24 dicembre 2025

Alastair Crooke - Per lo stato sionista Trump passa da risorsa a grattacapo



Traduzione da Strategic Culture, 22 dicembre 2025.

La nota commentatrice dello stato sionista Anna Barsky scrive su Ma'ariv (in ebraico): "Lasciamo che il piano [di Trump] per Gaza fallisca".
Nello stato sionista sta prendendo campo la volontà di temporeggiare: non replicare con un netto rifiuto... [ma piuttosto] confidare sul fatto che la realtà della regione seguirà il suo corso. [In ogni caso], il disaccordo [sul] piano di Trump per Gaza è concreto... lo stato sionista esige che le cose seguano un ordine preciso: prima il disarmo di Hamas, ovvero la sua effettiva rimozione dal potere, e solo dopo la ricostruzione, la presenza internazionale e il ritiro dei militari dello stato sionista.
Ed ecco il "problema": "L'ufficio del Primo Ministro è consapevole del fatto che Trump, a quanto pare, non intende accettare le precondizioni poste dallo stato sionista". "Ed ecco il nocciolo della questione... Hamas non intende disarmare, né abbandonare il territorio".
Quindi... "Gli Stati del Golfo, l'Egitto e anche settori significativi dello establishment statunitense propongono di procedere secondo un altro ordine: prima si mettono in moto la ricostruzione e la presenza internazionale, poi si introducono una forza di stabilizzazione e un governo tecnico, e poi, 'nel corso del processo', la questione di Hamas viene affrontata [solo] per gradi".
Stando così le cose, la leadership dello stato sionista è rimasta disillusa e frustrata.
Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Il problema è più profondo, come sottolinea Alon Mizrahi:
I vertici dello stato sionista stanno notando che gli Stati arabi non hanno accettato di normalizzare i loro rapporti con lo stato sionista. I nazionalisti ebrei possono anche avere il loro uomo alla Casa Bianca, solo che quest'uomo sembra interessato solo a fare soldi con gli arabi. Nessuna annessione [della Cisgiordania]; nessun [cambio di regime] in Iran e ora l'offensiva pretesa di una "Fase 2" a Gaza in cui lo stato sionista dovrebbe non solo tollerare la presenza militare straniera, ma anche permettere la ricostruzione".
Il problema sono gli interessi strategici sempre meno coincidenti di Netanyahu e di Trump: essi sono in disaccordo non solo sul piano di Trump per Gaza, ma anche sulla Siria -dove l'inviato statunitense Tom Barrack sembra schierarsi su posizioni filoturche- e sul Libano, dove Washington sembra schierarsi con Beirut.
"Trump ha bisogno di portare a casa qualche risultato. Ha bisogno di firmare qualcosa". Lo stato sionista invece intenderebbe mantenere la libertà di azione militare di cui gode attualmente in Siria e Libano, solo che la cosa disturba e ostacola gli sforzi degli Stati Uniti di combinare accordi di grande risonanza tra lo stato sionista e le potenze regionali.
Trump vuole il premio Nobel: a giudicare dalle sue recenti dichiarazioni, ritiene che Netanyahu non stia "portando risultati". Una sensazione di disillusione che l'ufficio del Primo Ministro dello stato sionista contraccambia senz'altro.
Ben Caspit riferisce che l'incoerenza con cui Trump prende le proprie decisioni resta una delle principali fonti di frustrazione per Netanyahu:
"Il Presidente oggi può anche essere dalla tua parte, suggerisce un collaboratore... ma è facile che domani cambi idea senza battere ciglio. Con Trump, ogni giorno è una nuova battaglia, a seconda di chi ha parlato la sera prima o di quali interessi economici ci sono in gioco. È una lotta difficile e, soprattutto, senza fine...".
Un commentatore suggerisce che "lavorare con i qatarioti e i sauditi" secondo quanto si pensa nello stato sionista, "rappresenta per Trump la promessa affascinante di investimenti mastodontici, cosa che rafforza la sua immagine di uomo influente e di successo; ma rappresenta anche una cosa più importante ancora: l'aprirsi di entrature personali che potrebbero fargli guadagnare miliardi in affari immobiliari in tutto il Medio Oriente".
