanno cercando di arginare una crisi che sta emergendo sempre più velocemente e che comprende l'ascesa di paesi ribelli (il Regno Unito, la Polonia, l'Ungheria, lo stato che occupa la penisola italiana) o di realtà culturali storiche insubordinate come la Catalogna. Tutti esplicitamente delusi dal concetto di un convergere costrittivo verso un ordine uniforme amministrato dalla UE, con la sua austera disciplina monetaria. Si mette in discussione anche la pretesa della UE di rappresentare in qualche modo parte di un ordine civile e di valori morali superiori.
Se nel dopoguerra l'unificazione europea ha rappresentato il tentativo di sfuggire all'egemonia angloameriKKKana, le realtà di "riaffermazione culturale" che stanno cercando di collocarsi come spazi sovrani interdipendenti rappresentano a loro volta il tentativo di sfuggire ad un'egemonia di altro genere, quella della uniformità amministrativa dell'Unione Europea.
Per giungere a questo peculiare ordine europeo, che si sperava all'inizio sarebbe stato diverso dall'imperium angloameriKKKano, l'Unione Europea è stata comunque costretta a fare affidamento sul costrutto archetipico della "libertà" come giustificazione dell'impero che caratterizza proprio quest'ultimo e che è diventato il costrutto delle "quattro libertà" dell'Unione e da cui derivano le cogenti uniformità della UE in materia di uniformità in ogni campo, della regolamentazione di ogni aspetto della vita, della concertazione fiscale ed economica. Il progetto europea si è trovato a essere cosiderato come un qualcosa che spazza via modi di essere differenziati e antichi.
Il fatto stesso che a livelli diversi e in regioni culturali e geografiche diverse siano state fatte certe analisi indica che l'egemonia dell'Unione Europea si è già indebolita al punto che essa potrebbe non essere in grado di arginare appieno l'affermarsi di questa nuova ondata. Per l'esattezza, l'Unione Europea deve capire se può riuscire a far rallentare e ad imbrigliare in qualche modo l'ascesa di questo processo culturale di riacquisizione di sovranità che rischia di mandare in frantumi l'ostentata "solidarietà" europea e di fare a pezzi la sua struttura di frontiere perfettamente regolate e di mercato comune.
Fu il filosofo della politica Carl Schmitt a lanciare un perentorio ammonimento contro la prospettiva di quello che considerava un acceleratore del katechon negativo. Il concetto sarebbe appropriato per definire la situazione in cui l'Unione Europea si trova in questo momento. Il concetto di katechon nell'antichità indicava l'esistenza di una tendenza sottostante gli eventi storici, orientata in senso contrario. Un qualche proposito, una qualche azione positiva -ad esempio da parte dell'Unione Europea- può finire con l'accelerare proprio quei processi che intendeva rallentare o fermare. Secondo Schmitt, questo fornisce una spiegazione al paradosso per cui un'azione di contenimento come quella intrapresa dalla UE può in realtà trasformarsi nel suo opposto, in una non voluta accelerazione degli stessi processi cui l'Unione Europea intende opporsi. Schmitt parla di "effetto involontario", che porta ad effetti opposti rispetto a quelli voluti. Agli antichi, questo non faceva che ricordare che gli esseri umani spesso altro non sono che meri oggetti della storia, più che suoi soggetti attivi.
Esiste la possibilità che l'azione frenante imposta alla Grecia, alla Gran Bretagna, all'Ungheria e adesso anche allo stato che occupa la penisola italiana si riveli proprio un acceleratore del katechon di Schmitt. Dal punto di vista dell'economia lo stato che occupa la penisola italiana è rimasto per decenni a languire nel limbo. Il suo nuovo governo si sente obbligato ad alleviare in qualche misura le tensioni che si sono accumulate nel corso degli anni e a cercare di rivitalizzare la crescita. Solo che il rapporto fra indebitamento e PIL è alto, e l'Unione Europea insiste sul fatto che se ne devono accettare le conseguenze e si deve obbedire alle regole.
