martedì 6 febbraio 2024

Alastair Crooke - I tre aspetti dello swarming contro Biden

 


Traduzione da Strategic Culture, 5 febbraio 2024.

"Gli iraniani hanno una strategia e noi no", ha dichiarato ad Al-Monitor un ex alto funzionario del Dipartimento della Difesa statunitense: "Ci stiamo impantanando in questioni tattiche -su chi colpire e come- e nessuno pensa in modo strategico".
L'ex diplomatico indiano MK Bhadrakumar ha coniato il termine swarming per descrivere questo processo in cui sono attori non statali a spingere gli Stati Uniti in un logorante pantano tattico, in un'area che va dal Levante al Golfo Persico.
Lo swarming è stato associato più di recente a un'evoluzione radicale della guerra moderna -più evidente in Ucraina- in cui con il ricorso a droni autonomi che comunicano continuamente tra loro tramite l'intelligenza artificiale si seleziona e si dirige un attacco verso obiettivi identificati dallo sciame.
In Ucraina la Russia ha perseguito un paziente e calibrato logoramento per cacciare gli ultranazionalisti della destra intransigente dal campo di battaglia nell'Ucraina centrale e orientale, insieme ai loro facilitatori occidentali della NATO. I tentativi di deterrenza della NATO nei confronti della Russia, che di recente sono sfociati in attacchi "terroristici" all'interno del paese -ad esempio a Belgorod- non hanno prodotto risultati. Piuttosto, l'aver strettamente abbracciato la causa di Kiev ha lasciato Biden esposto politicamente, mentre l'entusiasmo verso di essa sta raffreddandosi sia negli USA che in Europa. La guerra ha impantanato gli Stati Uniti e non esiste una via d'uscita accettabile dal punto di vista elettorale: tutti se ne rendono conto. Mosca ha coinvolto Biden in una complessa e logorante rete. Biden dovrebbe liberarsene in fretta, ma è la campagna elettorale del 2024 a vincolarlo.
L'Iran ha quindi messo in atto una strategia molto simile in tutto il Golfo, forse prendendo spunto dal conflitto in Ucraina.
A meno di un giorno dall'attacco alla Tower 22, la base militare ambiguamente arroccata nella sottile stricia di territorio tra la Giordania e la base illegale statunitense di al-Tanf in Siria, Biden ha promesso che gli Stati Uniti daranno una risposta rapida e determinata agli attacchi contro di loro in Iraq e in Siria da parte di quelle che definisce "milizie legate all'Iran".
Contemporaneamente, però, il portavoce della Casa Bianca per la sicurezza nazionale John Kirby ha dichiarato che gli Stati Uniti non vogliono ampliare la portata delle operazioni militari contro l'Iran. Proprio come in Ucraina, dove la Casa Bianca è stata restia a provocare Mosca in una guerra totale contro la NATO, anche nella regione Biden è (giustamente) diffidente a intraprendere una guerra vera e propria con l'Iran.
La precedenza, in questo anno di elezioni, la avranno le considerazioni politiche di Biden E queste, almeno in parte, dipenderanno dalla fine calibrazione del Pentagono sulla esposizione delle forze statunitensi in Iraq e in Siria agli attacchi missilistici e ai droni.
Le basi in quella regione sono bersagli facili; ammettere un simile dato di fatto sarebbe imbarazzante. Ma un'evacuazione frettolosa -tipo gli ultimi voli da Kabul- sarebbe peggiore; sul piano elettorale potrebbe rappresentare un disastro. Gli Stati Uniti sembrano essere alla ricerca di un modo per danneggiare le forze iraniane e della Resistenza quel tanto che basta per far vedere che Biden è "molto arrabbiato", ma forse senza causare veri danni; si tratterebbe di una forma di "psicoterapia militarizzata", piuttosto che di mettere in atto una politica dura.
