giovedì 28 febbraio 2013

Nell'Oltrarno fiorentino non vogliono il Bello dei parcheggi interrati


A fine febbraio 2013 Kelebeklerblog pubblica la storia di una mobilitazione cittadina.
Gli abitanti del quartiere fiorentino di San Frediano non hanno alcun vantaggio da trarre dalla prospettata costruzione di un parcheggio interrato ed hanno raccolto almeno 1400 firme contrarie.
Sono 1400 firme vere, non cliccatine sul Libro dei Ceffi o messaggini sul Cinguettatore.
Poi sono passati alle manifestazioni e agli striscioni e la cosa è arrivata al mainstream locale, che al momento non ha ancora trovato il modo di delegittimare le istanze di queste persone bollandole come terroriste. L'intraprendenza gazzettiera è comunque cosa nota, quindi è probabile che non si tratti altro che di una questione di tempo.
Come in una precedente occasione riportiamo per intero lo scritto di Kelebeklerblog perché si tratta in ogni caso di una iniziativa meritevole di essere pubblicizzata e condivisa, condotta contro il progresso e a favore della civiltà.
La civiltà sarebbe quella cosa un po' più scomoda e un po' più pulita, che in quanto tale non piace ai ben vestiti e alle poco vestite. E che ha ancora estimatori in grado di procurare piccoli fastidi a certi angelici boiscàut.
Lo scritto si intitola "Dall'Oltrarno: il Bello, il belloccio ed il Nidiaci". Nel testo, che presentiamo integralmente assieme alle immagini che lo accompagnano, ricorre il vocabolo che indica nel parlare comune lo stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come sempre con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

L’altro ieri [il 21 febbraio 2013], il sindaco Matteo Renzi, nel suo solito stile, ha ingiunto ai candidati del Pd “Rendete l’Italia bella come Firenze”.
Ora, io abito in una parte particolarmente bella di Firenze, quella vicino alla Chiesa del Carmine, dove non ti puoi permettere di sostituire una ringhiera su un balcone perché, appunto, Firenze è bella.
Così bella, che – come vi abbiamo già raccontato e graficamente illustrato – il signor Leonetto Mugelli, muratore in tutti i sensi, ha pensato bene di costruirci tre palazzi nuovi nuovi, di cui uno direttamente attaccato alla Chiesa del Carmine e un altro che chiude l’unica vista sul dietro della stessa chiesa.
Che la chiesa sarà bella, ma lo sono pure i palazzi del signor Leonetto Mugelli, almeno quanto le migliori villette a schiera della Brianza.
Un anziano artigiano mi dice che a Sesto Fiorentino, che è dove vanno a finire i profughi dal Bello, un suo cliente ha un capannone industriale che è troppo grande da vendere tutto insieme, ma la Soprintendenza non gli permette di farci un muro divisorio all’interno, che alla bellezza ci tengono.
All’ennesima protesta per le creazioni di Leonetto Mugelli, Matteo Renzi ha risposto a modo suo: una segretaria ha telefonato il 30 gennaio scorso a casa alla persona che protestava di più, invitandola gentilmente a smetterla, perché era tutto in regola.
Anche la Soprintendenza, diceva, trovava inappuntabili i palazzi di Leonetto Mugelli. Cosa che non sorprende, visto che Leonetto Mugelli lavora (quando trova il tempo) anche per la Soprintendenza. Da tanto tempo da essere riuscito a farsi processare per i “restauri d’oro” nel 1987 e di nuovo nel 1994 per una storia di tangenti. E leggiamo che nel 2012, la Mugelli Costruzioni, la stessa ditta che ha fatto le tre palazzine, è stata invitata a partecipare al bando di concorso per il restauro delle Cappelle Medicee.
Proprio accanto ai tre palazzi nuovi nuovi del signor Leonetto Mugelli, impera l’Amore e Psiche Holding di Salvatore Leggiero, che per la modica somma di 800 mila euro (come apprendo dalla Nazione di ieri) si è preso all’asta Palazzo Nidiaci, che assieme a due altri acquisti adiacenti forma “duemila metri quadri di consistenza immobiliare“; e con i duemila metri quadri, ci va pure un terzo circa del giardino davanti.
Ora, qui sappiamo tutti che il vecchio proprietario si era appellato più volte invano al Comune perché si prendesse il Nidiaci. E quando ha dovuto dichiarare il fallimento, il Comune non si è nemmeno degnato di presentarsi alle due aste che si sono tenute.
Infatti, non solo c’è un altro palazzinaro (ladrillero li chiamano, con una bella assonanza, in spagnolo) alle spalle del Carmine: quel palazzo e quel giardino erano pure l’unico spazio verde del quartiere, il giardino-ludoteca Nidiaci, dove dal 1923, sono cresciuti i bambini di San Frediano.
Sì, fanno novant’anni, in questo quartiere marginale della vecchia città, dove vivevano in piccole case quelli che avevano lavorato sodo per i ladrilleros della seconda metà dell’Ottocento. Parliamo dei ladrilleros che avevano sventrato e distrutto il vecchio centro storico – all’epoca non la chiamavano ancora “valorizzazione”, ma una fiera lapide nella bruttissima Piazza della Repubblica canta le gesta dei vincitori del Bello:

L’ANTICO CENTRO DELLA CITTÀ
DA SECOLARE SQUALLORE
A VITA NUOVA RESTITUITO

Il Corriere Fiorentino ci ricorda in un articolo di ieri cosa ha significato il Giardino del Nidiaci, e corrisponde anche a quel che ho sentito io dagli stessi anziani che mi raccontano, magari esagerando, di come i celerini ai tempi di Scelba, quando caricavano, si fermassero sempre al ponte, perché sapevano che di qua le donne dell’Oltrarno li avrebbero fatti a pezzi (come le gentili signore del quartiere hanno veramente cacciato a bastonate gli spacciatori da Piazza Tasso, ma quella è una storia più recente).
In questo quartiere, nel dopoguerra, ci fu un meraviglioso gruppo di persone: Fioretta Mazzei; Don Cuba, che si chiamava in realtà don Danilo Cubattoli; la contessa Ghita Vogel e l’insegnante Carla Senatori; la prima custode del Nidiaci Tosca Pagni, tutti legati alla figura di Giorgio La Pira. Cattolici, quindi, in un quartiere segnato da conventi e chiese; e certamente anche un po’ comunisti in un quartiere decisamente di sinistra.
Don Cuba, al centro, con Ghita Vogel alla sua sinistra e Fioretta Mazzei, prima a sinistra nella foto

Ecco cosa fu il Nidiaci di quegli anni:

