sabato 27 maggio 2017

Firenze: un giorno di maggio n'i'ddegrado e nell'insihurézz... ehm, in un centro commerciale.


Qui sopra c'è una scena da Topolino e la banda dei piombatori, che è è un fumetto del 1938.
Qui sotto c'è una scena da un centro commerciale, che è una realtà del 2017.


venerdì 26 maggio 2017

Alastair Crooke - L'isolato bivio di Donald Trump




Traduzione da Consortium News, 19 maggio 2017.


Fermiamoci un momento, prendiamo un respiro profondo, e riflettiamo. È evidente che la presidenza Trump è a un punto di svolta. Non perché ci siano le prove di qualche malefatta; a tutt'oggi esiste una fiumana di illazioni ma nessuna prova. Anzi, gli eventi hanno concorso ad imporre un cambiamento non perché il presidente potrebbe essere messo in stato d'accusa -cosa poco probabile in considerazione della quantità di prove e di voti al Congresso che sarebbero necessari- ma perché negli ultimi giorni sono venute alla luce la grande ampiezza e la viscerale alacrità con cui si presentano le forze decise ad abbattere il presidente, con qualsiasi mezzo.
Il presidente Trump deve vedersela con i grandi media propensi a scorgere istericamente collusioni con la Russia ovunque, al punto di domandarsi come mai al ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, all'ambasciatore russo e ad un fotografo della stessa nazionalità sia stato consentito accedere allo Studio Ovale, e di compromettere così la "sicurezza" ameriKKKana. Trump deve affrontare una coalizione di clintoniani, repubblicani "della ditta" e neoconservatori, e soprattutto una quinta colonna nei servizi di informazioni che considera ogni tentativo di distensione con la Russia  alla stregua di un tradimento puro e semplice.
Il direttore dello FBI James Comey, rispondendo in sede di comitato giudiziario del Senato ad un'interrogazione del senatore Lindsey Graham, repubblicano del South Carolina che gli chiedeva "che genere di minaccia" la Russia rappresenta "per il processo democratico" (Graham dunque non voleva informazioni sulle potenzialità militari russe, ma sulla minaccia russa nei confronti delle democrazie occidentali), ha detto "Certamente; a mio parere è la minaccia più grave per ogni paese del mondo, date le sue [della Russia] intenzioni e le sue capacità."
si potrebbe concludere con buone ragioni che Trump sarà alla fine sopraffatto da questo macello. Di sicuro il cicaleccio dalla bolla mediatica della costa orientale è soverchiante. Proprio questo costituisce una minaccia essenziale per la presidenza: questo percolare di illazioni che il professor Stephen Cohen ha chiamato "accusa di tradimento."
"Inoltre," ha aggiunto Cohen, "c'è tutta una gamma di affermazioni secondo cui Putin avrebbe aiutato Trump ad arrivare alla Casa Bianca, e secondo cui il personale vicino a Trump avrebbe fatto con i russi cose che non si devono fare... Questo [insieme di illazioni prive di qualunque prova concreta] è arrivato all'incredibile... E secondo noi è diventato una minaccia alla sicurezza nazionale di per sé. "


Un'amministrazione paralizzata

È stato anche nominato un Grande Accusatore. Un osservatore così ha riassunto la cosa: "Ecco come si comportano i grandi accusatori... Essi addobbano il presidente, lo privano di credibilità politica, lo separano dai suoi sostenitori e paralizzano l'amministrazione. Nessun legislatore li porterà a sostegno nel timore di quello che l'accusatore potrebbe scoprire. Tutti cercheranno di ripararsi invece di lavorare con Trump ha qualche cosa di concreto. Nominando un accusatore [il vice procuratore generale Rod] Rosenstein ha stroncato qualsiasi possibilità di lavorare efficacemente. Niente riforma sanitaria. Niente tagli alle tasse niente riforme. Tutto questo mentre aspettiamo i risultati di un'indagine sul nulla in uno scandalo da nulla."
Il frastuono è soverchiante, ma è quasi tutto prodotto dalle elite della costa orientale, che per forza di cose sono quelle che fanno più rumore. I sondaggi possono rilevare che il gradimento di Trump sta crollando, ed è così; ma i sondaggi mostrano anche la crescente polarizzazione tra la base repubblicana e lo establishment della costa orientale: l'81% degli elettori della Clinton è favorevole all'impeachment del presidente, l'83% degli elettori di Trump è fermamente contrario. Allo stesso modo il 91% degli elettori della Clinton "disapprova" Trump, laddove l'86% della sua base invece lo "sostiene". È chiaro che gli "impresentabili" sono rimasti profondamente irritati da questo discorso dell'impeachment.
Il punto di svolta è proprio questo. La base che sostiene Trump ha identificato senza mezzi termini come stanno le cose e l'argomento è ampiamente illustrato sui siti della nuova destra e della destra alternativa. L'accanimento non riguarda la ricerca di "prove" probabilmente inesistenti: quello della "intromissione russa" è un tema insistito che è emerso innanzitutto da messaggi di posta elettronica sottratti al Comitato Nazionale Democratico da quello che venne all'inizio additato come uno hacking russo effettuato tramite una società privata, la Crowd Strike, piuttosto che da una fuga di notizie vera e propria ad opera di Seth Rich, che sarebbe stato poi assassinato. Le prove di tutto questo sono adesso contestate dagli esperti. Poi c'è il contributo dello screditato "dossier sporco" dell'ex spia britannica Christopher Steele, e quello delle intercettazioni degli assistenti di Trump, che a tutt'oggi non hanno evidenziato prove di collusioni elettorali.
Piuttosto è la pioggia di illazioni -secondo quanto sostiene la base di Trump- che dovrebbe affossare il gradimento del Presidente presso i suoi sostenitori al punto che anche i deputati repubblicani al Congresso finiranno per abbandonarlo e per unirsi al "movimento" che intende deporlo, grazie a questo o a quel meccanismo stabilito dalla costituzione statunitense.
Difficile serva allo scopo intralciare la giustizia. Jonathan Turley insegna diritto alla George Washington University e ha detto che il memoriale dell'ex direttore dell'FBI James Comeys non presenta "alcuna prova per mettere in stato d'accusa" Trump. Turley ha detto:
Anzi, esso solleva interrogativi sul comportamento sotto traccia di Coney, almeno quanti ne solleva su quello di Trump. Potremmo cominciare con le leggi federali, in particolare l'articolo 1503 del diciottesimo titolo del codice, che richiede più di quello che Comey avrebbe scritto nel proprio memoriale. Ci sono decine di diverse fattispecie  nel caso dell'intralcio alla giustizia, si va dalle minacce ai testimoni alle pressioni sui giurati. Qui non c'è nulla di tutto questo, e si esula dalla norma generale sui tentativi di intralcio all'obbligatorietà dell'azione giuridica.
Inoltre, resta l'onere di dimostrare che l'intento era quello di esercitare influenza tramite la corruzione, e Trump potrebbe dire che ha fatto poco altro che non esprimere preoccupazione per un antico sodale. L'espressione "tramite la corruzione" in realtà ha definizioni diverse a seconda delle varie norme sull'intralcio, ma spesso implica dimostrare che qualcuno ha agito "con l'intento di assicurare un illecito beneficio a se stesso o ad altri". Esortare alla clemenza o difendere qualcuno con cui si è in rapporti è improprio, ma non significa per forza procacciare un illecito beneficio.
Quello che questo punto di svolta reclama, affermano i sostenitori di Trump, è insistere affinché lo FBI chiuda velocemente le indagini, e che si proceda al contrattacco contro gli istigatori di quei gruppi di potere, quali che siano, e contro le loro talpe, "insorti che operano all'interno del sistema per cacciare Trump dalla presidenza" e che stanno agevolando la fuga di notizie verso i mass media.
Siamo ad un bivio. Trump deve fermare questo cicaleccio, o vedere il suo mandato presidenziale finire in polvere. La diffamazione politica può rivelarsi un'arma a doppio taglio, ed Hillary Clinton non era certo un modello di virtù.