I rischi rimangono: se si bombarda troppo la guerra regionale si inasprirà ancora di più. Se si bombarda troppo poco, lo sciame continuerà a guadagnare posizioni e a punzecchiare gli Stati Uniti su più fronti, fino a quando essi non cederanno e usciranno definitivamente dal Levante.
Biden si ritrova insomma in una estenuante e perdurante guerricciola contro gruppi armati e milizie piuttosto che contro stati (che l'Asse della Resistenza cerca di proteggere). Nonostante sia combattuta da milizie, tuttavia, la guerra sta causando gravi danni all'economia degli stati della regione. Essi hanno capito che la deterrenza statunitense non ha prodotto risultati (ad esempio, con Ansarallah nel Mar Rosso).
Alcuni di questi paesi -tra cui l'Egitto, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti- hanno avviato iniziative in proprio, non coordinate con gli Stati Uniti. Non dialogano solo con milizie e movimenti, ma anche direttamente con l'Iran.
La strategia di praticare contro gli Stati Uniti uno swarming su più fronti è stata citata esplicitamente al recente incontro ad Astana tra Russia, Iran e Turchia tenutosi il 24 e il 25 gennaio. Questo triumvirato è impegnato a preparare la chiusura dei giochi in Siria e, in ultima analisi, nell'intera regione.
La dichiarazione congiunta rilasciata dopo il vertice ad Astana in Kazakistan, ha osservato MK Bhadrakumar,
è un documento notevole, quasi interamente centrato sulla fine dell'occupazione statunitense della Siria. Il documento esorta indirettamente Washington a rinunciare al sostegno dei gruppi terroristici e dei loro affiliati "che operano sotto diversi nomi in varie parti della Siria" tentando di creare nuove realtà sul terreno, comprese iniziative illegittime di autogoverno con il pretesto di "combattere il terrorismo". Chiede la fine del sequestro e del trasferimento illegale da parte degli Stati Uniti di risorse petrolifere "che dovrebbero appartenere alla Siria".
La dichiarazione definisce quindi nettamente alcuni obiettivi. In sintesi, gli Stati Uniti hanno armato i curdi e hanno tentato di rianimare l'ISIS per mettere fine ai piani dei tre paesi perché si arrivi a un accordo sulla Siria; su tutto questo la pazienza è finita. I tre voglioni che gli Stati Uniti se ne vadano.
È con questi obiettivi -insistere perché Washington rinunci a sostenere i gruppi terroristici e i loro affiliati nell'ambito dei tentativi di creare nuove realtà sul terreno -comprese iniziative di autogoverno illegittime con il pretesto di "combattere il terrorismo"- che la strategia russa e iraniana sulla Siria esposta ad Astana trova un terreno comune con quella della Resistenza.
Quest'ultima nel suo complesso può anche essere il riflesso della strategia iraniana, ma la dichiarazione di Astana mostra che la Russia ne condivide i principi di fondo.
Nella sua prima vera dichiarazione successiva al 7 ottobre, Seyyed Nasrallah (che parla a nome dell'Asse della Resistenza) ha indicato un punto fermo nella strategia della Resistenza: mentre il conflitto innescato dagli eventi di Gaza riguardava principalmente lo stato sionista, egli ha sottolineato anche che la furibonda reazione dello stato sionista si svolgeva sullo sfondo delle guerre senza fine e del divide et impera che gli USA praticano in suo sostegno.
In breve, ha indicato la causa ultima delle numerose guerre regionali condotte dagli USA nell'interesse dello stato sionista.
Arriviamo così al terzo filone dello swarming contro Biden.
Solo che non sono gli attori regionali a cercare di impantanare Biden, bensì il suo stesso protetto: il Primo Ministro Netanyahu.
