domenica 29 dicembre 2013

Imposture, menzogne e falsità: fallimento e colpe della narrativa occidentale in Medio Oriente secondo Conflicts Forum

 

Traduzione da Conflicts Forum.

Com'è la situazione nei paesi arabi del Medio Oriente alla fine del 2013? Sappiamo tutti che le cose vanno male, e non intendiamo aggiungere cose tristi a già presenti -e spesso mal riposte- tristezze ripassando la lista di tutto quello che non va, come il franare dei modelli di governance che lo caratterizzano, da quello tipico dei paesi del Golfo a quello turco passando per lo ikhwani dei Fratelli Musulmani, il cedimento delle strutture di pensiero e delle istituzioni nazionali, l'implosione delle identità, il pervasivo crollo dei sistemi statali, la rottura del contratto sociale e l'esplosione di insurrezioni di vario genere, ma tutte anti-sistema. Intendiamo però chiederci a che cosa stiamo facendo da spettatori, e perché in Occidente non si è capito nulla della realtà mediorientale. Si tratta di un interrogativo appropriato, specie in un momento in cui una serie di notabili occidentali e di figure istituzionali vanno dicendo, dopo due anni di guerra e di lutti, che la cosa migliore per la Siria, tutto considerato, sarebbe che il Presidente Assad conservasse il potere. Come mai si sono sbagliati tanti calcoli e tanto spesso, e con esiti tanto distruttivi?
Per meglio capire cos'è successo negli ultimi tempi, dovremmo forse rifarci ad un periodo precedente della travagliata storia regionale. Non si tratta di un vero e proprio paragone con l'oggi, ma pensiamo aiuti a capire qualche cosa della crisi in atto. E' un qualcosa che si collega a quello che gli storici definiscono "la grande trasformazione", iniziata in Europa nel XVIII secolo. La grande trasformazione si basava su una filosofia morale che considerava il benessere dell'umanità in generale come qualcosa di contingente rispetto all'operare efficiente dei mercati. Strettamente connessa a questo concetto c'era un'altra idea, mutuata dal puritanesimo inglese e profondamente radicata nella storia anglosassone, che vedeva la mano invisibile della Provvidenza operare anche nella politica e nell'economia. Lasciata libera di agire, questa mano invisibile sarebbe intervenuta per portare ad un risultato altrettanto ideale. Uno dei punti fermi di questa concezione era che le contorsioni e le traversie della contesa politica tra tribù anglosassoni agli inizi della loro convivenza avessero finito per dare origine ad una spontanea armonia e ad un assetto politico stabile, cosa che apparteneva più al mito che alla realtà. L'idea che esistesse un "mercato politico" in cui funziona una competizione armonica e ordinata grazie all'intervento della "mano invisibile" è alla base della convinzione dei puritani inglesi che le istituzioni anglosassoni e le loro strutture democratiche costituissero un compendio di libertà personale e di giustizia, e che fossero sorte spontaneamente. Simili idee trovarono nella loro interezza terreno fertile in AmeriKKKa, e restano influenti anche al giorno d'oggi.
Questo modo di pensare ha prepotentemente dominato la politica occidentale per più di trecento anni. A partire dagli anni Venti del passato secolo, la sua penetrazione in Medio Oriente lo ha portato letteralmente sull'orlo del disastro, in una crisi in cui è a mala pena riuscito a rimanere in piedi. Come già successo in Europa, il travolgente impatto dell'ingegneria sociale e lo stradicamento delle popolazioni che questo modo di intendere le cose pretendeva in nome dell'efficienza dei mercati sono stati autentici traumi. Le conseguenze negative dell'industrializzazione e dello sradicamento sono state tali, nell'Europa del XIX secolo, da sfociare in rivoluzioni sanguinose. Queste idee occidentali, che comprendevano il concetto secondo il quale la riforma dell'economia passava dalla secolarizzazione, sono state fatte proprie con il prestante zelo dei neoconvertiti dai capi politici della Turchia, della Persia e dell'Egitto.
Circa cinque milioni di musulmani europei sono stati cacciati dalle loro case tra il 1821 e il 1922, epoca in cui l'Occidente sosteneva gli stati nazionali a maggioranza cristiana in quelle che un tempo erano state le provincie occidentali dell'impero ottomano. La decisione dei Giovani Turchi di imitare in Turchia la modernizzazione europea laica e liberalmercantile venne pagata a prezzi enormi. Morirono un milione di armeni e duecentocinquantamila assiri, mentre un milione di greci ortodossi fu espulso dall'Anatolia. L'identità curda fu soppressa per legge; Kemal Ataturk demonizzò l'Islam e lo abolì. Le istituzioni islamiche furono chiuse, e dopo millequattrocento anni fu abolito il califfato. Tutto questo per creare uno stato nazione forte e centralizzato, potente quanto bastava a condurre ad una struttura sociale "moderna" e liberalmercantile.
Meno evidente ma altrettanto distruttivo fu il concomitante sradicamento di uomini e donne dal loro contesto comunitario, la loro deprivazione culturale, la loro separazione dai valori e dalle tradizioni. Privi di un orientamento, orbati della loro cultura e ridotti allo sbando, molti si diedero al socialismo radicale o alla rivoluzione islamica.
Nel riallineamento che seguì la Grande Guerra, le potenze in carica instaurarono in Medio Oriente un sistema di blocchi di potere in competizione tra loro, definendo differenze etniche, settarie o tribali in modo che rispecchiassero gli interessi delle potenze europee influenti. Le autorità che ne risultarono non avevano alcuna base che rispecchiasse un qualche contratto sociale e potevano rimanere al loro posto soltanto con l'uso pesante della forza e con la repressione dei centri di potere rivali. Non sorprende il fatto che nel corso degli anni Venti molti giovani si mettessero in cerca di un nuovo modo di pensare e diventassero fieri oppositori del sistema.
Nel corso degli ultimi trent'anni, l'Occidente e ancora una volta i suoi addentellati mediorientali sono rimasti prigionieri di un armamentario ideologico altrettanto potente, rappresentato dall'orientamento neoliberale del conservatorismo ameriKKKano; tradizionalmente, il conservatorismo ameriKKKano è stato per lo più isolazionista e non interventista. Nel corso degli ultimi dieci anni questa ideologia potente, perseguita dall'Occidente e dai suoi alleati regionali, si è dimostrata altamente nociva. Non si tratta soltanto dei milioni di profughi dall'Afghanistan, dall'Iraq, dalla Palestina e dalla Siria e delle guerre e delle sofferenze, ma soprattutto del fatto che, ancora una volta, a monte di tutto questo c'è stato un modo di intendere la politica in cui le persone vengono ridotte a meri individui, sradicate dalla loro comunità, dai loro valori tradizionali, dall'attaccamento al contesto locale, alla loro identità e in fin dei conti private della loro autostima. In fin dei conti, è stato questo uno dei principali obiettivi della globalizzazione: chi condivide questo modo di pensare è portato più che altro a concludere che per arrivare ad una modernità globalizzata sia necessario fare tabula rasa: spazzar via tutto e rifondare la psicologia umana in modo da allentare i condizionamenti della tradizione e preparare le persone alla modernità. Di qui il loro interesse per lo shock and awe e per le implicazioni psicologiche degli effetti delle crisi.
A differenza del primo periodo compreso tra il 1820 ed il 1920, in cui le trasformazioni furono di tipo essenzialmente strutturale e fisico, la trasformazione attualmente ancora in corso non è stata pensata come altrettanto fisica, milioni di profughi nonostante, quanto come una "distruzione della consapevolezza" ottenuta con una serie di trasformazioni e cambiamenti che hanno impatto sull'esistenza, come in Iraq, e con la diffusione di una determinata narrativa e con l'utilizzo dei mass media. Nel caso del Medio Oriente la narrativa utilizzata è quella che si basa sulla "democrazia" e sulla "libertà", i due ideali di fondo della Grande Trasformazione europea, guidata ai vecchi tempi dai puritani. Cromwell usò esattamente la stessa narrativa quando parlò nel 1658 al parlamento inglese. Il problema è che oggi i concetti di "democrazia" e di "libertà" sono stati velocemente compendiati nella dottrina Carter, secondo la quale gli Stati Uniti non avrebbero accettato che in Medio Oriente si affermasse un qualche governo a loro ostile, e che poco o nulla è cambiato rispetto a prima: gli oligarchi emersi dall'accordo Sykes-Picot sono andati avanti tranquillamente, con il sostegno di corpi armati tanto forti quanto parziali.