Un traguardo sfuggente

In questo senso, a Trump adesso serve più che mai una politica che punti ai risultati. Un successo legislativo sul piano interna, secondo ogni evidenza, non è alla sua portata, ma le convulsioni della politica di Washington possono spronare una Wall Street supina e sonnolenta a riprendere in considerazione qualche rischio -il VIX, un indice della volatilità, ha toccato il minimo- soprattutto adesso che gli operatori stanno avvertendo i propri clienti che "non si aspettino di [essere] salvati dalla FED, questa volta." INsomma, il piano di reflazione di Trump sembra ancora di là da venire, e ci vorrà parecchio tempo sempre che per quest'anno se ne faccia qualcosa.
In una situazione del genere la politica estera può acquistare la priorità. Abbiamo già notato che il processo di pace di Astana ha visto una Casa Bianca più propensa, rispetto ai tempi di Obama, a collaborare con la Russia, la Turchia e l'Iran perché si arrivi ad un qualche accordo in Siria. La "sconfitta" dello Stato Islamico a Raqqa e a Mossul potrebbe costituire un successo trionfale, tale da galvanizzare la base di Trump.
Trump è stato coraggioso, dal punto di vista politico, ad invitare Lavrov nell'Ufficio Ovale proprio quando la ridda di voci sulla collusione con la Russia stava raggiungendo il massimo. Pare che la Russia ed i suoi alleati siano pronti a concedere a Trump la conquista di Raqqa: il Ministro degli Esteri siriano lo ha concretamente ammesso. In cambio, la Casa Bianca ha messo alla prova Russia ed Iran.
La retorica ostile di Washington contro l'Iran dopo Astana si è fatta notare per la propria assenza ed è stata rinnovata la rinuncia alle sanzioni secondarie secondo quanto prescritto dall'accordo sul nucleare. Pare che Trump abbia capito che i generali James Mattis (Segretario alla Difesa) e H.R. McMaster (Consigliere per la Sicurezza Nazionale) avessero l'intenzione di trascinare la presidenza in una serie di conflitti impossibili da vincere. Almeno questo sembra il messaggio di Astana, occasione che ha messo le leve della situazione decisamente in mano ai due negoziatori, il Ministro degli Esteri russo Lavrov ed il Segretario di Stato Rex Tillerson.
Il fatto è che il massacro del Presidente e del processo politico di Astana pare destinato a continuare. Si ricorderà che Obama, che era ancor più dubbioso di Trump, non ha mai pienamente appoggiato le maratone negoziali dell'allora Segretario di Stato John Kerry e del Ministro degli Esteri Lavrov, e si è visto sabotare ogni sforzo dallo stesso Pentagono (l'incidente a Deir ez Zor in cui sono morti sessantotto soldati dell'Esercito Arabo Siriano che stavano difendendo la loro base assediata dai miliziani dello Stato Islamico) e dal plateale errore commesso dal Segretario alla Difesa Ashton Carter sulla condivisione con i russi delle informazioni sullo Stato Islamico e su Al Qaeda.
I segnali di quest'opera di sabotaggio sono già evidenti. Il dubbio annuncio fatto dall'assistente del Segretario di Stato ad interim Stuart Jones sulla scoperta da parte degli USA di prove dell'esistenza di un crematorio in un carcere siriano, destinato a cremare i resti di prigionieri vittime di esecuzioni di massa, è arrivato proprio alla vigilia di una tornata di colloqui sulla Siria a Ginevra. Due giorni dopo Jones si è dimesso dal Dipartimento di Stato, ed un collega ha notato che anche se Jones andava in pensione in anticipo per motivi personali, il suo era un altro caso di "funzionario governativo di rango elevato e dotato di vere competenze che abbandonava il posto". Oppure, in altri termini, un altro dissidente anti Trump che abbandonava la nave.
Anche Anne Barnard del New York Times ha notato che la tempistica di queste affermazioni sul conto del crematorio sembrava "politica". Certo, una tempistica politica, ma contro i russi o contro Trump? Esistono anche resoconti che affermano che un contingente di forze speciali statunitensi e britanniche sta agendo nella Siria meridionale per impedire qualsiasi avanzata dell'Esercito Arabo Siriano e di Hezbollah tesa a riprendere il controllo della frontiera con l'Iraq. Il 18 maggio un raid aereo guidato dagli statunitensi ha colpito forze armate siriane giudicate troppo vicine alla base anglostatunitense.
Insomma, il Presidente Trump dovvrebbe fare attenzione. Mettere in piedi un accordo di pace richiede grossi sforzi, ma buttare tutto all'aria è affare di un momento. Ed il Ministro della Difesa saudita, principe Mohammed Bin Salman, dovrebbe notare che in questo momento Trump potrebbe avere più interesse a sconfiggere lo Stato Islamico piuttosto che sopportare un'altra lezione dei sauditi sulle malefatte dell'Iran. Comunque, Trump sarà felice di ricevere il malloppo con cui i sauditi paiono intenzionati a fargli la doccia. Si parla di trecento, quattrocento miliardi di acquisti di armamenti. "Mica male," direbbe Donald.

lunedì 22 maggio 2017

Markos Troulis - Il Caucaso nel dopo Guerra Fredda: da sede di repubbliche sovietiche a preziosa zona cuscinetto



Traduzione da Central Asia and the Caucasus, volume 18 numero 1, 2017

Nel dopo Guerra Fredda il Caucaso ha attirato l'interesse delle potenze vicine per la sua importanza sul piano geopolitico e geoeconomico oltre che per i profondi legami che esse intrattengono con i popoli della regione. L'articolo illustra dal punto di vista storico gli obiettivi regionali di Russia e Turchia, il modo in cui sono stati perseguiti negli ultimi venticinque anni e il dibattito esistente dietro l'uso delle narrazioni storiche come strumento di potere morbido.
Sia Mosca che Ankara hanno sentito il bisogno di conferire legittimità alla loro presenza nel Caucaso meridionale, regione in cui dopo la Guerra Fredda sono nati tre nuovi paesi indipendenti. Dal canto suo, fin dal 1994 Mosca ha considerato le ex repubbliche sovietiche come "estero vicino", protetto dal proprio ombrello nucleare. La Turchia invece non ha mai cessato di rappresentare una presenza nella regione, sotto i paludamenti rappresentati dagli strumenti del potere morbido. Questi strumenti si fondano sullo sfruttamento dell'identità turca o di quella islamica e delle relative relazioni, che vengono coltivate con impegno sia dalla stessa Ankara che da varie organizzazioni non governative come quella di Fetullah Gulen, impegnata in questo campo fino a poco tempo fa. Lo scopo di costrutti ideologici di questo genere è quello di rafforzare l'influenza dell'Islam e quella della Turchia in paesi alle prese con la ricerca di un'identità postsovietica, libera dal protettorato di Mosca.
Si considerano qui la correlazione e l'intreccio tra potere morbido e potere rigido; in vari livelli, nel contesto delle narrative storiche di lungo termine e del desiderio dei due attori di affermare il proprio ruolo geopolitico, emergono evidenze di vario genere. Gli sforzi della Russia e della Turchia sono sfociati in una battaglia ideologica, che ha al centro la questione dei legami storici di ciascun contendente con gli stati di nuova fondazione.
Per questo motivo la parte sostanziale della ricerca è costituita da un esame delle strategie di massima seguite da Russia e Turchia nel Caucaso meridionale, e se esse siano state -e come- influenzate dalla narrazione storica. In questo senso, si cerca anche di considerare in che modo la retorica dei due paesi sia diventata uno strumento a servizio del potere, o, per dirla altrimenti, in che modo essa sia diventata parte dei loro strumenti strategici. L'autore ha per questo applicato un'analisi teorica multilivello alla situazione della regione, e cerca di mettere in luce i tipi rilevanti di narrazione storica e gli obiettivi strategici dei due paesi.  