La virata di Trump verso un approccio transazionale che mette gli affari avanti a tutto è di fatto descritta nella recente Dichiarazione Strategica Nazionale degli Stati Uniti (NSS), che sposta l'attenzione degli Stati Uniti dalle preoccupazioni per la sicurezza dello stato sionista a "partnership, amicizia e investimenti". La visita di Bin Salman a Washington nel mese di novembre è stata un chiaro indice di questo cambiamento, segnato da incontri ad alto livello, da un forum sugli investimenti e da una lunga lista di accordi sull'espansione della cooperazione in questi settori.
La World Liberty Financial, lanciata nel 2024 dai figli di Trump Donald Jr. ed Eric insieme a soci come Zach e Alex Witkoff (figli dell'inviato di Trump Steve Witkoff), sottolinea come la famiglia Trump abbia nel Golfo delle priorità commerciali, dei progetti che stanno portando miliardi di dollari al patrimonio familiare.
Inoltre l'eccessiva parzialità di Trump nei confronti dello stato sionista, attestata da episodi come quello in cui ha ammesso a Mark Levine alla festa di Chanukkà alla Casa Bianca di essere effettivamente il primo presidente ebreo degli Stati Uniti ("È vero. È vero"), in pratica si è tradotta in un versare gratuitamente sale sulle ferite aperte della sua base elettorale. Questo comportamento ossequioso si è tradotto in un danno strategico per il sionismo, anche tra i conservatori statunitensi del Congresso: "Loro lo stato sionista lo odiano", ha detto Trump durante lo stesso incontro.
"A questo punto", sostiene Alon Mizrahi, "lo stato sionista e le legioni di suoi sostenitori nel sistema politico statunitense devono chiedersi se non hanno commesso un grave errore a puntare tutto su Trump". Hanno sostenuto Trump per motivi strategici, non solo per il suo impegno a difendere l'immagine dello stato sionista e a rendere efficaci le leggi contro l'antisemitismo.
Mizrahi spiega:
Gli obiettivi nel campo delle pubbliche relazioni, pur eleganti e potenzialmente importanti, non sono ciò che interessa davvero [alla destra escatologica sionista]: i suoi scopi fondamentali sono l'espansione del potere reale e il controllo sulle persone e sul territorio. Trump è stato scelto perché aiutasse in questo, perché lo stato sionista possa formalmente annettere parti della Siria, per mettere fine a Hezbollah in Libano, per annettere e ripulire etnicamente la Cisgiordania... per stroncare l'Iran e per frenare l'ascesa di qualsiasi potenza rivale in Medio Oriente, compresa quella dei paesi arabi del Golfo tanto accomodanti nei confronti del sionismo.
Essi sanno di avere poco tempo prima che il disgusto generalizzato per il sionismo che domina nel mondo, compresi gli Stati Uniti, porti alla ribalta nuovi leader, nuove regole e nuovi criteri. Quindi devono agire con urgenza. Ed è quello che stanno facendo: essi non sono interessati a limitare i danni, ma a prepararsi all'impatto. Non stanno giocando in difesa, stanno giocando in attacco.
Ben Caspit scrive che, mentre la seconda fase del piano di Trump per Gaza sarà probabilmente la questione più urgente al vertice di fine anno tra Netanyahu e Trump, è l'Iran a rappresentare la minaccia strategica maggiore per lo stato sionista. Ed è in questo contesto che il commentatore strategico dello stato sionista Shemuel Meir fa notare quello che nello stato sionista viene considerato un altro errore di Trump:
I siti di arricchimento dell'uranio iraniani sono stati davvero distrutti, il 13 giugno? E che fine hanno fatto i 440 kg di uranio arricchito al 60% che l'Iran possiede ancora?
Nell'attuale clima di grosso scetticismo sui risultati dell'attacco di Trump all'Iran, "questa settimana è emersa una novità di grossa rilevanza per il nucleare nel dibattito interno allo stato sionista, con più implicazioni di quanto sembri: Netanyahu ha annunciato inaspettatamente la nomina del suo segretario militare -il maggiore generale Roman Goffman- a nuovo capo del Mossad".
