domenica 28 febbraio 2010

Gianfranco Rotondi e le "elezioni" del 2010


Gianfranco Rotondi farebbe nientemeno che il "ministro per l'attuazione del programma di governo" per conto dell'esecutivo in carica nello stato che occupa la penisola italiana.
Si tratta di uno dei commensali più incolori e trascurabili dell'intera compagine, che a sua volta costituisce un buon campionamento di una classe politica i cui unici impegni sono la repressione del dissenso e la tutela degli interessi propri e dei camerati di mangiatoia.
A volte il gazzettaio, pur nella sua monocorde e nota malafede, nella sua abituale cialtroneria e nel suo servilismo oltremodo repellente lascia intravedere suo malgrado sprazzi autentici, in cui emerge la vera essenza di un aggregato di individui uniti soltanto da ambizioni venali e da una tutela dei reciproci interessi messa continuamente in discussione dal calor bianco del denaro.
Nelle stesse ore in cui un senatore della stessa parte politica è prossimo alle dimissioni perché stanno per andarlo a prendere per metterlo in galera come uno di quei posteggiatori abusivi di cui in ultima analisi rappresenta soltanto una versione meglio remunerata, un disguido nella presentazione di certe liste elettorali ha fatto affermare a questo Rotondi che "L'onorevole De Luca da solo in Piemonte ha presentato in tre giorni una lista della Dc per Cota letteralmente pensata e realizzata in una settimana. I maestri del PdL hanno fatto perdere la Polverini a tavolino. Io ne ho piene le tasche di fare il parente povero in questa banda di incapaci. Nemmeno la campagna elettorale mi induce a misericordia".

venerdì 26 febbraio 2010

Giudici talebani?


Come tutti sanno, lo stato che occupa la penisola italiana è "controllato" da una ristretta categoria di politicanti che ha prima reso infrequentabili gli ambienti della politica istituzionale da parte di chiunque avesse un minimo di rispetto per se stesso e per gli altri, e poi li ha occupati in blocco, instaurando una pornocrazia fondata sullo scambio di favori, sull'ostentazione di lussi grossolani e sull'assoluta impunità. Un "controllo" in verità molto relativo: in un contesto globalizzato il primato dell'economia sulla politica è affermato, consolidato ed indiscusso; a contestarlo sono solo in pochi che si autocandidano all'emarginazione sociale ed al linciaggio da parte della torma di vuotacessi che fancazza nelle redazioni.
In queste condizioni può sembrare incredibile che la sedicente élite riesca ad avere problemi con la giustizia penale; eppure a volte accade ancora. Alla fine di febbraio 2010 è dunque invalsa la moda mediatica, durata anche questa per poche ore, di definire talebani i detentori del potere giudiziario che non si limitino ad accanirsi contro i mustad'afin e intendano turbare l'olimpica pace di politicanti ed affaristi.
Talebano, o meglio ṭālib al singolare, è un vocabolo pashtun calco di un analogo arabo, ed ha il significato di "cercatore" e per estensione di "studente". Come ha fatto ad acquisire una notazione tanto negativa da diventare praticamente un insulto?
La cosa ha una sua logica: lo stato che occupa la penisola italiana è una realtà, probabilmente unica a livello mondiale con l'eccezione di contesti altrettanto involuti come gli Stati Uniti d'AmeriKKKa, in cui la conoscenza, la competenza e la consapevolezza -in una parola la cultura nel senso corrente del termine- vengano concepiti come tare, come intralci, come qualcosa di cui vergognarsi. In una realtà dove ci si appella quotidianamente all'ignoranza, invocandola a giustificativo per comportamenti demenziali, irresponsabili, idioti, pasticcioni o improntati all'incompetenza pura e semplice, e dove essa ignoranza costituisce quasi un motivo di orgoglio invece che qualcosa di vergognoso, non appare certo strano che dare di studente a qualcuno possa essere inteso come un grave insulto.

mercoledì 24 febbraio 2010

Franco Cardini sulla Repubblica Islamica dell'Iran


Franco Cardini è uno storico di indiscussa competenza poco incline a lasciarsi andare a concioni prive di cognizione di causa. Quanto basta perché la gazzetteria gli dia corda il meno possibile, e gli assegni di solito la funzione che hanno, in certi contesti, tutte le persone rispettabili, ovvero conferire profumo francese a prodotti editoriali e di "informazione" costituiti in realtà da carrettate di sterco.
All'indomani delle discusse elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica dell'Iran, Cardini produsse una lunga e documentata serie di considerazioni, cui il tempo sta dando ragione nonostante il mainstream sia letteralmente saturo di acritica propaganda "verde", esposta in modo ecoico da e per gente priva di qualunque cognizione di causa. L'atteggiamento di certe realtà ed organizzazioni "occidentali" in occasione di scontri di piazza mai sopiti per sei mesi può essere collocato tra il cinico, il furbetto ed il controproducente. Scontri nel corso dei quali si sparava e si moriva sono serviti a pubblicizzare cinguettatori e faccialibri, roba cui fanno ricorso le attricette quando vogliono pubblicizzare i loro interventi plastici ed i cui contenuti privi di qualunque verifica sono stati presentati come oro colato dal gazzettaio.
Una gazzetteria assolutamente incurante degli effetti che tonnellate di dati incompleti, di menzogne vere e proprie e di mostruosità sparate a tutta pagina potevano avere per chi rischiava in piazza in prima persona.
L'impressione è che il bagno di sangue fino ad oggi più o meno evitato -le opposizioni parlano di cento morti; nel 1978 l'impiego demenziale dell'esercito da parte di Reza Pahlavi lasciò sul terreno diecimila o quarantamila persone, a seconda delle fonti- sia stato invece auspicato, neanche tanto sottobanco, dalla torma di vuotacessi che fancazza nelle redazioni. La Repubblica Islamica dell'Iran, ai loro occhi, serve solo come caso eclatante da sciorinare sotto il naso di chiunque faccia pubblicamente notare come e qualmente il "libero Occidente" stia di fatto diventando velocemente un'immensa galera a cielo aperto. Poi c'è da preparare il terreno all'aggressione amriki e/o a quella sionista, nell'aria da anni presso parti politiche rappresentative di un elettorato ingordo, ebete, incompetente, in sovrappeso e dotato di un'incoscienza e di una pericolosità a tutta prova, che non fatica a riconoscersi nella scoperta e vantata demenzialità delle "pitbull con il rossetto".
La lettura di Franco Cardini è un antidoto molto incompleto, tuttavia necessario, alle asserzioni forsennate di una "libera informazione" cui chiunque tenga davvero alla propria indipendenza di giudizio dovrebbe guardarsi bene dal rivolgersi.

L’11 febbraio scorso, trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa. Visto il momento “caldissimo” nell’opinione pubblica, si potrebbe supporre ch’essa è stata presa d’assalto dai media. Macché. Né un TG importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo. Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’AIEA, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Germania) nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia incaricato di restituirlo all’Iran. Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvengo in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al 20%. Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come “non interessante” una proposta del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e semplice cessione del minerale, senza contropartite né garanzie. Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non averle accettate.

Qualcosa di molto grave si sta profilando in Occidente: qualcosa che forse minaccia il mondo. E’ uno scenario che purtroppo abbiamo già visto. Tra 2002 e 2003 i governi statunitense e britannico inscenarono una pietosa e vergognosa commedia cercando di far credere al mondo che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di pericolose armi segrete di distruzione di massa. Era incredibile: e infatti chi aveva capacità di comprendere e di assumere informazioni precise si rese subito conto che si trattava di una colossale e infame menzogna. Ma i mass media insistevano, i politici – anche italiani – erano già decisi a seguire il sentiero tracciato del sinistro signor Bush: il risultato fu la guerra e un’occupazione che perdura e dalla quale gli stessi italiani non sanno come far a uscire.[1]

Sette anni dopo, siamo alle solite: analogo scenario, analoghe sfrontate bugie. La vittima designata, ora, è l’Iran. Auguriamoci che le dissennate dichiarazioni dei politici e dei mass media non preludano a qualcosa di simile al pasticcio irakeno: stavolta sarebbe molto più grave.