«Gli artigiani dell’Oltrarno ci davano una mano: il falegname ci dava il legno, il tipografo l’inchiostro per stampare i Vangelini per la Madonnina del Grappa – racconta ancora Carla Senatori. E poi, a proposito dell’orto, ho ancora nitida una scena indimenticabile: c’erano due bambini affetti da sindrome di down e si rincorrevano canzonandosi perché il primo diceva al secondo di essere riuscito a far crescere un ravanello più grande». Niente televisione, a quei tempi. Si giocava a calcio, pallavolo e i palloni volavano spesso nell’orto dei frati della basilica del Carmine.
Verso i primi anni Sessanta ci pensò don Danilo Cubattoli, don Cuba, a portare un piccolo cinema al Nidiaci. E poi c’era Ghita Vogel che, nella sua casa vicina, ospitava i ragazzi del carcere minorile per favorirne il reinserimento. «Bisognava crederci, e tanto, per andare avanti, perché era un’esperienza unica ma che richiedeva grande sacrificio – dice Carla Senatori – Non c’erano tutte le comodità di oggi: negli anni Sessanta, in via di Camaldoli e del Leone, non c’erano ancora i bagni in casa, così il sabato mattina il bagno ai ragazzi lo facevamo noi al Nidiaci. A noi San Procolini ci chiamavano cattocomunisti: la sera c’era la preghiera aperta e ognuno scriveva la propria mentre la musica ci accompagnava».

Il gruppo consiliare di Valdo Spini, che è all’opposizione da sinistra, ha presentato un po’ di tempo fa un’interrogazione urgente per il Nidiaci. Sono interrogazioni cui l’amministrazione dovrebbe, per regolamento, dare risposta entro trenta giorni.
L’altro ieri, la segreteria di Valdo Spini ci manda questo messaggio:

“Salve,
anche in relazione alle vostre future iniziative in proposito, vi comunichiamo che l’interrogazione presentata dal  consigliere Spini su “Nidiaci” è scaduta (30gg) e non ha ancora avuto risposta dalla giunta.”

Convochiamo un corteo per il Nidiaci.
Non l’avevamo mai fatto ed eravamo un po’ preoccupati. Anche perché c’era in giro un’influenza micidiale, uno dopo l’altro, i genitori ci rispondevano, “io verrei, ma ho la bambina malata”.
Arrivo un quarto d’ora prima all’appuntamento, e siamo in tre: io, una pioggia incessante e una macchina della polizia.
E poi non so come, la strada si riempie e siamo forse un centinaio, forse un po’ meno, ma per le dimensioni del quartiere non è affatto poco. Anche perché ben pochi avranno fatto un corteo in vita loro.
Non è certo più il mondo di Don Cuba, i cui ragazzi ormai saranno quasi tutti dispersi altrove (magari nei capannoni di Sesto); ma c’è un mondo vero lo stesso, dove alle vivaci popolane storiche si affiancano la mamma inglese che sulla carrozzina porta due bambini e un cartello, e quella filippina con le sue bambine, i ragazzi dall’aria decisa (agguerriti tifosi di una squadra di calcio che mi dicono stia in serie C o giù di lì, che hanno anche fatto uno dei migliori studi sull’urbanistica di Firenze che si possa trovare) che reggono lo striscione “IL QUARTIERE A CHI CI VIVE E NON A CHI CI SPECULA” e tanta altra gente.
E quando passiamo davanti al cancello chiuso del Nidiaci, troviamo che a forza di vedere il quartiere coperto di manifestini che parlano di lui e di guardare i giornali che parlano di noi, Salvatore Leggiero ha deciso di togliere parte del Muro che aveva eretto contro i bambini del quartiere: non risolve certo il problema, ma è sempre più di quel che è riuscito a fare il Comune.


All’angolo di Piazza Tasso, il bucato appeso alla finestra che sarebbe più vietato che costruire palazzi, perché dove regna il Bello, chi non ha pane o asciugatrice, mangi brioche a Sesto. E assieme al bucato, la bandiera NoScav della resistenza del quartiere.
Sotto, un’immagine rinascimentale, che poi è una copia di mezzo secolo fa, ma è bella lo stesso.
A sinistra, che quasi non si vede, c’è la Rosticceria Casalinga – così dice l’insegna – di Lucia, che poi è il take-away cinese della signora di cui vi avevo già raccontato la storia. E siccome le figlie devono starsene chiuse entrambe nel locale tutto il giorno quando escono da scuola, Lucia spera tanto che si possa riaprire il Nidiaci. Lucia è dentro il quartiere, i ladrilleros no.
Non fatevi abbellire anche voi.


sabato 23 febbraio 2013

"Al Qaeda! Al Qaeda!", "Primo, non diffamare". Luca Bauccio e la "libera informazione"


La "libera informazione" che opera nella penisola italiana addita ogni giorno ai sudditi emergenze come questa.

A fine febbraio 2013 nello stato che occupa la penisola italiana si svolge una "consultazione elettorale" di tipo politico, destinata a designare i componenti delle due camere secondo meccanismi che hanno il fine essenziale di lasciare priva di rappresentanza qualunque forma di opposizione sociale; alcune tra le più obiettive penne che conosciamo riescono comunque a mostrarsi ottimiste, sostenendo che le nuove compagini riusciranno persino ad essere più divertenti di prima.
L'unica occasione, l'unico motivo per cui in questa sede si è provato interesse per la "campagna elettorale" è rappresentato da un episodio marginale verificatosi a Roma, al momento della manifestazione conclusiva di una formazione politica chiamata "movimento cinque stelle" che non abbiamo alcun motivo per stimare.
Secondo le gazzette gli organizzatori della manifestazione avrebbero cacciato dal retropalco i fogliettisti il cui target è costituito essenzialmente dai sudditi dello stato che occupa la penisola italiana. Il genus irritabile gazzettistarum ha affidato alle "associazioni" di categoria l'espressione del proprio autoreferenziale biasimo. Nulla di imprevisto: davanti a qualsiasi cosa che abbia a che vedere con il mondo reale, la reazione dei gazzettieri è sempre compresa tra l'indignato, lo scomposto e l'incredulo; il mondo gazzettiero fa anche finta di non sapere cosa possa aver mai fatto per meritare una simile (e in verità sorprendentemente composta e civile) attestazione di poco credito, che è nulla più di un barlume del disprezzo di cui il mondo della "libera informazione" è fatto oggetto nei contesti sociali normali e che in questo caso ha una natura sicuramente strumentale per contesto, tempistica ed autori.
L'episodio è insignificante, si è detto, ma fornisce l'occasione per pubblicizzare come meritano un libro ed un mediometraggio.
Il libro si chiama Primo, non diffamare. Difendere il proprio onore nell'era della disinformazione. Lo abbiamo recensito qui.
Il mediometraggio si chiama "Al Qaeda! Al Qaeda!" - Come fabbricare il mostro in tv.
I due lavori sono acquistabili direttamente sul sito degli autori ed hanno molti punti in comune perché derivano in buona parte l'uno dall'altro. Riescono a dare un'idea sufficientemente precisa del "lavoro" svolto dalle gazzette e dalle televisioncine nel corso degli ultimi anni, e del perché l'autoreferenzialità gazzettiera sia arrivata a produrre uno scollamento dalla realtà tanto profondo da rappresentare più un sistema di tutela dell'incolumità personale di chi lavora nei gazzettifici che non un limite per la descrizione di un reale nei cui confronti l'attività fogliettistica ha di fatto poco o punto interesse.
Il trailer e la descrizione del mediometraggio provengono da internet; vi ricorre spesso il nome dello stato che occupa la penisola italiana, cosa di cui ci scusiamo come nostro solito con i lettori, in particolar modo con quanti avessero appena finito di pranzare.  