Introduzione

Questo lavoro cerca di identificare e di analizzare il significato di fenomeni importanti, in grado di rafforzare o di indebolire le strategie di massima di Russia e Turchia in Asia Centrale e nel Caucaso del sud. L'analisi si fonda sulla ricerca bibliografica, con particolare riguardo alle tracce reperibili di linee politiche storicamente documentate, e sulla comparazione di dati nel bilancio del potere rigido dei due paesi e nella disamina delle minacce reciproche. I rapporti fra causa ed effetto vengono presentati secondo il metodo del process tracing[1], consentendo di trarre conclusioni in merito ai legami fra le strategie odierne e gli analoghi trascorsi del passato. Il processo viene agevolato mettendo in luce il ruolo storico degli attori principali, il loro tradizionale posizionamento geopolitico e il modo in cui esso si collega alle tattiche del presente. In altre parole, la storia servirà da guida per un'analisi, basata sui dati di fatto delle relazioni internazionali e della strategia teorica, il cui intento è quello di arrivare a conclusioni specifiche sulle iniziative delle grandi potenze e i dilemmi per la sicurezza dei piccoli stati. Inoltre, il complesso della ricerca sul Caucaso e sull'Asia Centrale del dopo Guerra Fredda rende lo scritto uno studio di caso fondato su una grossa mole di dati, dal momento che la pronta disponibilità di fonti primarie e secondarie è fondamentale per analizzare i rapporti di causa ed effetto.
A questo scopo l'A. cerca innanzitutto di rispondere all'interrogiativo di come le strategie di massima dell'epoca contemporanea originino nuove versioni delle narrazioni del passato. L'altro interrogativo, strettamente connesso al primo, riguarda il modo in cui la storia influenza le attuali strategie in considerazione degli obiettivi strategici che Russia e Turchia hanno avuto nel passato, ovvero l'impegno russo per arrivare ai mari caldi e il suo arginamento da parte turca.
A questo punto sarebbe il caso di domandarsi in che modo e fino a che punto una riedizione di una narrazione storica sia in grado di legittimare decisioni strategiche nell'epoca contemporanea, quanto sia importante una narrazione storica per affrontare i problemi interni di un determinato paese, come l'intraprendere una revisione di una narrazione storica possa dipendere dalle opportunità sistemiche a disposizione, e infine in quali circostanze l'adottare una versione rivista di una narrazione storica si sviluppa fino ad acquisire concretezza politica oggettiva e ad essere integrata in una strategia corrispondente.
In questa sede non tutti questi interrogativi ricevono una risposta esauriente. L'analisi è macrostorica e si concentra sulle tendenze complessive del comportamento strategico a causa della soggiacente impossibilità di predire con esattezza il comportamento umano e della limitata utilità che possiede l'analisi di eventi specifici, al contrario dell'analisi delle tendenze generali nello sviluppo di una situazione politica. All'interno della concezione positivista della scienza si assume che il comportamento umano non si presti a misurazioni quantitative e anche se una descrizione in termini generali di un comportamento aiuta a comprenderlo e a considerare concettualmente i rapporti entro un sistema di governo e tra sistemi di governo, la componente comportamentale non può essere oggetto di somma meccanica con le altre componenti del potere e con gli elementi del comportamento strategico fino ad arrivare ad essere espressa in termini matematici secondo i criteri della metodologia e dell'epistemologia.
A questo punto occorrono alcuni richiami all'importanza storica del Caucaso, situato al centro di tensioni e conflitti irriducibili nel mezzo dell'Eurasia. Zibignew Brzezinski ha chiamato questo supercontinente "la grande scacchiera"[2]; Sir Halford Mackinder ha invece riassunto in questi termini la sua importanza: "Chi controlla l'Europa Orientale controlla lo Heartland, il cuore continentale. Chi controlla il cuore continentale controlla l'Isola-Mondo [l'Eurasia e l'Africa, N.d.A.] chi controlla l'Isola-Mondo, controlla il mondo intero."[3] Affermazioni di questo genere enfatizzano l'importanza geopolitica del Caucaso e l'apparente ruolo dei paesi di questa regione. Di qui l'oggettiva importanza del Caucaso nel tempo e nello spazio.[4]
Il Caucaso è molto importante dal punto di vista geopolitico e geoeconomico, essenzialmente a causa degli enormi giacimenti di petrolio e di gas del Caspio, e per l'importanza potenziale o concreta che Azerbaigian, Armenia e Georgia hanno come paesi di passaggio.
Un altra constatazione riguarda la dissoluzione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la fine del sistema bipolare, che costituiscono un esempio estremamente pregnante di riequilibrio di potere su vasta scala e di grandi mutamenti di livello sistemico. Da una parte questo fattore è strettamente collegato all'affermarsi di aspirazioni egemoniche da parte di vari organismi della politica internazionale interessati ad espandere il proprio potere e la propria sfera di influenza. Dall'altra, a causa di questo fattore, il comportamento strategico della Turchia merita una considerazione approfondita. Dal 1991 in avanti la sua strategia si è ovviamente adeguata alle nuove opportunità a livello di sistema appena accennate. Oltre a questo, segmenti differenti della catena di analisi delle relazioni tra cause ed effetti indicano un'ampia dispersione di valori all'interno del contesto considerato: il comportamento dei vari enti nel periodo studiato varia in modo molto ampio. Pochi mesi prima del crollo dell'Unione Sovietica la Turchia aveva evitato qualsiasi contatto diplomatico di qualunque genere con le distinte repubbliche dell'U.R.S.S.. Quando nel 1990 fu posta a Turgut Özal una domanda sull'instabilità dell'Azerbaigian sovietico, Özal rispose che si trattava di un problema interno dell'Unione Sovietica e che la Turchia "si occupava soltanto dei propri problemi interni."[5]
Dopo il golpe contro Mikhail Gorbaciov, invece, la Turchia è stata il primo paese a riconoscere i nuovi stati, fondando al tempo stesso istituzioni internazionali e affermandosi come mediatore tra repubbliche dell'ex U.R.S.S. e resto del mondo.
Per ultimo ma non ultimo, il contesto ed il retroterra di questo studio coincidono in buona misura con acuti problemi politici della nostra epoca. Il sussistere della stesssa struttura sostanziale, il permanere di un equilibrio di poteri nella regione ed i simili interessi vitali delle entità coinvolte, con particolare riguardo alla produzione e al trasporto degli idrocarburi, fanno sì che gli interessi politici e strategici delle parti in causa rimangano invariati. Inoltre sia la Russia che la Turchia devono affrontare problemi e conflitti interni, ed una retorica fondata sulla forza e sulla potenza può aiutare entrambi i paesi ad uscire dai vicoli ciechi delle loro questioni interne.


La transizione strategica

La situazione su descritta illustra l'importanza di un'analisi dello stato delle cose nel Caucaso, della transizione degli stati caucasici dall'assetto sovietico all'occidentalizzazione e degli interessi mutevoli delle vicine Russia e Turchia. Nell'epoca del dopo Guerra Fredda il Caucaso meridionale è diventato una zona cuscinetto molto importante. La fine delle repubbliche sovietiche è stata seguita da un periodo di instabilità e dalle pretese di potenze vicine come la Russia e la Turchia.  
Nel caso del Caucaso meridionale è importante il fatto che dpo la Guerra Fredda si è verificato un passaggio dal predominio moscovita ad una nuova realtà fatta di autodeterminazione e di indipendenza. La massa continentale del Caucaso ha cessato di essere considerata in termini di "repubbliche" controllate da Mosca perché questo assetto è stato sostituito dagli stati indipendenti di Georgia, Armenia ed Azerbaigian. 
Almeno nei primi tempi si trattava di stati estremamente deboli e che ambìvano integrarsi nella comunità internazionale, pressoché pronti a qualsiasi accordo di compromesso. Una situazione che costituì la base, il punto di partenza affinché la Turchia si intromettesse con maggior decisione e perché la Russia tornasse invece ad interessarsi, per mantenere la posizione strategica che aveva ai tempi dell'Unione Sovietica. La Turchia sentì da parte sua l'opportunità strategica, l'occasione per espandere la propria influenza in una regione che considerava affine per motivi storici, ed in alcuni casi anche per motivi religiosi o etnici. Inoltre, in una prospettiva più ampia, il Caucaso poteva rappresentare un ponte verso l'Asia Centrale, in cui un'altra transizione sistemica stava avendo luogo nello stesso momento. Dalla sua, la Russia poteva vantare una presenza di lunga data nella regione del Caspio.