La Repubblica Islamica dell’Iran è una società molto complessa,[2] che non è certo retta da un regime totalitario, bensì da un sistema assembleare per certi versi paragonabile a una repubblica protosovietica controllata da un “senato” di teologi-giuristi. Nata da uno strappo violento che ha sottratto trent’anni fa agli USA il suo più sicuro e fedele alleato-subordinato e che ha fatto tabula rasa d’importanti interessi petroliferi occidentali, è strutturalmente avversaria della superpotenza americana: dal momento che essa individua in Israele il principale supporto della politica statunitense nel Vicino Oriente, essa avversa radicalmente anche quest’ultimo. Non c’è dubbio che il governo iraniano attuale abusi dei suoi poteri, a cominciare da quello che gli consente di comminare pene capitali, e che non rispetti alcuni diritti della persona umana. Non è l’unico a far certe cose (tali diritti non sono rispettati nemmeno nell’illegale campo di detenzione di Guantanamo, tenuto aperto dalla Prima Democrazia del mondo): ma le fa, e ciò dev’essere denunziato con deciso rigore.

Ciò non toglie che sull’Iran il mondo occidentale in genere, italiano in particolare, sia malissimo informato. Esaminiamo sinteticamente i quattro fondamentali capi d’accusa che vengono ormai rivolti abitualmente al governo di Ahmedinejad: si sarebbe reso responsabile di gravi brogli elettorali durante le ultime elezioni e di una pesante repressione delle proteste da parte dell’opposizione; minaccerebbe e programmerebbe un attacco contro Israele, con intenzione di distruggerlo; starebbe fabbricandosi un potenziale nucleare militare; sarebbe candidato a cedere in quanto isolato internazionalmente.
Si tratta sostanzialmente di quattro calunnie, per quanto ciascuna di essi riposi su un qualche elemento di verità. Vediamole in ordine.

Prima. In una recente intervista consultabile nella versione telematica di “Panorama” del 30.12.2010 una delle maggiori esperte di cose iraniane, Farian Sabahi,[3] non ha escluso che vi siano stati brogli elettorali, ma ha sottolineato che essi non possono aver falsato sostanzialmente il responso delle urne che è stato comunque con certezza largamente favorevole ad Ahmadinejad in quanto egli, a differenza dei suoi elettori, ha saputo guadagnarsi la fiducia della maggioranza degli iraniani non grazie alle sue tracotanti minacce contro Israele, bensì con una politica sociale che ha costantemente messo a disposizione dei ceti più deboli una massa ingente di pubbliche risorse, ha consentito a 22 milioni d’iraniani di accedere a efficaci cure mediche gratuite, ha aumentato molti stipendi (p.es. del 30% quello degli insegnanti), ha aumentato del 50% ‘entità delle pensioni. Al contrario i suoi avversari, pur abilissimi a mobilitarsi su Twitter e forti nei ceti medi specie della capitale, hanno fatto ben poca breccia nei centri minori e praticamente nessuna nelle campagne. I nostri mass media insistono sui deliri oratori hitleriani di Ahmedinejad (che peraltro riassumono sistematicamente, senza darci modo di capire che cosa effettivamente egli dica, e a chi, e in quali contesti), ma non c’informano per nulla della sua politica sociale, impedendoci di farci un’idea di che cosa realmente sia l’Iran di oggi.[4]

Seconda. Quanto all’atteggiamento di Ahmedinejad contro Israele, è indubbiamente una maldestra e odiosa misura propagandistica da parte sua la contestazione della shoah; ma, quanto alle minacce, chi non si limita al materiale scaricato da Twitter si è reso facilmente conto che il presidente iraniano non ha mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale è evidentemente insostenibile in quanto costituisce una contraddizione in termini. Da ciò Ahmedinejad non deduce che lo stato d’Israele vada distrutto dall’esterno, ma che esso non potrà mai mantenersi sulla base dei principi proclamati. Oltretutto, nell’ormai radicato immaginario occidentale Ahmadinejad starebbe minacciando di distruzione nucleare Israele: ora, si domanda come può il leader di uno stato che non è ancora arrivato nemmeno al nucleare civile minacciare di distruzione nucleare un paese che invece dispone sul serio di un nucleare militare. Tutto ciò è assurdo. E non è difatti mai accaduto. Ahmedinejad si limita a dire che la convivenza di ebrei e di palestinesi dovrà essere rifondata su basi diverse da quelle dell’attuale stato d’Israele se vorrà avere qualche probabilità di sopravvivere.

Terza, la questione nucleare. Qui siamo al ridicolo e all’infamia al tempo stesso. L’11 febbraio scorso, trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa. Visto il momento “caldissimo” nell’opinione pubblica, si potrebbe supporre ch’essa è stata presa d’assalto dai media. Macché. Né un TG importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo. Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’AIEA, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Germania) nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia incaricato di restituirlo all’Iran. Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvengo in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al 20%. Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come “non interessante” una proposta del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e semplice cessione del minerale, senza contropartite né garanzie. Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non averle accettate. Bisogna al riguardo tener presente due cose: primo, per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (gli unici tre stati che non hanno firmato sono Israele, India, Pakistan). Il punto è che sembra proprio che i soggetti occidentali più importanti (quindi il governo statunitense e la NATO, che da esso è largamente controllata) siano ben decisi a procedere su una strada pregiudizialmente tracciata. In un’intervista concessa a Luigi Offeddu del “Il Corriere della Sera”, e pubblicata il 29.2.2010, Adres Fogh Rasmussen, segretario generale della NATO dall’agosto 2009, ha proferito affermazioni allucinanti nella sostanza non meno che nel tono: “Al momento dovuto, noi prenderemo le decisioni necessarie per difendere i paesi della NATO”, ha dichiarato.[5] Ha parlato di un sistema missilistico difensivo, risultato di una triplice collaborazione tra USA, NATO e Russia, fingendo di non sapere che in Realtà la Russia è preoccupata delle installazioni missilistiche USA-NATO in Romania e in Polonia, non è soddisfatta dei chiarimenti fornitile (secondo i quali esse sarebbero dirette contro la minaccia iraniana) e la sua richiesta di “collaborazione a tale sistema è, in realtà, una richiesta di controllo. Rassmunsen, ignorando del tutto le proposte iraniane, continua a proporre un diktat: l’Iran consegni tutto il suo uranio che verrà arricchito all’estero, senza alcuna possibilità di controllarne il destino, senza alcun controimpegno e senza alcuna contropartita. C’è da chiedersi chi mai potrebbe accettare imposizioni del genere.

Quarto. Si continua acriticamente a ripetere, da noi, che ormai l’ONU sarebbe pronta a inasprire l’embargo all’Iran e che lo stesso consiglio di Sicurezza sarebbe d’accordo: si tratterebbe solo di convincere la Cina a non usare il suo diritto di veto e a studiare sanzioni che colpiscano il governo iraniano, ma non la popolazione. Quest’ultimo proposito è manifestamente ipocrita: le sanzioni colpiscono sempre le popolazioni, e in genere rinsaldano la loro solidarietà con i loro governi (a parte l’ipocrisia del governo italiano, che sostiene di preoccuparsi per ragioni umanitarie mentre in realtà è in ansia per il grosso business iraniano dell’ENI, che potrebb’essere compromesso dalle sanzioni con un forte danno agli interessi italiani). Ad ogni modo, le sanzioni contro l’Iran non funzioneranno, perché il governo iraniano è a vari livelli in contatto positivo con molti paesi e ha stipulato o sta stipulando accordi non solo con Cina e Russia, ma anche con la Siria, col Venezuela e con la Turchia. E’ del 19.2., stando a due “lanci” AGI, la dichiarazione del viceministro degli Affari Esteri Serghiey Ryabkov, secondo la quale non solo la Russia è contraria a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e indisponibile ad appoggiarle, ma si conferma intenzionata a fornire all’Iran i sistemi antiaerei S-300, come si era impegnata a fare.

Insomma, il regime iraniano può non piacere: ma non ha la possibilità e forse nemmeno l’intenzione di costruire armi nucleari e non si trova affatto in una posizione di assoluto isolamento diplomatico.
Ma allora perché gli USA sembrano preoccuparsi dell’Iran di Ahmedinejad al punto di arrivare alle esplicite minacce? L’atomica, i diritti umani e le minacce a Israele non c’entrano. C’entra invece il modesto isolotto di Kish sul Golfo Persico, che gli iraniani hanno scelto a sede di una futura rete di scambi petroliferi mirante alla costituzione di un “cartello” che si fonderebbe sull’unità monetaria non più del dollaro, bensì dell’euro. Questa è la bomba nucleare iraniana che davvero gli americani temono.