In poche parole, almeno dagli anni Venti non esiste alcun autentico contratto sociale tra popolo e governanti, o tra governanti e popolo. Soprattutto, non c'è stato alcun tentativo di costruire delle vere nazioni o delle società. E' in particolare il caso dei paesi del Golfo, in cui l'abbondanza dei petrodollari ha permesso di bypassare l'incombenza di costruire delle nazioni vere e proprie; il problema è stato semplicemente eluso. Al contrario, si è affermata in tutta la regione una élite esclusiva e considerevolmente ricca, che ha tagliato ogni legame con le proprie radici e dalle proprie comunità per meglio corrispondere alla virtuale e deculturalizzata comunità dei veramente ricchi. In Medio Oriente la dottrina economica classica secondo cui i benefici economici procedono dall'alto verso il basso non ha trovato alcun riscontro.
In Russia il Presidente Putin ha fatto tesoro di una storia non diversa ed ha sviluppato un'ideologia antisistema di tipo conservatore come reazione all'esperienza russa che è passata prima dalla modernità marxista disgregatrice dell'identità e poi dalla modernità globalizzatrice di tipo neoliberale.  In un recente discorso alla Duma, Putin ha parlato della necessità di un nuovo conservatorismo. Un conservatorismo che dovrebbe essere definito come un nuovo approccio fondato, secondo Fyodor Lukyanov, sul "fatto che ogni [progresso], oggi, si tradurrà per forza in un risultato negativo". In altre parole, il perseguimento della modernità secondo l'approccio neoliberale si è tradotto ovunque in qualcosa di dannoso, e di strategicamente incoerente nei suoi esiti.
Putin sostiene che la disparità tra i valori tradizionali [dei russi], del senso di appartenenza, dei valori familiari, del modo di crescere i figli e la nuova gamma di valori europea che scaturisce dall'universalismo è troppo grande, e che i valori russi devono essere protetti. In altre parole, ogni nazione ed ogni cultura sono uniche e soprattutto ogni sistema di valori ha una propria identità specifica. Putin sta in effetti avanzando un nuovo conservatorismo strategico che rifiuta il globalismo liberale e che si rifà ad una dimensione nazionalista per quanto riguarda i suoi concetti fondamentali di sovranità e di legittimazione. Ha descritto questi valori come conservatori non nel senso di qualcosa che si oppone al progresso, ma nel senso di qualcosa che previene un regresso, la caduta in un abisso morale. In quest'ottica, il progresso non è il progresso della modernità, quanto il desiderio di tornare a ciò che è umano, a ciò che Baudelaire ha descritto in questo modo: "Progredire non significa avanzare o conquistare, ma ritornare e ritrovare... Il progresso dunque, l'unico progresso possibile, consiste nel voler ritrovare l'Unità perduta..." (si veda qui per una più ampia discussione sulle implicazioni delle idee di Putin [in francese]).
In un certo modo, Putin ha indicato la nautra della crisi in Medio Oriente, anche se si stava riferendo alla Russia. Patrick Buchanan (un conservatore ameriKKKano che non si riconosce nella corrente neo-con) ha notato, in uno scritto intitolato "Putin è uno di noi [conservatori]?" che Putin sta cercando di ridefinire quello che sarà il conflitto mondiale del futuro inteso come un "noi contro di loro" nei termini di un conflitto in cui conservatori, tradizionalisti e nazionalisti di ogni continente e di ogni paese si oppongono all'imperialismo ideologico e culturale di quello che egli considera un Occidente in decadenza, i cui valori globalizzanti mettono adesso in difficoltà molti paesi.
"Noi non andiamo contro l'interesse di nessuno", ha detto Putin, "e neppure cerchiamo di insegnare a qualcun altro come vivere". Il contendente che ha identificato non è, secondo Buchanan, "l'AmeriKKKa in cui siamo cresciuti, ma quella in cui viviamo oggi, che Putin considera pagana e sfrenatamente progressista. Senza fare il nome di alcun paese, Putin ha denunciato 'i tentativi di rafforzare i modelli di sviluppo maggiormente progressisti' in altri paesi, cosa che ha portato a 'declino, barbarie e spargimento di sangue'"; secondo Buchanan "un colpo diretto agli interventi degli Stati Uniti in Afghanistan, Iraq, Libia ed Egitto". 
Buchanan si avvicina al punto, ma non abbastanza. Il conservatorismo di Putin viene formulato in termini antipolari ed antisistema e secondo molti mediorientali si tratterebbe di una posizione di resistenza. Il Presidente Assad o Sayyed Hassan Nasrallah approverebbero. Non occorre molta immaginazione per capire quale attrattiva queste idee avraanno in Medio Oriente: esse forniscono la base per una nuova piattaforma regionale attorno a cui gli stati sovrani possono unirsi, e che potrebbe imporre una direzione univoca alla politica russa.
In un altro senso, il discorso di Putin si inserisce nel dibattito a lungo preesistente e che risale al XX secolo sul come il Medio Oriente o i musulmani in genere vivono nel mondo contemporaneo senza perdere senso di appartenenza alla comunità, radici locali, tradizioni, valori e identità. Le insurrezioni arabe si focalizzavano in modo preciso sulla perdita dei valori in politica ed in economia e sulle conseguenze di essa per il tessuto sociale. Lo stesso interrogativo si è presentato anche in Europa per la "grande trasformazione" nel sud del continente nota come "dottrina dell'austerità"; si vedano a questo proposito le proteste antisistema in corso nella penisola italiana in questo periodo. La sensazione che le anima in profondità è che le élites europee siano responsabili di aver stracciato il contratto sociale dell'Europa.
Per questo, non esistono risposte; è più facile formulare l'idea di un "ritorno ad un modo di vita umano" che non trasformare questo concetto in qualcosa di praticabile a livello politico. Il problema, nondimeno, resta questo e sarà un cammino pericoloso perché certa gente sarà capace di qualsiasi cosa perché le cose restino come sono; qualcuno farà un'istituzione dell'Islam intransigente, qualcun altro di un altrettanto intransigente laicismo; qualcuno si adopererà per la rivoluzione, qualcun altro per dare fuoco a tutto. Ci vuole un bel coraggio per affermare che il risultato di tutto questo sarà la stabilità e che nei prossimi anni si avrà un ritorno all'ordine.
Come mai così tanti in Occidente sbagliano tanto spesso, quando si parla di Medio Oriente? Secondo noi è sempre una questione di narrativa; la narrativa della "democrazia", la narrativa della "libertà", o anche la narrativa del "la caduta del Presidente Assad è una questione di quando, non di se". Abbiamo spiegato come queste narrative abbiano un'origine puritana vecchia di vari secoli e siano profondamente radicate. Nella nostra epoca il pensiero politico interno all'orientamento conservatore ameriKKKano dei "neo-con" ebbe molto a preoccuparsi a causa dell'ambiguità dei giovani per la guerra in Vietnam. Rifacendosi al pensiero originariamente formulato da Carl Schmitt e poi fatto proprio dalla Scuola di Chicago, questi pensatori giunsero alla conclusione che un paese intento a mantenere la propria potenza e la propria posizione non potesse concedere nulla a questa ambiguità morale; i nemici dovevano essere ritratti in maniera tale da farne degli "altri" così assoluti e così assolutamente malvagi da rendere impossibile ogni ambiguità morale nei loro confronti. Di qui l'insistere su una sola narrativa. La narrativa, da questo punto di vista, rappresenta l'arma più potente negli arsenali per la cosiddetta "guerra di quarta generazione" (si veda qui). La narrativa diventa "la realtà che noi costruiamo", come ebbero a dirci conservatori "neo-con" nel 2003.
Non c'è dubbio che si tratti di una narrativa potente (lo si vede in Siria) ma insistere in questo modo su una narrativa basata su un semplicistico bianco e nero può avere le conseguenze che ha il fidarsi di un'arma a doppio taglio, nonostante la sua efficacia come arma nella guerra psicologica. Adottarla significa rendersi ciechi su qualunque altro aspetto di un conflitto, che viene semplicemente negato perché ostacola il mantenimento di una narrativa che non ammette sfide. In fin dei conti i responsabili della politica finiscono per credere alla loro stessa narrativa, che li intrappola fino a quando gli eventi, come sta succedendo in Siria, non si incaricano di esporne le falsità in modo definitivo e doloroso

