martedì 17 settembre 2024

Alastair Crooke - La nave Occidente chiude i boccaporti prima che i rovesci provochino il naufragio



 Traduzione da Strategic Culture, 16 settembre 2024.

Lo stato sionista sta entrando nella fase successiva della sua guerra contro la Palestina con il completamento del controllo sulla Striscia di Gaza dal confine settentrionale fino al corridoio di Netzarim. È probabile che l'intenzione sia quella di rendere quest'area gradualmente disponibile per l'insediamento ebraico e l'annessione allo stato sionista.
In un articolo intitolato "Annessione, espulsione e insediamenti sionisti: Netanyahu si prepara alla prossima fase della guerra di Gaza" il direttore di Haaretz Aluf Benn scrive che se l'annessione dovesse procedere, "i residenti palestinesi che rimangono nel nord di Gaza saranno espulsi, come suggerito dal Maggiore Generale della riserva Giora Eiland, sotto la minaccia di morire di fame e con la scusa che è 'per il loro bene'". Netanyahu e i suoi sostenitori, sostiene Benn, considereranno questa iniziativa come il raggiungimento dello scopo della loro vita: espandere ancora una volta il territorio dello stato sionista, dopo cinquant'anni di ritiri. Sarà questa la "risposta sionista" della destra al 7 ottobre.
Questo straordinario cambiamento è stato reso possibile non solo dalle operazioni militari, ma da un tratto di penna: la nomina del Colonnello Elad Goren a capo del settore umanitario-civile a Gaza, cosa che di fatto lo rende "Governatore di Gaza" per i prossimi anni.
I media mainstream occidentali posto meno enfasi su una dura realtà. Nel corso dei venti mesi in cui l'attuale governo sionista è stato al potere, Ben Gvir ha armato un movimento di vigilantes formato da diecimila coloni che ha terrorizzato i palestinesi in Cisgiordania. La polizia nei territori occupati risponde già all'autorità di Ben Gvir.
Questa valutazione trascura un altro dato di fatto. Mentre Ben Gvir ha messo insieme questo "nuovo esercito dello Stato di Giudea", il Ministro delle Finanze Smotrich che dirige l'Amministrazione dei Territori ha rivoluzionato la situazione dei coloni ebrei e dei palestinesi in Cisgiordania. L'autorità in Cisgiordania è stata affidata a un movimento messianico chiuso e di destra, che risponde solo a Smotrich stesso. Smotrich è diventato il governatore della Cisgiordania in tutto e per tutto.
In quella che Nahum Barnea descrive come una manovra a tenaglia messa furtivamente in atto da Smotrich, un braccio del potere è costituito dalla sua autorità di ministro delle Finanze; il secondo consiste nel potere che gli è stato delegato in qualità di secondo al comando al Ministero della Difesa. L'obiettivo di Smotrich e del governo sionista era stato esposto dallo stesso Smotrich nel Decisive Plan del 2017 e non è cambiato: indurre il collasso dell'Autorità palestinese, impedire la creazione di uno Stato palestinese e dare ai sette milioni di palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo la possibilità di scegliere tra morire combattendo, emigrare altrove o vivere in condizioni di perenne subalternità in un grande Stato sionista.
Senza dubbio, il Decisive Plan contro i palestinesi è ben avviato: si terrorizzano gli abitanti della Cisgiordania affinché abbandonino la loro terra, si distruggono le infrastrutture sociali in Cisgiordania come a Gaza e, come a Gaza, si applica una dura pressione finanziaria sulla società palestinese.
I termini indefiniti di Netanyahu sul probabile futuro di Gaza non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. I palestinesi del nord di Gaza subiranno il destino degli armeni del Nagorno Karabakh: Un anno fa l'Azerbaigian li ha sbrigativamente espulsi dalla regione da un giorno all'altro. Il mondo se n'è accorto e ha semplicemente "voltato pagina" come previsto nella concezione della storia prevalente nello stato sionista. Netanyahu ha preferito mantenersi ai livelli di una "piccola bugia" sul futuro di Gaza, piuttosto che dire chiara e forte una grande verità.