E allora, immaginiamoci un possibile e purtroppo piuttosto probabile futuro. La guerra, lo sanno tutti, è un gran ricco business: vi sono cointeressate potentissime lobbies industriali e finanziarie internazionali; è rimasta l’unica attività produttiva statunitense che davvero “tiri”; le commesse vanno rinnovate e gli arsenali debbono essere vuotati se si vogliono riempire di nuovo; poi ci sono i generali (non solo i generaloni del Pentagono, quelli che ostentano nomi da conquistatore romano, tipo Petreus; ma anche i generalucci della NATO e i generalicchi italiani, per tacer degli strateghi-peopolitici da TV…); inoltre c’è il sacrosanto spiegamento dei fondamentalisti cristiani, ebrei e musulmano-sunniti che non vedono l’ora di saltar addosso al demonio sciita; infine ci sono i poveri cristi che aspettano di venir ingaggiati come in Afghanistan e in Iraq, la folla dei portoricani in caccia della magica green card che fa di loro dei quali cittadini statunitensi, i sottoproletari che sognano di ascendere al rango di contractors. Tutte insieme, queste forze sono – non illudiamoci – potentissime.

Se non ci salva il duplice “veto” russo-cinese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (ma anche quello non sarà sufficiente: basterà la NATO, come in Afghanistan nel 2001: poi, l’ONU sarà costretta ad avallare…), oppure, meglio ancora, un deciso “no” degli israeliani che - a differenza del loro governo - non hanno perduto il ben dell’intelletto e la voce dei quali potrebbe contare moltissimo dinanzi all’opinione pubblica mondiale , l’aggressione all’Iran probabilmente si farà. E’ molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il sunnita e “laico-progressista” Saddam poteva contare su molti amici negli USA, in Europa e nel mondo musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne dispone. Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba nucleare proprio l’Iran non ce l’aveva e nemmeno i terribili missili puntati contro l’Occidente; qualcun altro sgamerà, altri ancora si rifugeranno nell’amnesia. Frattanto, nella migliore dell’ipotesi, ci saremo infilati in un pantano sanguinoso e costoso, peggiore di quelli afghano e irakeno messi insieme: un pantano nel quale sguazzeranno allegramente solo le anatre e le rane tipo gli imprenditori, i militarastri e i sottoproletari del “finché-c’è-guerra-c’è-speranza”, che ciascuno al suo livello ci guadagneranno (“produzione e consumo” in alto, patacche e promozioni a mezza tacca, “posti di lavoro” in basso) o tipo La Russa, che già ora s’inorgoglisce dei suoi picchetti d’onore e delle sue finte uniformi militari. Se non altro, tutto ciò darà una nota comica alla vicenda. Ma non illudiamoci: quella sarà soltanto la migliore fra le ipotesi.

Franco Cardini
Fonte: www.diorama.it
Link: http://www.diorama.it/index.php?option=com_content&task=view&id=178&Itemid=1
22.02.2010

NOTE

[1] I media ci hanno poi informati che le armi di distruzione di massa non c’erano: ma nessun governante nessun politico di quelli che a suo tempo avevano stragiurato sulla loro esistenza, nessun intellettuale o pubblicista di quelli che immaginavano scenari festosi (tipo i liberatori che arrivano a Baghdad in mezzo ai fiori e alle bandiere del popolo irakeno liberato…), nessun mezzobusto televisivo-opinion maker ha fatto ammenda dell’errore in cui aveva tentato d’indurci, o meglio della menzogna proferita. Anzi, a dimostrazione della longevità dei falsi miti, Tony Blair, nel corso della sua pietosa autocritica che sigilla il fallimento della sua carriera di politico (dopo i danni che ha fatto, e che purtroppo paghiamo e pagheremo noi) è tornato sulle armi di distruzione saddamiste come se fossero davvero esistite, “dimenticando” al figuraccia sua e di altri.
[2] Cfr. L’iran e il tempo. Una società complessa, a cura di A. Cancian, Roma, Jouvence 2008; A.Negri, Il turbante e la corona. Iran trent’anni dopo, Milano, Tropea, 2010.
[3] Di cui cfr. F.Sabahi, Storia dell’Iran 1890-2008, Milano, Bruno Mondadori, s.d.
[4] Cfr. il lucido commento di M.Tarchi, La lezione iraniana, “Diorama letterario”, 296, ott.-dic. 2009, pp. 1-3.
[5] L.Offeddu, “L’iran si fermi sul nucleare o la NATO dovrà difendersi”, “Corriere della Sera”, 20.2.2

lunedì 22 febbraio 2010

מילאנו ירושלים Milano - Gerusalemme


ירושלים - הכותל המערבי
Gerusalemme - Muro del pianto
(propriamente "muro occidentale")


מילאן - הקיר של אידיוטים
Milano - Muro degli stronzi

lunedì 15 febbraio 2010

14 febbraio 2010: si inaugura la tramvia di Firenze


Il 14 febbraio l'inaugurazione della prima tratta tramviaria con sede propria è stata a Firenze occasione per una mezza festa.
Si parla di quarantamila passeggeri trasportati fra la città e Scandicci, comune confinante espantosi nel corso degli anni fino a diventare praticamente un sobborgo della città.
La costruzione -lunga- degli otto chilometri scarsi di binari è servita come palestra di sciacallaggio a gazzette e micropolitici, specialmente "occidentalisti" dal peso specifico nullo, che da una "contrarietà alla tramvia" urlata ed ebefrenica hanno ricavato quanti suffragi bastavano per continuare a scaldare la poltrona che scaldavano.
Contando su un sostegno a mezzo stampa semplicemente ubiquo e compiacente, alcuni di questi individui hanno commissionato e diffuso montagne di balle, contornate ed accompagnate da materiale grafico ai limiti del presentabile. Si riportano qui alcune delle immagini propagandistiche tutt'ora reperibili in rete, con relative e sprezzanti considerazioni.


Le immagini propagandistiche, diffuse a più riprese nel corso degli anni compresi tra il 2005 ed il 2009, hanno ingigantito le misure e l'invadenza dei convogli tramviari. Di un caso specifico ci occupammo a suo tempo; un certo Mario Razzanelli organizzò un referendum consultivo, che non raggiunse il quorum, in cui il venti per cento degli aventi diritto si espresse a sfavore del costruendo sistema tramviario. Sul carrozzone referendario salì all'ultimissimo minuto, e non senza litigi, buona parte del "centrodestra"; alle immagini qui sopra si accompagnarono anche affissioni ed adesivi che sbraitavano roba del tipo "via i compagni di merende da Firenze"... un registro propagandistico che a Firenze è assolutamente controproducente, come quasi tutti sanno, ma che fa parte da anni della panoplia dei propagandisti più bassi che incrostano molte redazioni del nord della penisola italiana. Il che permetteva con buona approssimazione di stabilire anche la provenienza di certe imbeccate e di certi colpi.
Con tutta calma, Mario Razzanelli ha concluso il 2009 cambiando il nome del suo gruppo consiliare in Lega Nord, permettendo alle insegne di quel "partito" di sporcare il Consiglio comunale fiorentino, al modesto prezzo della perdita dei tre quarti dei suoi sostenitori.

Il sedicente comitato giovani no tramvia è riuscito a fare anche di peggio, regalandoci l'inguardabile ed irritante logo qui sopra.

Ora, coerenza vorrebbe che una simile lotta a coltello non venisse dimenticata dalla sera alla mattina; il miglior onore delle armi che si potrebbe rendere a Mario Razzanelli ed al suo corteggio fracassone sarebbe quello di tenerli alla giusta distanza, se necessario con le cattive, da qualunque impianto e soprattutto da qualunque vettura tramviaria dovesse attirare la loro attenzione. In questo modo si eviterebbe loro la tentazione di salirvi, anche solo per dare un'occhiatina.

Le nostre peregrinazioni estive ci hanno spesso portato in luoghi meglio organizzati e più civili, come la Repubblica dell'Uzbekistan o la Repubblica di Turchia, autentici spauracchi -specie il secondo, visto che il primo in tanti non sanno nemmeno se sia uno stato sovrano o il nome di un porno channel- dell'"occidentalismo" nostrano. In entrambi i paesi i manufatti in questione, vale a dire le tramvie con sede propria, sono in pieno esercizio da decenni.
Valgano come esempio le immagini che seguono.

La città uzbeka di Tashkent ha, oltre ad una metropolitana, una rete tramviaria con sede propria ben tenuta che fuziona con tempi e frequenze accettabilissime. Il parco rotabile è costituito da un ensemble eterogeneo di materiale ex sovietico e di costruzione più recente.