I problemi legati alla pressione strategica di Mosca sul Mar Nero, le risorse energetiche del Caspio, la vicinanza geografica del Mediterraneo e la presenza di attori influenti come l'Iran, la particolare posizione degli stati del Caucaso che si trovano al crocevia tra Islam e cristianità, costituiscono ulteriori dimostrazioni dell'importanzxa che il Caucaso ha non solo per il ruolo guida di Russia e Turchia, ma anche per la stabilità di una più ampia regione. Il ruolo del Caucaso meridionale, il fatto che venga riconosciuto come una regione di primaria importanza geoeconomica e il suo status di asse geografico, nel contesto dell'intenzione di esercitare un controllo strategico sufficiente, si sono riflessi anche nelle priorità globali e regionali degli Stati Uniti.
Nel quadro delle strategie complessive di Russia e Turchia il Caucaso del sud rientra nella definizione di zona cuscinetto o di vuoto di potere data da Martin Wight, quella di una zona "occupata da una o più potenze più deboli, compresa fra due o più potenze più forti"[6]. In questo senso nel Caucaso meridionale del dopo Guerra Fredda si è instaurato un particolare equilibrio di poteri fra attori internazionali e regionali e sicuramente fra Russia e Turchia, che nella regione sono coinvolte direttamente. Di conseguenza la definizione di Wight ne è risultata estesa, così da riflettere il ruolo potenziale di questi paesi più deboli, definendoli "manipolatori", "neutrali" o "satelliti" a forte probabilità di divenire dei protettorati. Destino di questi paesi è dunque quello di adottare e di seguire una politica estera passiva, completamente dipendente dagli esiti della competizione fra potenze più forti. In termini pragmatici questo equilibrio di poteri significava che un predominio potenziale dell'una o dell'altra potenza sarebbe stato quasi inconcepibile, a meno di un prezzo esorbitante. Con questo, non è che le potenze interessate avrebbero trascurato di sftuttare l'occasione.
Wight specifica nel dettaglio la sua definizione sottolineando il fatto che nel caso di una zona cuscinetto in cui si viene a creare un vuoto di potere "Ciascuna potenza forte avrà in genere come interesse vitale impedire che l'altra prenda il controllo, e peseguirà questo interesse in uno di questi due modi, a seconda della propria forza. Cercherà di mantenere neutrale e indipendente la zona cuscinetto, oppure di prenderne il controllo, cosa che nel lungo termine può sfociare nell'annessione della zona cuscinetto e nella sua trasformazione in provincia di frontiera. Gli stati cuscinetto si possono dunque suddividere grosso modo in 'manipolatori', 'neutrali' e 'satelliti'. I manipolatori sono paesi dalla politica estera prudentemente orientata a mettere i loro potenti vicini l'uno contro l'altro; il delimitatore europeo più celebre è stato il Ducato di Savoia, che è riuscito a diventare prima un regno, e poi ad egemonizzare una penisola italiana unificata... Neutrali sono gli stati che non perseguono attivamente alcuna politica estera. La loro speranza è quella di mantenere un profilo basso e di evitare di attirare l'attenzione. I satelliti sono stati la cui politica estera è controllata da un'altra potenza. Se lo stato più debole ne ha formalmente concesso per trattato il controllo, cedendo a tutti gli effetti pratici e giuridici parte della propria sovranità, viene definito protettorato."[7]
Trattare il Caucaso come una zona cuscinetto porta alla questione degli interessi, delle pretese, degli scopi e degli obiettivi di Russia e Turchia. Fin dal 1994 Mosca ha dichiarato che lo stato delle ex repubbliche sovietiche è quella di "estero vicino" (blizhneye zarubezhye), sotto la protezione del suo "ombrello nucleare." La Russia considera l'equilibrio di poteri nell'area post sovietica vitale per la propria sopravvivenza e per il proprio ruolo di protagonista del sistema internazionale. Senza una solida possibilità di proiettare potere ed influenza nel Caucaso meridionale, in Asia centrale, in Bielorussia e in Ucraina -se teniamo presente che i paesi baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia) hanno già preso le distanze dal proprio passato sovietico, la Federazione Russa retrocederebbe alle condizioni di media potenza.
Dopo la fine dell'U.R.S.S. in Russia si affermarono due scuole di pensiero sulla linea da seguire per il futuro.[8]
- La prima favoriva l'orientamento filoatlantico del paese e l'adozione di pratiche di governo occidentali. Era la linea di pensiero sostenuta dalle élite europeizzate e dedite alla concezione occidentale della legge e ai principi generali dell'economia di mercato. Queste élite, spesso intendendo la Russia come un paese europeo (occidentale), erano favorevoli all'integrazione di Mosaca nelle  principali istituzioni ed organizzazioni internazionali.
- La seconda indicava il futuro della Russia nel mantenimento del suo predominio nell'ex spazio geografico sovietico, ed era definita eurasianismo.
In buona sostanza l'euroasianismo fa capo a quattro obiettivi strategici interconnessi:
1) Sottolineare l'identità "fisica" della Russia come paese che ha frontiere ed interessi sia in Europa che in Asia;
2) giustificare la necessità di portare avanti una politica estera equilibrata, che non privilegi i rapporti con l'Occidente a scapito della dimensione orientale;
3) interpretare la natura multiculturale e multietnica dell'identità "euroasiatica" della Russia, per sostenere il diritto di cittadinanza del paese presso organizzazioni internazionali di vario tipo, come l'Organizzazione della Conferenza Islamica;
4) infine, soprattutto, fornire base razionale al diritto della Russia di essere una grande potenza (velikaya derzhava), con relativo ruolo geopolitico negli affari mondiali e regionali.[9]
All'interno della macchina statale russa questo conflitto tra élite è culminato in una sorta di convergenza delle posizioni: le élite in contrasto hanno concordato un concetto comune di cosa siano gli interessi nazionali della Russia e di quali debbano essere gli obiettivi della sua politica. Nonostante le divergenze tra le élite, la macchina statale funziona ancora senza contrasti perché tutte le parti coinvolte concordano nel considerare prioritario il mantenimento dello status di grande potenza. Quindi, anche se al governo di Eltsin hanno preso parte al tempo stesso esponenti delle due diverse scuole di pensiero, la strategia generale della Russia è stata messa in pratica senza soste e senza mutamenti di rotta. Abbastanza considerevole è il fatto che nientemeno che Andrei Kozyrev, il ministro degli esteri filoatlantico dell'inizio degli anni '90, durante il vertice di Stoccolma della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) abbia parlato in favore della fondazione della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e per primo abbia usato l'espressione "estero vicino."[10] La posizione privilegiata della Russia nel Caucaso non venne messa in dubbio e i vertici della politica russa hanno sempre considerato la regione come cosa propria.
Anche in Turchia ci sono stati due diverse concezioni del come affermare il ruolo del paese nello spazio post sovietico.[11] Alcuni osservatori consideravano imperativo strategico per la Turchia instaurare rapporti stretti con i paesi post sovietici per costruire un'alternativa al suo orientamento filooccidentale.[12] Consideravano la regione, che dal punto di vista politico era appena nata, come uno scudo per la Turchia in caso di pressioni occidentali oltre che come un'affidabile e preziosa alternativa nel caso gli interessi nazionali turchi non fossero più stati garantiti dall'identificazione del paese con il campo occidentale. In un caso del genere, anche mutando orientamento, il ruolo e l'importanza del paese sarebbero usciti rafforzati dal suo ingresso nel sottosistema del Caucaso. Altri osservatori invece consideravano la redistribuzione dei poteri nel dopo Guerra Fredda come l'opportunità di compiere scelte strategiche ulteriori e non mutualmente esclusive. La Turchia avrebbe potuto diventare ago della bilancia tra Est ed Ovest, e proprio questo ruolo avrebbe potuto incrementare il suo peso strategico agli occhi dei suoi alleati occidentali -primi fra tutti gli USA- e al tempo stesso tirare la volata ai suoi sforzi di entrare nell'Unione Europea. Paul Henze ha fatto riferimento alle opportunità che si aprivano per la Turchia nel "vasto" spazio post sovietico definendole non "contraddittorie o in competizione", ma "complementari".[13] Le potenzialità della Turchia, al pari della sua identità, della sua storia e della qualità del suo orientamento religioso avrebbero prontamente consentito un orientamento strategico duplice.