Il professor Michael Hudson (in un nuovo libro) illustra come il freno imposto alla UE all'indebitamento dello stato che occupa la penisola italiana costituisca esempio di una certa tendenza alla rigidità sul piano psicologico, che ignora il dato storico e che può proprio sfociare in un katechon, un risultato opposto a quello cercato. Intervistato da John Siman, Hudson afferma:
Nelle antiche società della Mesopotamia si dava per inteso che a salvaguardia della libertà c'era la protezione dei debitori. Per il funzionamento dell'economia delle società mesopotamiche, nel terzo e nel secondo millennio prima di Cristo, esisteva e prosperava un modello correttivo. Potremmo chiamarlo "colpo di spugna"... si trattava della remissione dei debiti dei piccoli coltivatori, una remissione necessaria e periodica. Necessaria perché i piccoli coltivatori, in qualsiasi contesto sociale in cui vigano interessi sui debiti, sono inevitabilmente a rischio di impoverimento, di espropriazione e infine di riduzione in schiavitù... ad opera dei propri creditori. [Necessaria anche perché] è dinamica costante nella storia la centralizzazione del potere nelle mani delle élite finanziarie, che controllano l'economia in modo predatorio e sfruttatorio. La loro apparente libertà [gli viene] a spese delle autorità preposte al governo e dell'economia nel suo complesso. Di conseguenza [si tratta] dell'opposto della vera libertà come veniva intesa all'epoca dei sumeri...
[Nei secoli successivi] divenne inevitabile che nella storia greca e romana un numero sempre maggiore di piccoli coltivatori si trovasse indebitato al di là di ogni possibilità di riscatto e finisse col perdere la terra. Altrettanto inevitabile fu l'ammasso di ingenti latifondi da parte dei loro creditori, che andarono a formare un'oligarchia parassita. Questa intrinseca tendenza alla polarizzazione sociale deriva dalla concezione dei debiti come non remittibili ed è la vera dannazione senza rimedio della civiltà occidentale dall'ottavo secolo prima di Cristo in poi. Lo stigma originale che non può essere coperto o cancellato.
Secondo Hudson il lungo declino dell'impero romano che portò alla sua caduta non comincia, come pensava Gibbon, con la morte di Marco Aurelio. Comincia quattro secoli prima, in seguito alla devastazione delle campagne della penisola italiana condotta da Annibale nel corso della seconda guerra punica (218-201 a. C.). Dopo quella guerra i piccoli coltivatori della penisola non riuscirono mai più a recuperare le loro terre, che -come osserva Plinio il Vecchio- vennero sistematicmente inglobate dai praedia, i grandi latifondi dell'oligarchia. [Oggi sono le piccole e medie imprese originarie della penisola italiana che vengono inglobate dalle società oligarchiche estese su tutto lo spazio economico europeo.]
Tuttavia, fra gli studiosi contemporanei -continua Hudson- "Arnold Tonybee è praticamente l'unico a sottolineare l'importanza che l'indebitamento ebbe nella concentrazione della ricchezza e della proprietà a Roma" (p. xviii) - e l'importanza dello stesso nella spiegazione del declino dell'impero romano...
"Le società mesopotamiche non erano interessate all'uguaglianza," dice all'intervistatore, "ma erano civili. E dal punto di vista finanziario erano tanto sofisticate da capire che siccome gli interessi sui debiti crescono in modo esponenziale mentre la crescita dell'economia segue nel migliore dei casi una curva ad S, se non esiste un'autorità centrale a proteggerli i debitori finiscono a lungo andare per trovarsi schiavi dei creditori. I monarchi mesopotamici quindi venivano incontro a cadenze regolari ai debitori che rischiavano di finire stritolati; erano consapevoli della necessità di farlo e per secoli e secoli promulgarono remissioni a colpo di spugna.
L'Unione Europea ha punito la Grecia per la sua prodigalità, ed è pronta a punire lo stato che occupa la penisola italiana nel caso esso infranga le regole fiscali dell'Unione. L'Unione Europea sta tentando un'iniziativa che Schmitt avrebbe definito "azione dirompente" per conservare la propria egemonia.