Istanbul offre anche il destro per un'ulteriore frecciata. Una tramvia con sede propria, in questa città, costeggia la spianata che ospita Ayasofia e la Sultanahmet Camii, e passa poi a pochi centimetri dalle mura del Topkapı senza che i monumenti abbiano perso alcunché del loro prestigio, della loro fruibilità e della loro attrattiva. Tutt'altro.

domenica 14 febbraio 2010

Milano, laboratorio pratico dei "valori occidentali"


Milano. Spranghe e macchine rovesciate. E la lunare propaganda di partito del poster sullo sfondo.

Per la seconda volta in pochi anni la diligente applicazione dei "valori occidentali" al governo della città di Milano produce una rivolta urbana -peraltro di dimensioni trascurabilissime- priva di guida politica e di sbocchi come nella migliore tradizione dei casseurs con cui devono vedersela a Parigi. Questa volta è stato un omicidio avvenuto nel corso di un diverbio tra gruppi di diversa origine; anni fa fu una di quelle irritanti multarelle inflitte a gente colpevole di esistere e di lavorare.
Governata da quindici e passa anni da forze politiche dichiaratamente "occidentaliste" i cui rappresentanti scaldano poltrone esclusivamente grazie al fatto di essersi accaniti contro mustad'afin e non irreggimentati di tutti i generi, la città di Milano ha fatto dell'ingiustizia sociale, dell'adorazione del diritto di proprietà, di un individualismo incoraggiato fino alle estreme conseguenze e della distruzione sistematica del proprio tessuto sociale una specie di bandiera; il successo elettorale "occidentalista" ed il controllo mediatico assoluto, come se questo non bastasse, permettono da troppi anni ai fautori di una simile way of life di tentare di imporla anche alle realtà sane della penisola.
Di solito nei forum telematici, nei commenti agli articoli delle gazzette on line e in tutte quelle sedi in cui un irritante "democratismo" permette all'incompetenza generale di esprimersi al massimo delle proprie potenzialità, la colpa di fenomeni del genere viene ascritta in blocco alla "sinistra" politica. A questa fantomatica "sinistra" la propaganda, ed i sudditi cui non pare il vero di bersela, ascrivono ogni demerito possibile, nonostante nella penisola italiana abbia avuto esperienze di governo brevissime e nella città dove si mangia risotto con lo zafferano sia da almeno tre lustri fuori dai giochi. Il che getta una luce interessante -e sconfortante- sulla preparazione politica e sulle competenze dei sudditi che bivaccano nella penisola italiana; il quadro è completo se pensiamo che essi sudditi, solitamente dotati di competenze, di interessi e di conoscenze che sarebbero considerate da minus habentes in qualsiasi villaggio tagiko, ritengono anche di dover essere considerati ad un altro e superiore livello rispetto all'ultimo dei disperati.
In altre parole, la penisola italiana fa parte integrante dell'"Occidente" in quanto luogo in cui l'ignoranza e l'incompetenza non vengono percepite e presentate come realtà vergognose, ma come un perenne giustificativo, come un motivo d'orgoglio e come un sostanziale puntello per condotte esistenziali improntate all'egoismo più manicomiale. Il modello perseguito più o meno coscientemente dai rappresentanti "politici" e da sudditi capacissimi di fare anche di peggio è quello rappresentato da realtà profondamente "occidentali" come gli Stati Uniti d'AmeriKKKa, in cui il grosso del corpo sociale è costituito da aggregati che vivacchiano pressappoco alla giornata, costituiti da individui che secondo una fin troppo generosa definizione si interessano solo di "ingozzarsi di hotdog, bere fiumi di coca cola, guardarsi il superbowl e guidare il suo megatruck dai consumi spropositati", che condividono tra loro soltanto "il senso di autocoscienza di uno scarafaggio".
Questa condizione di "occidentalizzazione" ormai compiuta sta investendo il mondo ed è uno dei più ovvi risultati di quello scatenamento planetario della logica del capitale e di quella mercantilizzazione integrale dei rapporti sociali di cui in questa sede si tentano di evidenziare i limiti e la pericolosità. L'azione di questi fenomeni, priva di ogni serio freno, produce aggregati geograficamente intercambiabili che hanno in comune i consumi dozzinali ed uno sradicamento profondo e disperato. Da questo punto di vista, Milano è un esempio di "occidentalizzazione" quasi perfetto: non esiste rete sociale non mediata dal denaro che politicanti e potentato locali non additino da decenni al disprezzo del corpo elettorale; la dissoluzione del tessuto sociale è una conseguenza logica e voluta di una politica forsennata perseguita in nome della "sicurezza", della "lotta al degrado" e soprattutto di un'ingiustizia sociale granitica, travestita da interesse generale. "Valori" che finalmente hanno prodotto una città in cui la norma è rappresentata da centinaia di migliaia di brambilla che se anche vedessero un tank nemico ad un incrocio telefonerebbero alla "polizia locale" che venga a risolvergli il problema e poi andrebbero a lauràr come al solito.
Durante una recente permanenza in una remotissima località della Repubblica Unita dello Yemen siamo stati accolti da bambini che per prima cosa ci hanno mostrato con orgoglio i loro libri di scuola. Una cosa simile in una strada milanese non riusciamo ad immaginarla.

mercoledì 10 febbraio 2010

La Repubblica Islamica dell'Iran e il "paese" dove si mangiano spaghetti


Tanto tuonò che piovve. Poco, pochissimo rispetto ai parametri della più elementare prevedibilità, ma piovve.La serie di filippiche tenute da uno che fa il Primo Ministro nello stato che occupa la penisola italiana in occasione di una breve permanenza nello stato sionista hanno dapprima incrinato i rapporti, da sempre otttimi nonostante lo scagnare della marmaglia di governo e dei loro amichetti imbrattacarte, con la Repubblica Islamica dell'Iran; poi, il nove febbraio 2010, provocato un "assalto" all'ambasciata. Anni fa, fedele ad un agenda setting che doveva ad ogni costo dipingere i più alti livelli della politica iraniana come dei nostalgici delle camere a gas per preparare il terreno ai bombardamenti yankee, un giornalaio obeso convocò la claque a questo preposta per una marcetta con fiaccole che si concluse a qualche metro dall'ambasciata romana della Repubblica Islamica dell'Iran.
A Tehran si preferiscono sistemi un po' più spicci ed un po' più coreografici. Di quale autonomia d'azione godano i bassiji non è dato sapere, né è dato sapere fino a che punto agiscano di propria iniziativa e dove comincino effettivamente a seguire le linee dettate dall'esecutivo. Di certo, il segnale nei confronti del "paese" dove si mangiano spaghetti non poteva essere né più chiaro né più meritato.
Producendosi per l'ennesima volta nel coretto stridulo e indignato più adatto ad una canzonettista sorpresa nuda in camerino che non ad individui che si piccano di intendersene di politica internazionale, gli indossatori di cravatte che giocano ad occuparsi dei politica per conto dello stato che occupa la penisola italiana hanno reagito minacciando sfracelli in sede internazionale. Tentando di superare in "intransigenza" -o meglio, in idiozia da bambini viziati- anche la dirigenza yankee (adesso che non c'è più Bush si può anche far finta di passarle avanti) e credendo di poter influire chissà quanto su avvenimenti che nel migliore dei casi fanno finta di non capire, i "politici" peninsulari hanno lasciato che il loro primo ministro avanzasse ai sionisti promesse che non è affatto in grado di mantenere, e sollecitasse il sostegno internazionale per i manifestanti "verdi" ad un anno di distanza dalla loro prima scesa in piazza; quando si dice saper prevedere gli avvenimenti.
Il più probabile ed unico risultato di tutto questo baloccarsi con le telecamere sarà quello di far ritirare le imprese peninsulari dal mercato iraniano, lasciando campo ad una concorrenza che non chiede di meglio.
Come abbiamo avuto più volte modo di sottolineare, uno storico dell'immediato futuro che volesse sottolineare gli aspetti peculiari di vari contesti sociopolitici di questo scorcio del XXI secolo evidenzierebbe con ogni probabilità l'impetuosa crescita economica della Repubblica Popolare Cinese e la regressione inarrestabile dell'economia e della società yankee; ricorderebbe la Repubblica Islamica dell'Iran per il suo impegno a favore delle energie alternative... e lo stato che occupa la penisola italiana per le millantate prodezze sessuali della sua classe politica.

venerdì 5 febbraio 2010

Costi e "benefici" del sionismo di complemento


Scrivevamo giorni fa che a cospetto delle bordate espresse dal Primo Ministro dello stato che occupa la penisola italiana in occasione di una gitarella nello stato sionista, i mass media e la classe politica della Repubblica Islamica dell'Iran avevano lasciato dire, scrollando le spalle e sorridendo indulgenti.
Hanno lasciato dire, in realtà, per pochissime ore. Su irib.ir è stata pubblicata poi una serie di comunicati in cui alla secchezza di certe smentite si accompagnano sanissime iniezioni di realismo.