Iniziative e retaggi storici nel dopo transizione

Come già evidenziato, nel 1994 Mosca ripose finalmente agli ambiziosi intenti della Turchia nel Caucaso prendendo posizione nell'àmbito del potere forte, proclamando la dottrina dell'"estero vicino" e dichiarando l'esistenza di un "ombrello nucleare." La Turchia non lasciò comunque la regione e ricorse agli strumenti del potere morbido. Si trattava di strumenti il cui fondamento si identifica con la comune appartenenza alla mondo turco e a quello islamico. Il rafforzamento di questi concetti fu curato direttamente da Ankara o dalle organizzazioni non governative, come la rete diFethullah Gülen. Gli sforzi di Fethullah Gülen si concentravano su campagne ed istituzioni educative. Durante il rifiorire delle relazioni tra Turchia ed Azerbaijan nel corso degli anni 90, per esempio, all'unica scuola e alle due università dell'Istituto di Ricerca per il Mondo Turco dell'Azerbaijan undici altre scuole ed un'altra università si aggiunsero ad opera della comunità di Fethullah Gülen.[14] l'orientamento concettuale ed ideologico di Fethullah Gülen era fatto in modo da rafforzare l'influenza turco-islamica in paesi bramosi di costruire una autoidentificazione post sovietica lontano dalla tutela di Mosca. Inoltre era fondamentale interesse della Turchia tenere la Russia quanto più lontano possibile dal Caucaso. Alla base di questo intendimento non c'erano soltanto le nuove opportunità del dopo Guerra Fredda, ma anche le preoccupazioni della Turchia per la propria stessa sopravvivenza.
Durante i trascorsi decenni della Guerra Fredda il Caucaso era una provincia di frontiera della Russia, e questo le consentiva di mettere in discussione la condizione delle province turche di Kars e di Ardahan, e quella dello stesso Bosforo. Nel dopo Guerra Fredda l'integrità territoriale della Turchia non è mai stata messa in discussione. Il mutamento negli equilibri di potere nella regione che fu una delle conseguenze del crollo dell'Unione Sovietica portò comunque dei cambiamenti negli interessi e nelle priorità della Turchia e di conseguenza anche nelle iniziative del paese. La strategia russa del 1994, basata sulla deterrenza strategica, non è stata sufficiente a tenere la Turchia lontana da un Caucaso che veniva considerato "mondo turco" e compreso nell'ottica del panturchismo. Dopo aver iniziato a tenere "vertici del mondo turco", la Turchia ha cercato di inserire la regione sotto la propria egida di potenza regionale egemone. I vertici del mondo turco non sono diventati una organizzazione internazionale ufficiale fino all'ottobre del 2009, quando la Turchia il Kazakhstan, il Kirghizstan e l'Azerbaijan hanno fondato il "consiglio del mondo turco" (Türk Kenesi), o Consiglio di Cooperazione tra Stati Turcofoni (Türk Dili Konusan Ülkeler Isbirligi Konseyi)
Turgut Özal è stato il primo ad avere l'idea di un simile schema di cooperazione ed ospitò il primo vertice ad Ankara nel 1992. Il suo successore Süleyman Demirel ha proseguito sulla stessa linea prendendo parte al vertice importante nel 1994, nel 1995, nel 1996. Il successivo presidente turco Ahmet Necdet Sezer ha a sua volta partecipato al vertice del 2001.[15] L'importanza di questi vertici tuttavia declinava costantemente. In una dichiarazione rivelatrice, Recep Tayyip Erdogan ha detto: "Gli abitanti di questo da specifica regione non possono permettersi il lusso di star seduti a guardare quello che succede nel mondo... O saremo noi a fare la politica mondiale, o la subiremo... Un Commonwealth turco ci permetterebbe di avere un ruolo più attivo ed efficiente nelle sedi internazionali, di proteggere gli interessi della nostra gente e di contribuire alla pace e alla stabilità nella nostra regione."[16] 
nel 1992 inoltre la Turchia ha fondato l'Agenzia Turca per il Coordinamento e la Cooperazione (Türk Isbirligi ve Koordinasyon Ajansi—TIKA). La TIKA è un'emanazione del ministero degli affari esteri turco e si occupa di cooperazione nel settore educativo, in quello dell'intercultura e in quello tecnico svolgendo opera di mediazione tra finanziatori privati e burocrazia statale. In sostanza, la TIKA è servita a creare collegamenti tra l'identità nazionale degli stati di recente formazione e l'identità della "madre Turchia". In quest'ottica sono state prese varie iniziative, come l'abolizione dell'alfabeto cirillico e l'adozione dell'alfabeto latino nel giugno del 1992.[17] un anno prima, nel 1991, la Turchia e l'Unione Sovietica avevano ratificato un Trattato di Amicizia e di Coopeazione che "diventò il modello per accordi simili con le repubbliche dell'Asia centrale dell'ex Unione Sovietica."[18] questi trattati ratificavano una pratica in linea con la decisione di portare al massimo la presenza economica turca all'interno del territorio post sovietico. La presenza turca nella regione era consolidata con investimenti nel settore bancario e in quello delle costruzioni, e incrementata tramite la sua espansione negli ambiti della cultura e dell'educazione. Nel caso dell'Azerbaijan per esempio "oltre all'influenza della stampa e dei libri in turco," i programmi televisivi e radiofonici cominciarono a diffondere quelli turchi dopo l'indipendenza del paese "su una scala che aveva iniziato ad influenzare anche la lingua azera corrente."[19] Le università turche hanno proseguito senza soluzione di continuità a garantire internati a studenti dall'ex Unione Sovietica e a donare attrezzature alle nuove repubbliche.
La stessa considerazione sulla promozione delle affinità culturali ha guidato la creazione, nel 1994, della Organizzazione Internazionale per la Cultura Turca (TURKSOY), il cui obiettivo è quello di rafforzare su diversi piani i rapporti con le ex repubbliche sovietiche. L'organizzazione cura a livello istituzionale regolari incontri fra ministri della cultura di questi paesi, finalizzati ad un'ulteriore integrazione nel campo culturale ed educativo.[20]
lo scopo di questa integrazione era quello di facilitare l'emancipazione dei paesi del Caucaso dal controllo di Mosca e dall'influenza dell'identità nazionale russa, rafforzate invece dalla presenza, nel territorio di questi paesi, di una significativa quota di popolazione russa.
Nel 1990, un anno prima che gli stati del Caucaso dichiarassero indipendenza, il 6% della popolazione dell'Azerbaijan era di origine russa.[21] Al contrario di quella che era la situazione negli Stati dell'Asia centrale, si trattava di una percentuale gestibile e che non avrebbe causato grosse preoccupazioni, ma che era comunque notevole. In Kazakhstan la minoranza russa rappresentava il 38% della popolazione totale, in Kirghizstan il 22%, in Turkmenistan il 10%, in Uzbekistan ed in Tagikistan l'8% in ciascun paese.[22]
Da parte sua, la Russia ha ribadito i legami di lunga data che intrattiene con i popoli della Transcaucasia ed oltre. La Russia considera strategicamente il Caucaso come propria immediata vicinanza, ma la considera anche come una regione in cui i russi e la cultura russa hanno un ruolo prestigioso. Ad esempio, in Georgia Mosca ha finanziato un ampio programma di influenza mediatica creando nel novembre del 2014 -cosa che dovrebbe di per sé essere indicativa- Sputnik, un'agenzia di stampa legata al gruppo mediatico Russia Today (RT).[23] la pratica politica di potere morbido della Russia comprendeva la presentazione della Russia e del suo mercato del lavoro come una terra ricca di occasioni per i poveri disoccupati cittadini dei paesi del Caucaso. Le politiche russe e turche nel Caucaso, ivi comprese quelle che fanno capo al potere morbido vanno concepite in termini di attriti secolari tra queste due potenze periferiche. In quest'ottica ogni retorica che fa capo a concezioni universalistiche è soggetta ai limiti degli interessi nazionali. Secondo le parole di Fouad Ajami, "Non sono le civiltà a controllare gli stati, ma gli stati a controllare le civiltà. Ogni volta che gli è utile gli stati si dimenticano dei legami di sangue; fraternità, comunanza di fede e affinità le vedono quando è loro interesse vederle. La nostra condizione resta quella del doverci aiutare da soli. L'isolamento dei nostri paesi continua... Il fenomeno che abbiamo chiamato fondamentalismo islamico non è tanto un segno di resurrezione quanto di panico, di imbarbarimento, di ammissione di colpa circa il fatto che il limite con l'altro è stato superato."[24]
Joseph Nye, riferendosi al potere morbido, afferma: "Un sistema importante per ottenere sostegno internazionale è quello di detenere valori culturali e politici e una politica estera che altri paesi considerano legittimi e dotati di autorità morale."[25] nel mondo contemporaneo le strategie che fanno capo al potere morbido sono fatte di un insieme di scopi ed obiettivi che rientrano in politiche di potere e traguardi a lungo termine. Nel caso della Russia si tratta del desiderio annoso di raggiungere i mari caldi, il Mediterraneo. Questo potrebbe unire la Russia alle vie dei traffici internazionali e soprattutto al movimento che porta petrolio, materie prime e ogni altro genere di beni da oriente verso occidente. Allo stesso modo il posizionamento geopolitico della Turchia è stato modellato dall'atteggiamento storico della Russia e dalla necessità delle potenze occidentali di trovare un deterrente ed un contrappeso per l'influenza di Mosca nel sud dei Balcani, nel Mediterraneo Orientale, in Asia Minore, in Medio Oriente ed oltre. L'Impero Ottomano prima e la Turchia poi hanno sempre avuto relazioni di tipo clientelare con le potenze occidentali, in modo particolare con la Gran Bretagna e con gli Stati Uniti; si trattava sostanzialmente di relazioni informali tra contraenti che non stavano sullo stesso piano, dalle quali derivavano reciproci vantaggi.[26]
Di conseguenza, le iniziative di Russia e Turchia nel periodo successivo alla transizione si spiegano al meglio se le si inquadrano in una prospettiva (ed in una retrospettiva) strategica di lungo termine e se prendiamo in considerazione il desiderio di giustificare pretese basate su vecchie narrative. Da un lato "Il panslavismo sviluppato in Russia da Nicholas Danilevsky e Rostislav Fadeyev, contemplava l'applicazione di una concezione slavofila agli affari esteri, ed esortava ad espandere una monarchia che riunisse gli slavi cristiani ortodossi sotto un unico impero."[27] Si noti, in ogni caso, che questo punto di vista non vale per il Caucaso.
Ovviamente una concezione di questo genere non poteva sopravvivere duranteil comunismo nella Russia dei Soviet e nell'U.R.S.S. Un concetto come quello di "rivoluzione mondiale" venne ignorato da Stalin, ma non perché egli avesse fatto propria l'antica prospettiva panslavistica degli zar. Stalin e i suoi successori perseguirono una strategia complessivamente interventista, ma senza legittimarla con il concetto marxista di "guerra di classe."
Con l'inizio della transizione iniziata con l'eliminazione del collettivismo ed il ritorno in tutta l'ex Unione Sovietica al retaggio dei tempi nuovi rappresentato dall'affermarsi degli stati nazionali che sono sorti dopo il collasso dell'U.R.S.S., la cura di Mosca per quelli che sono i suoi tradizionali interessi si è manifestato come ritorno all'idea che sia importante proteggere gli interessi nazionali in quella che in quel momento appariva come la periferia del paese. Il Caucaso non faceva eccezione; Mosca lo ha sempre considerato come postazione di frontiera in una provincia e su un percorso che portavano ai mari caldi, e dunque come una pedana di lancio per le iniziative volte ad accrescere il ruolo della Russia nel mondo.
Dall'altro lato, il panturchismo ha avuto obiettivi simili, nella propria missione storica che è quella di fare da contrappeso all'influenza russa. Il panturchismo è un'ideologia irredentista, ed invita all'unificazione dei popolio in un'entità indivisibile, "in cui evidenti siano i segni di legami sia culturali (lingua, storia, costumi) sia materiali (sangue, razza). Il vocabolo 'turco' riferito a tutti coloro che sono di origine turca: i Tatari, gli Azeri, i Kirghisi, gli Yakuti ed altri."[28]
Sia dal punto di vista concreto che ipotetico, il panturchismo prende in considerazione tutti i popoli che vivono dentro o fuori i vecchi confini ottomani e di conseguenza dentro o fuori dalle frontiere degli stati turchi di oggi. In questo stesso àmbito è bene ricordare l'esistenza del panturanismo, che si è prefisso lo scopo di unificare i popoli dell'intera Eurasia centrale sulla base di radici mitologiche e per un'estensione spaziale indefinita. Non è dunque una coincidenza che il panturanismo abbia riguardato popoli e paes al di là del caucaso, come la Finlandia, l'Ungheria e l'Estonia.[29]
Secondo Nye, le politiche basate sul potere morbido hanno fornito una struttura culturale e politica che legittima e che conferisce autorevolezza morale alle grandi strategie di Russia e Turchia. Questo è fondamentale, perché i due paesi hanno bisogno di giustificare le proprie decisioni strategiche agli occhi del pubblico, dei loro alleati e dei popoli degli stati del Caucaso. Essi ricorreranno al potere morbido per cercare di imporre ad elettori e macchina statale le proprie strategie, per attirare sostegni economici o diplomatici dagli alleati e limitare i costi dei propri sforzi per ampliare il proprio potere. Quest'ultimo punto è l'essenza stessa della logica del potere morbido. Coercizione ed imposizione sono le caratteristiche dell'esercizio del potere in politica internazionale; il potere morbido aiuta a temperare le conseguenze dell'esercizio del potere inteso come "messa in atto delle proprie prerogative nel tentativo di mutare in determinati modi il comportamento di qualcun altro."[30]
L'esercizio del potere presuppone dei costi; il potere morbido controbilancia le eccessive spese militari e le possibili perdite materiali ed umane. Soprattutto, il potere morbido cura le condizioni per il raggiungimento di traguardi strategici particolari senza comportare la destabilizzazione delle alleanze in essere e senza provocare reazioni di senso contrario.