Con la dichiarazione rilasciata alla Fox News statunitense per cui "nessun accordo per il rilascio degli ostaggi da Gaza è in via di definizione, né è prossimo ad essere siglato" e la relativa aggiunta che qualsiasi sensazione ottimista (per lo più proveniente da Washington) altro non era che una narrativa fallace, Netanyahu ha effettivamente lanciato la prossima fase della guerra dello stato sionista: l'azione militare nel nord, volta a creare le condizioni per il ritorno dei residenti sfollati. Questi tre elementi -nord di Gaza, Cisgiordania e Libano- sono collegati tra loro. Anzi, sono interconnessi.
In assenza di un accordo diplomatico che preveda che Hezbollah si allontani dalla regione di confine e non vi rientri più, lo stato sionista per forza di logica ha solo due opzioni: un cessate il fuoco a Gaza che potrebbe pacificare il confine settentrionale, o un'escalation deliberata nel nord, con tutte le sue potenziali conseguenze.
L'idea di poter convincere Hezbollah ad allontanarsi dai confini libanesi è sempre stata un'utopia. Le prospettive di un accordo su Gaza, dicono ora i mediatori, sono "prossime allo zero". Ecco che l'attenzione dello stato sionista si è rivolta a nord.
Il generale Gantz, presidente del partito di opposizione National Unity, ha presenziato a Washington al summit Middle East America Dialogue (MEAD). Da critico nei confronti del governo di Netanyahu, è sembrato comunque rassegnato all'inevitabile: "Hamas è roba vecchia", ha detto. "Il vero problema sono l'Iran, i suoi agenti di prossimità in tutto il Medio Oriente e quello che stanno cercando di fare... I militari dovrebbero spostare la loro attenzione da Gaza al Libano". "Su questo siamo in ritardo", ha aggiunto. "È arrivato il momento di passare all'azione a nord".
Il generale Kurilla, comandante delle forze statunitensi nella regione, è arrivato a metà settembre nello stato sionista per la sua seconda visita in una settimana, allo scopo di completare "il coordinamento con le forze armate dello stato sionista in previsione di qualsiasi possibile attacco di rappresaglia iraniano e di Hezbollah".
Washington, sebbene impegnata a sostenere lo stato sionista in qualsiasi conflitto con l'Iran o con Hezbollah, è comunque preoccupata. Nei giorni scorsi alti funzionari statunitensi hanno espresso il timore che una guerra su larga scala contro Hezbollah possa causare ingenti danni al fronte interno dello stato sionista, soprattutto se l'Iran e altri membri dell'Asse della Resistenza dovessero intervenire.
L'acquisizione da parte dell'Iran di armamenti russi di tipo avanzato ha complicato notevolmente il quadro per gli Stati Uniti: potrebbe rivelarsi una svolta, se si considera anche la scorta di missili progrediti di cui il paese dispone. C'è stata una rivoluzione, nella guerra contemporanea. Il dominio aereo occidentale è stato messo sotto scacco. Gli Stati Uniti si sono -incautamente- impegnati in qualsiasi conflitto che si estenda al Libano e all'Iran. Questo, di per sé, potrebbe minacciare le prospettive elettorali di Kamala Harris mentre monta la rabbia tra gli elettori musulmani nei principali Stati degli USA.
A Washington la sensazione che Netanyahu vorrebbe danneggiare Biden-Harris e far vincere le elezioni a Trump è qualcosa di più di un sospetto.
Il piano di Grande Vittoria di Netanyahu per liberare la Grande Israele dai palestinesi sta diventando realtà, ma schiacciare Hezbollah resta un obiettivo fuori portata. Tutte queste "vittorie" sono un qualcosa di realizzabile, anche alla lontana? No. Rischiano piuttosto di far collassare lo stato sionista, come hanno chiarito autorevoli commentatori come il Maggiore Generale Brick. È tuttavia possibile che Netanyahu cerchi di arrivarci. Lo spirito kahanista continua a vivere ed è oggi quello prevalente nello stato sionista.