"Io sono Usama El Santawy: sono il capo di una cellula di Al Qaeda in Italia".
"Ciò che sta accadendo adesso è una guerra di religione. Quando dici che Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa, e vai lì e ammazzi un milione di iracheni e lasci... un milione di vedove, e cinque milioni di orfani, e poi dici che era una bugia, e poi dici che lui non aveva armi di distruzione di massa, cosa puoi dire a queste vedove e a questi orfani, cosa gli racconti, che abbiamo commesso un errore?"

"Innanzitutto mi presento, mi chiamo Magdi Cristiano Allam. Lancio un appello a tutti gli uomini di buona volontà in Italia e in Europa, a mobilitarsi contro l'invasione islamica". 

Il capo della cellula di Al qaeda in Italia.
Il presidente della più grande psico-setta di tutti i tempi.
Il ripetitore Wind che si trasforma in un minareto.
Il padre che vuole uccidere la figlia in coma.
Non sono assurdità. Non sono personaggi cinematografici. Sono le storie che giorno dopo giorno i media raccontano agli italiani. Senza ritegno per la verità delle cose. Senza rispetto per le persone coinvolte.
Cosa succede ad un innocente quando viene accusato di reati infamanti da un giornale? Come funziona l'industria della diffamazione? Come ci si difende dai suoi prodotti? Il documentario di Giuseppe Scutellà getta luce su ciò che accade sull'altra faccia del mondo della diffamazione. Quella abitata dagli offesi e da chi ha provato a difendersi.

"Benvenuti sul palcoscenico della democrazia. Al Qaeda! Al Qaeda! Come fabbricare il mostro in tv."DirittoZero Production presenta il film-documentario tratto dal libro "Primo, non diffamare" di Luca Bauccio. Regia di Giuseppe Scutellà.
Un docufilm-denuncia contro la disinformazione e la persecuzione a mezzo stampa in Italia.
Il docufilm ricostruisce e narra storie vere, attraverso la testimonianza diretta degli interessati, materiale di archivio e scene originali.
Un vademecum per opporsi alla menzogna ed alla manipolazione della realtà. Resistere si può, si deve.
I protagonisti: Beppino Englaro, Youseff Nada, Angela Lano, Hamza Piccardo, Vito Carlo Moccia, Alì Darwish, Rassmea Salah, Usama El Santawy e tanti altri ancora.
Sceneggiatura: Luca Bauccio, Walter Baroni, Giuseppe Scutellà.
Con la collaborazione alle riprese di Alessandro M. Naboni.
Producer: Rosamagda Taverna
Graphic designer : Davide Genco

domenica 17 febbraio 2013

Ramzy Baroud - L'Iraq di nuovo sull'orlo del baratro


Traduzione da Asia Times.