Goffman, che non ha alcuna esperienza nota nel campo dell'intelligence, è più noto per aver scritto alcuni anni fa sulla questione nucleare proponendo un cambiamento radicale nella dottrina di deterrenza strategica dello stato sionista.
In qualità di capo del Mossad, Goffman riferisce direttamente ed esclusivamente a Netanyahu. Nello stato sionista il Primo Ministro è anche il capo della Commissione per l'energia atomica. "Sembra che più che pensare fuori dagli schemi, Goffman pensi come pensa Netanyahu", scrive Meir.
Attraverso gli "accordi Nixon-Golda" avviati da Henry Kissinger cinquant'anni fa, allo stato sionista gli USA hanno concesso in via del tutto eccezionale l'esenzione dall'obbligo di aderire al Trattato di Non Proliferazione. Gli stessi Stati Uniti hanno comunque posto delle condizioni per questa posizione di privilegio tutta speciale: lo stato sionista non avrebbe dichiarato di possedere armi nucleari e non avrebbe condotto test nucleari. Ecco in cosa consiste la ambigua politica nucleare dello stato sionista.
Uno dei possibili motivi per cui Netanyahu sta contemplando l'idea di allontanarsi da questa linea ufficiale di ambiguità è dato da quello che Shemuel Meir chiama "effetto Trump":
Da un lato, c'è un presidente degli Stati Uniti che ha dato il via libera allo stato sionista per un attacco contro siti nucleari nonostante i servizi segreti degli USA avessero valutato che l'Iran non stava costruendo armi nucleari. Dall'altro lato, però, c'è un uomo instabile e imprevedibile.
Un presidente che ha dichiarato che tutti i siti nucleari erano stati distrutti non offre alcuna certezza sul fatto che accorderà a Netanyahu la possibilità di una seconda guerra preventiva; questo, in contrasto con l'affermazione di Netanyahu per cui lo stato sionista si riserverebbe libertà di azione ogni volta che venissero scoperti segnali (reali o meno) di una ripresa del programma nucleare iraniano.
Ebbene, il Mossad ha appena dichiarato che "l'Iran sta solo aspettando l'occasione per costruire una bomba nucleare. L'Iran vuole cancellare lo stato sionista dalla carta geografica. Troveremo i loro agenti. Ci penseremo noi. Giustizia sarà fatta", ha detto David Barnea, capo uscente del Mossad.
Il cambio di leadership al Mossad potrebbe segnalare intenzionalmente che la questione del nucleare iraniano sarà sul tavolo del vertice di fine anno.
Su questa vitale questione, Netanyahu potrebbe anche valutare se Trump, un tempo una risorsa, non sia ora diventato un grattacapo.
"Se rimane in carica e continua a perseguire con determinazione vantaggi finanziari approfittandosi di quest'aura filosionista ma senza offrire nulla di sostanziale allo stato sionista, non vedo proprio come potranno lasciarlo andare avanti", ipotizza Mizrahi. "Preferirebbero di gran lunga che scomparisse".
Tuttavia, anche il vicepresidente J.D. Vance è ora compromesso. "La delegittimazione sistematica degli ebrei" parte oggi anche dal vicepresidente degli Stati Uniti, scrive Anna Barsky su Ma'ariv: "'Esiste differenza tra antipatia per lo stato sionista e antisemitismo'; ecco cosa ha scritto sui social media il vicepresidente degli Stati Uniti, J. D. Vance", ha scritto la Barsky.
Dal punto di vista dello stato sionista non c'è nulla di più inquietante di questa breve e quasi casuale considerazione. Non perché sia sorprendente, non perché sia palese, ma per ciò che simboleggia: l'adozione aperta, da parte di alti funzionari dell'amministrazione statunitense, di una narrativa ideologica che cerca di separare gli atteggiamenti verso lo stato sionista da quelli verso gli ebrei, e di legittimare una profonda ostilità verso lo Stato ebraico mantenendosi apparentemente irreprensibili sul piano morale.
Forse –parafrasando Anna Barsky– nello stato sionista si stanno adesso rendendo contro che la realtà del Medio Oriente sta cambiando.

