lunedì 9 luglio 2018

Alastair Crooke - Per l'era Bilderberg è l'inizio della fine



Traduzione da Strategic Culture, 25 giugno 2018.

Si vede l'inizio della fine per la concezione del mondo alla Bilderberg / Soros, anche se il vecchio mondo lotterà con le unghie e con i denti. La concezione del Bilderberg è quella di un cosmopolitismo multiculturale e internazionale che supera il vecchio nazionalismo, annuncia la fine delle frontiere e porta verso un ordine mondiale economico e politico di tipo tecnocratico e a guida statunitense. Il suo fondamento ideologico è dovuto a personaggi come James Burnham, un antistalinista ed ex trotzkista che fin dal 1941 perorava la causa della consegna ad una classe di dirigenti, ad una élite, delle leve del potere finanziario ed economico. Solo questa élite sarebbe stata in grado di mandare avanti una macchina statale contemporanea grazie alla sua conoscenza tecnica del mercato e della finanza. Burnham auspicava un'oligarchia competente e tecnocratica.
Burnham rinunciò a qualsiasi richiamo a Trotzky e ad ogni forma di marxismo nel 1940, ma ne avrebbe desunto le tattiche e le strategie dell'infiltrazione e della sovversione, che aveva imparato da appartenente alla ristretta cerchia di Lev Trotzky; avrebbe elevato la gestione trotzkista delle "politiche identitarie" ad arma d'elezione per far esplodere la cultura nazionale su un piano nuovo: l'emisfero occidentale. Il suo libro del 1941 intitolato La rivoluzione manageriale attirò l'atenzione di Frank Wisner, che sarebbe diventato una figura leggendaria nella CIA e che vide nelle opere di Brunham e del suo collega (anch'egli trotzkista) Sidney Hook la possibilità di realizzare un'efficace alleanza di ex trotzkisti contro lo stalinismo.
Wisner intuì anche i meriti che l'operazione avrebbe avuto come credibile mèntore per l'instaurazione di un ordine mondiale liberale solo in apparenza, controllato dalla CIA e dagli USA. Liberale solo in apparenza perché, come Burnham aveva scritto con chiarezza nel suo I neomachiavellici, i difensori della libertà, di tutte le libertà definite dalla costituzione statunitense la libertà come egli la intendeva era soltanto la libertà intellettuale. "In realtà si trattava di conformismo e di sottomissione".
In poche parole -come hanno notato Paul Fitzgerald ed Elizabeth Gould, "nel 1947 il passaggio di James Burnham dal comunismo radicale al conservatorismo ameriKKKano fautore di un Nuovo Ordine Mondale si era ormai concluso. Nel suo La lotta per il mondo (che diventò un manuale per lo OSS, l'antenato della CIA) Burnham aveva fatto una svolta francese per quanto riguardava la rivoluzione comunista permanente di Trotzky, e l'aveva trasformata in un piano di battaglia permanente per la costruzione di un impero ameriKKKano mondiale. L'unica cosa che serviva per completare la dialettica di Burnham era un nemico permanente; sarebbe servita una sofisticata campagna psicologica per tenere vivo "per generazioni" l'odio contro la Russia.
Cosa c'entra tutto questo con la situazione in cui ci troviamo oggi? Un panorama in stile Burnham fatto di partiti politici europei apparentemente di centro, di think tank apparentemente indipendenti, di istituzioni e di strutture della NATO è stato seminato dalla CIA in Europa e in Medio Oriente in un dopoguerra antisovietico. Tutte componenti del piano di guerra di Burnham in favore di un ordine mondiale a guida statunitense. La sua élite non è altro che questo. La tecnocrazia oligarchica di Burnham oggi è in ritirata su tutti i fronti, al punto che l'ordine liberale del mondo è consapevole di star lottando per la propria sopravvivenza, contro "il nemico alla Casa Bianca", come il redattore dello Spiegel on line ha chiamato il Presidente Trump.