Israele: Berlusconi completa la serie di servigi al padrone, la guerra a Gaza fu giusta
Giovedì 04 Febbraio 2010 09:23

TELAVIV - Dopo aver sparato dichiarazioni decisamente discutibili sull’Iran, il premier italiano Berlusconi è arrivato a dire che la guerra contro Gaza fu giusta, calpestando così i cadaveri di 1400 civili palestinesi uccisi l’anno scorso da Israele durante tre settimane di folli bombardamenti.
Secondo l’IRIB, ieri Berlusconi, durante il suo discorso allo Knesset, ha completato tutta la serie di servigi fatti ai padroni israeliani. Berlusconi che prima e durante la visita in Israele ha rivolto all’Iran tutte le accuse possibili, ad iniziare da quella di voler sviluppare armi nucleari, ieri allo Knesset si è davvero superato: ha definito “esempio di democrazia e libertà” il regime israeliano, nato con la forza bruta sulla terra altrui e che si è macchiato dei crimini più orrendi e che da 3 anni ha assediato e murato un milione e mezzo di persone a Gaza. Ma non è tutto, Berlusconi ha definito giusta la guerra contro Gaza e poi ha anche sventolato con orgoglio il no dell’Italia all’Onu al rapporto Goldstone che condannava i crimini di guerra israeliani a Gaza.


Iran: Imprenditore italiano, a Teheran ci sarebbero contratti per altri 50 anni per le compagnie italiane
Venerdì 05 Febbraio 2010 10:08

TEHERAN - "Lasciare l'Iran? Veramente ci sono ancora 22 societa' italiane attive nel paese, e si tratta di grandi nomi, da Tecnimont a Eni, da Danieli a Edison.
La verita' e' che se ci fossero finanziamenti e coperture assicurative, qui ci sarebbero contratti per i prossimi cinquant'anni". È lo sfogo, raccolto da ADNKRONOS, di un manager italiano, che opera a Teheran da molti anni e vive quotidianamente la realta' iraniana cogliendone potenzialita' e contraddizioni. "Dal 2008 le cose sono cambiate - ammette - Il contratto della mia azienda scade a fine anno, ma se ci fosse la possibilita' di rinnovarlo avremmo un problema di copertura" come confermato dalle parole pronunciate da Berlusconi a Gerusalemme, ricordando che e' stata gia' bloccata "l'assicurazione Sace per chi investe in Iran". "Per ora, comunque, i contratti in essere restano assicurati" spiega. I contatti fra Iran e Italia, a livello imprenditoriale, non si sono interrotti, come testimonia la visita compiuta alla fine di gennaio da alcuni rappresentanti di aziende venete. Uno strumento di scambio di conoscenze e' rappresentato dalla locale Camera di commercio irano-italiano, che dal 2004 ha ripreso la sua attivita' e raccoglie oggi numerosi imprenditori di Teheran. "Ma molti soci locali devono fare i conti con i problemi bancari e burocratici, quando operano con l'Italia. Senza contare che i cinesi offrono sempre prezzi piu' bassi". Proprio l'aggressivita' degli imprenditori asiatici e' un elemento da non sottovalutare, suggerisce l'imprenditore. "I cinesi continuano a fare affari a piu' non posso", osserva, "Ma d'altro canto anche Total dice di andarsene dall'Iran, ed e' sempre qui...".
È degno di nota che il premier italiano Berlusconi, ignorando i circa 7 miliardi di dollari di interscambio annuale Iran-Italia e quindi ignorando gli interessi economici del suo paese, ha aggredito l’Iran con pesanti critiche mettendo così a repentaglio le buone relazioni economiche Teheran-Roma.


Italia: Frattini attacca Radio Italia e corregge il tiro di Berlusconi su Gaza
Venerdì 05 Febbraio 2010 05:46

ROMA - Almeno la denuncia dell’ingiustizia è servita a qualcosa.
Il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ha commentato ieri al Tg1 la critica espressa ieri, 4 Febbraio, dalla nostra emittente, al fatto che Berlusconi avesse definito “giusta” l’aggressione a Gaza, aggressione che ricordiamo è stata teatro di crimini contro l’umanità commessi da Israele, secondo quando testimonia il rapporto Goldstone delle Nazioni Unite. Frattini dopo aver rielencato una serie di accuse contro l’Iran, e dopo una serie di citazioni che non stanno né in cielo né in terra, come ad esempio il fatto che “i paesi arabi” starebbero contro l’Iran, o che l’Iran avrebbe un programma nucleare a scopi militari, ha però corretto il brutto tiro di Berlusconi sul fatto che la guerra di Gaza è stata giusta ed ha detto che bisogna “rimpiangere tutte le vittime innocenti”.


Italia: il Manifesto e altra stampa indipendente critica “servilismo” di Berlusconi nei confronti di Israele
Venerdì 05 Febbraio 2010 09:12

ROMA - “Berlusconi ha chiuso in serata la sua visita ufficiale in Israele di tre giorni ed è ripartito per l’Italia, certo di aver conquistato definitivamente gli israeliani con la sua carpet-diplomacy: lui, steso come un tappetino, pronto a fare di tutto, senza fiatare, senza mai opporre la più piccola critica, pur di soddisfare tutte le politiche dell’alleato israeliano”.
Queste le righe dell’articolo scritto dall’inviato a Betlemme del quotidiano italiano Il Manifesto che così alla pari di Radio Italia critica il comportamento del presidente del Consiglio italiano in Israele. Il quotidiano accenna al fatto che Berlusconi, abbia anche detto ai giornalisti di non aver visto “il muro dell’Apartheid” dopo esser passato davanti a questo. Anche il quotidiano La Repubblica riporta la notizia riportata ieri dal sito di Radio Italia confermando implicitamente le critiche alle dichiarazioni di Berlusconi in Israele. Ulteriori approfondimenti nello spazio “Italia, uno sguardo ai media”.


Nelle stesse ore, le gazzette della penisola riportano notizie circa l'imminente ritiro dell'ENI dalla Repubblica Islamica dell'Iran. In questo non c'è nulla di strano; se questo dovesse verificarsi gli iraniani si limiteranno ad alzare le spalle e a rivolgersi altrove.
Fare da zerbino ai sionisti passa sopra a tutto: anche all'elementare esigenza di non aggiungere ulteriori danni ad una crisi economica che sta finendo di stroncare una generazione.
Mentre la Repubblica Islamica dell'Iran costruisce con grossi successi diplomatici e scientifici il proprio ruolo di potenza regionale, lo stato che occupa la penisola italiana, coerentemente con quanto i sudditi si meritano perché perfettamente rappresentati dall'esecutivo in carica, sta serenamente avviandosi a diventare l'equivalente geopolitico di uno spaghettificio di seconda categoria.

giovedì 4 febbraio 2010

Il "Corriere della Sera": la gioventù milanese fa propri i "valori occidentali"


Un articolo di "nera" dalla gazzetta milanese per eccellenza, quella in prima fila nella lotta al terrore eccetera eccetera eccetera.
Quella che come la apri si dovrebbe sentire odore di risotto giallo e di ossobuco.
Quella di Magdi Allam, di Ferruccio de Bortoli e degli "scritti" di Oriana Fallaci.
Camera bassa e camera alta, a Roma, stanno sputando sangue affinché leggi, processi, galere e in prospettiva le forche (l'invocazione della pena di morte per un parcheggio in doppia fila è diventata ordinaria amministrazione ed è un buon indice di quanto i sudditi che bivaccano nella penisola italiana tengano a quelli che le gazzette gli indicano come i valori della loro "civiltà") siano riservati ai mustad'afin, che ostinandosi ad esistere fanno calare il valore degli immobili. I risultati però tardano ad occorrere, e continuano a sussistere odiosi meccanismi giudiziari che valgono per molti.
In uno di questi meccanismi sono rimasti impigliati alcuni ragazzini, che anni fa violentarono a più riprese una dodicenne; i bolscevichi del tribunale non hanno avuto alcun riguardo per la loro condizione di "normalità milanese", la quale, come tutti sanno, forgia individui non tanto al di sopra delle leggi (delle quali nulla c'importa perché abbiamo per esse una stima pari a quella che abbiamo per il legislatore, ossia nessuna) quanto soggetti cui viene fatta interiorizzare la non-esistenza di tutto il rimanente del cosmo; degli Ubermenschen tirati su a cotolette.
Il Corrierone è coerentemente "occidentalista" e dunque misura l'esistente con il metro del denaro, che è l'unico utilizzabile se non si vuole essere accusati di terrorismo da qualche fancazzista di gazzettiere o di micropolitico; il titolone sbraita dunque di risarcimenti costosissimi in una formulazione infelice come al solito ("Violentano ragazzina, puniti i genitori") dalla quale parrebbe di capire che a dover pagare siano i genitori della vittima.
Ma la sostanza interessante è tra le righe, che riportano sia le motivazioni del giudice, sia alcuni dettagli che lasciano intendere come e qualmente tutta la vicenda costituisca un perfetto specchio della società contemporanea.