09 dicembre 2025

Alastair Crooke - La proposta di pace statunitense per l'Ucraina? Uno specchietto per le allodole... con quattro chiacchiere a Mosca




Traduzione da Strategic Culture, 8 dicembre 2025.

 L'amico del presidente Trump Steve Witkoff, insieme al genero dello stesso Trump Jared Kushner, ha incontrato il 2 dicembre il Presidente Putin al Cremlino a Mosca.
Per la parte russa hanno partecipato all'incontro il consigliere presidenziale Yury Ushakov e Kirill Dmitriev. Si è trattato del sesto incontro di Witkoff con Putin nel 2025: per la prima volta invece Kushner è coinvolto di persona in questi colloqui.
Secondo quanto riferito, il principale argomento all'ordine del giorno era un "aggiornamento" dei punti di discussione proposti dagli Stati Uniti, aggiornamento che avrebbe contemplato ulteriori contributi (non specificati) da parte degli ucraini e degli europei.
Nonostante la riformulazione, i punti di discussione riflettono un'agenda statunitense che in sostanza è cambiata poco rispetto alla già nota lista di Witkoff. Ad esempio, al centro della questione ci sono ancora un cessate il fuoco -anziché su un accordo politico più ampio, come richiesto dalla Russia- e il riconoscimento de facto dei confini anziché il riconoscimento de jure dell'annessione dei quattro oblast, che la Russia considera propri per via costituzionale.
Sembra che siano state discusse anche alcune possibili concessioni ucraine nella regione del Donbass; si sarebbe parlato anche di garanzie di sicurezza per l'Ucraina, che sarebbero coordinate con gli alleati europei; infine, si è toccato l'argomento dei "limiti" alle capacità militari dell'Ucraina, per i quali gira un ridicolo tetto di ottocentomila uomini anziché la cifra approssimativamente stimata a Istanbul nel 2022 di cinquanta o sessantamila.
Secondo quanto riferito, Putin avrebbe concordato sul fatto che alcuni elementi della proposta potrebbero meritare un'ulteriore discussione, ma ha confermato i punti che la Russia considera non negoziabili.
In sintesi sembra che, come ha affermato Marco Rubio, "[gli Stati Uniti continuino] a verificare se i russi sono 'interessati alla pace'. Saranno le loro azioni –non le loro parole, le loro azioni – a determinare se sono seri o meno, e noi [l'entourage di Trump] intendiamo scoprirlo il prima possibile...".
In effetti, Witkoff è stato inviato a Mosca "per verificare ancora una volta" (dopo un altro episodio di escalation da parte statunitense, con quattro missili a lungo raggio ATACM lanciati "in profondità nel territorio russo" e l'imposizione di ulteriori sanzioni sul petrolio) se Putin fosse ora disposto a concludere un "accordo" che Trump potesse presentare come "risultato" statunitense.
Nel caso degli USA, la carota è rappresentata dall'offerta di un graduale allentamento delle sanzioni. A discrezione degli Stati Uniti. Il bastone, appunto, dai missili lanciati in profondità nel territorio russo e dalle ulteriori sanzioni imposte alle compagnie petrolifere russe. Queste sanzioni erano chiaramente intese come un "promemoria" di ciò che potrebbe seguire se Putin non accettasse un "accordo".
Si tratta dello stesso "accordo" offerto alla Russia in precedenza. Ed è qui che sta il problema: Putin non vuole "un accordo". Putin vuole un trattato giuridicamente vincolante, come ha ribadito più volte.
A sottolinere in modo significativo questa richiesta, il fatto che a incontrare Witkoff non ci fosse Lavrov. È stato un modo con cui la Russia ha indicato con chiarezza il fatto che le basi per dei negoziati effettivi non sono ancora state gettate. L'obiettivo di Putin era quello di illustrare, in modo cortese ma fermo, quali sono le posizioni non negoziabili della Russia riguardo alla risoluzione della guerra in Ucraina.
Rispetto a quanto affermato da Putin il 14 giugno 2024 nel suo discorso al personale del Ministero degli Esteri russo non è cambiato niente.
