Traduzione da Conflicts Forum.
Quello che più salta agli occhi del Medio Oriente di oggi è l'apparente compressione dei tempi. Non molto tempo fa le crisi arrivavano una dopo l'altra, come navi che arrivano a destinazione ad intervalli. Ora invece si ha l'impressione che le crisi arrivino tutte insieme, tutte in una volta. Dal punto di vista storico, di solito, un simile mutamento della situazione annuncia un completo sovvertimento di un dato stato di fatto più che un qualche genere di mutamento parziale nella struttura già esistente.
In Medio Oriente gli stati nazionali, le strutture delle istituzioni, il tessuto della sicurezza si stanno sfaldando, tutti insieme e tutti in una volta. Gli stati nazionali sono in pezzi in Iraq, in Siria, in Libia, nello Yemen e anche in Libano: tutti luoghi in cui uno stato neanche esiste. In Egitto, in Tunisia ed in Algeria lo stato sta traballando. La Turchia è sull'orlo della guerra civile, in Arabia Saudita esiste sul piano interno una crescente situazione conflittuale. Non ci sono soltanto i profughi siriani che si dirigono verso l'Europa: gli aeroporti traboccano di quella borghesia col doppio passaporto così come le spiagge sono piene di indigenti. Sembra che l'idea di emigrare in Germania, se appena appena uno può permetterselo, si sia impadronita dell'immaginazione di intere famiglie e dei giovani, ovunque in Medio Oriente. Tutti insieme e tutti in una volta. A dire il vero l'Iran costituisce un eccezione: un'isola di stabilità, efficiente nell'arte della politica estera. Paradossalmente, questo sembra soltanto inasprire e mettere in una luce ancora peggiore le condizioni della disperazione altrui.
In questo non c'è nulla di strano. Quando lo stato va in pezzi, la società arretra, la violenza e la prevaricazione esplodono, dove mai può andare a battere la testa la gente comune? Di sicuro esistono precisi interessi che rendono facile questo esodo: lo Stato Islamico ne approfitta per liberare i territori che controlla da quanti pensa non assimilerà mai, mentre la Turchia e i suoi protetti credono da tempo che solo creando una toccante crisi umanitaria l'Occidente si deciderà ad intraprendere azioni (militari) in Siria per rovesciare il Presidente Assad. Eppure, l'esodo in corso trascende in qualche modo questi obiettivi specifici. In sostanza la gente non vede la fine della crisi, non vede la fine di una spirale di violenza che si allarga e da cui non c'è difesa e non vede fine al peggioramento dell'economia se non -opinione condivisa da molti- in una guerra regionale di ampia portata. C'è un diffuso senso di disastro imminente.
Anche la Siria è stata ovviamente interessata da quest'ondata migratoria, ma la diffusa convinzione che all'inizio dell'estate circolava per i think tank e che voleva la Siria sull'orlo del collasso -convinzione alimentata anche dal generale pessimismo che prevale nella regione- è stata ancora una volta smentita dai fatti. La Siria rimane salda: sotto il suo controllo resta il 75 o 80% della popolazione. Importanti think tank occidentali che si occupano di sicurezza affermano che il governo controlla tra il 17 ed il 25% del territorio, ma non si tratta di un metro molto significativo perché il paese è in gran parte deserto.
Questa serpeggiante mancanza di fiducia nel futuro del Medio Oriente non riguarda soltanto la Siria, né è limitato ad un determinato settore della sua popolazione, come molti mezzibusti hanno dato ad intendere. Sono passati cinque anni e la gente è stanca della guerra. Anche certi insorti, in particolare quelli di base nel sud della Siria, mostrano segni di stanchezza e di insofferenza. Alcuni fiancheggiatori hanno magari cambiato nome, ma per quello che riguarda il futuro della Siria non vanno più in là della cacciata del Presidente Assad. Anche l'Organizzazione per la Cooperazione Islamica, in cui comandano i paesi del Golfo, a metà settembre ha invocato ancora una volta il rovesciamento del governo, incolpando Assaad per la crisi dei profughi. Questa incapacità di superare le visioni ideologiche rafforza la spaccatura che è alla base del conflitto. Le storie che arrivano a Damasco, da parte di famiglie che sono fuggite da Raqqa e che sono state costrette ad assistere alla mutilazione e alla crocifissione di loro concittadini, non permettono in alcun modo di pensare che si possa anche solo considerare l'idea di arrivare a compromessi con forze jihadiste di questo genere.