Questa prospettiva getta la cupa ombra di un enorme uccello del malaugurio, volteggiante nei cieli mediorientali per i mesi che mancano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Anche la guerra in Ucraina è foriera di sgradevoli e inattese sorprese in attesa di rivelarsi.
Questa settimana il Presidente Putin, in occasione del Forum Economico Orientale di Vladivostok, ha suggerito che anche la guerra in Ucraina si trovi ad un punto di svolta proprio come quella in Medio Oriente. La Russia ha cambiato le carte in tavola con gli Stati Uniti grazie alla sua reazione contro l'incursione di Kursk.
Le forze russe hanno capito quanto fosse folle da parte degli ucraini schierare le loro brigate e i loro preziosi mezzi corazzati occidentali in un cul-de-sac boscoso e poco popolato e si sono accontentate di dedicarsi a un rilassante tiro al tacchino.
Mosca non ha abboccato all'amo e non ha ridotto le riserve russe sul fronte del Donbass per schierarle a Kursk. Putin ha chiarito con tranquilla sicurezza a Vladivostok che Zelensky "non ha ottenuto nulla dall'offensiva di Kursk. Le forze russe hanno stabilizzato la situazione a Kursk e hanno iniziato a respingere il nemico dai territori di confine, mentre l'offensiva nel Donbass ha ottenuto impressionanti guadagni territoriali".
Per l'esattezza Putin ha dichiarato che il nemico sta subendo perdite molto pesanti, sia in termini di uomini che di materiali. Questa situazione, ha sottolineato, potrebbe portare al collasso del fronte nelle aree più critiche e alla totale perdita della capacità operativa di tutte le sue forze armate.
Putin può anche continuare a dire, come sempre, che è aperto al dialogo; ma le ultime parole della frase sono state inequivocabili. Il crollo è "ciò a cui miravamo"; l'obiettivo era la completa perdita delle capacità offensive delle forze armate ucraine. Queste sono le parole fondamentali.
Se ne può dedurre che dal completo collasso delle capacità operative si produrrebbe quasi sicuramente lo sfascio di un edificio politico che si regge esclusivamente sulle predette capacità militari, e non su una qualche legittimità politica.
Ciò che Mosca non può prevedere è come, o in quale forma, tale sfascio possa verificarsi.
Le strutture politiche di Kiev continueranno probabilmente a trascinarsi come zombie, anche se private della loro ragion d'essere, finché l'amministrazione Biden riuscirà a gestirne l'esistenza pur di salvare la faccia fino alle elezioni.
Il Presidente Putin può anche parlare di mediazioni, ma Mosca sa bene che l'apparato del potere a Kiev è stato messo in piedi dal bacino degli antislavi razzisti, proprio per bloccare qualsiasi accordo con Mosca. Qualsiasi mediazione è destinata a fallire; questo era fin dall'inizio lo scopo di Washington, quando ha dato potere al blocco ispirato da Stepan Bandera.
Se le strutture politiche di Kiev venissero meno, verrebbe probabilmente meno anche la necessità di un qualsiasi potenziale mediatore.
In parole povere una nuova amministrazione debitamente ripulita a Kiev concluderebbe con ogni probabilità che sul fronte militare non ha altra scelta che la capitolazione, in cui offrire una neutralità formale e dei limiti alla futura ricostruzione delle proprie forze armate. E Mosca è in grado di discuterne con gli ucraini senza ricorrere a mediatori esterni.
Naturalmente si leverà un intero coro a ricordare che gli Stati Uniti non potranno permettere il completo collasso delle capacità militari dell'Ucraina. In considerazione delle elezioni di novembre, detto retoricamente, è abbastanza vero. Ecco perché Putin non abbandona la narrativa sulla mediazione.
C'è il vertice dei BRICS in Russia a fine ottobre da gestire. L'Occidente insisterà fino all'ultimo sulla mediazione, per tenere in vita il più a lungo possibile l'attuale regime russofobico di Kiev e per far sì che alcuni partecipanti ai BRICS considerino innanzitutto l'idea di un congelamento del conflitto. Solo che la proposta di congelare il conflitto è una trappola che servirebbe a gettare le basi di una futura piattaforma per esercitare pressioni sulla Russia.