Poco tempo dopo che l'operazione Desert Fox -una campagna di bombardamenti intrapresa da Regno Unito e Stati Uniti- aveva devastato alcune zone dell'Iraq nel dicembre del 1998, mi trovavo a lamentarmi con un amico nella hall del Palestine Hotel di Baghdad.
Ero contrariato: la nostra agenda fitta di impegni -per lo più visite ad ospedali che traboccavano di feriti e di vittime dell'uranio impoverito- non mi aveva lasciato il tempo di comprare qualche libriccino in arabo per la mia bambina negli Stati Uniti. Al momento di partire per il lungo viaggio in autobus che mi avrebbe ricondotto in Giordania, fui avvicinato da un iracheno dai baffi folti e dalla barba ben curata. "Questo è per tua figlia", mi disse sorridendo e porgendomi un sacchetto di plastica. Il sacchetto conteneva più di dieci libri di favole irachene, con illustrazioni a colori. Non avevo mai incontrato quell'uomo prima di allora, e non lo avrei più incontrato in futuro. Era anch'egli un ospite dell'albergo e aveva sentito di questa mia difficoltà. Mentre lo ringraziavo copiosamente ma frettolosamente intanto che mi accingevo a salire sull'autobus, disse perentorio che non c'era bisogno che lo ringraziassi. "Siamo fratelli, tua figlia è come se fosse la mia", disse.
Non posso dire che la cosa mi avesse sorpreso. La generosità nell'agire e nella disposizione d'animo è una caratteristica peculiare degli iracheni, e gli arabi lo sanno molto bene. Altre peculiarità degli iracheni sono l'orgoglio e l'ostinazione; il primo è attribuito al fatto che la Mesopotamia, che comprende la maggior parte dell'Iraq odierno, è la culla della civiltà; la seconda, viene dalle vicende indicibilmente dure che gli iracheni hanno attraversato nella loro storia moderna.
E' stato il Regno Unito a porre le premesse per la tragedia dell'Iraq moderno, a cominciare con la presa di Baghdad del 1917 passando per l'azzardato rimodellamento del paese perché rispondesse al meglio alle necessità coloniali e agli interessi economici di Londra. Si potrebbe pensare che questo primo pasticcio senza paragoni messo in piedi dagli invasori britannici abbia continuato a seminare rovine manifestandosi in vari modi, a diffondendo il settarismo, la violenza politica e le dispute territoriali tra l'Iraq e i suoi vicini fino ai nostri giorni.
E' vero anche che oggi come oggi sono gli Stati Uniti a poter vantare i maggiori crediti nell'aver azzerato tutto quello che il popolo iracheno aveva realizzato, nell'intento di accaparrarsi una sovranità che pure continua ad essere sfuggente. E' stato il Segretario di Stato degli Stati Uniti James Beker, a quanto dicono, ad aver minacciato il ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz in un incontro a Ginevra nel 1991 dicendo che gli Stati Uniti avrebbero distrutto l'Iraq e lo avrebbero "riportato all'età della pietra".
Le guerre degli Stati Uniti sono durate dal 1990 al 2011, ne ha fatto parte un embargo devastante e sono culminate in un'invasione brutale. Guerre tanto violente quanto scriteriate, Anche senza considerare gli incalcolabili costi umani, queste guerre sono state intraprese nel contesto di una strategia politica orripilante che aveva il fine di sfruttare i settarismi già presenti nel paese e le altre linee di rottura, scatenando così la guerra civile e l'odio settario, dai quali è poco probabile l'Iraq riuscirà ad uscire per molti anni a venire.
Per gli americani era una pura e semplice strategia che aveva il fine di indebolire la pressione che i loro soldati e quelli dei loro alleati si erano trovati ad affrontare nel momento in cui, appena messo piede in Iraq, si trovarono a dover fronteggiare una resistenza accanita. Per gli iracheni, si è rivelato un incubo agghiacciante, impossibile da esprimere con le parole o elencando cifre.
E le cifre mancano, semplicemente. Secondo delle stime delle nazioni Unite citate dalla BBC, tra maggio e giugno del 2006 "una media di oltre cento civili al giorni è rimasta uccisa dalla violenza in Iraq". Certi rapporti riservati dell'ONU hanno fissato il numero dei civili morti nel solo 2006 a 34000. E il 2006 è stato l'anno in cui la strategia statunitense del divide et impera si è mostrata più efficace.
Nel corso degli anni molte persone fuori dall'Iraq, come succede nel caso di altri conflitti in cui il protrarsi della violenza porta a cadenzati conteggi delle vittime- hanno perso sensibilità nei confronti di questo costo in termini di vite umane. Come se la vita valesse meno man mano che più gente muore.
In concreto, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno distrutto di comune accordo l'Iraq moderno e non c'è rimorso e non ci sono scuse -non che sia venuto un qualche segnale in questo senso- che possano cambiare questa realtà. I vecchi padroni coloniali dell'Iraq e i suoi padroni nuovi non potevano aggrapparsi ad alcuna base legale o morale per invadere un paese già devastato dalle sanzioni. Non hanno mostrato alcuna pietà mentre distruggevano una generazione e preparavano il terreno ad un futuro conflitto che promette di essere sanguinoso come quelli che lo hanno preceduto.
L'ultima brigata combattente degli Stati Uniti avrebbe lasciato l'Iraq nel dicembre del 2011, e la cosa è stata intesa come se segnasse la fine di un'epoca. Gli storici sanno bene che una guerra non finisce perché lo ha deciso un decreto presidenziale o per come sono dislocate le truppe. L'Iraq è semplicemente entrato in un'altra fase del conflitto: gli Stati Uniti, il Regno Unito e gli altri continuano a farne parte integrante.
Un dato di fatto conseguenza dell'invasione e della guerra è che l'Iraq è stato diviso in zone d'influenza che si basano su linee di separazione meramente etniche e settarie. Secondo la suddivisione in vincitori e vinti tipica dei mass media occidentali i sunniti, stigmatizzati per esser stato il gruppo etnico favorito dall'ex presidente Saddam Hussein, ne sono usciti come il gruppo maggiormente sconfitto. Le nuove élite politiche irachene se le sono spartite sciiti e curdi: ogni partito curdo dispone di un proprio esercito privato, parte di stanza a Baghdad e parte di stanza nella regione autonoma del Kurdistan. La popolazione sciita è rappresentata da vari gruppi militanti, responsabili delle sventure dei sunniti.
I contrasti settari in Iraq, già colpevoli della morte di decine di migliaia di persone, si stanno riacutizzando. L'otto febbraio [2013, n.d.t.] cinque autobombe sono esplose in quelle che sono state sbrigativamente identificate come "zone sciite", facendo trentaquattro vittime. Pochi giorni prima, il quattro febbraio, ventidue persone erano state uccise in modo simile.
I sunniti iracheni, compresi i gruppi tribali più importanti ed i partiti politici, chiedono giustizia e la fine della loro marginalizzazione all'interno del sistema politico del Primo Ministro Nouri al Maliki, che è relativamente nuovo e sbilanciato. Sono state organizzate proteste massicce e continui scioperi allo scopo di portare avanti un messaggio politico chiaro. Molti altri partiti stanno invece sfruttando questa polarizzazione in ogni modo immaginabile: per riprendersi vecchi privilegi, per spingere il paese nuovamente sull'orlo della guerra civile, per far crescere il marasma in vari paesi arabi con particolare riferimento alla Siria, ed in alcuni casi per sistemare le cose a livello di quartieri suddivisi secondo criteri settari in modo da concretizzare la possibilità di fare buoni affari.
E' un fatto che nell'Iraq di oggi le divisioni settarie e gli affari vanno mano nella mano. La Reuters ha riferito che la Exxon Mobil ha ingaggiato Jeffrey James, ex ambasciatore statunitense in Iraq tra il 2010 ed il 2012, come "consulente". Si tratta sicuramente di un esempio di come la diplomazia postbellica e gli affari siano alleati naturali, ma c'è qualcosa da aggiungere.
Utilizzando a proprio vantaggio il fatto che il Kurdistan è una regione autonoma, questo colosso multinazionale del petrolio e del gas ha messo a segno colpi lucrosi indipendentemente dal governo centrale di Baghdad. Il quale governo ha inziato ad ammassare truppe vicino alla contesa regione petrolifera si dagli ultimi giorni dello scorso anno. Il governo autonomo del Kurdistan ha fatto la stessa cosa. Non potendo stabilire quale parte avrà il sopravvento nel conflitto che si prepara e di conseguenza chi controllerà in futuro le risorse petrolifere, la Exxon Mobile si trova davanti ad un dilemma: onorare i contratti con i curdi o cercare magari di contrattare in termini più vantaggiosi con la parte che sta a sud. E' possibile che James abbia qualche buona idea, specie se messo in condizioni di utilizzare l'influenza politica che ha acquisito durante la sua permanenza come ambasciatore degli Stati Uniti.
Il futuro dell'Iraq dipende da varie forze; quasi nessuna di esse è formata da elementi di nazionalità irachena che considerino il paese come uno. Il popolo iracheno, stretto tra un settarismo aspro, l'estremismo, le lotte per il potere, una classe dirigente che pensa soltanto ad ammassare ricchezze, i giochi di potere delle potenze regionali, gli interessi occidentali e una violentissima guerra appena trascorsa, sta passando sofferenze che superano la capacità che le analisi politiche o le statistiche possano avere di tenerne conto. Quella che era un'orgogliosa nazione dall'impressionante potenziale umano e dalle prospettive economiche di tutto rispetto è ridotta letteralmente in briciole.
Lo scrittore iracheno nel Regno Unito Hussein al Alak ha elaborato, in occasione dell'approssimarsi del decimo anniversario dall'invasione dell'Iraq, un tributo alle vittime silenziose del suo paese, i bambini. Secondo il ministero iracheno del lavoro e della sicurezza sociale ci sarebbero, afferma al Alak, qualcosa come quattro milioni e mezzo di orfani; di questi, uno "scioccante settanta per cento" avrebbe perso i genitori dopo l'invasione del 2003.
"Sul totale, circa seicentomila bambini vivono oggi per le strade, senza un luogo per ripararsi e senza cibo per sopravvivere", scrive al Alak. Quelli che vivono nei pochi orfanotrofi a guida statale "mancano attualmente di quanto serve a soddisfare i bisogni più elementari". 
Mi viene ancora da pensare al gentile iracheno che ha regalato a mia figlia tutta una collezione di favole irachene. Mi viene anche da pensare ai suoi bambini. Uno dei libretti che aveva comprato parlava di Sinbad, che nel libro era un ragazzino bravo e bello che amava l'avventura tanto quanto amava il suo paese. Non importava quanto crudele fosse stata la sua sorte: Sinbad ritornava sempre in Iraq e ricominciava da capo, come se niente fosse successo.
  

Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un editorialista di fama internazionale e redattore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è My Father was A Freedom Fighter: Gaza's Untold Story (Pluto Press).

sabato 16 febbraio 2013

La "libera informazione" e la Repubblica Araba di Siria tra negozietti di vestiti e rose del deserto


I nostri lettori sanno che la propaganda "occidentalista" e la costellazione vastissima di sfaticati, furbacchioni, inetti, zerbini e valletti di vario ordine e stipendio che se ne fanno portatori hanno un nemico irriducibile e di temibile efficienza, che si chiama principio di realtà.
A farne le spese è il mainstream mediatico, costretto a contorsioni logiche, "virate" e "ripensamenti" che farebbero vergognare chiunque fosse in grado di provare vergogna. Tra le ultime vittime più o meno illustri del principio di realtà troviamo la "primavera araba", concetto fogliettista privo di qualunque appiglio nel mondo reale che nel migliore dei casi è servito a metabolizzare a pro dei sudditi l'intromissione "occidentale" negli affari altrui e che nella sua variante siriana statuisce da due anni precisi la malvagità metafisica del "regime" di Bashar al Assad.
Il principio di realtà, purtroppo per tanti "liberi" e "professionali" fogliettisti, resta evanescente e pervasivo al tempo stesso, come il fumo di un incendio che passi al di sotto di una porta chiusa; nel caso siriano la realtà è quella del sanguinoso stallo di una guerra civile in gran parte eterodiretta e scatenata di proposito, a suo tempo presentata come inevitabile sbocco delle "violenze del regime" contro i "manifestanti inermi". 
Come vedremo dai minuscoli esempi che seguono, la "libera informazione" si è impegnata al meglio delle sue possibilità negli ultimi ventiquattro mesi. I difensori dei "diritti umani" e degli "interventi umanitari" -il nome trendy di quelle che in contesti normali si chiamano "violazioni della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale a mezzo di aggressione militare", anche.
Solo il principio di realtà rifiuta a tutt'oggi di adeguarsi alla volontà "occidentale"; un impiccio molestissimo, del quale sono stati in molti a non tenere conto.
Mancò la fortuna, ma non la malafede.
Il 15 febbraio 2013 l'ANSA pubblica questa notizia.
L'immagine che la correda mostra un combattente lealista con un Dragunov.
BRUXELLES - La "ossessione britannica" per avere la possibilita' di fornire armi all'opposizione siriana rischia di spaccare il Consiglio dei ministri degli esteri di lunedi' prossimo che tra gli altri punti all'ordine del giorno ha soprattutto il rinnovo del pacchetto di sanzioni contro il regime di Damasco, deciso il 29 novembre scorso ed in scadenza il 28 febbraio. "Se non c'e' accordo all'unanimita', il pacchetto finisce" spiegano le fonti.
Tra le misure in discussione c'e' anche l'embargo delle armi. Che il Regno Unito vorrebbe modificare in modo da poter rifornire l'opposizione. Secondo le fonti la posizione di Londra ha trovato "tre-quattro sostenitori", tra i quali ci sarebbe - anche se con una posizione molto piu' sfumata - la Francia. Mentre tra gli altri paesi ci sono "perplessita"' se non "forte opposizione".
Le informazioni arrivate a Bruxelles descrivono una "situazione estremamente difficile e complessa" che "cambia ogni giorno, da citta' a citta' e da quartiere a quartiere" sull'asse nord-sud da Aleppo a Damasco e fino al confine con la Giordania. Una situazione di incertezza, rilevano le fonti, che ha indotto l'amministrazione americana a mantenere l'embargo sulle armi.
I servizi europei hanno comunque messo a punto una serie di opzioni sul "quadro giuridico" per attenuare eventualmente l'embargo. Tra i ministri il dibattito sara' essenzialmente politico. Di fatto sul messaggio che l'Europa dara' al regime di Assad. E se anche la Gran Bretagna arrivera' decisa a sostenere la sua posizione, a Bruxelles si sottolinea che "tutti hanno senso della responsabilita"' e che quindi Londra non si spingera' fino a porre il veto che farebbe cadere l'intero pacchetto di sanzioni a Damasco.
Le cose sono sempre state chiare, con buona pace di certo democratismo da corteo, e le intromissioni, gli intenti e gli interessi "occidentali" in Siria non potevano essere descritti in modo più preciso e stringato. Detto con altre parole, davanti alla sconfitta militare e politica del "libero esercito siriano" che in due anni è semplicemente riuscito a disgregare il tessuto economico e sociale del paese e a danneggiarne le infrastrutture senza riuscire a costruire neppure l'embrione di una alternativa credibile all'assetto istituzionale in vigore, l'Unione Europea tornerebbe volentieri sui suoi passi. Ad impedirglielo è la più o meno grande quantità di ostinazione con cui i paesi sovrani maggiormente coinvolti nella guerra civile che doveva rovesciare il governo di Assad continueranno a difendere il proprio punto di vista e soprattutto i propri interessi.
La Repubblica Francese punta da qualche tempo ad altri cespiti e ha messo la sordina alle proprie tresche con le petromonarchie: aggredire la Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista pare sia stato sufficiente a dare lustro a quei Rafale che non c'era verso di rafalare a nessuno e se la Repubblica dell'India firma quel benedetto contratto lo scopo di ridare un po' di fiato alla Dassault sarà stato raggiunto senza doversi sporcare le mani contro una compagine che si è rivelata un nemico più duro del previsto e senza continuare ad andare a braccetto in Siria con gli stessi combattenti ai quali invece si fa la guerra nel Sahara.
I cittadini siriani affollano i campi profughi, per tacere delle concrete conquiste della "libertà" e della "democrazia" in terra di Libia? Pazienza, siamo sempre in tempo a chiedere scusa.
Il Regno Unito ospita l'autorevole, prestigioso e documentato "Osservatorio siriano per i diritti umani" le cui ciarle vengono considerate oro colato da tutto l'occidentalame gazzettiero. Secondo lo stesso mainstream "occidentale" gli ipse dixit sui "diritti umani" nella Repubblica Araba di Siria sono frutto del "lavoro" di un certo Rami Abdulrahman, che da un paio d'anni -quando non è occupato a mandare avanti una botteghina di vestitini in cui lavora anche la moglie- rendiconta puntualissimo e pignolo i successi dei "ribelli" e del "libero esercito siriano" che combattono contro le truppe regolari della Repubblica Araba di Siria, alle quali ha cura di ascrivere d'ufficio ogni nefandezza inventata o meno, venendo il più delle volte smentito nel giro di qualche ora.
E' essenzialmente grazie al signor Abdulrahman se da due anni a questa parte "il regime di Assad ha le ore contate".
Il tutto, da un terratetto con due camere di Coventry.
E non da un sottoscala di Londra, come pensavamo noi.