Conclusione

Questo articolo descrive ed analizza le condizioni in cui il Caucaso meridionale ha superato il periodo di transizione nel dopo Guerra Fredda. Il principale interrogativo che ci si poneva era in che modo le moderne strategie complessive russa e turca sono collegate al passato alla luce del dibattito storico, dei riferimenti e delle associazioni. Inoltre si è preso in esame il contesto generale dello scontro sugli obiettivi strategici che ha visto Russia e Turchia faccia a faccia, con i tentativi russi di raggiungere i mari caldi ed il ruolo di contenimento della Turchia. Dal punto di vista concettuale l'analisi di questi obiettivi risale alle definizioni di Sir Halford Mackinder sul cuore continentale[31] e all'analisi del Rimland di Nicholas Spykman[32], oltre che all'influenza di esse sulle strategie complessive delle grandi potenze, con particolare riguardo a quella navale del Regno Unito. Una più ampia analisi di questa concatenazione concettuale da Mackinder a Spykman e delle prove empiriche fa concludere che le potenze occidentali hanno l'obiettivo di impedire qualsiasi monopolio di potere nell'Eurasia Centrale. Se non è possibile arrivare a tanto, come successo con il caso dell'U.R.S.S., allora tocca alle potenze periferiche che circondano il cuore continentale arginare la potenza egemone, e dissuaderla per contro dei loro alleati-partner-protettori occidentali dal tentare di accedere alle vie di traffico tra Oriente ed Occidente. I rapporti di interessi prima, durante e dopo la Guerra Fredda erano questi, e questo spiega anche il ruolo geopolitico della Turchia in tutto il periodo, fin dai tempi dell'Impero Ottomano.
Storicamente il Caucaso è stato l'asse geografico del conflitto russo-turco. In questo contesto la stabilità dell'epoca della Guerra Fredda garantita dal predominio sovietico è stata seguita da una certa fluidità geopolitica, evidente ad esempio nel Nagorno Karabakh. La presenza diretta di Mosca è venuta meno, e questo ha fornito occasioni ideali per la confinante Turchia, propensa ad utilizzare i propri forti legami storici, linguistici, religiosi ed etnici con i popoli e con gli stati della regione. Attraverso pratiche politiche specifiche e le alleanze strategiche a due fra Russia ed Armenia e fra Turchia e Azerbaijan, sia Mosca che Ankara hanno trasformato il Caucaso meridionale in un'area focale per le politiche di potenza. Questo processo di transizione dalle repubbliche sovietiche -una condizione che comportava l'inclusione del Caucaso meridionale nel territorio di sovranità sovietico- alla condizione di zona cuscinetto di primaria importanza ha fissato fra due attori geostrategici la ripartizione del potere e dei rispettivi scopi, obiettivi ed interessi. Infine, è in completo accordo con le narrative storiche che sostengono la strategia di Turchia e Russia, costruite tenendo presente il reciproco bilanciamento dei poteri nel Caucaso ed oltre.


[1] Cfr. St. Van Evera, Guide to Methods for Students of Political Science, Cornell University Press, New York, 1997, p. 64.
[2] Zb. Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York, 1998.
[3] H. Mackinder, Democratic Ideals and Reality: A Study in the Politics of Reconstruction, Henry Holt and Company, New York, 1919, p. 104.
[4] Per argomentazioni dettagliate a sostegno delle scelte fatte in questo caso, cfr. St. Van Evera, op. cit., pp. 77-88.
[5] M. Aydin, “Foucault’s Pendulum: Turkey in Central Asia and the Caucasus,” Turkish Studies, Vol. 5, No. 2, 2004, pp. 3.
[6] M. Wight, Power Politics, Leicester University Press and the Royal Institute of International Affairs, Londra, 1978, p. 160.
[7] M. Wight, op. cit.
[8] Cfr. N. Nassibli, “Azerbaijan: Policy Priorities towards the Caspian Sea,” in: The Caspian: Politics, Energy and Security, a cura di Sh. Akiner, Routledge Curzon, Londra 2004, p. 141.
[9] I. Torbakov, “Making Sense of the Current Phase of Turkish-Russian Relations,” The Jamestown Foundation, Occasional Paper, Ottobre, 2007, p. 12.
[10] Cfr. N. Nassibli, op. cit.
[11] Cfr. W. Hale, Turkish Foreign Policy: 1774-2000, Frank Cass, Londra, 2003, pp. 193-194.
[12] Cfr. G. Fuller, I. Lesser, Turkey’s New Geopolitics: From the Balkans to Western China, Westview Press, Oxford, 1993, pp. 73-74.
[13] Citazioni da W. Hale, op. cit., p. 194.
[14] Cfr. B. Aras, “Turkey’s Policy in the Former Soviet South: Assets and Options,” Turkish Studies, Vol. 1, No. 1, 2000, p. 50.
[15] Cfr. M.B. Olcott, Central Asia’s Second Chance, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, 2005,p. 73.
[16] M. Katik, “Turkic Summit to Explore Commonwealth Possibility,” Eurasianet, 16 Marzo 2016, in http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav111506.shtml.
[17]Cfr. K. Kirisçi, “New Patterns of Turkish Foreign Policy Behavior,” in: Turkey: Political, Social and Economic Challenges in the 1990s, ed. by Ç. Balim et al., Brill, New York, 1995, p. 16.
[18] T. Swietochowski, “Azerbaijan’s Triangular Relationship: The Land between Russia, Turkey and Iran,” in: The New Geopolitics of Central Asia and its Borderlands, ed. by A. Banuazizi, M. Weiner, Indiana University Press, Bloomington ed Indianapolis, 1994, p. 127.
[19] Ibid.
[20] G. Turan, I. Turan, I. Bal, “Turkey’s Relations with the Turkic Republics,” in: Turkish Foreign Policy in Post-Cold War Era, a cura di by I. Bal, Brown Walker Press, Boca Raton, 2004, p. 306.
[21] H. Malik, “New Relationships between Central and Southwest Asia and Pakistan’s Regional Politics,” in: Central Asia: Its Strategic Importance and Future Prospects, ed. by H. Malik, Macmillan Press, Londra, 1994, p. 268.
[22] Ibid.
[23] Cfr. S. Kapanadze, “Russia’s Soft Power in Georgia—A Carnivorous Plant in Action,” The Different Faces of “Soft Power”: The Baltic States and Eastern Neighborhood between Russia and the EU, ed. by T. Rostoks, A. Spruds, Latvian Institute of International Affairs, Riga, 2015, p. 175.
[24] Cit. in A. Balci, “The Alliance of Civilizations: The Poverty of the Clash/Alliance Dichotomy?” Insight Turkey, Vol. 11, No. 3, 2009, p. 98.
[25] Cir. in W. Yanushi, D. L. McConnell, “Introduction,” in: Soft Power Superpowers: Cultural and National Assets of Japan and the United States, ed. by W. Yanushi, D. L. McConnell, M.E. Sharpe, New York, 2008, p. xvii.
[26]Per una definizione di relazione di tipo clientelare, cfr. M. Handel, Weak States in the International System, Frank Cass, Londra, 1990, pp. 132-133.
[27] Sh. Cross, “Russia and NATO toward the 21st Century: Conflicts and Peacekeeping in Bosnia-Herzegovina and Kosovo,” NATO Academic Affairs 1999-2001, relazione finale del NATO-EAPC Research Fellowship Award, Agosto 2001, pp. 10-11.
[28] J.M. Landau, Pan-Turkism: From Irredentism to Cooperation, Hurst & Company, Londra, 1981, p. 43.
[29] Ibid., p. 1.
[30] K. Waltz, Theory of International Politics, Addison-Wesley, Reading MA, 1979, p. 191.
[31] Cfr. H. Mackinder, op. cit.
[32] Cfr. N.J. Spykman, The Geography of Peace, Brace & Company, Harcourt, 1944.

domenica 14 maggio 2017

Dedicato a Stefano Esposito. Renato Curcio (a cura di) - L'egemonia digitale. L'ìimpatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro.


Ogni promessa è debito e qualche mese fa avevamo promesso ai nostri lettori una recensione de L'egemonia digitale curato da Renato Curcio.
Motivo della promessa, rispondere nell'unico modo possibile ad uno zero di nome Stefano Esposito -detto Ser Cappelletto- che non aveva gradito che un centro sociale torinese ne ospitasse la presentazione.
Nel corso degli anni avevamo già fatto la stessa cosa con il Dossier Foibe di Giacomo Scotti per deridere Achille Totaro (che è grasso e di Scandicci), e con Armi e bagagli di Enrico Fenzi, per dileggiare un ben vestito di nome Valerio Vagnoli.
Nella misura del possibile continueremo a farlo ogni volta che individui del genere daranno fiato alle gazzette per additare al pubblico le voci non gradite.
I nostri lettori avranno ben chiari, fin dalle prime righe della recensione, per quali motivi il testo potrebbe levare indignazione da parte governativa. Che il signor Esposito abbia preso in considerazione l'idea di leggerlo è invece cosa che ci sentiamo di escludere tranquillamente.