In chiave autoliberatoria, i genitori hanno provato a valorizzare in Tribunale «il rispetto dell’orario di rientro a casa, i buoni o sufficienti risultati scolastici, l’educazione nel rispetto delle persone e dei valori cristiani propri della cultura occidentale, l’avvenuta frequentazione delle lezioni di educazione sessuale a scuola, il fatto che prima di questi fatti alcuni dei ragazzi non avessero dimostrato particolare interesse verso il genere femminile».

Come vederli: "Ma signor giudice", implora Ambrogio Brambilla, "il mio Luigino è a letto tutte le sere alle undici, prende sempre sufficiente a geografia e a disegno, saluta tutte le mattine, si è iscritto a Comunione e Liberazione e a scuola gli hanno anche insegnato a non srotolare i preservativi prima di metterli su... E poi, via, questa storia gli ha fatto bene: è maturato, e mi ha fatto per lo meno capire che non è quel mezzo recchion..., sì, gli piacciono le ragazze, vah! Luigino, ué, figa, 'ndùma a ca'!"

mercoledì 3 febbraio 2010

La Repubblica Islamica dell'Iran e le intromissioni di un "Occidente" incosciente e cialtrone


Dopo le elezioni presidenziali dello scorso anno nella Repubblica Islamica dell'Iran non ci siamo mai curati di nascondere due cose: tutt'altro.
La prima è rappresentata dal profondo scetticismo circa le possibilità di successo dei moti di piazza di cui si è resa protagonista una costellazione di organizzazioni politiche facenti capo a Mir Moussavi, di cui tutto si può dire meno che sia uno homo novus o un rivoluzionario.
La seconda è rappresentata dall'ancor più profondo disprezzo per i passacarte "occidentalisti", che il bilancio degli scontri se lo sono augurato e continuano ad augurarselo il più alto possibile, in modo da poter continuare ad utilizzare la Repubblica Islamica come termine di paragone per i sudditi peninsulari.
Se i sudditi fossero privati dello Hannibal ad portas potrebbero addirittura farsi venire qualche strana idea, tipo chiedere conto all'esecutivo in carica delle novecentonovantanove promesse elettorali mai mantenute; l'unica che i padroni dello stato che occupa la penisola italiana stanno realizzando, e che avevano messo nero su bianco a suo tempo, riguarda la trasformazione del paese in un immenso carcere a cielo aperto.
All'inizio di febbraio un tale che fa il Primo Ministro nello stato che occupa la penisola italiana è stato ricevuto con tutti gli onori nello stato sionista. Tre giorni di ciarle roboanti, dall'auspicio di un prossimo ingresso dell'entità statale sionista nell'Unione Europea (idea rubata ai lacché del Partito Radicale, che la ebbero più di dieci anni or sono) alla definizione degli ebrei come "fratelli maggiori" (idea rubata ad un pontefice romano che nel 1986 tentò sua sponte e senza andare esente da pecche e da critiche, di ricucire millenni di incomprensioni e di odio) alla volontà di "sostenere l'opposizione iraniana" (idea rubata e basta).
Mass media e classe politica della Repubblica Islamica dell'Iran hanno lasciato dire, scrollando le spalle e sorridendo indulgenti. Nelle stesse ore in cui il Primo Ministro di una realtà statuale in piena ed inarrestabile crisi, in cui gli aspetti deteriori di una globalizzazione accettata ed imposta tacciando di terrorista chiunque ne criticasse gli aspetti più autodistruttivi e demenziali stanno facendo strame degli asset, della competenza, della ricchezza e della speranza residue andava a pietire benevolenza dai sionisti, la Repubblica Islamica dell'Iran faceva lavorare la sua diplomazia e la sua industria pesante. Risultati della giornata, il lancio di un vettore spaziale e la visita ufficiale di Hamid Karzai in occasione del newroz prossimo venturo.
Il gazzettaio "occidentalista" non perde occasione per lasciar intendere che la miglior cosa da fare sarebbe chiudere i conti una volta per tutte con la Repubblica Islamica: spazziamo via a colpi di B52 quella banda di impiccatori malvestiti e staremo tutti meglio. Purtroppo il tempo passa per tutti e mentre gli "occidentalisti" hanno sperperato il loro nei night club e nelle bische -è di questi giorni la notizia della prevista apertura di quaranta bische di stato nella sola penisola italiana- in questo seguiti a ruota da sudditi cui non pareva vero che qualcuno desse l'esempio dall'alto, qualcun altro trascorreva lo stesso tempo su trattati di fisica, di medicina e di elettronica. Il risultato è che la Repubblica Islamica dell'Iran, su quel mercato globalizzato di cui solo i terroristi osavano denunciare i rischi e le storture, è già oggi in grado di fare concorrenza all'"Occidente" in una quantità di campi, dall'industria pesante a quella farmaceutica ai voli spaziali alla produzione di energia. Nel 2007, energia alternativa in Iran significava decine di generatori eolici istallati sulla strada tra Rasht e Bandar Anzali.
Dagli anni in cui Mossadeq doveva prendere atto della dipendenza dal colonialismo per assoluta impossibilità di mandare avanti con forze proprie anche un semplice cementificio, il tempo è decisamente passato.
Molte delle nostre considerazioni sono riassunte in modo chiaro nell'articolo che qui si traduce, presentato su TomDispatch.com. Una sua lettura sarà sufficiente a capire per quale motivo l'incompetenza mangiona ed il presenzialismo d'accatto cui la comunicazione politica "occidentale" si ostina a dare coloriture positive possono avere effetti per lo meno pari a quelli dell'incompetenza sostanziale di cui gli scaldapoltrone della politica di palazzo forniscono instancabilmente prova.