Bashar al Assad con la famiglia, in una foto pubblicata nel febbraio 2011.
Un mese dopo, Assad è stato retrocesso da fashion testimonial a dittatore sanguinario, e fatto sparire dai giornalini di vestiti.


Dello stesso Regno Unito è suddita Asma Assad, cosa che ha complicato un po' i piani di tanti premurosi custodi della democrazia perché l'anno scorso ci fu chi pensò sul serio di aiutare la "libertà del popolo siriano" negando una manciata di visti all'establishment locale.
Se in "Occidente" la libertà non venisse considerata esclusivamente come l'esercizio di comportamenti di consumo del tipo di volta in volta presentato come desiderabile, il comportamento della "libera stampa" non meriterebbe alcuna attenzione. Invece, si deve prendere atto del fatto che la farsa è arrivata al punto che un giornalino di vestiti tra i più considerati ha fatto sparire dalla propria edizione on line un articolo del febbraio 2011 in cui Asma Assad veniva indicata come "first lady" di un paese secolarizzato in cui le donne contavano quanto gli uomini ed in cui lo hijab era bandito dalle università. Asma Assad come "rosa nel deserto", in "un luogo senza bombardamenti, senza disordini, senza rapimenti" pur con le dovute e profonde "zone d'ombra". Zone d'ombra che non impedivano al fogliettame "occidentale" di riprodurre scene di idillio domestico come quella qui presentata e di descrivere nei minuti dettagli i comportamenti di consumo della famiglia Assad. L'incipit dell'articolo è qui.
Queste erano le priorità della "libera informazione"; davanti alle necessità della committenza, cambiate di segno dalla sera alla mattina, non è stato neppure necessario mutare linguaggio o registro; si è svolto il compito assegnato facendo sparire quello che c'era da far sparire, ricorrendo ad argomenti di solido vigore umanitario e democratico (per esempio, cercando di attribuire un'amante a Bashar al Assad) e dipingendo in tono denigratorio quello che fino al giorno avanti veniva presentato come lodevole.

domenica 10 febbraio 2013

Nicola Nasser - Repubblica Araba di Siria: lo stato sionista soffia sul fuoco. L'incendio rischia di propagarsi



Traduzione da Asia Times.