I capi dei servizi segreti statunitensi e britannici possono anche baloccarsi con l'idea di colpire in profondità la Russia con gli ATACMS, ma il ricorso a misure esplicitamente tese a terrorizzare la popolazione civile russa e a minare la popolarità di Putin serve più che altro a sottolineare il fallimento strategico occidentale. Ancora una volta l'Occidente non è riuscito a mettere in piedi una forza militare credibile al punto di colpire con efficacia il suo obiettivo, anche se lo ritraeva a tinte demoniache.
La guerra è persa, e l'impegno profuso per fare finta che non sia così mostra segni di logoramento lasciando intendere a tutti come stanno davvero le cose.

lunedì 9 settembre 2024

Alastair Crooke - "Abbiamo detto allo stato sionista: 'Sentite, se proprio lo dovete fare, noi saremo con voi fino in fondo'"




Traduzione da Strategic Culture, 30 agosto 2024.

"Il successo con cui l'attacco di Hezbollah di domenica [25 agosto 2024] è stato sventato è un simbolo del vantaggio operativo e di intelligence dello stato sionista": Secondo il portavoce delle forze armate sioniste l'attacco di Hezbollah è stato in massima parte sventato grazie a cento aerei dell'aeronautica sionista che hanno operato ininterrottamente per sferrare attacchi preventivi che hanno distrutto "migliaia di lanciatori di missili".
"Il gruppo [Hezbollah] è riuscito a lanciare centinaia di razzi contro il nord dello stato sionista, ma i danni causati sono stati piuttosto limitati", hanno asserito sdegnosamente i portavoce dello stato sionista, in cui vige -all'insegna della censura completa- la totale inibizione alla pubblicazione di qualsiasi notizia sui danni causati alle infrastrutture strategiche o a siti militari. In effetti si è trattato di una sorta di recita da parte di entrambe le parti: limitando l'attacco a una ventina di minuti e a un raggio di cinque chilometri dal confine e con Hezbollah che è rimasto entro i limiti dell'iniziativa equilibrata, entrambe le parti hanno segnalato chiaramente l'una all'altra di non essere intenzionate ad arrivare alla guerra senza quartiere.
Che lo stato sionista avrebbe ostentato una narrativa vittoriosa era prevedibile, dato l'imperante clima di guerra psicologica. Ma la cosa ha un costo. Amos Harel su Haaretz suggerisce che "nello stato sionista si tende [di conseguenza] a considerare il successo nello sventare l'attacco di domenica come una ulteriore riprova del consolidamento della deterrenza regionale e della supremazia strategica occidentale. Ma una tale valutazione", ammette, "sembra essere tutt'altro che accurata".
In effetti, tutt'altro che accurata lo è di sicuro. La recita di domenica si è conclusa senza alcun cambiamento della situazione strategica nel nord dello stato sionista: il logoramento quotidiano continua da oltre la frontiera con il Libano fino al nuovo limite di quaranta chilometri che definisce l'estensione della perdita di territorio da parte dello stato sionista a favore della zona interdetta di Hezbollah.
Dal punto di vista strategico la cosa importante non è nel fatto che questa narrativa vittoriosa sul contrasto alle iniziative di Hezbollah sia molto fuorviante. Il fatto è che essa crea aspettative di successo, sul piano militare, da cui si trarranno conclusioni sbagliate. È già successo e non è finita bene.
Seymour Hersh, decano del giornalismo investigativo statunitense, questa settimana ha ripubblicato un articolo che scrisse nell'agosto 2006 su quello che si pensava negli Stati Uniti della guerra dello stato sionista contro Hezbollah e sul suo preventivato ruolo di prodromo per un successivo attacco statunitense contro l'Iran.
Quello che Hersh scrisse allora rappresenta un sorprendente déjà vu della situazione odierna ed è ancora attinente la questione, perché il pensiero neoconservatore statunitense si evolve raramente e presenta sempre gli stessi punti fermi.