Dilip Hiro, l'Iran nel 1979 e nel 2010

La politica dell'amministrazione Obama nei confronti dell'Iran è un mistero avvolto in un enigma e rincalzato in un ginepraio. Così tanti segnali vengono inviati in così tante direzioni che c'è da chiedersi se gli iraniani stessi, per non parlare delle altre parti in causa, abbiano una qualche idea di quello che sta succedendo. Barack Obama ha iniziato la sua presidenza impegnandosi a mettere fuori gioco l'Iran con le armi della diplomazia. In concreto l'amministrazione si è impegnata in questo compito solo per metà, e il presidente ha cominciato presto ad imporre scadenze precise alle risposte soddisfacenti per Washington che gli iraniani avrebbero dovuto fornire in merito al loro programma nucleare, pena il dover affrontare ulteriori e paralizzanti sanzioni. L'ultima di queste scadenze, il primo gennaio 2010, è trascorsa ed è evidente che si sta preparando un ulteriore passo verso nuove sanzioni, in particolare nei confronti delle imprese che hanno legami con i Guardiani della Rivoluzione che controllano una parte significativa dell'economia del paese. Solo che la Cina, che detiene per il mese di gennaio la presidenza del Consiglio di Sicurezza, ha recentemente rifiutato che la questione fosse anche soltanto dibattuta. I cinesi, così come i russi, sono profondamente coinvolti nello sviluppo di relazioni a lungo termine con l'Iran sul piano delle fonti energetiche, il che significa che nessuna sanzione che potrebbe azzoppare l'economia di quel paese potrà farlo passando dal Consiglio di Sicurezza, a prescindere da quale paese ne detenga la presidenza.
Nel frattempo continuano le voci insistenti che già circolano da anni, circa un incombente attacco israeliano sulle installazioni nucleari iraniane (che è un modo educato per indicare le difese militari iraniane di ogni tipo). Il Presidente Obama avrebbe più volte fatto presente l'impossibilità di far recedere gli israeliani da simili intendimenti al presidente cinese, per cercare di renderlo più malleabile sulla questione delle sanzioni. Le comunicazioni ufficiali dell'amministrazione ripetono invariabilmente variazioni sul tema della formula in voga ai tempi della presidenza Bush: "tutte le opzioni sono sul tavolo". Recentemente il capo dello stato maggiore ammiraglio Mike Mullen ha pubblicamente fatto alcuni vaghi riferimenti a piani del Pentagono per un attacco all'Iran ("...preparando allo stesso tempo le nostre forze, come siamo soliti fare in previsione di molti imprevisti che abbiamo l'impressione potrebbero verificarsi..."). Tuttavia l'esplicita eventualità di un operazione di questo genere non lo vedeva per nulla entusiasta. Il segretario alla Difesa di Obama, l'influente di nome Robert Gates, si è per lungo tempo opposto strenuamente all'imbocco di un simile cammino. Dalla sua interrogazione in senato del 2006 in poi, non ha mai nascosto quanto secondo lui sarebbero catastrofiche per la regione le conseguenze di un'operazione militare contro quegli impianti nucleari; le conseguenze potrebbero comportare anche un picco incontrollabile a livello mondiale del prezzo del petrolio.
L'amministrazione Obama sta ora prendendo in considerazione l'idea di sostenere in misura maggiore il "movimento verde" in Iran. Ma questo movimento dissidente, perennemente per le strade a protestare contro il presente regime e contro le elezioni fraudolente, vedrebbe la sua forza minata immediatamente sia dall'adozione di "sanzioni invalidanti" sia da un attacco contro gli impianti nucleari del paese.
Tutto questo, in altre parole, fa pensare che il caos sia il sostanziale dominatore di questo tema politico.


Un "regime change" a Tehran? Ancora non è il caso di scommetterci.

Le drammatiche immagini dei manifestanti iraniani che affrontano senza paura gli attacchi brutali delle forze di sicurezza del regime, e che talvolta contrattaccano anche, si sono giustamente guadagnate l’ammirazione e la simpatia dei telespettatori in Occidente. Esse spingono anche molti occidentali a supporre che questo sia il preambolo di un cambiamento di regime a Teheran, il ripetersi di una certa storia, ma con una svolta inattesa. Dopotutto, l’Iran ha l’onore di essere l’unico Stato del Medio Oriente che ha subito un cambiamento rivoluzionario – trentun anni fa – nato da una moderata protesta di strada.
Vista oggettivamente, però, questa ipotesi è troppo ottimistica. Essa trascura essenziali differenze tra il momento attuale e gli eventi del 1978-79 che portarono al rovesciamento dello scià dell’Iran e alla fondazione di una Repubblica islamica sotto la guida dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini. La storia ci mostra che un movimento rivoluzionario trionfa solo quando due elementi fondamentali finiscono per collidere: il movimento è sostenuto da una coalizione di diverse classi sociali, ed esso riesce a paralizzare il meccanismo di governo del paese e a frammentare l’apparato repressivo dello stato.

Due movimenti, due momenti storici

Bisogna innanzitutto esporre una breve rassegna degli avvenimenti che caratterizzarono la Rivoluzione iraniana, che ha ormai compiuto trentun anni. Nel febbraio del 1979 la monarchia autocratica dello scià crollò quando l’economia del paese si fermò a causa di scioperi compiuti non solo dai mercanti del bazar, religiosi osservanti, ma anche dai dipendenti pubblici, dai dipendenti delle fabbriche, e (elemento fondamentale) dai lavoratori del settore petrolifero, politicamente orientati a sinistra. Allo stesso tempo, i fondamenti dello Stato moderno – le forze armate, le forze speciali, la polizia armata, le agenzie di spionaggio, i media controllati dallo Stato – crollarono di schianto.
Le manifestazioni di strada, iniziate nell’ottobre 1977 da intellettuali e professionisti iraniani per protestare contro le violazioni dei diritti umani da parte della SAVAK, la brutale polizia segreta dello scià, mancavano sia di concentrazione che di un insieme globale di richieste coerenti articolate da una personalità di spicco. Questa situazione cambiò quando nel gennaio 1978 Khomeini, un ayatollah ostile allo scià in modo virulento, esiliato nel vicino Iraq per quattordici anni, fu coinvolto nella questione. Da allora in poi, le schiere dei manifestanti crebbero in modo esponenziale.
Oggi, la questione fondamentale è: le recenti manifestazioni di strada, innescate dai brogli alle elezioni presidenziali dello scorso giugno, sono riuscite a coinvolgere uno o più di quei segmenti della società che all'inizio avevano ignorato la frode elettorale o respinto le asserzioni in tal senso?
L’evidenza dei fatti finora suggerisce che le proteste, anche se proseguono imperterrite e continuano la loro resistenza, sono rimaste come bloccate nel loro percorso anche se il 27 dicembre 2009, il giorno della celebrazione sciita di Ashura, si sono estese per la prima volta a città più piccole. Ciò che è rimasto immutato è il retroterra sociale dei partecipanti. Essi sono in gran parte giovani, hanno una cultura universitaria, sono ben vestiti, possiedono cellulari ed utilizzano Internet, YouTube, Facebook e Twitter.
Nella capitale, essi provengono di solito dai quartieri alti di Tehran Nord, in cui vive circa un terzo della popolazione della città, che ammonta a nove milioni di abitanti in totale. Tehran Nord è la residenza delle famiglie benestanti, molte delle quali hanno parenti in Europa occidentale o in Nord America. Spesso trascorrono le loro vacanze in Occidente, la maggior parte di loro parla fluentemente l’inglese e ci sa fare con i computer.
Naturalmente, poi, i giornalisti ed i commentatori occidentali si identificano con questo segmento della società iraniana, e si concentrano in gran parte su di esso, magari senza nemmeno rendersene conto o per altri motivi.
Anche nell’autunno del 1977, persone di questo genere dominarono le proteste di piazza contro lo scià. La differenza, ora, è una differenza di scala. Dai tempi della Rivoluzione islamica c’è stata un’esplosione nel campo dell’istruzione superiore. Tra il 1979 e il 1999, mentre la popolazione è raddoppiata, il numero dei laureati è cresciuto di nove volte, da una base di 430.000 a quasi quattro milioni. Il corpo studentesco delle università e delle scuole superiori è cresciuto fino a raggiungere i tre quarti di milione di giovani iraniani. Questo spiega la vastità delle proteste e l'uniformità dell'abbigliamento di coloro che vi partecipavano.
Ora, il problema più importante per gli specialisti di questioni iraniane dovrebbe essere: negli ultimi sei mesi un numero significativo di residenti della zona povera a sud di Teheran, con i suoi sei milioni di persone, si è unito alla protesta? Stando alle immagini su Internet e sui canali televisivi occidentali, la risposta è no. Gli abitanti della zona sud di Teheran non indossano jeans alla moda, e se le loro donne protestassero apparirebbero velate dalla testa ai piedi, e senza make-up degni di nota.
E’ la zona sud di Teheran che ospita il Gran Bazar, che copre cinque miglia di vicoli tortuosi e più di una dozzina di moschee. Il bazar è la spina dorsale commerciale della nazione, con la sua intricata commistione di commercio, cultura islamica, e politica. I suoi orientamenti sono seguiti da tutti gli altri bazar dell’Iran. Siccome il Profeta Maometto era un mercante, vi è stato un rapporto simbiotico tra la classe commerciale e la moschea fin dai primordi dell'islam. L’Iran non fa eccezione, e l’importanza dell'influenza del bazar non può ancora considerarsi sovrastimata. Dopotutto, il petrolio fu scoperto per la prima volta nel paese solo un secolo fa, e l’industrializzazione ha preso piede solo dopo la seconda guerra mondiale.
Dunque: i commercianti del bazar hanno cominciato a chiudere i loro negozi per manifestare la loro solidarietà con i manifestanti, come fecero ai tempi del movimento contro lo scià? La risposta è no, anche in questo caso.
Lasciando da parte la serrata dei negozi, se alcuni operatori del bazar avessero semplicemente creato propri blog e aderito alle proteste on-line, questo fatto in sé avrebbe sicuramente attirato l’attenzione del regime della Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei, e avrebbe anche potuto portarlo a prendere in considerazione un compromesso con i riformisti.