Il raid aereo sionista del trenta gennaio su un bersaglio siriano ancora da identificare con precisione si è verificato nello stesso momento in cui sono emersi indizi, difficili da contestare, secondo i quali i tentativi di giungere ad un "regime change" in Siria tramite la forza, con un intervento militare straniero e con la ribellione in armi sul fronte interno, sono falliti inducendo l'opposizione siriana in esilio a prendere controvoglia in considerazione l'idea di "trattative" con il governo in carica, con la benedizione degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e della Lega Araba.
Il Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu continua ad affermare che lo stato sionista si sta preparando per "macroscopici cambiamenti" in Siria, ma i funzionari più alti in grado del ministero degli esteri hanno accusato Netanyahu di star utilizzando la Siria come uno spauracchio, per giustificare il fatto di aver ordinato quello che secondo il Times of Israel i russi hanno definito un raid "privo di pretesti".
Un altro funzionario ha riferito al quotidiano Maariv che per quanto riguarda le asserite armi chimiche siriane nessun limite fissato dallo stato sionista era stato superato, così da giustificare l'attacco. Il sedici di gennaio il portavoce del Consiglio Nazionale per la Sicurezza dello stato sionista Tommy Vietor aveva detto che "non c'erano prove" che i siriani si accingessero in qualchye modo ad utilizzare armi di questo genere. Il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, il Segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta, il Segretario della NATO Fogh Rasmussen e il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov avevano affermato nei due mesi antecedenti l'attacco che "non esistevano resoconti confermati" o "novità di qualche genere" sulle armi chimiche siriane.
Secondo l'ex capo della direzione generale dei servizi militari, il maggiore generale della riserva Amos Yaldin, è più probabile che lo stato sionista stia cercando di provocare una escalation per impelagare nel conflitto siriano i riluttanti Stati Uniti, in un tentativo fuori tempo massimo di precedere una soluzione politica del conflitto, sulla base della credenza che la caduta del governo di Bashar al Assad possa essere utile alla strategia dello stato sionista, o che stia cercando di assicurarsi un posto al tavolo dei negoziati destinato a definire il futuro assetto governativo siriano.
Alzare la tensione sul piano militare non assicurerà allo stato sionista un posto in alcuna sede di discussione sulla Siria. Questo è quello che deve essersi sentito dire il capo dei stato maggiore luogotenente generale Benny Gantz durante la sua ultima visita di cinque giorni negli Stati Uniti dal suo ospite di Washington, il presidente dello stato maggiore congiunto generale Martin Dempsey. Il capo dell'Ufficio per la Sicurezza Nazionale, il maggiore generale della riserva Yaakov Amidor, che si trovava a Mosca nello stesso periodo, deve essersi sentito rivolgere dai suoi ospiti qualche messaggio dello stesso tenore.
L'intervento militare sionista in questo particolare momento getta benzina sul fuoco di una Siria in cui negli ultimi tempi si stanno cercando invece dei pompieri in mezzo al crescente numero dei sostenitori del dialogo, dei negoziati e delle soluzioni politiche a livello nazionale, regionale ed internazionale.
In Siria la crisi umanitaria che si sta aggravando e il tributo di sangue che sta crescendo hanno imposto di scegliere tra due possibilità: un intervento militare straniero o una soluzione politica. Sono passati due anni da quando gli Stati Uniti, l'Unione Europea, la Turchia ed il Qatar hanno deciso di imporre con la forza un cambiamento di governo in Siria; la prima possibilità non si è concretizzata.
Sul piano militare il legittimo governo siriano sta prendendo il sopravvento sul terreno; i ribelli non sono riusciti a "liberare" neppure una città o un sobborgo e neppure una zona di campagna abbastanza ampia da poter essere dichiarata "zona cuscinetto" o da poter accogliere l'autonominata leadership dell'opposizione in esilio; la seconda opzione rappresentata dalla soluzione politica rimane l'unica via d'uscita dal bagno di sangue e da una crisi umanitaria che si aggrava di ora in ora.
Il messaggio che l'attacco sionista manda è che c'è ancora spazio per l'opzione militare. I ribelli, che hanno basato la loro strategia complessiva su un intervento militare straniero, hanno di recente scoperto che l'unico intervento militare straniero che sono riusciti ad ottenere è stato quello della rete internazionale di Al Qaeda e dell'organizzazione internazionale dei Fratelli Musulmani. Non c'è da stupirsi se adesso i frustrati ribelli siriani stanno perdendo terreno, slancio e morale.
Un intervento militare sionista puntellerebbe senz'altro il morale dei ribelli, ma solo per poco, perché potenzialmente non garantisce affatto di portare ad un miglioramento delle loro possibilità in una situazione in cui lo sforzo collettivo di tutti gli "amici della Siria" si è rivelato destinato al fallimento.
Un intervento militare sionista non farebbe che peggiorare la situazione, prolungando il conflitto armato, spargendo ancor più sangue siriano, esacerbando la crisi umanitaria, moltiplicando il numero dei profughi nel paese e dei rifugiati siriani all'estero, allontanando nel tempo una soluzione politica che è inevitabile, e portando un numero ancor più significativo di siriani a sostenere il governo in carica nella difesa del paese contro l'occupante sionista delle alture del Golan, isolando in questo modo i ribelli e privandoli di qualsiasi sostegno possano aver loro lasciato le tattiche terroristiche che usano.
Cosa ancora più importante, l'intervento sionista rischia di tradursi in un conflitto regionale se non viene arginato dalla comunità internazionale o se riesce ad innescare un conflitto tra siriani. I siriani ed i sionisti hanno preso atto dopo l'attacco che le regole di ingaggio bilaterali sono già cambiate.
Tutto quello di cui hanno preso atto gli "amici della Siria" è invece il fatto che hanno tentato tutto quanto era in loro potere per consolidare una "zona cuscinetto" all'interno del territorio siriano, ma che non sono riusciti a fare nulla di concreto. Hanno cercato di realizzarla con una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ma i loro sforzi sono stati vanificati per tre volte dal doppio veto di Russia e Cina. Hanno cercato, fino ad oggi senza successo, di instaurarne una al di fuori della giurisdizione delle Nazioni Unite armando la ribellione interna, la cui punta avanzata è costituita essenzialmente dal Fronte Al Nusra, collegato ad Al Qaeda.
Adesso lo stato sionista ha fatto il suo ingresso nel conflitto, ufficialmente per la prima volta, per cercare a modo suo di consolidare una "zona cuscinetto" per conto proprio, nel tentativo di riuscire laddove gli "amici della Siria" hanno fallito.
Il 3 febbraio il Sunday Times di Londra ha riferito che lo stato sionista sta prendendo in considerazione l'idea di realizzare una zona cuscinetto che si estenda per dieci miglia -sedici chilometri- all'interno del territorio siriano. Il quotidiano mainstream Maariv, pubblicato nello stato sionista, ha confermato il giorno successivo, aggiungendo che la zona cuscinetto verrebbe realizzata in cooperazione con i villaggi arabi locali che si trovano sul lato siriano della zona cuscinetto monitorata dalle Nazioni Unite, che venne creata da ambo i lati della linea armistiziale dopo la guerra tra Siria e stato sionista del 1973.
In concreto, lo stato sionista ha preparato il terreno per la realizzazione di una propria zona cuscinetto. In uno sviluppo meno pubblicizzato, lo stato sionista ha lasciato che la zona cuscinetto sotto sorveglianza dell'ONU che si trova tra la Siria e le alture del Golan siriano occupate dai sionisti venisse occupata dai ribelli siriani islamisti. Lo European Jewish Press ha riferito il primo gennaio 2013 che il premier sionista Netanyahu, durante una visita nel Golan occupato, è stato messo a conoscenza del fatto che i ribelli "hanno occupato posizioni lungo la frontiera con lo stato sionista, con l'eccezione della enclave di Quneitra".
Lo scorso 14 novembre il Ministro della Difesa Ehud Barak ha confermato alla Associated Press che "i ribelli siriani controllano quasi tutti i villaggi vicini alla frontiera con le alture del Golan controllate dallo stato sionista".
Il 13 dicembre lo Jerusalem Post ha citato una "fonte militare di grado superiore" secondo la quale "il fatto che la zona sia controllata da ribelli non richiede alcun cambiamento dalla nostra parte".
A controllare la zona ci sono circa mille osservatori delle Nazioni Unite. Un "ufficiale sionista" ha detto ad un inviato del McClatchy che i ribelli presenti in zona sono "meno di mille combattenti". Il Canada ha ritirato nel settembre scorso il proprio contingente di osservatori; il Giappone ha fatto lo stesso a gennaio. Secondo il Times of Israel, che ha citato il quotidiano arabo pubblicato a Londra Al Hayat il mese prima l'ambasciatore francese all'ONU Grard Araud avrebbe sostenuto che la forza per il mantenimento della pace nel Golan potrebbe "collassare".
L'accordo armistiziale del 1974 proibisce al governo siriano di intraprendere attività militari nella zona cuscinetto; nel caso, esso rischierebbe il confronto militare con lo stato sionista; secondo Moshe Maoz, professore emerito presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, "L'esercito siriano non ha alcun interesse a provocare lo stato sionista".
In ogni caso, sarebbe il caso di sapere per quanto tempo la Siria potrà tollerare che la zona cuscinetto demilitarizzata e controllata dall'ONU diventi, intanto che i sionisti tengono chiusi entrambi gli occhi, un rifugio sicuro di terroristi ed un corridoio di rifornimento che mette in comunicazione i ribelli che si trovano in Libano con le loro conventicole nella Siria meridionale.
Lo stato sionista non ha sfidato militarmente la presenza dei ribelli collegati ad Al Qaeda sul lato di propria competenza della zona teoricamente demilitarizzata, né ha avanzato lamentele a riguardo o fatto richiesta alle Nazioni Unite per un rafforzamento degli osservatori dell'ONU di stanza nella zona.
Ironicamente, lo stato sionista fa riferimento alla presenza di questi stessi ribelli alla frontiera delle alture del Golan occupato come al pretesto per giustificare la "presa in esame della creazione di una zona cuscinetto" all'interno del territorio siriano.