sabato 21 dicembre 2013

Via dal Medio Oriente. Ritirata e sconfitta yankee secondo Conflicts Forum


Traduzione da Conflicts Forum.

Nei giorni di metà dicembre l'attività diplomatica in Medio Oriente si è intensificata. Karzai, Maliki e Lavrov si sono tutti recati a Tehran, e il principe Bandar ha sentito Putin al telefono. Ci sono in ballo varie questioni: Ginevra 2, l'intensificarsi delle violenze in Iraq, il futuro dell'Afghanistan, quello del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo e del Libano. E' chiaro che Russia, Cina ed Iran stanno coordinando con attenzione le mosse con cui rispondere all'intento statunitense di disimpegnarsi.
Il Presidente Obama sta concludendo il processo iniziato da Carter. Quando il consigliere per la sicureza nazionale di Obama riferisce al New York Times che il Presidente non intende "farsi logorare a tempo indeterminato in una sola regione" e che vuole rimodellare la politica statunitense in Medio Oriente "secondo linee molto critiche, che non tengano alcun conto di divieti preconcetti" diventa chiaro che gli Stati Uniti hanno cominciato a muoversi in un altro modo. Le aspirazioni idealistiche hanno dovuto cedere il posto agli interessi vitali, qualunque cosa appartenga al mondo dei desideri ha dovuto abdicare davanti al crudo realismo. Come ha notato Andrew Bacevich, gli Stati Uniti non possono più valersi della rassicurante e ridondante potenza -o della approvazione dell'elettorato- necessarie a plasmare il Medio Oriente secondo quella che considerano la loro "missione civilizzatrice".
L'amministrazione ameriKKKana è semplicemente impegnata, oggi, in un'azione di retroguardia che serve a far sì che le strutture e le dottrine che esistono sin dai tempi di Carter possano arrivare al capolinea senza traumi. Alcune azioni preparatorie in questo senso sono meditate e deliberate, per esempio la sigla degli accordi di Ginevra con l'Iran; altre risoluzioni invece è probabile siano più che altro dettate dall'agitazione provocata dallo shock causato dagli eventi, o magari incoraggiate dal vecchio trucco da colonialisti secondo cui al momento di abbandonare una certa regione è sempre meglio lasciarsi dietro due rivali in lotta tra loro per riempire il vuoto, cosa che lascia all'ex potenza dominante un maggior campo per i propri maneggi. Non c'è alcuna garanzia che una simile strategia di potere alla Kissinger possa funzionare in quel guazzabuglio che è il Medio Oriente di oggi, un posto le cui dinamiche sono comunque fuori dalla portata delle potenze regionali, che si trovino in equilibrio o meno.
In ogni caso, per ribadire all'Arabia Saudita che gli USA rimangono comunque un alleato nonostante i loro tentativi di riavvicinamento all'Iran, gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere un'iniziativa saudita che dovrebbe davvero fare del regno una superpotenza militare e un baluardo in Medio Oriente, al tempo stesso consentendo agli USA di diminuire il proprio coinvolgimento. Nel fissare una serie di misure che nel loro insieme mettono il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo -di cui l'Arabia è il membro più potente- nella sua interezza al centro della politica di difesa statunitense, Hegel ha indirettamente fornito sostegno alla pretesa saudita che punta a fare dei paesi del Golfo un'unica entità. Quella dell'unificazione è una vecchia idea dei sauditi, più volte respinta dagli altri paesi che non intendono fare a meno della propria autonomia a favore di un'Arabia Saudita egemone.
Non c'è da sorprendersi che i funzionari sauditi siano rimasti estasiati dalla prospettiva, accogliendo con entusiasmo il fatto che Hegel abbia compreso le necessità del regno ed abbia di fatto espresso il proprio sostegno ai loro tentativi di arrivare ad un'unione tra paesi del Golfo capeggiata dall'Arabia Saudita. "Questo coincide precisamente con il nostro programma", ha detto un funzionario. Tuttavia, in un dibattito pubblico ai quali non è peraltro solito il ministro degli esteri dell'Oman Yousef bin Alawi al Ibrahim ha reagito malamente: "Noi non siamo d'accordo con nessuna unificazione. Nella regione non esiste alcun accordo su questa iniziativa... Se questa unione diventerà realtà, stabiliremo rapporti con essa ma non entreremo a farne parte. Su questo, la posizione dell'Oman è molto chiara. Se si tratta di nuovi accrocchi per mettere i paesi del Golfo in condizione di affrontare le guerre in corso o quelle future, l'Oman non entrerà a farne parte", ha detto.
Chiaramente, il dibattito è stata un'occasione per sondare il terreno. Dopo il recente viaggio diplomatico del ministro degli esteri della Repubblica Islamica dell'Iran, Saud al Faisal ha brigato per mettere a tacere, anche prima che si potesse anche solo nominare la questione, ogni potenziale tentativo di qualsiasi appartenente al Consiglio di intavolare con l'Iran discussioni sulle isole dello stretto di Hormuz per le quali ci sono delle dispute territoriali. Al Faisal ha imposto al Consiglio per la Cooperazione tra gli Stati del Golfo una posizione intransigente ed inflessibile: impedire allo sceicco Hamad del Fujarah (che è uno degli Emirati Arabi) di venire a patti con Tehran. Per questo, è arrivato ai ferri corti con i leader dell'Oman, degli Emirati e del Qatar. Faisal ha accusato l'Oman e il Qatar in particolare di finanziare a tutt'oggi i Fratelli Musulmani, che l'Arabia Saudita è invece impegnata a distruggere.
E' probabile che le affermazioni del ministro omanita vengano condivise anche da altri paesi del Golfo, anche se nessuno lo dice in pubblico e a voce alta in questo modo. Il sultanto Qabus, che non era presente al vertice, pare sia rimasto talmente offeso dalle rimostranze dei sauditi per aver ospitato i colloqui segreti tra funzionari statunitensi ed iraniani da aver fatto capire agli altri paesi del Golfo che è pronto a far uscire l'Oman dal Consiglio.
I più piccoli tra i paesi del Golfo guardano con timore a come rispondere al nuovo atteggiamento degli ameriKKKani; non esiste alcuna "grande potenza" che costituisca un sostituto naturale degli Stati Uniti e che come essi possa garantire alle monarchie una sopravvivenza incondizionata dello stesso genere. Le principali preoccupazioni di questi paesi riguardano la conservazione dell'indipendenza e la sopravvivenza come stati sovrani. In un mondo non-polare, o anti polare, la sicurezza è una questione di buone relazioni, soprattutto di buone relazioni con la potenza regionale egemone qualsiasi essa sia, più che di farsi trascinare dentro una disputa di vicinato sempre più militarizzata tra Arabia Saudita ed Iran. Di qui nascono le sempre più profonde divisioni tra l'Arabia Saudita e gli altri stati del Consiglio, divergenze che riguadano sia la Siria sia i rapporti con l'Iran all'indomani degli accordi di Ginevra, soprattutto adesso che l'Iran ha esplicitamente invitato gli stati del Consiglio a voltare pagina. Circolano molte voci secondo cui tutti gli stati del Golfo vogliono un vertice tra sauditi ed iraniani, alla faccia del ministero di Saud al Faisal e della sua rabbia strabordante.
In breve, l'iniziativa di Hegel tesa a rafforzare l'Arabia Saudita nel suo confronto con l'Iran tramite l'adozione di un assetto militare unificato da parte degli stati del Consiglio potrebbe finire con dividere il Consiglio anziché col rafforzarlo. C'è anche la possibilità che Hegel abbia presente questo problema e abbia cinicamente preso le parti dei sauditi in attesa di ulteriori contratti per la vendita di armamenti, facendosi allo stesso tempo poche illusioni sul fatto che la sua iniziativa sia destinata a prosperare.
Altri aspetti delle azioni di retroguardia messe in atto dagli ameriKKKani -abbandonare un impegno militare non è mai privo di rischi- sono evidenti in Afghanistan, in Siria ed in Egitto. In Afghanistan gli Stati Uniti stanno letteralmente battendo in ritirata, ma vogliono mantenere una retroguardia sul terreno. Non è chiaro se questo sarà possibile perché i disaccordi con Karzai sono profondi. L'Iran, la Russia e la Cina non vogliono che truppe straniere rimangano in zona. Senza il sostegno ameriKKKano Karzai è vulnerabile, ma non necessariamente un morto in piedi. Obama sta cercando un modo sicuro per abbandonare il terreno dell'Afghanistan e di arrivare ad un accordo per la sicurezza. Tehran vuole che tutti i militari stranieri se ne vadano e il Presidente Rohani lo ha ripetuto anche questa settimana. L'Iran condivide con l'Afghanistan mille chilometri di confine, e Tehran si dimostra comunque comprensiva per il desiderio degli statunitensi che anche Rohani contribuisca ad un accordo per la sicurezza e a far sì che le truppe statunitensi possano lasciare indenni l'Afghanistan. Karzai ha un bisogno disperato di farsi degli amici: di qui la visita a Tehran. Il Presidente iraniano potrebbe senz'altro trovare la maniera di rendere più facile all'AmeriKKKa l'uscire dall'Afghanistan. Se si arriverà a qualcosa di concreto, questo punto potrebbe essere uno dei pilastri per sviluppare intese tra le due parti, come risultato degli accordi di Ginevra.
In Siria gli Stati Uniti stanno cercando il modo di cambiare pian piano posizione, passando da un atteggiamento iniziale favorevole al rovesciamento del governo in carica a concentrarsi invece sulla lotta allo jihadismo siriano che adesso Obama conosce, soprattutto per gentile concessione dei russi, come una minaccia da prendere sul serio. Sembra che tiri aria di accordi, ed è significativa la visita in Russia compiuta dal Principe Bandar. Tuttavia non è assolutamente possibile esprimersi con certezza.
Ci sono degli appartenenti all'opposizione siriana che vanno dicendo che esiste un accordo tra russi e ameriKKKani per permettere al Consigflio Nazionale della Rivoluzione Siriana e delle Forze di Opposizione (CNS) di rappresentare l'opposizione alla conferenza di Ginevra 2. Altre fonti dell'opposizione hanno attribuito questo sviluppo alla visita a Mosca di Bandar bin Sultan. "Se davvero le cose stanno così, si tratta di un premio di consolazione offerto ai sauditi [affinché diano il loro benestare] per la conferenza; in cambio l'Arabia Saudita dovrebbe consentire la partecipazione ad essa della Repubblica Islamica dell'Iran", ha detto il capo dell'opposizione. A suffragare l'ipotesi che si stia per arrivare a qualche accordo arriva il generale Idris, il capo del "Libero" Esercito Siriano, che ultimamente ha stupito molti quando ha detto che il CNS approverebbe il fatto che fosse il Presidente Assad a guidare il governo di transizione e che il "Libero" Esercito Siriano in questo caso si unirebbe probabilmente all'esercito regolare nella lotta contro gli jihadisti.
Il fatto che un'opposizione moderata si unisca all'esercito siriano nella lotta agli jihadisti farebbe sicuramente piacere agli Stati Uniti, ma la Casa Bianca ha ancora dei sospetti su Bandar. Si sospetta che abbia fatto causa comune con i conservatori ameriKKKani che si oppongono ad Obama, con l'intento di umiliare Obama sul fronte interno a causa della politica adottata in Medio Oriente. I sospetti sono stati rafforzati dalla recente cattura da parte del Fronte Islamico (una creazione di Bandar) dei magazzini di armamenti e materiali che l'Occidente ha fornito al "Libero" Esercito Siriano situati vicino alla frontiera con la Turchia. La preoccupazione per la grande quantità di armi ed equipaggiamenti razziata è stata tale (qui c'è una lista di quanto è finito nelle mani del Fronte Islamico) che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno interrotto, almeno per ora, ogni aiuto agli insorti.
Certo questo accordo -se è questo quello che Bandar sta cercando di accrocchiare- resta ipotetico; potrebbe offrire ai Sauditi il modo di salvare la faccia (cosa importante) e tirar dentro gli iraniani (cosa importante anche questa) ma difficilmente porterà alla fine della guerra perché la maggior parte degli insorti armati in grado di agire è formata da contrari ad ogni accordo. E gran parte dell'opposizione non islamica diventerebbe contraria se capisce che il CNS viene considerato come l'opposizione nella sua interezza. D'altra parte l'implosione del "Libero" Esercito Siriano sostenuto dagli USA e dall'Unione Europea sotto la pressione del Fronte Islamico potrebbe indurlo a muoversi in direzione di un più aperto impegno per consentire ad Assad di restare al potere, cosa che è già implicita nell'accordo con la Russia. In ogni caso, il corso degli eventi in Siria sarà definito da quello che accade sul terreno e non da quello che succederà a Ginevra.
In Egitto ed in Libano le azioni di retroguardia dell'AmeriKKKa consistono essenzialmente nella ricerca della stabilità. Kerry ha cercato, in verità con non troppo successo, di rimediare allo strappo col Generale Sisi facendo confronti sfavorevoli a Morsi. In Libano, gli Stati Uniti sono sulle spine per colpa delle elezioni presidenziali, previste a maggio. Gli sforzi del presidente in carica per ottenere un secondo mandato trovano poco appiglio, ma allo stesso tempo nessuno, all'interno o all'esterno del paese, è in grado di imporre un candidato. Un vuoto di potere che va ad aggiungersi al fatto che il Libano non ha un governo. Il Libano si trova per molti versi in un periodo particolarmente difficile: il re dell'Arabia Saudita, ed anche qualcun altro all'interno del paese, vorrebbero che il comandante dell'esercito libanese attaccasse Hezbollah. Le potenze occidentali e la Siria vorrebbero invece che l'esercito venisse schierato contro gli jihadisti e la loro influenza in Libano. Nulla sembra in grado di impedire il lento scivolare della situazione verso una qualche forma di scontro settario, a meno che Russia, Siria ed Iran non riescano a trovare un accordo con i sauditi. Ne ha bisogno anche l'AmeriKKKa, per parare le spalle proprie e quelle dello stato sionista come sono state parate fino ad oggi, intanto che il suo ritiro procede.
La fine delle ambasce ameriKKKane in Medio Oriente, sembra dire Obama, deriva proprio da questo lavorare sui meri interessi pratici. Diminuire il coinvolgimento statunitense nella regione non significa che i problemi del Medio Oriente si risolveranno, ma significa che non ci si aspetterà più che la soluzione di ogni problema venga dagli Stati Uniti. Dopo la prima accalorata reazione al cambio di atteggiamento deicso da Obama, dovremo probabilmente prendere atto del fatto che alcuni degli attriti si sono raffreddati, anche se dalla confusione legata al cambiamento di fondo che il Medio Oriente sta attraversando ne nasceranno di nuovi che finiranno per sostituirsi ad essi. 