Putin, tuttavia, ha inviato un proprio messaggio alla Casa Bianca.
Parlando ai giornalisti a Bishkek in Kirghizistan il 4 dicembre, Putin ha spiegato come dovrebbero – e devono – essere gestiti i negoziati con gli Stati Uniti. Ha affermato che il ministro degli Esteri Lavrov è responsabile dei contatti e dei negoziati sui possibili termini per porre fine alla guerra in Ucraina, che i resoconti di Lavrov sui colloqui faranno fede e che non si intende portare specifiche proposte a livello di dibattito pubblico.
Ecco qua. Putin intuisce l'imminente cambiamento di posizione degli Stati Uniti e non intende sentire ragioni. I negoziati devono essere condotti solo attraverso canali professionali, in modo traducibile giuridicamente e tramite personale professionale che porti a un trattato, non ad un "accordo". A questo "accordo" Putin è intenzionato a rinunciare esplicitamente. Witkoff e Kushner avevano idea di cercare di ottenere qualche concessione dalla Russia: volevano un cessate il fuoco temporaneo -piuttosto che un accordo vincolante- ed erano pronti a indorare la pillola con un graduale alleggerimento delle sanzioni; perdurare in un buon comportamento avrebbe fruttato alla Russia un incrementale venir meno delle sanzioni. Un po' come quando si addestrano i topi di laboratorio a premere sul pulsante che rilascia un po' di cibo.
Perché gli Stati Uniti tengono così tanto a un cessate il fuoco, piuttosto che concordare un quadro di sicurezza complessivo che preveda una nuova architettura per la sicurezza in l'Europa orientale?
La risposta è che Trump pretende una "vittoria", un risultato che possa essere presentato al pubblico statunitense come un'altra guerra "fermata da Trump". A sentir lui sarebbe l'ottava. Al tempo stesso, la cosa potrebbe essere presentata ai poteri forti come una semplice pausa in un conflitto che riprenderà dopo una tregua, quando gli europei ("garanti della sicurezza") avranno rimesso in piedi l'esercito ucraino. Un esito del genere rappresenterebbe una "vittoria" per i falchi, perché vi si potrebbe imbastire un racconto per cui la ripresa del conflitto intaccherebbe l'economia russa e potrebbe persino portare alla destituzione di Putin.
Un pio desiderio, ovviamente. Ma molte narrazioni occidentali sono pii desideri, piuttosto che pensieri realistici.
Insomma, l'obiettivo generale dei punti di discussione cari agli USA, opachi e ambigui, è quello di mettere Putin alle strette e spingerlo ad abbandonare le posizioni non negoziabili a cominciare dal suo insistere per eliminare le cause profonde del conflitto e non solo i suoi sintomi. Non c'è alcun accenno in questa bozza o in quelle precedenti al riconoscimento di queste cause profonde -che sono l'espansionismo della NATO e il posizionamento di missili- al di là della vaga promessa di un "dialogo [che] sarà condotto tra la Russia e la NATO, con la mediazione degli Stati Uniti, per risolvere tutte le questioni di sicurezza e creare le condizioni per un allentamento della tensione, garantendo così la sicurezza globale e aumentando le opportunità di cooperazione e di sviluppo economico futuro".
La circostanza rivelatrice è rappresentata dalla eloquente assenza di Rubio, che è il Segretario di Stato ufficiale e quindi l'uomo che in circostanze normali negozierebbe un trattato legale e vincolante.
Al suo posto invece troviamo l'amico immobiliare newyorkese di Trump e il suo genero. Nessuno dei due è membro ufficiale dell'amministrazione statunitense; nessuno dei due è incaricato dagli organi ufficiali dello Stato di negoziare per conto degli Stati Uniti.
Quindi, se gli USA decidessero di riprendere le ostilità contro la Russia, sarebbe possibile dire la stessa cosa che fu detta per il "nemmeno un centimetro verso est" ai tempi della riunificazione tedesca: "Scusate, ma dove mai era scritta questa storia del 'nemmeno un centimetro più in là'"?
Witkoff e Kushner? "Ah, erano solo amici di Trump che facevano quattro chiacchiere durante una visita a Mosca"...