"Il grande interrogativo per la nostra aeronautica militare", ha osservato Hersh nel 2006, "riguardava il come colpire con successo una serie di obiettivi difficili in Iran", ha detto un ex alto funzionario dei servizi. "Chi è l'alleato più vicino all'aeronautica statunitense nella pianificazione di questo attacco? Non è il Congo, è lo stato sionista". Il funzionario ha proseguito: "Tutti sanno che gli ingegneri iraniani hanno fornito consulenza a Hezbollah per i tunnel e le postazioni missilistiche sotterranee. E così l'USAF è andata dai sionisti presentando alcune nuove tattiche e dicendo loro: 'Concentriamoci sui bombardamenti e condividiamo quello che noi sappiamo sull'Iran e quello che voi sapete sul Libano'".
"I sionisti ci hanno detto [che quella contro Hezbollah] sarebbe stata una guerra a basso costo e dai molti vantaggi", ha detto un consulente del governo statunitense che ha stretti legami con lo stato sionista: "Perché opporsi? Saremo in grado di scovare e bombardare missili, tunnel e bunker dall'aria. Per l'Iran sarebbe una dimostrazione".
"Quel consulente mi ha detto che i sionisti hanno ripetutamente indicato la guerra in Kosovo come esempio di ciò che lo stato sionista avrebbe cercato di ottenere. "Le forze della NATO... bombardarono e bombardarono metodicamente non solo obiettivi militari, ma anche tunnel, ponti e strade, in Kosovo e altrove in Serbia, per settantotto giorni... lo stato sionista studiò la guerra del Kosovo come se fosse un modello... I sionisti dissero a Condi Rice: Voi l'avete fatto in circa settanta giorni, ma a noi ne servono la metà -trentacinque giorni- per finirla con Hezbollah"".
"La Casa Bianca della presidenza Bush", ha detto un consulente del Pentagono, "si sta dando da fare da tempo per trovare un motivo per attaccare preventivamente Hezbollah"; ha aggiunto che: "Era nostra intenzione indebolire Hezbollah, e ora lo sta facendo qualcun altro... Secondo un esperto di Medio Oriente che conosce l'attuale orientamento del governo sionista e di quello statunitense, lo stato sionista aveva elaborato un piano per attaccare Hezbollah e lo aveva condiviso con i funzionari dell'Amministrazione Bush ben prima dei rapimenti del 12 luglio [2006]: "Non che lo stato sionista avesse preparato una trappola e che Hezbollah vi sia caduto", ha detto, "ma alla Casa Bianca si aveva la forte sensazione che prima o poi i sionisti avrebbero attaccato", ha scritto Hersh.
"La Casa Bianca era in prevalenza concentrata sul privare Hezbollah dei suoi missili, perché se si fosse deciso di procedere militarmente contro le strutture nucleari iraniane si dovevano innanzitutto togliere di mezzo le armi che Hezbollah avrebbe potuto usare in una potenziale rappresaglia contro stato sionista. Bush voleva entrambe le cose", fu riferito a Hersh.
"L'amministrazione Bush era strettamente coinvolta nella pianificazione degli attacchi di rappresaglia dello stato sionista. Il presidente Bush e il vicepresidente Dick Cheney erano convinti... che un'efficace campagna di bombardamenti dell'aviazione sionista contro i complessi sotterranei di missili e di comando e controllo di Hezbollah in Libano -che erano pesantemente fortificati- avrebbe potuto alleviare le preoccupazioni dello stato sionista in materia di sicurezza e fungere da preludio a un potenziale attacco preventivo ameriKKKano per distruggere le installazioni nucleari iraniane, alcune delle quali sono anch'esse realizzate in profondità".
Un ex ufficiale dell'intelligence ha dichiarato: "Abbiamo detto allo stato sionista: 'Sentite, se proprio lo dovete fare, noi saremo con voi fino in fondo'".