lunedì 16 dicembre 2013

Firenze, elezioni amministrative 2014: la campagna elettorale di Achille Totaro mostra i primi effetti


Qualche tempo fa abbiamo riferito ai nostri lettori che Achille Totaro intende concorrere alla carica di borgomastro di Firenze in occasione delle elezioni amministrative previste a primavera.
Durante una passeggiata nel centro cittadino ci siamo imbattuti in questa vetrina.
E' probabile che almeno presso certi commercianti la candidatura di Achille Totaro non abbia suscitato gli entusiasmi sperati.

sabato 14 dicembre 2013

Conflicts Forum sugli accordi di Ginevra: l'isolamento politico saudita e l'ascesa diplomatica ed economica della Repubblica Islamica dell'Iran



Traduzione da Conflicts Forum.

Dopo la sigla degli accordi di Ginevra tra i "cinque più uno" e la Repubblica Islamica dell'Iran gli eventi sono stati caratterizzati da tre dinamiche precise. La prima, per adesso, è data dalla recrudescenza della guerra per interposizione tra Iran ed Arabia Saudita. L'Arabia Saudita non ha colto il ramo d'ulivo offertole dall'Iran e ha continuato l'escalation in Libano (che sta diventando pericolosamente frammentato) in Iraq, la cui conflittualità interna sta arrivando al punto peggiore dopo quelli della guerra del 2003, e in Siria, dove secondo Sayyed Hassan Nasrallah ci si devono attendere a breve "confronti aspri" su vari fronti, intanto che si avvicinano i negoziati stabiliti per il 22 gennaio.
Ciascuna delle due parti in conflitto ha caratterizzato a suo modo il passaggio dal ramoscello d'ulivo allo scontro aperto. In una lunga intervista televisiva il segretario generale di Hezbollah, che difficilmente chiama per nome l'Arabia Saudita e che di regola evita di accusare in modo diretto gli stati arabi, ha detto che il movimento libanese fiancheggiatore di AlQaeda che ha ["in modo credibile"] rivendicato l'attentato all'ambasciata iraniana a Beirut è direttamente finanziato e sostenuto dai servizi sauditi. Nasrallah ha detto che dietro il quotidiano inasprirsi delle violenze in Iraq ci sono sempre i servizi sauditi e che in Siria sono i sauditi a mettere continuamente bastoni tra le ruote ai negoziati perché preferiscono favorire un'affermazione sul terreno dell'insurrezione armata che è un pio desiderio. "L'Arabia Saudita è decisa a combattere fino all'ultimo proiettile e fino all'ultima goccia di sangue siriano", ha affermato il segretario generale.
Allo stesso modo re Abdallah, in uno scostante incontro col presidente libanese già a lungo rimandato e tenutosi all'inizio del mese, non ha dato altro che scarse, laconiche, evasive e monosillabiche risposte a Suleiman: a Suleiman che gli chiedeva se gli sarebbe stato fornito il sostegno necessario a mantenere la carica, il re ha fornito solo l'inconsistente risposta di "insh'Allah" ed ha posto un "no" deciso alla formazione di un governo in Libano, insistendo piuttosto sul fatto che Suleiman avrebbe dovuto rivolgere l'esercito libanese contro Hezbollah. L'esercito nazionale libanese dovrebbe aggredire una componente maggioritaria del popolo del Libano a causa del suo intervento a sostegno del gverno siriano. E' quest'ultima richiesta a costituire l'essenza del messaggio che Abdallah ha dato al presidente.
Nulla fa pensare che ci sia in vista un miglioramento dei rapporti, e tanto meno una riconciliazione tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell'Iran. In compenso alcune voci riferiscono di dissensi all'interno della famiglia reale saudita: parecchi tra i principi più eminenti hanno scritto al capo di gabinetto del re lamentando l'incompetenza dimostrata dal Principe Bandar nella tutela degli interessi sauditi. Questa lamentela riguarda la seconda delle tre dinamiche in esame, che è rappresentata dal crescente isolamento dell'Arabia Saudita. Alcuni tra i più importanti fra gli esponenti della Casa dei Saud sono preoccupati per la situazione del paese.
La diplomazia iraniana invece si è mossa attivamente, con una campagna documentata e convincente in tutta la regione che ha contribuito ad isolare diplomaticamente l'Arabia Saudita, persino all'interno del Consiglio degli Stati del Golfo. Il Qatar ha stretto rapporti con Hezbollah, la bestia nera dei sauditi; gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo direttamente contatto con Damasco; il Bahrain ha invitato l'Iran alla conferenza di Manama, e sia gli Emirati che altri stati del Golfo hanno ben accolto gli accordi di Ginevra. In questo periodo i diplomatici iraniani non hanno fatto altro che fare la spola in tutto il Medio Oriente spiegando ai leader del Golfo che non hanno nulla da temere da un Iran in ascesa e che al contrario hanno molto da aspettarsi da un "riassestamento" dei poteri nel Golfo. Gli stati del Consiglio sono da molto tempo seccati dall'arroganza dimostrata dai sauditi e stanno accogliendo le profferte di distensione iraniane -cosa che i sauditi non possono al momento fare- riconoscendo di fatto il fallimento della politica sin qui adottata nei confronti della Siria.
Di questa campagna che punta ad isolare l'Arabia fa parte anche la aperta sfida lanciata dal ministro iraniano del petrolio agli interessi vitali dei sauditi, in vista dell'incontro all'OPEC di mercoledi. Il ministro ha detto che l'Iran intende produrre più petrolio possibile se e quando le sanzioni verranno a cadere, senza curarsi dell'effetto che questo avrà sui prezzi. Zaganeh ha detto che il suo paese è deciso a riprendere il suo posto "in tutte le circostanze". "Noi produrremo quattro milioni di barili anche se il prezzo dovesse scendere a venti dollari". In pratica non è possibile che si verifichi un simile crollo nei prezzi perché in fin dei conti saranno la crescita della domanda asiatica e l'equilibrio nelle forniture mondiali a determinarli, ma la minaccian iraniana, sui sauditi, può comunque avere un certo effetto.
Il Presidente Rohani ha intrapreso una significativa campagna di riforme sperando di portare la produzione di petrolio ai livelli di prima delle sanzioni, quattro milioni e duecentomila barili al giorno, entro sei mesi; l'intenzione è di arrivare a sei milioni di barili al giorno entro diciotto mesi, i livelli di prima della rivoluzione. E' chiaro che non si tratta di livelli raggiungibili nei limiti previsti, ma questo non significa che non siano possibili sensibili miglioramenti.  Ci si può aspettare che l'Iran riesca a riattivare metà della produzione attualmente inattiva entro un anno o un anno e mezzo; si tratta di cinquecentomila o settecentocinquantamila barili al giorno. Per tornare ai livelli precedenti le sanzioni è probabile che ci vorranno anni, e ad un ritmo più lento.
L'Iraq, che opera in stretto coordinamento con l'Iran, ha affermato di voler arrivare con la produzione ai livelli di prima della guerra entro un anno; esistono comunque dei limiti logistici che rendono verosimile un fallimento, almeno nel breve termine. La Libia, con minore plausibilità, ha lasciato intendere che pensa di tornare a due milioni di barili al giorno se e quando le rivolte si calmeranno. Nessuno pensa che l'Iran desideri davvero che il prezzo del petrolio crolli, ma il punto è chiaro: qualsiasi significativa diminuzione del prezzo finirà per colpire l'Arabia Saudita, che ha bisogno che i prezzi restino attorno ai cento dollari al barile. L'Iran sta mostrando che l'Arabia Saudita sta bluffando al tavolo dell'OPEC. L'Arabia sta perdendo infulenza sul Consiglio degli Stati del Golfo perché la sua linea politica è fallita, e ha meno potere di prima nell'usare l'OPEC come se fosse cosa sua. La crescita potenziale di Iran ed Iraq, semplicemente, può diventare troppo grande perché l'Arabia riesca a farvi fronte, anche perché la sua domanda interna è in aumento; questo fa sì che l'Arabia si trovi nella posizione di chi deve reagire agli eventi piuttosto che in quella di chi può determinare l'andamento dei mercati.
La conferenza dell'OPEC ha mostrato che gran parte del polverone levato da alcune personalità saudite su come il regno potrebbe rispondere al "tradimento" di Obama è fatto di minacce vane. La concretezza e la probabilità di certe affermazioni su una nuova alleanza strategica con lo stato sionista che vada al di là della cooperazione, che è di lunga data ma priva di riconoscimento ufficiale, sono state oggetto di scetticismo. I commentatori sauditi hanno liquidato come "impensabile" l'idea che l'Arabia Saudita si doti di una "bomba" (si veda qui).
A mettere il sigillo sull'isolamento dei sauditi è una dichiarazione rilasciata dal ministro iraniano: si spera che Exxon Mobil Corp., Royal Dutch Shell Plc, BP Plc, Eni SpA e Statoil ASA investiranno in Iran; funzionari iraniani si incontreranno a marzo, a Londra, con esponenti di queste compagnie. L'Arabia Saudita ha sempre cercato di impedire alle compagnie petrolifere di interessarsi all'Iran. Zanganeh ha detto che l'Iran non ha fino ad oggi cercato di contattare alcuna compagnia petrolifera statunitense nonostante vi siano stati colloqui con alcune imprese statunitensi con base in Europa; spera che sarà possibile contattarle a marzo. "Non sono sicuro che farebbe loro piacere che le nominassi", ha detto in un'intervista pubblicata su Shana, il notiziario on line del ministero degli idrocarburi.
Non ci sono soltanto le compagnie petrolifere a fare la fila per trattare con l'Iran.
Nei consolati iraniani di tutto il mondo si affollano gli uomini d'affari. E questo, in certe stanze, suscita allarme. Un lavoro a quattro mani sullo Wall Street Journal a firma dei due ex Segretari di Stato Henry Kissinger e George Shultz spiega chiaramente (nel contesto delle preoccupazioni causate dall'accordo provvisorio) che "per certe persone, per certe imprese e per certi paesi -alcuni dei quali sono alleati degli Stati Uniti- la perdita economica derivante dalle sanzioni è stata tutt'altro che trascurabile. La maggior parte di costorno si curerà meno del rafforzamento o del rispetto delle sanzioni che sono alla base dei negoziati, che essi pensano siano sul punto di condurre ad una "via d'uscita". Questo rischio è destinato a crescere se si rafforzerà l'impressione che gli Stati Uniti abbiano già deciso di rimodellare la propria politica in Medio Oriente sulla base di un riavvicinamento con l'Iran [il corsivo è di Conflicts Forum]. Avranno la tentazione di muoversi per primi per evitare di arrivare per ultimi nel riallacciare i rapporti commerciali, politici e nel campo degli investimenti. Per questo l'idea di una serie di accordi provvisori che controbilancino restrizioni sul nucleare in cambio di un allentamento di sanzioni in questo o quel settore è quasi certamente impraticabile. Un'ulteriore tornata di allentamento delle sanzioni metterà la parola fine a tutto il regime sanzionatorio.
E' probabile che l'avvertimento degli ex segretari giunga troppo tardi. La maggior parte del resto del mondo sa che gli Stati Uniti hanno bisogno di ridimensionare il proprio impegno in Medio Oriente per avere le risorse necessarie a rischierare in Asia energie diplomatiche e militari; la crescita dell'estremismo sunnita rappresenta una minaccia sia agli interessi occidentali che alla stabilità della regione, e la tendenza dell'elettorato statunitense a schierarsi contro altre guerre in Medio Oriente (secondo un sondaggio i favorevoli ad un accordo con l'Iran sono i due terzi degli interpellati) stanno spingendo l'AmeriKKKa verso il raggiungimento di un accordo con la Repubblica Islamica dell'Iran. In altre parole, le élites sunnite e i movimenti islamici sunniti radicali, che stanno agendo per conseguire un obiettivo in comune, hanno perso la guerra che avevano intrapreso per costringere gli Stati Uniti e l'Europa a "contenere" e ad assediare l'Iran fino al punto di far implodere il paese.
E qui entra in gioco la terza dinamica. I contrari all'accordo provvisorio stanno cominciando a raccogliere le forze. Ne sono prova gli scritti di John Hannah e il citato articolo di Kissinger e Shultz. Questo secondo articolo riconosce implicitamente che in gioco c'è l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente e mette in guardia contro un Iran che, finalmente libero dall'oneroso regime sanzionatorio, emerga come "una potenza nucleare de facto alla guida del mondo islamico, mentre gli alleati tradizionali perdono fiducia nella crediblità dell'impegno ameriKKKano e si mettono a seguire il modello iraniano...".
La settimana scorsa abbiamo sostenuto che l'impianto dei colloqui -centrati su questione tecniche inerenti il nucleare mentre al centro della questione c'è l'ascesa dell'Iran come potenza regionale, questione che non è stata esplicitamente affrontata- presentava a quanti non gradivano le implicazioni politiche degli accordi un'occasione d'oro per sabotarli rimanendo sul piano delle loro implicazioni tecniche. I tre paesi dell'Unione Europea hanno di fatto posto le basi per inficiare tutto quanto, quando hanno "copiato ed incollato" di fatto la struttura minatoria dei negoziati con l'Iraq ai negoziati iraniani del 2004. I due ex segretari di Stato affermano, con un po' più di chiarezza, che non si preoccupano dell'ascesa di un Iran che persegue politiche ed orientamenti a loro non graditi (e questa è la sostanza della prima parte dell'articolo, in cui si depreca l'etica non occidentale dell'Iran); la questione vera, a loro dire, sta nella possiblità che l'Iran arrivi rapidamente a sviluppare armamenti nucleari. In maniera tanto perentoria quanto poco convincente sostengono che "si dovrebbe essere aperti alla possibilità di fissare un'agenda per la collaborazione nel lungo periodo", ma questa "apertura" dovrebbe avere una caratteristica precisa: essere subordinata la fatto che "l'Iran smantelli o renda inutilizzabile una parte strategicamente singnificativa delle proprie infrastrutture nucleari". [corsivo di Conflicts Forum]
Sanno benissimo che l'Iran su questo non cederà mai. Si tratterebbe di una rottura degli accordi; loro e i loro consociati tirerebbero un sospiro di sollievo e farebbero tornare l'AmeriKKKa al suo oneroso regime sanzionatorio. La capacità di arrivare a realizzare armamenti atomici è un costrutto teorico seondo cui se si è in grado di arricchire combustibile nucleare si è anche in grado di realizzare un'arma. Da un punto di vista semplicistico è una verità evidente, ma da questo punto di vista tutti gli stati che usano l'energia nucleare hanno questa stessa possibilità. Da questo tuttavia non consegue che non sia possibile distinguere tra arricchimento per uso pacifico e arricchimento per uso militare. Il presidente Obama, in un'intervista con Jeff Goldberg sullo Atlantic ha detto esattamente questo quando ha affermato che gli Stati Uniti sanno che l'Iran non ha in programma la costruzione di armamenti nucleari, che non ha stabilito di averne e che se avesse preso questa decisione gli Stati Uniti ne sarebbero stati informati con almeno un anno di anticipo. Si tratta di affermazioni chiare, fatte prima che venissero dispiegate ulteriori misure di sorveglianza e di verifica e che costituiranno di sicuro il nucleo centrale dei futuri negoziati. Obama afferma che arricchimento a scopo civile e arricchimento a scopo bellico possono essere distinti l'uno dall'altro, se gli Stati Uniti sono tanto convinti di poter avere con tanto anticipo notizia di qualunque mutamento nella condotta iraniana.
Nondimeno, articoli come questo sono percepiti con fastidio dagli iraniani proprio come le minacce che arrivano da senatori e membri del Congresso, democratici o repubblicani che siano, affinché si vada avanti sull'inasprimento delle sanzioni senza curarsi del fatto che qualunque sanzione venisse fatta entrare in vigore annullerebbe seduta stante gli accordi già raggiunti. In Iran esiste molto scetticismo sul fatto che il sistema statunitense, inteso come qualche cosa che si oppone ad Obama in quanto tale, si rivelerà alla fine dei conti capace di arrivare ad un accordo con l'Iran. Di qui una specie di competizione psicologica in cui c'è da un lato la consapevolezza del fatto che è inevitabile che in Medio Oriente si dispieghi un nuovo equilibrio di potere con l'ascesa di un Iran ormai "emerso" e dall'altra coloro che cercano di trasmettere il concetto che siano irrinunciabili sanzioni a lungo termine, il cui scopo è quello di imporre all'Iran di fare l'impossibile: provare di propria iniziativa, e una volta per tutte, di non avere certe intenzioni.