I limiti del 2010

Finora, l’opposizione è stata guidata dai candidati sconfitti alle elezioni presidenziali – Mir Hussein Moussavi e Mahdi Karroubi – nessuno dei quali possiede alcunché di paragonabile al carisma ed al prestigio religioso che aveva Khomeini.
Inoltre, l’opposizione soffre dell’assenza di un complesso unico di rivendicazioni. All’epoca del movimento del 1978-79, Khomeini radunò diverse forze ostili allo scià – dai chierici sciiti ai gruppi marxisti-leninisti – attorno a una rivendicazione primaria: detronizzare lo scià.
Khomeini riuscì poi a tenere insieme questa improbabile alleanza difendendo le cause di ciascuna delle classi sociali che componevano la coalizione ostile allo scià. Le classi medie tradizionali composte da commercianti e artigiani videro in lui un sostenitore della proprietà privata e un fautore dei valori islamici. Le classi medie moderne lo considerarono un nazionalista radicale, impegnato a porre fine alla dittatura monarchica e alle influenze straniere in Iran. La classe operaia urbana lo appoggiò a causa del suo ripetuto impegno in favore della giustizia sociale, che, secondo essa, poteva essere raggiunta solo trasferendo il potere e la ricchezza dai ricchi ai bisognosi. I poveri delle campagne lo videro come colui che avrebbe fornito loro terra coltivabile, impianti per l'irrigazione, strade, scuole e corrente elettrica.
Khomeini svolse questo compito sovrumano mantenendo uno studiato silenzio su questioni controverse come la democrazia, la condizione della donna ed il ruolo che il clero sciita avrebbe avuto nella futura Repubblica islamica.
Oggi, lo slogan più popolare dei manifestanti è “Morte al dittatore”, riferito alla Guida Suprema Khamenei (in persiano, “Marg-bur Dik-ta-tor” suona bene). Eppure questo non è certamente ciò che vogliono, né Moussavi né Karroubi.
Sul suo sito web, Moussavi ha recentemente chiesto la liberazione di tutti i prigionieri politici e la modifica della legge elettorale, assieme all’applicazione della libertà di espressione, di assemblea, e della libertà di stampa, come indicato nella Costituzione iraniana. In breve, egli vuole riformare il sistema attuale, non sovvertirlo.
Allo stato attuale delle cose esiste un organo costituzionale che consente la rimozione della Guida suprema. L’Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri eletti dal popolo, ha il potere di nominare o licenziare la Guida. Questa assemblea è presieduta da Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. E' stato uno stretto collaboratore dell’ayatollah Khomeini, e per questo le sue credenziali rivoluzionarie sono pari a quelle di Ali Khamenei.
Rafsanjani ha appoggiato Moussavi nella sua candidatura presidenziale fornendogli fondi e pianificazione strategica. Ora, se egli lo decidesse, potrebbe convocare l’Assemblea degli Esperti per una sessione di emergenza allo scopo di discutere l’attuale crisi causata dalle divisioni nelle alte sfere. Normalmente quest’Assemblea si riunisce solo due volte all’anno. Ma essendo un politico accorto, Rafsanjani dapprima consulterebbe i più importanti membri dell’Assemblea per sondare il terreno. Sembra che egli finora non sia riuscito ad ottenere un appoggio sufficientemente forte per la convocazione di una sessione speciale.
A livello della base, i numerosi blog e siti web di opposizione raramente trattano il quadro complessivo. Essi concentrano la loro attenzione essenzialmente sulla denuncia della repressione brutale e del fatto che a loro detta il regime di Khamenei si è allontanato drasticamente dalle sue radici islamiche e dalle sue promesse rivoluzionarie di giustizia, libertà e indipendenza.
La loro critica, però, copre solo l'aspetto più appariscente della situazione. Non è sufficiente per dedurne che un cambio di regime sia imminente nel paese. Un secondo aspetto complementare dovrebbe precisare alcuni dettagli su come i manifestanti vorrebbero vedere tradotte in pratica le loro istanze di cambiamento. Perlomeno, l’opposizione dovrebbe discutere la questione, cosa che attualmente non sta facendo; oppure potrebbe emulare Moussavi, che ha lasciato cadere la sua precedente richiesta di nuove elezioni presidenziali non più controllate dal ministero degli interni ma da un organismo non-governativo. Questo gesto potrebbe, prima o poi, aprire la strada a un compromesso con il presidente Mahmoud Ahmadinejad, il quale a sua volta potrebbe portare ad un governo di unità nazionale composto dai seguaci dell’attuale presidente e dai leader dell’opposizione.
Una delle principali differenze tra il 1979 e il 2010 è che Internet offre una grande opportunità per un tipo di dibattito che era impensabile fino a un decennio fa. Un aspetto che invece il movimento del 1979 e quello attuale hanno in comune è l’idea di fare un uso politico delle festività religiose sciite, del costume islamico di commemorare una persona deceduta nel 40° giorno della sua scomparsa, nonché dell'idea di martirio così radicata tra gli sciiti.
L’ayatollah Khomeini fu un pioniere nell'utilizzo di queste tattiche. Egli usò coerentemente il 40 ° giorno di lutto per i martiri del regime dello scià allo scopo di attirare folle sempre più numerose e sempre più entusiaste per le strade, e usò il mese sacro del Ramadan per caricare la nazione di fervore rivoluzionario.
I tentativi degli attuali leader dell’opposizione di emulare l’esempio di Khomeini non sono riusciti, soprattutto perché dalla loro parte manca un leader religioso della statura di Khomeini.
Khomeini inflisse al regime dello scià un colpo quasi mortale con una sua fatwa, in cui sentenziò che sparare ad un manifestante disarmato era come fare fuoco contro una copia del Corano. La maggior parte dei soldati dello scià, essendo sciiti e militari di leva spesso giovani di leva, accettarono l’interpretazione di Khomeini. Molti di essi avevano già perso la fiducia nei loro comandanti dopo che alcuni impiegati di banca avevano rivelato, nel settembre del 1978, che gli alti ufficiali dell’esercito stavano trasferendo ingenti somme all’estero. Non c’è da meravigliarsi che, quando lo scià lasciò l’Iran nel gennaio 1979, la forza dell’esercito fosse da trecentomila a poco più di centomila uomini, essenzialmente a causa delle diserzioni.
Al contrario di quanto successe allora non ci sono prove, fino a questo momento, del fatto che le forze di sicurezza dell’attuale regime –il pesantemente indottrinato Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, la milizia Basij, o la polizia armata– mostrino segni di cedimento quando viene ordinato loro di disperdere le manifestazioni con la forza. Da parte sua, il regime, consapevole del pericolo di creare martiri e dei precedenti storici che esistono in questo senso, ha avuto cura di fare un uso minimo delle armi da fuoco nel disperdere le folle dei manifestanti.
Nei 12 mesi del movimento rivoluzionario che si protrasse dal 1978 al 1979, l’uso indiscriminato delle armi da fuoco da parte del regime dello scià provocò tra le diecimila vittime –secondo le statistiche governative– e le quarantamila –secondo i dati dell’opposizione. Nei sei mesi della protesta di strada attuale, il totale delle vittime è, secondo l’opposizione, di centosei persone.

Il fattore del nazionalismo

Se questa interpretazione della situazione attuale in Iran si è concentrata esclusivamente sulle dinamiche politiche interne, ciò non significa che le forze esterne siano prive d'importanza. Considerata la rilevanza geo-strategica dell’Iran nella regione e nel mondo, ogni eventuale mossa da parte di governi occidentali meno che amichevoli nei confronti di Teheran è destinata a modificare la situazione interna in modo drammatico.
Se, ad esempio, le potenze occidentali dovessero riuscire ad inasprire le sanzioni economiche contro Teheran attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’opposizione probabilmente porrebbe fine alle proteste e collaborerebbe con il governo di Ahmadinejad per affrontare una comune minaccia nazionale sotto la bandiera del patriottismo.
Con una storia orgogliosamente documentata che risale per più di sei millenni indietro nel passato, gli iraniani si sono trasformati in fedeli nazionalisti nell'epoca moderna. Si tratta di un fatto molto semplice, seppure di portata generale, che i leader dell’Occidente non possono permettersi di ignorare.

Dilip Hiro è autore di molti libri sul Medio Oriente, fra cui “The Iranian Labyrinth”; il suo ultimo libro, “After Empire: The Birth of a Multipolar World” (Nation Books) è stato appena pubblicato.