A Mosca si capisce bene che questa spirale distruttiva, la disperante mancanza di fiducia che deriva dal non vedere luci all'orizzonte è una mala erba che a fronte di una Al Qaeda e di uno Stato Islamico sempre più forti rappresenta il pericolo di una crisi esistenziale per il Medio Oriente, e anche per la Russia e per l'Europa. A Mosca si teme che prima o poi in Medio Oriente qui o lì il terreno finirà per cedere, e lo Stato Islamico avrà la meglio. Nel caso che questo succedesse, lo Stato Islamico prenderebbe un tale abbrivio che finirebbe col rovesciare i tremolanti resti degli stati nazionali ormai al naufragio. Una minaccia che incombe non solo sul Medio Oriente, ma anche sull'Asia Centrale e sulla stessa Russia. Sorvolare sul fatto che i russi sono consapevoli della situazione e pensare che si tratti di una macchinazione per venire a tu per tu con Obama ed uscire da un isolamento che è una mera supposizione è troppo facile.
A Mosca hanno le idee chiare: la Siria non è tanto l'anello più debole, ma il teatro di maggior importanza strategica, la prima linea, in cui si può e si deve imporre allo Stato Islamico una sconfitta militare che ne segni l'animo. Lavrov ha messo ogni cura nel tradurre in parole il senso di frustrazione dei russi: AmeriKKKa ed Europa vanno in giro a dire che sono consapevoli della natura strategica della minaccia rappresentata dallo Stato Islamico, ma il loro agire concreto non rispecchia affatto una consapevolezza del rischio. Lavrov, prudente come sempre, ha notato:
"Alcuni dei nostri interlocutori, membri della coalizione [contro lo Stato Islamico], dicono che a volte gli arrivano informazioni su dove sono dislocate alcune formazioni dello Stato Islamico e sulla loro posizione: il comandante della coalizione (negli USA) però non dà mai il via libera per un attacco aereo... Un esame di quanto fanno le forze aeree della coalizione fa una strana impressione [a noi russi]: si ha motivo di sospettare che al di là dell'ostentato scopo di combattere lo Stato Islamico, tra gli obiettivi della coalizione ci sia anche qualcosa d'altro. Non voglio trarre alcuna conclusione perché non è chiaro cosa pensino, cosa sappiano o che intenzioni ultime abbiano i comandanti, ma i segnali che arrivano sono di questo genere".
Come l'Iran, anche la Russia pensa che gli USA non abbiano seriamente l'intenzione di sconfiggere lo Stato Islamico. Di conseguenza ha deciso di agire con risolutezza in modo da rafforzare le forze siriane che lo combattono. Lavrov ha spiegato: "Il Presidente siriano è il comandante in capo di quelle che sono probabilmente le migliori forze di terra in lotta contro il terrorismo; gettare questa opportunità e ignorare le capacità dell'esercito siriano come parte in causa e come alleato nella lotta contro lo Stato Islamico significa sacrificare la sicurezza del Medio Oriente intero a qualche capriccioso calcolo geopolitico". Putin sta facendo sul serio, su questo non ci dovrebbero essere dubbi. Ed è chiaro che le iniziative russe sono state pianificate -e limitate- in modo da consentire all'Occidente di unirsi ad esse, nel caso l'Europa e l'AmeriKKKa decidano anch'esse di fare sul serio.
Kerry ha detto che Mosca ha suggerito di far incontrare militari russi e militari statunitensi per discutere della situazione in Siria e sulla allocazione delle forze armate russe nel paese. Kerry ha detto che l'amministrazione stava riflettendo sulla proposta, e che Lavrov aveva presentato questa opportunità come il modo di accordarsi col Pentagono al fine di evitare "incidenti non voluti".
Ora, l'Occidente può prendere parte ad una guerra che porterà indiretto beneficio all'Esercito Arabo Siriano ed alla Repubblica Araba di Siria? L'ambasciatore russo all'ONU Vitaly Churkin ha così riassunto l'ambiguità che domina: il governo ameriKKKano "non vuole che Assad cada. Vuole combattere lo Stato Islamico senza danneggiare il governo siriano. D'altra parte, non vuole neppure che il governo siriano tragga vantaggio dall'impegno statunitense contro lo Stato Islamico".