mercoledì 11 dicembre 2013

"Non lasceremo che le città vengano messe a fuoco", parola di "ministro dell'interno".


In questa sede abbiamo più volte rilevato come lo stato che occupa la penisola italiana disponga di una miriade di corpi armati ubiqui e pletorici.
Secondo l'ordinamento dello stato, parte di questi corpi è alle dipendenze di un "ministro dell'interno" e controlla la fruizione della democrazia all'interno dei confini. L'altra parte è alle dipendenze di un "ministro della difesa" e controlla la fruizione della democrazia nei paesi importatori. Il loro mantenimento comporta costi enormi e in buona parte inutili perché il democracy export è in grossa crisi, mentre a tenere a bada il fronte interno ci pensano i maccheroni, il pallone e la pornografia.
Nel corso degli anni la carica di "ministro dell'interno" è stata ricoperta da un continuum di persone dalla condotta grottesca e rivelatrice, compreso tra individui dal comportamento disturbato e quelli accusabili di alto tradimento.
Nel dicembre 2013 un sedicente "movimento dei forconi" riesce a procurare per qualche ora alcuni trascurabilissimi disagi. Invece di concordare con la gendarmeria qualche manifestazione di quelle che servono solo a farsi dileggiare sulle gazzettine, l'aggregato dei manifestanti blocca qualche strada e qualche centro di smistamento.
Il problema è che non siamo a Kiev o a Tehran, sicché queste cose non vanno bene.
O almeno, questo dice il "ministro dell'interno", che ha minacciato autentici sfracelli nel caso "le città vengano messe a fuoco".