Il drone che colpisce a distanza l'obiettivo per cui è stato programmato realizza il suo compito "intelligente" anche se i "danni collaterali" si possono contare in molte unità cadaveriche. Cadaveri ai quali non sarà riservata alcuna pietas, alcun pensiero. Il drone lanciato dall'esercito israeliano o USA, per esempio, colpisce e uccide chissà dove un "terrorista" e chi lo ha lanciato esulta per il buon successo della "operazione", stappa una birra e se ne torna a casa a giocare con i figli e col gatto perché il badge gli ricorda che il tempo del suo lavoro è terminato. A fianco del "terrorista" ucciso molte famiglie attonite, guardandosi attorno spaesate, piangono con lacrime vere i loro morti di carne.
L'egemonia digitale è frutto di un lavoro di gruppo, di un  "cantiere socioanalitico" cui hanno partecipato una quarantina di persone e che, partendo dalle esperienze dei partecipanti, si è interessato all'impatto delle tecnologie informatiche e delle reti sociali sull'attività e sulla stessa vita lavorativa. I contesti specifici presi in esame sono quelli delle aziende di servizi, della grande distribuzione, del lavoro bancario, degli studi legali, della scuola, della tutela della salute e dei trasporti pubblici; un ultimo capitolo è dedicato alle conclusioni.
Gli autori sottolineano le trasformazioni imposte dalle tecnologie e la loro sostanziale valenza liberticida, livellatrice, oggettivante e quantificante, cui si accompagnano la svalutazione delle competenze acquisite dal lavoratore ed una serrata compulsione a produrre.
I temi del volume vengono accennati in una introduzione in cui si cita il caso di un lavoratore di una azienda multiservizi che lamenta il fatto di sentirsi teleguidato dal tablet in dotazione, e si sviluppano per cinque seguenti capitoli.
La confisca degli atti e il dominio delle menti ha al centro la sovversione del rapporto con gli strumenti di lavoro di cui sono responsabili tablet e palmari, che controllano il lavoratore invece di venirne controllati, permettono il monitoraggio incessante dell'attività e tendono a far scomparire non soltanto qualsiasi pausa informale, ma anche qualsiasi aspetto (anche sostanziale) dell'attività lavorativa non possa essere quantificato e rendicontato.
I casi specifici del lavoro bancario e di quello degli studi legali è preso in esame in Professioni intermedie e sistemi digitali. La registrazione completa dell'intera attività lavorativa in sistemi gestionali che producono solo quantificazione disumanizza ogni rapporto lavorativo, espelle tutti i lavoratori le cui competenze possono essere assunte da un sistema e mette in cattiva luce quanti non rispettino tempistiche ed obiettivi di produzione. Uno dei lati oscuri dell'egemonia digitale consiste tra l'altro nell'espulsione dal tessuto produttivo di crescenti numeri di lavoratori le cui funzioni vengono sussunte da software e dispositivi.
La scuola: registri e valutazioni esamina l'impatto delle tecnologie informatiche sul mondo della scuola e sull'istruzione in genere. L'introduzione dei rilevatori di presenze e di badge personali, il registro elettronico e l'estensione degli algoritmi alla valutazione scolastica si uniscono alle possibilità di "evasione" che di contro le nuove tecnologie consentono a studenti e professori: dal copia ed incolla per l'esecuzione dei compiti al vario utilizzo dei cellulari in classe.
Nel capitolo sulla salute digitalizzata si valuta la presenza di "ibridazioni" dubbie, se non pericolose, tra interessi delle industrie farmaceutiche e tutela della salute considerando il caso, a quanto pare frequente, dei software gestionali offerti (per non dire imposti) a determinati servizi sanitari dalle stesse aziende produttrici dei farmaci; si considera anche l'effetto dell'introduzione delle cartelle elettroniche sul rapporto tra medico e paziente, con riguardo all'uniformazione delle informazioni e al rischio di una loro parzializzazione. Vengono considerati anche i profondi e diffusi effetti che le reti sociali, i motori di ricerca, gli applicativi per smartphone e le ultime innovazioni in materia di A.I. hanno avuto per lo stesso contesto. La quantificazione di ogni evento della vita contempla anche la possibilità che servizi sanitari facilmente quantificabili in termini di costi, come determinate analisi, possano essere venduti on line come tali, isolatamente da qualsiasi percorso diagnostico o terapeutico.
Il digitale sta egemonizzando anche il trasporto persone, in un processo simboleggiato dal passaggio dal taxi ad Uber. L'interazione tra applicativi per smartphone supera qualunque radiotaxi per puntualità e precisione ed in alcuni paesi del mondo le stesse aziende di trasporto ferroviario controllano quelle di car sharing accampandone l'utilità in sostituzione di tratte ferroviarie poco redditizie e destinate alla chiusura. Il testo considera anche il fenomeno della costruzione di una "reputazione digitale" per il singolo utente ed il singolo erogatore di servizi, destinato di fatto ad influenzare con poche possibilità di appello la vita reale degli uni e degli altri.
Il brano su riportato viene invece dalle conclusioni in coda al volume e fa riferimento ad uno dei molti casi in cui certo autismo digitale tutto ignora al di là del risultato, con particolare riguardo alle implicazioni di esso per la vita e per il futuro delle persone coinvolte, nel migliore dei casi ridotte a quantità numeriche. Fra le conclusioni si constatano e si sottolineano anche i rischi di una obesità tecnologica dovuta alla smodata esposizione alle informazioni e all'assenza oggettiva di limiti a questo proposito, che porta alla disintegrazione dei costrutti percettivi che hanno guidato fino ad oggi il comportamento umano.

mercoledì 3 maggio 2017

Alastair Crooke - Il Grande Gioco in Medio Oriente: un radicale mutamento della narrazione... ed i suoi lati negativi