"Nonostante questo alcuni funzionari in servizio presso gli Stati Maggiori Riuniti erano profondamente preoccupati che l'Amministrazione avesse una valutazione della campagna aerea molto più positiva del dovuto", ha dichiarato l'ex alto funzionario dei servizi. "Non c'è modo che Rumsfeld e Cheney traggano conclusioni corrette", ha detto. "Quando il fumo si diraderà, diranno che è stato un successo e concluderanno che si tratta di un incentivo per il loro piano di attacco contro l'Iran".
E questa è la situazione in cui ci troviamo oggi: quando il fumo dell'"esemplare attacco preventivo in Libano" di domenica si diraderà, Netanyahu lo userà a Washington per rinforzare il suo proposito di coinvolgere gli Stati Uniti in un attacco all'Iran.
"Dal punto di vista militare il concetto di bombardamento strategico è fallimentare da novant'anni, eppure le forze aeree di tutto il mondo continuano a praticarlo", ha detto a [Hersh] John Arquilla, analista della difesa presso la Naval Postgraduate School... Anche Rumsfeld [condivideva la poco entusiasta opinione di questo esperto]: "Il potenziale aereo e l'uso di alcune forze speciali avevano funzionato in Afghanistan, e lui [Rumsfeld] aveva cercato di fare la stessa cosa in Iraq. L'idea era la stessa, ma in Iraq non aveva funzionato. Rumsfeld pensava che Hezbollah fosse troppo trincerato e che il piano d'attacco dello stato sionista non avrebbe funzionato; l'ultima cosa che voleva era un'altra guerra, che avrebbe messo le forze statunitensi in Iraq in ancora maggiori pericoli proprio durante il suo mandato".
"Il piano sionista del 2006, secondo l'ex alto funzionario dei servizi, era 'l'immagine speculare di ciò che gli Stati Uniti avevano pianificato per l'Iran'". I preliminari dell'aeronautica statunitense per un attacco aereo volto a distruggere la capacità nucleare iraniana comprendevano l'opzione di un intenso bombardamento di obiettivi infrastrutturali civili all'interno del paese: incontrarono il diniego dei vertici dell'esercito, della marina e del corpo dei Marines, secondo quanto riferito da funzionari in carica e non. Essi sostengono che il piano proposto dall'aeronautica non funzionerà e che porterà inevitabilmente -come nella guerra dello stato sionista contro Hezbollah- a dover schierare truppe sul terreno.
David Siegel, l'allora portavoce dello stato sionista, ha dichiarato che all'inizio di agosto 2006 i vertici del suo Paese erano convinti che le operazioni aeree avessero avuto successo e avessero distrutto più del settanta per cento del potenziale missilistico a medio e lungo raggio di Hezbollah.
Invece lo stato sionista nel 2006 non aveva distrutto il settanta per cento degli armamenti missilistici di Hezbollah. Esso venne ingannato dall'operazione di depistaggio messa in atto dai servizi di Hezbollah: l'aviazione sionista bombardò a vuoto.
Oggi ci ritroviamo con il contrammiraglio Hagari delle forze armate sioniste che si produce nelle stesse narrative esultanti ostentando il successo degli attacchi di domenica.
Probabilmente c'è qualcuno, nello stato sionista e negli Stati Uniti, profondamente preoccupato che l'amministrazione di Biden possa indulgere a una valutazione della campagna aerea sionista molto più positiva del dovuto.
Molti commentatori in Occidente stanno commettendo lo stesso errore. Come ha notato il corrispondente militare di Haaretz a proposito degli attacchi aerei di domenica, "Esiste nello stato sionista la tendenza a considerare il fatto che l'attacco di domenica è stato sventato con successo come una nuova prova del consolidamento della deterrenza regionale e della supremazia strategica".
In altre parole, l'Iran sarebbe stato dissuaso da onorare l'impegno di una rappresaglia per l'assassinio di Ismail Haniyah a Tehran dalla somma del potenziale di fuoco satunitense presente nelle acque del Mediterraneo e del Golfo Persico, e dal timore che questo potenziale possa rivelarsi schiacciante.