Non resta dunque che ritirarsi in buon ordine davanti alla minaccia di un deciso intervento della gendarmeria, a cominciare dalle proprie più immediate competenze.
Qui sopra ecco dunque una città che si è evitato di mettere a fuoco, in rispettosa obbedienza alle nuove direttive.

domenica 8 dicembre 2013

I negoziati di Ginevra con la Repubblica Islamica dell'Iran. I risvolti politici e strategici secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

Uno degli aspetti più significativi degli accordi raggiunti a Ginevra tra la Repubblica Islamica dell'Iran ed il "cinque più uno" è il fatto stesso che gli accordi ci siano stati, nonostante i milioni che l'Arabia Saudita avrebbe speso per opporsi ad essi, e nonostante la totale condanna di Netanyahu e dell'AIPAC. Il fatto in sé suggerisce che le relazioni degli Stati Uniti con l'Arabia Saudita e lo stato sionista abbiano già attraversato una metamorfosi ed una riconfigurazione abbastanza profonde; di conseguenza sembra che la viscerale contrarietà espressa nelle reazioni dei sauditi (che sono informali) e dei sionisti (che sono formali) non solo non sia più così influente sugli eventi, ma contribuisca piuttosto a indicare un notevole declino della loro influenza su Washington.
Certo, gli accordi rappresentano una svolta dal punto di vista strategico, un momento di grande potenzialità, un punto di svolta: Iran e "cinque più uno" si sono scambiati concessioni sostanziali e sono giunti ad un accordo provvisorio. Un risultato negoziato di tutto rispetto, se si considera la portata delle forze scatenate contro di esso. Comunque, il modo cui si è giunti all'accordo e il piano su cui si svilupperà non rendono difficile scorgere anche le minacce che in fin dei conti potranno affossarlo. In un certo senso, la debolezza strutturale che lo sottende rappresenta una specie di vittoria per chi si è opposto ad esso, dal momento che la base adottata riflette più che altro il bisogno dei contraenti di tutelare se stessi contro le pretese, deliberatamente gonfiate, degli oppositori. L'impianto dell'accordo riflette più i bisogni degli oppositori, ovvero la possibilità di controllare e inasprire le sanzioni, che non i più ampi interessi degli Stati Uniti.
Come suggerito dal professor Stephen Walt, esiste una grossa disparità tra quello che dovrebbe essere l'obiettivo dei negoziati (il programma nucleare iraniano) ed il loro obiettivo vero e proprio: "la questione vera è l'equilibrio del potere a lungo termine, nel Golfo Persico e in Medio Oriente. L'Iran conta su un potenziale di gran lunga più alto di qualunque altro paese della regione; una popolazione più numerosa, una middle class abbaastanza sofisticata e preparata, alcune buone università e petrolio e gas sufficienti a sostenere la crescita economica a patto che siano usati con intelligenza... Lo stato sionista e l'Arabia Saudita non pensano che l'Iran si svegli una mattina e inizi a passare testate nucleari ai suoi vicini, e probabilmente non credono seriamente che l'Iran si azzarderebbe neppure a tentare di dar luogo ad una minaccia nucleare. No, essi temono soltanto che un Iran potente finisca per esercitare col tempo una maggiore influenza nella regione, in tutti i modi che sono possibili alle potenze di un certo rilievo. Visto da Tel Aviv e da Riyadh, l'obiettivo è quello di cercare di tenere l'Iran isolato il più a lungo possibile. Isolato, senza amici, e tenuto artatamente in condizioni di debolezza".
In effetti gli elementi su come si possa assicurare ma anche sorvegliare l'arricchimento dell'uranio per scopi pacifici da parte dell'Iran sono disponibili da dieci anni; l'Iran stesso li propose nel 2004. Sicuramente è possibile anche trarre in inganno un sistema di trasparenza che consente una chiara differenziazione tra arricchimento a scopi militari e arricchimento di scorte a bassa concentrazione per reattori industriali. Non è che sia molto difficile. E non c'è dubbio che il possesso di un ciclo di combustibile come questo sia esattamente quello che il quarto articolo del Trattato di Non Proliferazione descrive come "diritto inalienabile" (si veda qui per la formulazione esatta).
Quello che ha letteralmente minato la questione del nucleare iraniano è stata l'affermazione di Albert Wohlstetter, una figura molto influente in AmeriKKKa negli anni Sessanta e Settanta, secondo cui il Trattato di Non Proliferazione presentava dei difetti fatali. Si noti: non diceva che gli stati sovrani non avessero diritto di produrre combustibile nucleare, ma semplicemente che il trattato era difettoso perché agli stati che non godevano della fiducia degli USA non avrebbe mai dovuto esser concesso il diritto di arricchire uranio, perché non ci si poteva fidare. Alla base dell'affermazione c'era l'argomento, discutibile, secondo cui la procedura per l'arricchimento per scopi pacifici era materialmente la stessa di quello militare.
Da allora gli Stati Uniti e tre dei loro più stretti alleati hanno tenuto in conto che il Trattato di Non Proliferazione non garantisse di per sé il diritto di arricchire uranio, minandone alla base gli intenti: lo spirito del Trattato era far sì che i paesi privi di armi nucleari non si cimentassero nel loro sviluppo in cambio di un accesso garantito alle tecnologie necessarie per il ciclo del combustibile nucleare. I paesi dotati di armamenti nucleari avrebbero accettato la cosa per togliersi dall'imbarazzo di detenere simili armamenti; a questo si deve ancora arrivare.
Il balletto ginevrino ha dunque girato attorno a questa vecchia questione centrale di cosa l'Iran avesse o meno il diritto di arricchire, con entrambe le parti ad affermare che l'accordo sosteneva l'interpretazione del Trattato da esse presa per buona. Sicché la discussione non ha affrontato la questione più importante, che riguarda il potere in Medio Oriente. Le paure dei sauditi e dei sionisti superano il programma nucleare e la possibilità di una "capacità di arrivare a produrre velocemente armamenti": tutti gli stati che arricciscono il combustibile possono teoricamente arrivarci.
Jeremy Shapiro è stato funzionario al Dipartimento di Stato e nota che alla base dei timori sauditi "c'è l'Iran in quanto tale", in quanto possibile "piccola Cina" per il Medio Oriente, in quando modello per la governance islamica, e soprattutto per i potenziali effetti dello sciismo rivoluzionario sul potere della Casa dei Saud attualmente regnante. In un simile contesto le sanzioni internazionali contro l'Iran che hanno inibito le ambizioni del paese e la sua capacità di proiezione di potenza hanno rappresentato un fondamento della politica estera dell'Arabia Saudita. Da questo punto di vista un accordo sul nucleare non contribuisce certo alla riabilitazione dell'Iran: piuttosto, contribuisce a scatenare un pericoloso rivale, in grado di minacciare il regno e di danneggiarne gli interessi.
La secoda questione sul tavolo a Ginevra è stata dunque quella delle sanzioni, e non tanto perché le sanzioni siano servite ad ostacolare il programma nucleare iraniano, perché non ci sono riuscite e l'Iran è diventato, qualunque significato si voglia dare all'espressione, uno stato nucleare sottoposto a sanzioni. Si è discusso delle sanzioni internazionali perché, insieme all'isolamento politico, costituiscono una pastoia che agisce nel lungo periodo e che ha permesso fin qui allo stato sionista e all'Arabia Saudita di mantenere il predominio.
Il punto è che la prassi sin qui adottata, che consiste nel richiedere all'Iran di fornire prove della propria "non intenzione" di sviluppare armi nucleari unita ad un'esagerata insistenza occidentale sul mantenimento delle sanzioni costituisce in sé una struttura rigida, ma aperta alla malevola azione di una lobby che, esprimendo una serie di "preoccupazioni" -del tipo che abbiamo visto in Iraq- agisce perché le sanzioni restino in vigore. Il punto debole è anche in questo caso quello della sovranità nazionale. E chi rema contro l'accordo sa come premere su questo tasto, facendo presenti "problemi" che possono essere risolti soltanto con sensibili intromissioni a scapito della sovranità, come nel caso iracheno. Questo modo di frapporre ostacoli, che consente di ribadire pretese e relative sanzioni, è stato introdotto nel processo quando i tre paesi dell'Unione Europea appartenenti al gruppo dei "cinque più uno" hanno chiesto all'Iran di dimostrare le proprie intenzioni, all'indomani del fallimento del colloqui di Parigi.
L'obiettivo dell'Iran a Ginevra era quello di mettere le cose in chiaro con l'Occidente, specificando nero su bianco le regole del gioco. Se l'Iran darà soddisfazione su tutte le questioni inerenti il nucleare, gli sarà permesso di prendere il posto che gli spetta come paese popolato di persone ben istruite, ricco di risorse e potente, nonché generosamente dotato di petrolio e gas naturale?
Questa è la vera sostanza dei negoziati, anche se il linguaggio usato si è ammantato del gergo tecnico inerente il ciclo del combustibile nucleare. Ed è su questo punto, effettivamente, che c'è da preoccuparsi.
Gareth Porter è un affidabile commentatore in materia di sicureza nazionale e di nucleare in genere; nota che "A poche ore di distanza dalla sigla dell'accordo ci sono già indizi, provenienti da funzionari superiori, che fanno pensare che l'amministrazione Obama non sia del tutto intenzionata ad arrivare ad un accordo definitivo che comporti la completa decadenza delle sanzioni. Pare che l'amministrazione abbia maturato qualche riserva su un accordo del genere, nonostante le concessioni del governo del Presidente Hassan Rouhani, che si spingono molto più in là di quanto si potesse prevedere pochi mesi or sono".
Ironicamente, le mosse compiute dal governo Rouhani per rassicurare l'Occidente possono aver rinfocolato le speranze di una parte dei funzionari superiori dell'amministrazione Obama che gli Stati Uniti possano arrivare all'obiettivo minimo di ridurre la capacità iraniana di sviluppare velocemente armi nucleari senza dover giocare le proprie carte migliori, che sono le aspre sanzioni sull'esportazione di petrolio e sul settore bancario.
A dare ad intendere di qualche incertezza statunitense per arrivare ad un accordo definitivo è stato un incontro tra funzionari superiori statunitense che ha fatto seguito ad una conferenza stampa tenutasi lo scorso sabato a Ginevra. Per teleconferenza, i funzionari hanno ripetutamente suggerito che la questione era del "se" si sarebbe arrivati ad un accordo definitivo, piuttosto del come arrivarci.
La stessa fonte, prima di parlare, ha specificato che "per quanto riguarda l'accordo definitivo, noi non riconosciamo all'Iran il diritto di arricchire l'uranio".
L'ignoto funzionario, durante l'incontro, per altre tre volte ha fatto riferimento ai negoziati per arrivare ad una soluzione definitiva, specificati nell'accordo poi siglato domenica mattina, come ad come ad una questione ancora aperta più che come ad un obiettivo della politica statunitense.
"Verificheremo in futuro se possiamo arrivare ad un accordo definitivo che consenta all'Iran di avere energia nucleare per uso pacifico", ha affermato uno dei funzionari.
Non c'è dubbio sul fatto che queste affermazioni siano in parte frutto della necessità del governo statunitense di immunizzarsi contro le accuse di cedevolezza cui è ormai abituato. Il loro scopo è quello di togliere mordente alle critiche sul fronte interno più che di riflettere il contenuto che sta transitando sulla linea di comunicazione con la controparte, e ci sono indicazioni piuttosto chiare sul fatto che, al contrario, l'Iran ha ricevuto rassicurazioni di un qualche genere sul fatto che in futuro gli verrà permesso di arricchire uranio per uso pacifico. Non c'è tuttavia da dubitare che il tenore dell'incontro ospitato a Washington abbia avuto l'effetto contrario sul gran numero di iraniani che sono scettici, profondamente scettici sulla buona fede con cui l'AmeriKKKa ha affrontato i colloqui, temendo si ripeta quello che successe ai colloqui del 2004-2005m quando i tre dell'Unione Europea finirono per rivelare di essere contrari all'arricchimento tout court. Più seriamente, è ad incontri come questo che stavamo riferendoci quando abbiamo scritto che l'amministrazione statunitense rischia di trovarsi chiusa in difesa su una posizione che non riguarda in nessun modo questioni concrete, ma che si attiene a materie strettamente inerenti il nucleare in cui quanti sono contrari all'accordo troveranno modo di infilare le proprie manipolazioni, come a suo tempo in Iraq. Il settore in cui i contrari all'accordo hanno ottenuto la loro piccola vittoria è questo.
Da una parte troviamo dunque la questione tecnica sul nucleare, e questo non possiamo ignorarlo. A fare da contrappeso c'è però un'ottica più ampia che considera il ruolo futuro dell'Iran in quanto storica potenza regionale, e tiene presenti i settori in cui Iran ed Occidente condividono interessi in comune, che sono molti. Obama, contrariamente al suo consueto stile, dovrà agire di polso in sede negoziale se vuole che gli Stati Uniti non scivolino nello sterile copione delle dottrine formulate da Wohlstetter negli anni Sessanta. Obama deve fare in modo che al centro dei colloqui ci sia la questione fondamentale, ovvero l'equilibrio dei poteri in Medio oriente, e fare in modo che i negoziati non si arenino sulle questioni tecniche. Se non si tiene presente che c'+ in ballo il futuro del Medio Oriente, non si arriverà nemmeno ad un risultato tecnico perché l'Iran non farà altro che ritirarsi dal negoziato.
E' chiaro che gli Stati Uniti intendono arrivare ad un nuovo equilibrio in Medio Oriente, in cui nessun paese otterrà sostegno indiscriminato e per giunta influenza sulla politica ameriKKKana, L'AmeriKKKa intende fare un passo indietro: si sta autolimitando a pochi e ben definiti obiettivi ed organizzerà il proprio coinvolgimento esclusivamente in funzione di questi limitati intenti.
Gli ameriKKKani fanno pensare che lo stato sionista e l'Arabia Saudita non potranno far altro che prendere atto della nuova dottrina politica: gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare i sionisti ed i sauditi, ma solo nel contesto tracciato dal nuovo equilibrio tra poteri regionali oggi in via di definizione, modellato essenzialmente attorno ai due poli regionali dell'Iran e dell'Arabia Saudita. I funzionari statunitensi sanno che l'Arabia Saudita e lo stato sionista non considereranno le nuove disposizioni come esattamente confacenti ai loro desideri, abituati come sono ad ottenere sempre e comunque l'appoggio degli Stati Uniti, ma i funzionari stessi affermano che entrambi i paesi dovranno adattarsi; dopo tutto, a chi altro possono rivolgersi?
Se queste sono le motivazioni inespresse che stanno dietro le dichiarazioni dei funzionari statunitensi su un accordo definitivo che non faccia cadere le sanzioni più dure contro l'Iran, magari intese come un contrappeso in favore della più debole Arabia Saudita, si deve pensare che i sauditi disperino adesso di trovarsi in cima alla lista nella politica statunitense.
Qualcuno davvero pensa che le cose sarebbero rimaste com'erano, viste le condizioni di una regione in via di disintegrazione e di frammentazione? Il Medio Oriente si trova in condizioni di estrema volatilità e disgregazione, e contenere o controllare concretamente le dinamiche in atto è al di là delle potenzialità di qualsiasi stato sovrano o di qualsiasi costrutto che implichi un equilibrio dei poteri. Gli eventi si prenderanno gioco di ogni centro di potere: è questo il contesto in cui i sauditi hanno tutte le ragioni per mostrarsi timorosi.