L'ultima relazione dello International Crisis Group è un esempio della radicata propensione di certe conventicole di Washington a lasciare debole Assad: all'inizio dice che oggi come oggi la situazione in Siria presenta una spirale distruttiva dominata da un crescente radicalismo, da cui né il governo né un'opposizione "moderata" molto indebolita possono trarre alcun vantaggio. Poi però propone di risolvere la situazione inasprendo ulteriormente il conflitto con una escalation guidata dagli Stati Uniti: "Gli USA sono nella miglior posizione per imporre un mutamento dello status quo. Un cambiamento di politica realistico ma incisivo fondato sulla dissuasione, sulla deterrenza o sull'impedire in altro modo al governo di sferrare attacchi aerei nelle aree controllate dall'opposizione potrebbe migliorare le possibilità di arrivare ad una soluzione politica" [il corsivo è di Conflicts Forum]. Questa ambiguità riassume alla perfezione tutti i dubbi di Mosca sulla serietà degli USA sulla sconfitta dello Stato Islamico.
A prima vista, sembrerebbe che della proposta dello ICG Obama condivida almeno qualche cosa. In un discorso tenuto l'undici settembre 2015 a Fort Meade, Obama ha detto "Sembra ora che Assad sia abbastanza preoccupato da invitare in Siria consiglieri militari e materiale russo" [detto altrimenti, questo indebolimento del governo siriano sarebbe una buona cosa, perché ha reso più concreta la prospettiva di una soluzione politica]. Obama poi ha ammonito la Russia: sostenere il Presidente della Repubblica Araba di Siria Bashar al Assad nella sua lotta contro i ribelli è una politica destinata al fallimento, che "potrebbe definitivamente far naufragare qualunque prospettiva per un accordo di pace in Siria". "Ci rivolgeremo direttamente alla Russia; vogliamo che sappiano che non si può continuare ad alzare la posta basandosi su una strategia destinata a fallire", ha detto Obama. "Se vogliono mettersi con noi e con la coalizione di sessanta paesi che abbiamo messo insieme, possiamo arrivare ad un accordo politico che contempli una transizione in cui Assad lascia il potere ed una nuova coalizione di forze moderate, laiche e propense all'inclusione possa riunirsi per ripristinare l'ordine nel paese".
Certo, è chiaro che prima c'è stato qualche abboccamento tra la Casa Bianca e il Presidente Putin circa le iniziative russe. Probabilmente le indiscrezioni sulla nuova strategia dei russi hanno colto la casa Bianca molto meno di sorpresa di quello che dà ad intendere.
Se consideriamo i due paragrafi qui citati, letti da Obama a Fort Meade, è possibile che si sia pensato apposta allo zoccolo duro dei think tank di Washington di cui lo ICG fa parte, e che perorano rumorosamente la causa dell'interventismo. Questo governo sa che non esiste nulla di simile ad una "coalizione di forze moderate, laiche e propense all'inclusione" pronta a prendere in qualche modo in mano la Siria nel caso il governo siriano si sgretolasse. Lo Stato Islamico ed al Qaeda occuperebbero l'area geografica dove un tempo sorgeva la Repubblica Araba di Siria, e questo successo infonderebbe un'elettrizzante energia agli jihadisti di tutto il mondo.
Obama sta destreggiandosi in una situazione politica complicata. Sta aspettando che al Congresso finisca l'iter sull'accordo con l'Iran e per motivi di politica interna non può certo mostrarsi accomodante con il Presidente Putin o con Assad; né può dare l'impressione che Putin sia più furbo degli USA. Circolano anche voci plausibili sul fatto che Petraeus, il generale Allen ed altri, come la Victoria Nuland che sta brigando perché ai russi vengano negati i permessi di sorvolo, stanno cercando di rendere difficile al Presidente cooperare con la Russia. Lavrov stava pensando a questa possibilità, quando ha detto "Non voglio trarre alcuna conclusione perché non è chiaro cosa pensino, cosa sappiano o che intenzioni ultime abbiano i comandanti [della coalizione che combatte lo Stato Islamico] ma i segnali che arrivano sono di questo genere". Negli USA, il comandante è il generale Allen.
Il terzo paragrafo che estraiamo dallo stesso discorso, probabilmente, non è stato pensato come diretto ai think tank di Washington, ma con riferimento a Lavrov e ai suoi pari: il Presidente infatti ha detto anche che "la buona notizia è che la Russia è preoccupata come noi su come contrastare l'estremismo violento, e anche i russi pensano che lo Stato Islamico sia molto pericoloso. Nonostante i contrasti che ci sono tra noi e i russi su questioni come l'Ucraina, in Siria i nostri interessi possono coincidere". Un suggerimento di quello che verrà dopo l'approvazione dell'accordo con l'Iran? Se così fosse, a due frasi messe lì per il fronte interno ne corrisponderebbe una terza, per far sì che Lavrov intenda cosa bolle in pentola.