Chiunque abbia dato un'occhiata ai video sulle "città missilistiche" automatizzate e costruite in profondità che l'Iran ha dislocato in tutto il suo territorio -e che per un momento ha fatto balenare alla vista- dovrebbe capire che un bombardamento a tappeto sulle infrastrutture civili iraniane non intaccherà la capacità iraniana di rispondere in modo letale. L'Iran potrebbe scatenare nientemeno che un Armageddon regionale.
Quindi, per essere chiari: chi è che davvero ha desistito e si sta tirando indietro, l'Iran o Washington?
Eppure, "se è vero che la campagna dello stato sionista si basa sull'approccio statunitense in Kosovo, allora ha proprio mancato il segno", ha detto a Hersh il generale Wesley Clark, all'epoca comandante statunitense dell'operazione. L'obiettivo non era quello di uccidere civili: "Nella mia esperienza le campagne aeree devono essere sostenute, in ultima analisi, dalla volontà e dalla capacità di finire il lavoro sul terreno".
Fare una cosa del genere in Iran è semplicemente fuori questione, per gli Stati Uniti.
"Siamo di fronte a un dilemma", ha detto un funzionario sionista a Hersh nel 2006; "in effetti dobbiamo decidere se optare per una risposta locale (che è inefficace) o per una risposta globale, per affrontare davvero Hezbollah [e l'Iran] una volta per tutte".
Mutatis mutandis il dilemma è rimasto lo stesso. Lo stato sionista, in compenso, è cambiato radicalmente. La maggioranza dello stato sionista oggi sostiene con piglio messianico i seguaci di Jabotinsky affinché facciano quello che avevano sempre voluto e promesso di fare: cacciare i palestinesi dalla Terra d'Israele.
Molti a Washington sanno che i sionisti revisionisti (che forse rappresentano circa due milioni di cittadini dello stato sionista) intendono cinicamente imporre la loro volontà agli "anglosassoni", facendo precipitare gli Stati Uniti in una vera e propria guerra regionale se appena la Casa Bianca cercasse di indebolire il loro progetto di una nuova Nakba, con l'espulsione forzata dei palestinesi.
Benjamin Netanyahu ha provocato l'Iran una volta, con l'assassinio nel consolato di Damasco di un alto generale dei Guardiani della Rivoluzione Islamica; una seconda volta con l'uccisione di Haniyeh a Teheran; una possibile terza provocazione potrebbe essere il lancio di un attacco cosiddetto "preventivo" contro l'Iran, nella convinzione che gli Stati Uniti sarebbero legati mani e piedi e politicamente incapaci di rimanersene in disparte mentre l'Iran scatena la propria ritorsione contro lo stato sionista.
Tuttavia, se gli Stati Uniti dovessero porre il veto a un attacco contro l'Iran prima delle elezioni presidenziali, e se l'Iran non si vendicasse della morte di Haniyeh prima di allora, il progetto di una nuova Naqba potrebbe essere portato avanti estendendo l'attuale offensiva militare di Gaza alla Cisgiordania, o mettendo in atto una grave provocazione sullo Haram al-Sharif, il Monte del Tempio. Per esempio, con un incendio alla Moschea di al-Aqsa.
I sionisti revisionisti sono stati chiari negli ultimi anni sul fatto che sarebbe stata necessaria una crisi, o la confusione di una guerra, per attuare pienamente il loro progetto di una nuova Naqba.
L'AmeriKKKa è intrappolata nel suo "ferreo" e incondizionato sostegno militare allo stato sionista, cosa che offre a Netanyahu ampi spazi di manovra.
Spazi di manovra che portano verso un conflitto, unica via di fuga per un Netanyahu costretto a puntare sempre più in alto, perché la morsa del logoramento si sta stringendo attorno allo stato sionista. L'Iran e Hezbollah sembrano aver scelto, per ora, proprio di consevare le proprie prerogative di escalation attraverso un ritorno a una studiata strategia di logoramento.
Gli Stati Uniti non saranno in grado di mantenere a lungo un tale dispiegamento di navi nella regione. Allo stesso modo Netanyahu non potrà tergiversare politicamente a lungo, nemmeno in patria.