giovedì 5 dicembre 2013

Gesù Cristo continua a salvare, a guarire e a liberare. E, con l'apostolo Vincenzo Lippi, a farti diventare sionista.


 Appuntamento al Teatro Puccini il 5 e il 17 dicembre; occhio all'orario, che è un po' diverso da quello dell'altra volta.
E si ricordi che ad indicare ai fedeli la via per Tel Aviv c'è un'intera squadra ministeriale.

domenica 1 dicembre 2013

I negoziati con la Repubblica Islamica dell'Iran, mercato dell'energia e geopolitica mediorientale secondo Conflicts Forum


Il Presidente Obama ha inferto un poderoso scossone al vecchio ordine mediorientale con le sue iniziative sulla Siria e sull'Iran, e sembra che la cosa stia traducendosi sul terreno in una tendenza nuova per la situazione geopolitica. Siamo appena all'inizio ed è possibile che le novità non siano altro che pagliuzze nel vento di quello che è stato chiamato "il nuovo ordine a-polare o non-polare del mondo", un ordine che sembra comunque oggi aver perso le strutture essenziali che sostenevano la vecchia polarizzazione dei poteri. Sembra che questo "nuovo ordine" stia prendendo piuttosto una forma anti-polare con il rifiuto della polarizzazione intesa come caratteristica fondante, ed il ritorno ai vecchi concetti di sovranità e di autonomia; pare che stia diventando di tutto, meno che un "ordine" vero e proprio. L'effetto di questa destrutturazione è evidente, forse, soprattutto nell'incoerenza strategica del periodo che stiamo attraversando, di cui sono esempi l'inveire di Laurent Fabius che arriva a Ginevra per rovesciare il tavolo del "cinque più uno" [*] mettendo così senza mezze misure alla luce la mancanza di unità del campo occidentale, ed  lo scorrazzare rabbioso e distruttivo del Principe Bandar in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti si stanno disimpegnando militarmente dal Medio Oriente, per impegnarsi invece in Asia. L'AmeriKKKa vorrebbe anche tenere il piede in due staffe, ma sta sostenendo uno sforzo militare ed economico troppo impegnativo ed è costretta a fissare delle priorità. Obama ha detto senza mezzi termini all'assemblea generale dell'ONU che gli Stati Uniti ridurranno drasticamente il numero di priorità cui destineranno il loro impegno politico e militare, limitandole a quattro soltanto. La loro politica è quella di non avere alcuna politica al di là di questo. E poi gli statunitensi in genere non sono più disposti ad accettare che gli Stati Uniti vengano impelagati in un'altra guerra in Medio Oriente per via dei sionisti o dei sauditi e dei loro obiettivi difformi. E' anche abbastanza chiaro che gli alleati mediorientali dell'AmeriKKKa non sono stati capaci di fare gli interessi degli Stati Uniti: non possono né arginare l'Iran, né rendere stabile la Siria o il Medio Oriente in generale; sembra anzi si stiano dando da fare per peggiorare le cose. Soprattutto, non possono davvero affrontare le cellule jihadiste che stanno sciamando ovunque. E' ora che si affermi un nuovo equilibrio dei poteri, e da qui nasce il tentativo di rivedere le posizioni nei confronti dell'Iran. E anche nei confronti della Siria, la sola che abbia la possibilità di infliggere agli jihadisti una qualche sconfitta significativa.

Così, all'improvviso ci sono altri due paesi che si sentono mancare la terra sotto i piedi. Per cinquant'anni l'Arabia Saudita è stata in grado di retribuire qualcun altro perché ideasse e poi mettesse in atto una politica estera al posto suo. I soldi erano tutto. I sauditi non hanno costruito istituzioni nazionali e neppure hanno sviluppato in modo significativo il proprio tessuto sociale; hanno pensato che la loro preminenza nel mondo musulmano fosse garantita, senza far nulla per realizzare delle basi solide a questo scopo. Hanno esternalizzato ogni cosa, delegato tutto ad altri fornitori, soprattutto ai servizi segreti statunitensi ed europei. Il regno ha pochi amici sinceri in Medio Oriente, anche all'interno del Consiglio degli Stati del Golfo. La prospettiva di uno stato sciita rivoluzionario che imponesse il proprio predominio metterebbe quasi certamente la parola fine al sogno di Re Faisal di imporre lo wahabismo come unica voce legittima dell'Islam, e spingerebbe l'Islam verso una direzione molto diversa e verso un orientamento nemico del salafismo. Per l'Arabia Saudita prendere in considerazione la prospettiva di un'alleanza con lo stato sionista è sintomo di disperazione, non del fatto che possiede una propria strategia; si ricordino le proteste e gli episodi violenti suscitati dal fatto di aver accolto truppe statunitensi durante l'ultima guerra del Golfo. Sul fronte interno dell'Arabia Saudita la tensione sta salendo, e il paese non può andare avanti in questo modo; si trova adesso in una condizione di insabilità che deve finire alla svelta, in un modo o nell'altro.
Anche lo stato sionista si trova in una situazione più o meno simile. I commentatori sionisti hanno sottolineato ironicamente come lo stato sionista sia sempre stato contento di affidare agli Stati Uniti la tutela dei propri interessi regionali: gli Stati Uniti facevano da "avvocato" dello stato sionista in tutti i negoziati. Adesso, con il disimpegno statunitense, i sionisti sono rimasti senza un proprio posto in tutte le sedi di negoziato in cui sono in gioco i loro interessi. Partecipare al negoziato sulla Palestina per lo stato sionista è più una necessità cui piegarsi di malavoglia che non un impegno cui dedicarsi con sincero entusiasmo. Inoltre l'orientamento del partito laburista, che nel 1992-1993 abbandonò la politica inaugurata da Ben Gurion che prevedeva la ricerca di alleati tra le minoranze regionali e nelle zone periferiche in favore della ricerca di alleati arabi, sembra essere giunto a fondo corsa. In genere, gli abitanti dello stato sionista sono dell'idea che questo abbia portato poco frutto e le insurrezioni arabe sono servite soltanto a consolidare questa opinione. Anche lo stato sionista è alla ricerca di altri partner e di altri alleati, al di là di quello saudita e delle sue incerte prospettive. Il recente tentativo di Netanyahu di mettere Putin contro Obama non è stato un successo. Qualcuno, nello stato sionista, pensa ai giacimenti di petrolio e di gas come a strumenti in grado di consolidare una nuova coalizione nel Mediterraneo orientale: lo stato sionista considera la Grecia e Cipro come collaboratori scontati nella realizzazione di un oleodotto diretto in Europa, e sta guardando allo stato che occupa la penisola italiana come ad un potenziale passaggio verso l'Europa. L'idea è quella di fornire energia all'Europa -lo stato sionista è già unito alla rete elettrica europea- pensando di poter finalmente acquistare in legittimità, specialmente se la Francia sarà tra gli acquirenti. La cosa fa capire anche che lo stato sionista sembra si sia accorto che la via verso la legittimazione sul piano internazionale passa dall'instaurazione di più stretti rapporti con il continente europeo che non per la supremazia in Medio Oriente.
L'idea ha indubbiamente del fascino, ma lo stato sionista è stato forse troppo ottimista; la politica dei giacimenti di gas e petrolio nel Mediterraneo orientale è potenzialmente esplosiva, e un'alleanza formata attorno ad essi si troverà a dover affrontare aspre politiche energetiche in merito alla demarcazione della zona economica europea nel Mediterraneo e alla costruzione di qualunque conduttura diretta in Europa. Elefanti in una cristalleria, praticamente; in fin dei conti i sionisti possono arrivare alla conclusione che hanno più bisogno di aprire un proprio canale di comunicazione con l'Iran anziché dipendere per intero dagli Stati Uniti; esistono osservatori seri che pensano che lo stato sionista abbia davvero tirato troppo la corda con l'Iran, e che questa essenziale magagna sia oggi sotto gli occhi di tutti e sia diventata causa dell'isolamento in cui è finito il paese. Tuttavia si dovrà probabilmente attendere l'insediamento di un nuovo Primo Ministro perché si giunga ad un mutamento di rotta.