Nicola Nasser è un giornalista arabo di lunga esperienza di Bir Zeit, nella West Bank dei territori palestinesi occupati dai sionisti.

sabato 9 febbraio 2013

Cameron, Karzai, Zardari: "I talebani devono negoziare"


Tre combattenti a volto coperto nella provincia afghana di Ghazni. "Se l'AmeriKKKa intende lasciare in Afghanistan un proprio contingente, grande o piccolo che sia, guerra e distruzione continueranno per quanto continuerà la sua presenza". (Fonte: presstv.ir)

Exit strategy. Strategia o serie di mosse strategiche in grado di delineare una via d'uscita praticabile da un’altra strategia precedentemente sviluppata.
In caso di sconfitta militare sul campo, chi porta la cravatta definisce exit strategy quella che le persone serie definiscono ritirata, ripiegamento, fuga, resa.
Disimpegno, nei casi meno sarcastici.
Per dodici anni la politica "occidentalista", per tramite dei suoi gazzettieri a libro paga, ha statuito che le formazioni combattenti nel loro insieme indicate come talebane si dovevano arrendere.
Per dodici anni, l'"Occidente" ha mandato un segnale molto chiaro ai talebani. Con quella gentaglia lì, l'"Occidente" non ci negozia. Li polverizza, li spazza via, e fine della questione.
Dopo dodici anni di non negoziato e di non resa, l'"Occidente" ha mandato un altro segnale molto chiaro ai talebani. I talebani devono negoziare. Con quella gentaglia lì, l'"Occidente" ci si mette a un tavolino. Riconosce la sconfitta, si ritira dai paesi aggrediti, e fine della questione.


I talebani devono negoziare, affermano Cameron, Karzai e Zardari
4 febbraio 2013

I talebani dovrebbero aprire una rappresentanza a Doha in modo che si possano intraprendere dei neogziati, hanno puntualizzato i leader politici del Regno Unito, dell'Afghanistan e del Pakistan.
In conclusione di un incontro tenutosi presso la residenza di campagna del Primo Ministro britannico per fare il punto sul processo di pace e di riconciliazione guidato dagli afghani, David Cameron ha rilasciato una dichiarazione congiunta assieme al Presidente dell'Afghanistan Hamid Karzai e al Presidente del Pakistan Asif Ali Zardari, in cui si ribadisce l'importanza di prendere "ogni misura necessaria" per giungere ad un accordo di pace.
L'apertura di una rappresentanza a Doha per intraprendere i negoziati tra i talebani e l'afghano Supremo Consiglio per la Pace è stata auspicata da tutti e tre.
"Come obiettivo finale", afferma la dichiarazione, "ogni afghano dovrebbe essere in condizioni di partecipare pacificamente alla costruzione del futuro politico del paese".
Secondo la dichiarazione, i talebani devono "compiere i passi necessari ad aprire una rappresentanza e a partecipare al dialogo".
Un portavoce di Downing Street che ha preso la parola subito dopo l'incontro cui hanno partecipato i tre leader ha detto che per la prima volta si sono riuniti i responsabili della politica e della sicurezza di Pakistan e Afghanistan, insieme ai ministri degli esteri, agli stati maggiori dell'esercito, ai capi dei servizi e al Supremo Consiglio per la Pace dell'Afghanistan.
"Questo processo cui partecipano tre interlocutori costituisce un segnale molto chiaro per i talebani", ha detto il portavoce. "E' giunto il momento che tutti prendano parte ad un processo politico pacifico in Afghanistan".

domenica 3 febbraio 2013

Alitalia fa rotta verso Fanculo - Quarta parte



Scrivevamo appena un mese fa che nel 2008 il cosiddetto salvataggio della cosiddetta "compagnia aerea di bandiera" dello stato che occupa la penisola italiana fu uno dei temi più propagandati dal governo "occidentalista": privatizzazione e corollari annessi, più in là non ci andavano e non ci vanno. In questo caso però la propaganda insisté molto sul fatto che l'operazione era stata condotta tramite una "cordata nazionale".
Scrivemmo che "Roma non fu distrutta in un giorno" per cui ci voleva del tempo anche per distruggere una compagnia aerea. Ci premurammo anche di descrivere e motivare la nostra preferenza per realtà più normali, come quella della Türk Hava Yollari o dell'Iran Air.
A quattro anni di distanza, i risultati sarebbero questi: un'organizzazione che perde più di seicentomila euro al giorno e che ha perso qualcosa come i tre quarti del capitale.
Il loro orgoglio nazionale.
A questi prodigi di ingegneria gestionale i pizzapastas sono riusciti ad aggiungere una serie di partnership e di "code sharing" sui quali -è proprio il caso di dirlo- sarebbe davvero meglio sorvolare. Tra le altre cose si è pensato bene di rendere più "appetibili" gli aerei dei vettori a contratto imponendo loro la livrea della compagnia aerea in oggetto, secondo una prassi che sarebbe accolta da risatine di scherno dagli allievi del primo anno di qualsiasi scuola commerciale.
Dopo qualche mese di voci di corridoio, maldicenze, avvisaglie ben interpretate e documentatissime critiche da parte dell'utenza, il 2 febbraio 2013 un turboelica di una compagnia aerea rumena in "code sharing" in atterraggio a Roma esce di pista: aereo danneggiato e una quindicina di feriti. La prima preoccupazione di quelli con la cravatta? Far sparire dalla fusoliera dell'aereo la livrea ed il logo della compagnia.
A giudicare dalle immagini e sempre che non si tratti del solito scherzo fatto con qualche programma di ritocco (la norma, con le gazzette: tanto sono sempre in tempo a smentire) pare che qualcuno abbia dato di bianco con tanta fretta da coprire per intero anche la fila dei finestrini.
La bandiera della Repubblica di Romania invece hanno avuto cura di lasciarla in bella evidenza.