Da Sic semper tyrannis, 28 aprile 2017

Adesso le cose sono più chiare. Trump è in cerca di una radicale metamorfosi della narrazione. L'AmeriKKKa non deve più mostrarsi debole: dev'essere forte. La retorica statunitense contro la Corea del Nord, contro la Russia e contro l'Iran è di nuovo lardellata di ultimatum e di stridente bellicismo. Chiaro che la retorica di per sé ha fatto miracoli sul piano interno, nei sondaggi sulla presidenza, e magari può anche servire a portare avanti al Congresso le fondamentali sfide di Trump in materia di bilancio. Naturalmente non è così sicuro che livelli tanto alti di gradimento si riveleranno di lunga durata se la tattica di un'"AmeriKKKa intransigente" dovesse portare ad una guerra vera e propria.
Forse non è chiaro fino a che punto gli accenti bellicosi sono utili con l'opinione pubblica statunitense per questioni di politica interna; fino a che punto si tratta dello sfoggio che Trump fa della capacità di bluffare da uomo d'affari impegnato in una trattativa? Non è chiaro neppure fino a che punto si intenda dar concreto seguito alle minacce, nel caso venga fuori che Trump sta bluffando. Se il bluff viene scoperto, l'AmeriKKKa verrà considerata ipocrita e ne uscirà indebolita. Non è chiaro neppure fino a che punto le minacce serviranno concretamente a "dare una possibilità alla pace". Minacciare può servire a mostrare che la nuova amministrazione ha fatto proprie quelle rigide posizioni dicotomiche che altrimenti la squadra di Trump non avrebbe assunto. Tutte cose che restano in sospeso. 
In Medio Oriente comunque esiste più dimestichezza che altrove con questa strategia, che lo stato sionista usa da tempo: "Il capoccia è uscito di testa! Fate attenzione, può succedere di tutto! Per favore, calmatelo alla svelta!" Il più delle volte la versione sionista del "capoccia che è uscito di testa" si è davvero rivelata essere null'altro che un bluff teatrale. Di sicuro l'Iran ha fatto il callo a queste schermaglie, non ci crede, e tanto basti. Si potrebbe dire che lo stato sionista ha svalutato il proprio capitale.
La tattica di Trump che ha al centro questo mutamento di narrazione può anche rivelarsi un fenomeno passeggero, ma avrà in ogni caso un impatto diretto ed un'influenza sostanziale in Medio Oriente, almeno nell'immediato; per lo meno possiamo cercare di trarre qualche conclusione sul significato di tutto questo, dopo un lungo periodo di disorientamento. Di sicuro, nel caso l'atteggiamento da negoziatore intransigente di Trump dovesse portare ad un buco nell'acqua con la Corea del Nord (un contesto in cui è assai possibile che la Cina non condivida il desiderio degli USA di vedere i nordcoreani che alzano bandiera bianca, disarmano e si trasformano in agnellini) o portasse gli USA più vicini ad una guerra vera e propria contro quel paese, è possibile che Trump ritorni a comportarsi da pacificatore. In pratica, potrebbe cercare di tornare indietro... sempre che nel frattempo non si sia tagliato troppi ponti alle spalle. Si tratta in ogni caso di ponti che, se non proprio tagliati del tutto, sono di sicuro in pessime condizioni. Forse in condizioni persino peggiori di quanto non si pensi a Washington.
Il primo punto è una semplice constatazione di fatto: se l'AmeriKKKa vuole sul serio proiettare una propria immagine di forza a livello mondiale, il Pentagono insisterà sicuramente per mantenere la catena di basi statunitensi nel Golfo Persico. Gli USA di conseguenza resteranno allineati alle posizioni dell'Arabia Saudita, ed ovviamente anche a quelle dello stato sionista, che nella regione ha interessi suoi peculiari.
Il secondo punto è dato dal fatto che l'Arabia Saudita ed i suoi alleati si serviranno ovviamente dell'intesa militare e di intelligence tra USA, paesi del Golfo e stato sionista contro l'Iran in modo da danneggiare quest'ultimo. Sfrutteranno la situazione per far crescere ancor di più l'iranofobia di Washington, dove sia i paesi del Golfo sia lo stato sionista finanziano ed impartiscono ordini ad estese "rappresentanze" politiche. 
Terza conseguenza della narrazione di una "AmeriKKKa forte" è il fatto che l'Arabia Saudita e i suoi alleati nel Golfo approfitteranno del ritrovato vigore della loro posizione presso l'amministrazione statunitense per soffiare (un'altra volta) sul fuoco della ribellione sunnita in Iraq e in Siria, e per continuare a cercare di infliggere una sconfitta umiliante agli Houti e ad Ansar al Allah nello Yemen. Pare che Mohammed bin Salman al Saud abbia detto a Trump che gli Houti devono accettare la risoluzione delle Nazioni Unite così com'è.
In nessuno dei contesti su ricordati, dunque, non si potrà pensare (ammesso che sia possibile) ad alcuna soluzione politica fino a quando durerà l'attuale tendenza. Vale a dire, fino a quando le cose non cambieranno, in un qualche modo.
In ultimo, la lobby dei fiancheggiatori del Golfo in Europa ed in AmeriKKKa, eccitata dagli uomini di John Brennan a tutt'oggi alla testa dei servizi di intelligence<7i> <7i>occidentali che sono per intero politicizzati, cercherà di fissare nel rovesciamento del governo l'orientamento politico nei confronti della Siria, fabbricando altre prove false sull'uso di armi chimiche da parte del governo siriano. Questa campagna unisce in maniera efficace l'obiettivo del movimento dei fiancheggiatori del Golfo (e dei loro alleati sionisti), che è quello di indebolire l'Iran, con quelli della fazione pro guerra fredda che sta cercando di indebolire il Presidente Putin e con lui la Russia. Iran e Russia arriveranno alla conclusione che le alternative sono poche, a parte il che chiudere alla svelta la guerra in Siria e prevenire i tentativi ameriKKKani di inserire un cuneo sunnita wahabita tra di essa e l'Iran. Un cuneo che i falchi occidentali pensano caratterizzato dall'ulteriore merito di poter mettere fine a qualunque velleità iraniana di costruire un oleodotto che serva l'Europa passando dalla Siria.
Ripetiamo una cosa. Tutto quanto sopra scaturisce di per sé da una sola premessa: che Trump abbia l'intenzione di presentare l'AmeriKKKa come nuovamente forte a livello mondiale, ed abbia dunque il bisogno di allinearsi ai paesi del Golfo. Non è chiaro se la squadra di Trump avesse pensato a questa sequenza di eventi, o se avesse proprio l'intenzione di far rinvigorire i neoconservatori (che è quello che è stato fatto). Non è probabile che si pensasse a portare acqua al mulino dei neoconservatori;  è più probabile che l'idea di apparire forti sul piano militare apparisse in quanto tale come abbastaza corrispondente alla dottrina presidenziale dell'uomo d'affari impegnato in una trattativa, e che poi non si sia posta sufficiente attenzione alle conseguenze.
Si riuniscono le forze che vogliono la testa di Assad: tutto questo fa dunque presagire un rovesciamento geostrategico in Medio Oriente? Probabilmente no. In un'intervista con Adam Shatz della London Review of Books il professor Joshua Landis, tra gli altri, ha citato la ragione più importante per cui questo non succederà:
<7i>London Review of Books: ...Del popolo siriano non abbiamo parlato molto; abbiamo detto soltanto che i siriani sempre più considerano molti dei loro connazionali come non più appartenenti alla stessa comunità, da tanto aspre e letali sono diventate le fratture settarie [Shatz sta parlando degli jihadisti, che in Siria molti considerano come nemici assoluti e irriducibili, e come "stranieri"]. Da questo punto di vista c'è un grosso interrogativo: che cos'è il popolo siriano? Che futuro avrà, e questo futuro sarà in Siria...?
<7i>Landis: ...Domanda da un milione di dollari. Difficile capirci qualcosa... vedere il futuro. Ora, da una parte potremmo considerare quanto sta succedendo come un macroscopico mutamento tettonico di identità e di equilibri di potere nella regione settentrionale del Medio Oriente, un qualcosa che fa il pari con quanto accaduto nel dodicesimo secolo, quando signori sciiti controllavano la gran parte della Siria settentrionale e costituivano una potente entità sostenuta dalla Persia. I Mamelucchi e poi gli Ottomani hanno cambiato le cose: hanno cacciato gli sciiti e li hanno marginalizzati. Gli sciiti sono stati privati di ogni influenza e il mondo arabo è diventato un mondo sunnita, con a capo l'impero ottomano. Oggi possiamo assistere ad un ritorno alle condizioni del dodicesimo secolo, con gli sciiti che predominano a nord... Ma si sa che il potere politico può essere molto duraturo se Iran, Hezbollah ed Iraq consolidano la propria alleanza; questo significa che i sunniti in Siria potrebbero [dover] vivere sotto un governo di questo genere -un governo sostenuto dall'Iran- per parecchio tempo. Se questo succede, è verosimile che le identità mutino di nuovo, che si rivelino malleabili e che vengano ridefinite. Non so come potrebbe succedere, ma è una possibilità...
<7i>...La cosa che mi spaventa, dal momento che considero quanto sta succedendo come una gigantesco rimescolamento, è che se l'Arabia Saudita, gli USA e gli altri continuano a sovvenzionare la ribellione delle popolazioni sunnite dell'Iraq e della Siria, è possibile che queste ultime finiscano schiacciate, dato l'attuale assetto dei poteri in Medio Oriente...
<7i>
<7i>Landis qui accenna ad un concetto importante, che c'è bisogno di specificare meglio. Dapprincipio di orientamento ismailita, la shi'a dominava non solo la Siria settentrionale ma una gran parte del nord Africa Egitto compreso, e si estendeva fino ad As Sham, ovvero la Grande Siria ed il Levante. Certo, gli sciiti finirono poi massacrati, repressi e marginalizzati nei secoli successivi. Molti dovettero forzatamente convertirsi alla fede sunnita, ma quella sciita continuò ad esistere in molti luoghi e nonostante tutto. Aleppo, per esempio, è nota fino ai giorni nostri per essere una città storicamente sciita. 
Graham Fuller, in un testo il cui sottotitolo è I musulmani dimenticati, comincia col dire che "parlare degli sciiti nel mondo arabo significa toccare una questione delicata, che molti musulmani preferirebbero non affrontare. Per alcuni si tratta di un non problema, ma per molti di più è smplicemente meglio ignorare la questione perché ad essa fanno capo interrogativi inquietanti sulla società araba e sulla politica, ed è cosa che mette in discussione posizioni consolidate e radicate sulla storia e sull'identità arabe. I sunniti preferiscono di gran lunga evitare la questione" [corsivo di Alastair Crooke, N.d.T.]
Fra l'Afghanistan ed il Mediterraneo tuttavia, in Iran, in Iraq, in Siria e in Libano, ci sono più di cento milioni di sciiti ma solo trenta milioni di sunniti, e "dal punto di vista politico la disparità è anche più grande, perché le minoranze curde in Iraq e in Siria, forti dal punto di vista militare, anche se sono di religione sunnita temono più lo Stato Islamico e gli jihadisti estremisti arabi sunniti che non chiunque altro."
Insomma, il fatto che sauditi e paesi del Golfo reclamino per i sunniti diritti politici e religiosi sul quadrante settentrionale del Medio Oriente -diritti che, a sentire i sunniti, gli sciiti hanno in qualche modo usurpato nel corso degli ultimi anni- è di dubbia fondatezza sia dal punto di vista dell'appartenenza settaria, sia dal punto di vista delle identità storiche. Inoltre, l'eterogeneo Islam sunnita del Levante è piuttosto diverso dallo wahabismo del Najd che vi è stato inoculato, che ha carattere esclusivista e che ha fatto la sua comparsa nel Levante alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Questa grossa differenza spiega perché l'esercito dello stato siriano, costituito principalmente da sunniti, stia oggi combattendo contro altri sunniti dello Stato Islamico e di al Qaeda o an Nusra. L'Esercito Arabo Siriano sta combattendo contro l'imperialismo del Golfo, che sta cercando di imporre il monopolio dell'"Islam del Nejd", l'Islam del deserto, il costrutto di Abd el Wahhab che nacque nel XVIII secolo ma si affermò solo con l'avvento della manna dei petrodollari negli anni Sessanta del secolo scorso. Lo wahabismo è l'unica corrente dell'Islam che afferma di rappresentare l'unico vero Islam.
A tutto questo bisogna unire l'attuale ripartizione dei poteri in Medio Oriente. Da un lato c'è l'architettura di sicurezza che comprende Siria, Iran, Iraq, Hezbollah, Russia e Cina (che fornisce addestramento alle forze armate siriane); dall'altro ci sono le mire sullo Yemen dell'Arabia Saudita: ecco perché è probabile che il professor Landis abbia ragione: "(Arabia Saudita, gli USA e gli altri) è possibile che finiscano schiacciati, [dato] l'attuale assetto dei poteri in Medio Oriente...
Solo un deciso intervento militare da parte del Presidente Trump potrebbe cambiare le cose, ma non credo che abbia intenzione di entrare in guerra contro la Russia in Siria; col tempo, la cosa diventerà evidente. Peccato che Trump sia partito col piede sbagliato.
L'esecito statunitense è ancora una grossa minaccia, ma se il Presidente venisse messo all'angolo da consiglieri falchi e fosse costretto a ricorrervi, finirà per accorgersi di essere soltanto riuscito ad aprire il vaso di Pandora. Un vaso in cui si troveranno contenuti tutt'altro che "meravigliosi" (come di recente Trump ha definito i missili statunitensi). Nel maggio 1951, dopo che il Presidente Truman lo aveva sollevato dall'incarico, MacArthur andò a testimoniare al Congresso. Disse: "La guerra in Corea ha già quasi distrutto quel paese, dove vivono venti milioni di persone. Non ho mai visto una devastazione simile. Ho visto, credo, sangue e distruzione come qualsiasi uomo vivente; l'ultima volta che sono stato in Corea mi si è stretto lo stomaco. Dopo aver visto le rovine, e quelle migliaia di donne e di bambini e tutto quanto, ho vomitato."