Sembra che la Turchia, che un tempo era vista dai sionisti come un potenziale partner nel settore energetico, adesso venga considerata politicamente troppo inaffidabile per far parte di questa "coalizione del Mediterraneo orientale", e questo non fa che far crescere i dubbi sul progetto di oleodotti e gasdotti che la Turchia è intenzionata a sviluppare in proprio. La Turchia inoltre ha compiuto una revisione delle proprie posizioni alla luce del cambio di politica messo in atto dagli Stati Uniti nei confronti della Siria, e adesso considera più importante combattere gli jihadisti piuttosto che rovesciare il governo siriano. Ed un'Ankara ammaccata ha cercato di ricostruire i ponti con al Maliki a Baghdad, e di ravvivare i rapporti con l'Iran, mettendo in secondo piano le divergenze sulla Siria.

La Russia se ne è rimasta per lo più tranquillamente in disparte dopo le recenti vicende del negoziato dei "cinque più uno" e dell'accordo sulle armi chimiche con la Siria. Putin pensa da tempo che la situazione politica internazionale sia entrata in una fase incoerente, in cui tutto è instabile e transitorio; se per quanto è dato vedere l'unità di intenti occidentale sta franando (pensiamo ancora a Fabius) la Russia può ben rimanersene in disparte (questo potrebbe concludere Putin) a guardare da bordo campo il mondo unipolare che va in malora. Certamente, i russi hanno un certo numero di interessi fondamentali, e sembra che il modo in cui sono concepiti stia cambiando sotto la spinta degli eventi in Medio Oriente.

Il principale interesse dei russi è quello di impedire ogni scivolata dell'Unione Europea verso la sua connaturata e in un certo senso storica ostilità nei confronti della Russia. E' quello che è successo con l'annessione all'Unione Europea, da parte dell'Europa occidentale, dei paesi dell'est, poco teneri nei confronti di Mosca. La Russia adesso sta facendo pressioni sulla Germania e sta cercando di acquisire voce in capitolo diventando il monopolista per la fornitura di energia all'Europa. I russi non vogliono avere concorrenti a metter loro i bastoni tra le ruote, che siano lo stato sionista, il Qatar, o un qualche consorzio del Mediterraneo orientale guidato dai sionisti.

E qui è entrata in gioco la crisi siriana. I russi e gli iraniani si sono scoperti a muoversi in sintonia negli ultimi due anni, anche se tra loro c'è ancora qualche cautela. In realtà i rapporti tra i due paesi si sono profondamente trasformati, rivoluzionati addirittura. L'Iran non intende ostacolare le intenzioni dei russi sulla fornitura di gas all'Europa, ma ricavare un ruolo complementare per l'export di energia iraniano ed iracheno. Con la Russia, l'Iran condivide anche l'interesse a sostenere -e magari anche a stabilire- il prezzo del gas. Iran ed Iraq guarderanno ad oriente e ai loro vicini immediati, magari col sostegno delle compagnie petrolifere internazionali dell'Occidente, mentre i russi guardano essenzialmente ad ovest, verso l'Unione Europea.

I recenti scenari prospettati dagli Stati Uniti indicano che la Cina può aver superato l'AmeriKKKa, diventando il maggior consumatore mondiale di petrolio anche se le statistiche dettagliate a riguardo vengono messe in dubbio dai cinesi. La questione, comunque, è che ci si attende una crescita esponenziale del fabbisogno cinese per gli anni a venire e che la maggior parte di esso, circa il 60%, viene soddisfatto da fornitori mediorientali; l'Iraq è oggi il secondo fornitore della Cina per ordine di importanza, grazie ai grossi investimenti che i cinesi hanno fatto nel paese. Le sanzioni contro l'Iran sono state determinanti perché i cinesi guardassero all'Iraq, e le esportazioni iraniane verso la Cina sono cadute dal terzo al sesto posto come conseguenza del fatto che i cinesi si sono rivolti al petrolio iracheno.

Cosa ha a che fare tutto questo con i negoziati del "cinque più uno"? Occorre spiegare per quale motivo le aperture iraniane non sono dirette in modo esclusivo -o anche principale- nei confronti degli Stati Uniti. Fin da principio la politica itraniana è stata quella di trasformare i rapporti con il resto del mondo nella loro interezza: aprirsi al mondo e intessere relazioni amichevoli con esso (paesi del Golfo compresi) e aver dimostrato serietà e trasparenza nel cercare di risolvere i problemi con l'AmeriKKKa. A Tehran nessuno si è mai aspettato di risolvere ogni questione in sospeso con gli Stati Uniti, a causa degli ostacoli legali che impediscono di togliere le sanzioni; però c'è stata la sensazione che si potesse arrivare ad un allentamento della tensione con l'AmeriKKKa e alla realizzazione di qualche nicchia in cui cooperare.

E' possibile che i colloqui coi paesi occidentali falliscano. Ma se si arrivasse a questo, magari come risultato del boicottaggio praticato da Francia, Arabia Saudita e stato sionista, la cosa non rappresenterebbe per forza di cose un fallimento di per sé della linea politica seguita. E' possibile che le mosse compiute indipendentemente dal resto del mondo dagli Stati Uniti possano continuare a far decrescere la tensione e a cercare terreni di cooperazione con l'Iran in Afghanistan, in Siria e altrove. Se addirittura gli elementi occidentali del "cinque più uno" non si trovassero d'accordo tra loro e non riuscissero a stringere accordi con l'Iran, potremmo addirittura veder cadere tutto il pacchetto delle sanzioni perché molte -anche se non tutte- delle misure sanzionatorie in vigore hanno poco o punto fondamento legale e il loro implemento poggia più sulle minacce del Tesoro statunitense che sulla legalità. Detto altrimenti, le sanzioni decise dagli Stati Uniti potrebbro cominciare a venir meno, se gli Stati Uniti perdono il loro interesse per questo braccio di ferro. E' anche possibile che sia qualche altro paese a prendere in mano la situazione, ad arrivare ad un accordo con l'Iran lasciando isolati gli Stati Uniti. Il rifiuto dell'autorità polarizzatrice insito nell'atteggiamento "anti-polare" è un elemento importante nella questione delle sanzioni.

E se si arrivasse ad un accordo? Uno dei risvolti inattesi della crisi siriana è che la Russia ha scoperto che le sue relazioni con la Siria e con l'Iran ne sono state letteralmente rafforzate. La crisi ha aiutato la diplomazia russa a rivelarsi efficace, ha dato alla Russia un potere di influenza ed una statura internazionale e le ha anche fornito un punto d'appoggio in Medio Oriente. La crisi ha anche permesso di gettare le basi per una cooperazione strategica nel settore dell'energia tra Russia, Iran e Iraq. L'Iran intende fornire gas alla Siria e al Libano attraverso un gasdotto ad alta capacità, la Siria e il Libano contano tutti e due su possibili giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Alla fine anche questi potrebbero contribuire al South Stream che i russi hanno in programma.    

Qualunque progresso compiano i colloqui del "cinque più uno" costituirebbe dunque una brutta novità per i paesi del Golfo, sia dal punto di vista politico che da quello economico. Un simile progresso sbilancerebbe l'equilibrio del mercato energetico a discapito di certi paesi del Golfo che sono cresciuti attorno alla massiccia produzione e agli alti prezzi. Al crescere della produzione irachena -e adesso anche la produzione iraniana è in crescita- cresceranno anche le pressioni affinché i sauditi e gli altri paesi riducano la loro produzione per mantenere stabili i prezzi. Gli introiti di certi paesi ne risentiranno.

In tutta la faccenda, è l'Egitto a trovarsi nella posizione meno comoda. Dove cercare nuovi alleati? Secondo certe indicazioni, l'Egitto sente di avere oggi più in comune con la Siria che con l'Arabia Saudita, ma nessun egiziano intende dirlo chiaro e forte.


[*] Il gruppo di paesi che conduce le trattative sul nucleare con la Repubblica Islamica dell'Iran, N.d.T.