In questo caso tuttavia, l'Unione Europea vede davvero la pagliuzza nell'occhio altrui e ignora la trave che ha nel proprio. Lakshman Achuthan, dello Economic Cycle Research Institute, scrive:
Lo scorso anno il debito complessivo degli USA, dell'eurozona, del Giappone e della Cina è cresciuto oltre dieci volte più del PIL complessivo. Degno di nota è il fatto che l'economia mondiale, che sta rallentando di concerto nonostante l'impennarsi del debito, si trovi in una situazione che ricorda quella presentata dalla Regina Rossa in Alice attraverso lo specchio: "Vedi, in questo posto si deve correre quanto più si può per rimanere nello stesso posto. Se si vuole andare da qualche parte, si deve correre almeno il doppio più velocemente!" dice la Regina Rossa ad Alice.
Solo che questo correre più veloce, ovvero far impennare il debito ancora di più, alla fin fine non può arrivare a soluzione altro che andando in default o facendo gonfiare l'indebitamento oltre misura. Si considerino gli USA: il loro PIL è a +2.5%, il debito federale è pari al 105% del PIL, il Tesoro paga un miliardo e mezzo di dollari di interessi al giorno, e il debito cresce del 5-6% rispetto al PIL. Una situazione insostenibile.
Le richieste avanzate dalla Grecia e dallo stato che occupa la penisola italiana per un alleviamento del loro debito possono essere considerate delle suppliche, dopo la cattiva gestione economica del passato; Hudson però ci dice che le pretese dei sumeri e dei babilonesi non avevano basi del genere, ma erano radicate in una tradizione conservatrice radicata nei rituali del rinnovamento cosmologico e nelle loro periodicità. L'idea mesopotamica alla base della remissione del debito letteralmente non contemplava il concetto di quello che noi chiameremmo "progresso sociale". Anzi, i provvedimenti disposti dal monarca in occasione dei giubilei servivano a ripristinare le basi che sottendevano all'ordine sociale, il maat. "Le regole del gioco non cambiavano. Però a ciascuno era concessa una nuova mano di carte."
Hudson nota che "i greci e i romani sostituirono il concetto ciclico del tempo e del rinnovamento sociale con quello del tempo lineare [diretto verso una "fine dei tempi"]". Quindi "La polarizzazione economica divenne irreversibile, e non meramente temporanea", col venir meno dell'idea del rinnovamento. Hudson avrebbe anche potuto aggiungere che il tempo lineare e la perdita dell'obbligo all'oblio e al ripristino delle condizioni di partenza hanno avuto un ruolo di sostegno fondamentale per i progetti unversalistici europei fondati su un percorso lineare verso la trasformazione dell'umanità, ovvero nell'utopismo.
La contraddizione fondamentale è questa: una polarizzazione e un ineluttabile baratro economico stanno trasformando l'Europa in un continente minato da una contraddizione interna senza soluzione. Da una parte esso rampogna lo stato che occupa la penisola italiana per la sua situazione debitoria, dall'altra con la BCE ha spinto la repressione dei tassi di interesse fino a farli diventare negativi e ha monetizzato debito per un importo pari a un terzo del prodotto globale europeo. Come poteva l'Unione Europea non prevedere che banche e attività non si buttassero a lucrare sulle differenze di prezzo che esistono fra le emissioni statali? A che titolo pretendeva che le banche non gonfiassero i bilanci con debiti a fondo perduto fino a diventare "troppo grandi per fallire"?
L'esplosione del debito a livello mondiale è un grosso problema. Un problema che travalica di gran lunga il microcosmo dello stato che occupa la penisola italiana. Come l'impero romano nell'antichità, l'Unione Europea si è sclerotizzata nel proprio ordinamento ed è diventata un ostacolo al cambiamento; non ha alternative all'aggrapparsi a quell'azione frenante che finirà per produrre effetti completamente opposti a quelli desiderati: un katechon negativo involontario.