Netanyahu e lo stato sionista sono l'obiettivo principale dello swarming regionale nella sua interezza, ma Biden si è lasciato coinvolgere. Sembra che non riesca a dire no. Così Biden si ritrova impantanato dalla Russia in Ucraina, impantanato in Siria e in Iraq, impantanato da Netanyahu e impantanato da uno stato sionista che teme la fine proprio del progetto sionista.
È probabile che Biden dal punto di vista elettorale non riesca a trovare un punto di equilibrio tra un pieno coinvolgimento statunitense in una guerra totale in Medio Oriente, impopolare ed elettoralmente disastrosa, e il "dare il via libera" allo stato sionista nella sua enorme scommessa su una guerra vittoriosa contro Hezbollah.
Questo assommarsi della fallimentare manovra in Ucraina per indebolire la Russia e gli arrischiati maneggi su una guerra dello stato sionista contro Hezbollah non sfuggirà agli elettori. Anche Netanyahu si trova tra l'incudine e il martello. Sa che una "vittoria" che si riduca al mero rilascio degli ostaggi e a misure di fiducia per la creazione di uno Stato palestinese non ripristinerebbe la deterrenza sionista, né all'interno né all'esterno dello stato. Al contrario, la indebolirebbe. Sarebbe una sconfitta. E senza una chiara vittoria nel sud, ovvero su Hamas, una vittoria a nord sarebbe la pretesa di molti cittadini dello stato sionista, compresi i membri chiave del suo stesso governo.
Ricordiamo l'aria che tira sul fronte interno, nello stato sionista: L'ultimo sondaggio di Peace Index mostra che il 94% degli ebrei dello stato sionista rientra fra quanti pensano che a Gaza sia stata usata la giusta potenza di fuoco, oppure una potenza non bastante (43%). E tre quarti dei cittadini dello stato sionista pensano che il numero di palestinesi feriti da ottobre sia giustificato. Se Netanyahu è costretto a fare i conti con la situazione, lo è anche Biden.
Martedì 30 gennaio Netanyahu ha dichiarato:
"Non metteremo fine a questa guerra con niente di meno che il raggiungimento di tutti i suoi obiettivi... Non ritireremo l'IDF dalla Striscia di Gaza e non rilasceremo migliaia di terroristi. Non succederà nulla di tutto questo. Quale sarà l'esito? Sarà quello di una vittoria totale".
"Netanyahu è in grado di virare fortemente a sinistra... di entrare in un processo storico che porrà fine alla guerra a Gaza e porterà a uno Stato palestinese, insieme a uno storico accordo di pace con l'Arabia Saudita? Probabilmente no. Netanyahu ha rovesciato a calci molti altri secchi come questi prima che venissero riempiti", ha commentato l'esperto osservatore Ben Caspit sulla edizione ebraica del Ma'ariv. Biden sta facendo una scommessa impegnativa. Meglio aspettare le risposte di Hamas e della Resistenza di Gaza alla proposta sugli ostaggi. I presagi, tuttavia, non sembrano favorevoli a Biden. Alti funzionari di Hamas e della Jihad islamica hanno risposto ieri all'ultima proposta:
"La proposta di Parigi non è diversa dalle precedenti proposte presentate dall'Egitto... [La proposta] non porta a un cessate il fuoco. Vogliamo garanzie per porre fine alla guerra genocida contro il nostro popolo. La resistenza non è debole. Non le verrà imposta alcuna condizione" (Ali Abu Shahin, membro dell'ufficio politico del Jihad islamico).
"La nostra posizione è per un cessate il fuoco, l'apertura del valico di Rafah, garanzie internazionali e arabe per il ripristino della Striscia di Gaza, il ritiro delle forze di occupazione da Gaza, la ricerca di una soluzione abitativa per gli sfollati e il rilascio dei prigionieri secondo il principio del tutti per tutti... Sono fiducioso che ci stiamo dirigendo verso la vittoria. La pazienza dell'amministrazione statunitense è agli sgoccioli perché Netanyahu non sta conseguendo risultati" (Alli Baraka, alto funzionario di Hamas).

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