In realtà ci sono tre variabili sempre più importanti per il futuro del conflitto siriano, che contano più dei mutamenti dell'atteggiamento europeo nei confronti della Siria anche ora che la Germania va dicendo che l'Europa deve allearsi con Assad per sconfiggere lo Stato Islamico, per quanto una cosa del genere sia ben accolta a Mosca.
In primo luogo, c'è l'intervento armato di Mosca. Per quanto limitato possa essere, l'intervento russo è strategico e la sua importanza non è cosa da sottovalutare. Le forze aeree siriane sono già tornate a compiere operazioni su Idlib ed ha portato a segno attacchi che sono andati ad aggiungersi a quelli che la coalizione ha compiuto sul quartier generale dello Stato Islamico a Raqqa. I russi hanno fornito immagini in tempo reale, intercettori Mig 31 che servono ad impedire l'instaurazione di una no-fly zone, software e hardware più sofisticati per l'aeronautica, più altri armamenti. Del mutamento qualitativo che ne è derivato abbiamo già detto.
Poi c'è la Turchia, uno dei principali sostenitori degli jihadisti, che sta entrando in una crisi vera. Con la popolazione curda del paese è scoppiata una guerra a bassa intensità. Anche se questo provocasse un'impennata del sentimento nazionale, tale da far vincere allo AKP di Erdogan le elezioni di novembre con una netta maggioranza dei voti, difficilmente la situazione del paese ne trarrà vantaggio. La Turchia è divisa innnanzitutto dalla guerra contro i curdi, i cui movimenti giovanili non si faranno di certo mettere all'angolo, e poi dalla pretesa di Erdogan che la costituzione venisse di fatto -ma non di diritto- cambiata per farlo accedere ai pieni poteri di una repubblica presidenziale, dal momento che è stato eletto presidente con il voto popolare. Sul piano interno questo ha causato l'apertura di un secondo fronte, stavolta con l'opposizione non curda, il che non significa che la battaglia sarà meno aspra. In terzo luogo c'è la caduta della lira turca, che ha aperto una crisi economica. Sembra probabile che nei prossimi mesi queste crisi concomitanti peggioreranno.
Infine c'è l'Arabia Saudita. Il prezzo del greggio è crollato e le finanze del Regno ne hanno pesantemente risentito. Anche sul piano politico i sauditi hanno fatto il passo più lungo della gamba: sono in guerra nello Yemen, in Siria, in Iraq, in Libano ed in Libia e si sono adoperati anche per assicurare la sopravvivenza del governo di Al Sissi in Egitto. Inoltre a guidare il regno è un giovane, figlio del re, che per quella che è la misura dei Saud si è spinto oltre ogni limite. Non ha cooptato altri rami della famiglia per distribuire il potere senza fare scontento nessuno; ha convinto suo padre a fare carta straccia degli accordi per la successione alla faccia di tutti gli altri, ha messo le mani sulla Aramco [la compagnia petrolifera nazionale] senza permettere al padre di interferire e soprattutto ha scatenato e guidato la guerra nello Yemen senza cercare e tanto meno ottenere l'approvazione dei familiari. Tra i membri della famiglia reale dei Saud giravano tranquillamente carte -adesso rese pubbliche che invocavano la deposizione del re e dei principi ereditari Mohammad e Naif.
Impossibile dire dove sboccherà la tesa situazione della Turchia e dell'Arabia Saudita di oggi; ciascun paese, per ragioni diverse, pare avviato ad una condizione di intrinseca instabilità ed è difficile capire come faranno ad andare avanti di questo passo senza prendere qualche decisione difficile, anche sulla linea da seguire in Siria, non fosse altro perché entrambi sono in sofferenza a causa della situazione finanziaria in rapido peggioramento. L'Arabia Saudita continuerà a profondere denaro nelle sue guerre, o deciderà di continuare a sostenere il modo di vivere dei suoi sudditi, fondato sui sussidi? Non le sarà possibile fare entrambe le cose molto a lungo. Se uno o l'altro di questi attori dovesse abbandonare il teatro siriano, gli interrogativi sul fatto che USA ed Europa vogliano o meno impegnarvisi nel combattere una buona volta lo Stato Islamico rischiano di acquisire un carattere piuttosto accademico.
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