Che cosa ha provocato tutto questo? Che lo si ami o lo si odi, il Presidente Trump ha avuto una parte da protagonista, non fosse che per il fatto di aver detto l'indicibile. Il fatto che dietro certi "non detti", o apofasi, in stile Mastro Eckhart, ci sia o meno un intento razionale è cosa che va al di là della questione: il ricorso intuitivo di Trump a questo "dire l'indicibile" ha di per sé indeblito molto la costruzione ideologica in linea col pensiero di Burnham.
In Europa due gravi difetti alla ricetta di Burnham hanno contribuito, probabilmente in maniera determinante, a mandarla in crisi. In primo luogo, la politica di ripopolare l'Europa con gli immigrati, intesa come rimedio alle carenze demografiche europee e come sistema per diluirne le culture nazionali al punto di farle scomparire, "ha portato a tutt'altro che a una fusione", scrive lo storico britannico Niall Ferguson. "Piuttosto, la crisi dei migranti in Europa sta portando ad una fissione. Potremmo chiamare "crogiolo di fissione" quello che sta succedendo... in maniera crescente... la questione dell'immigrazione sarà considerata dagli storici del futuro come il fatale solvente dell'Unione Europea. Nei loro scritto la Brexit figurerà soltanto come uno dei primi sintomi della crisi". In secondo luogo, la divisione dell'economia in due branche diseguali e prive di rapporti tra loro, risultato della cattiva gestione dell'economia mondiale da parte della élite. Ovvero, l'ovvia assenza della "prosperità per tutti".
Trump ha sentito che la base gli mandava due messaggi fondamentali: che non accettava che la cultura ameriKKKana (bianca) e la sua way of life venissero diluite per mezzo dell'immigrazione, e che non aveva intenzione di assecondare stoicamente il declino ameriKKKano in favore della Cina.
Fermare l'ascesa della Cina è, per la squadra di Trump, una questione fondamentale. In un certo senso ha portato l'AmeriKKKa a proiettarsi nel passato: l'AmeriKKKa oggi vale il 14% del prodotto mondiale calcolato a parità di potere d'acquisto, e il 22% di quello calcolato su base nominale, rispetto al quasi 50% di cui gli USA erano responsabili alla fine della seconda guerra mondiale. Tuttavia le imprese ameriKKKane, grazie all'egemonia mondiale del dollaro, godono di una sorta di monopolio (si pensi tra le altre a Microsoft, a Google e a Facebook) grazie a normative condiscendenti o a posizioni di predominio. Trump vuole impedire che lo stato di cose peggiori ulteriormente, e servirsene come di una vantaggiosa posizione di forza nella guerra dei dazi attualmente in corso. Sul piano interno si tratta di una politica chiaramente "vincente" per quanto riguarda il radicamento, la politica e le imminenti elezioni di metà mandato previste per novembre.
Il secondo filone sembra prevedere una sorta di tuffo nel passato anche per il Medio Oriente: il ripristino dei tempi dello Scià, quando a dettare la linea politica era "la Persia", quando lo stato sionista era una potenza regionale a salvaguardia degli interessi ameriKKKani, e quando le principali fonti di energia erano sotto il controllo statunitense. Quando, inoltre, l'influenza russa veniva rintuzzata usando l'Islam sunnita radicale contro il socialismo e il nazionalismo arabo.
Trump è ovviamente abbastanza assennato da sapere che non è possibile ritornare a tutti gli effetti a quel mondo alla Kissinger; in Medio Oriente i cambiamenti sono stati troppi. Kissinger tuttavia resta un consigliere importante per il Presidente, al pari del Primo Ministro Netanyahu. Ed è facile dimenticare che il predominio statunitense in Medio Oriente portò non solo al controllo degli USA sull'energia, ma anche al riciclaggio dei petrodollari a Wall Street e alla catena di basi militari USA nel Golfo che circondano l'Iran e che permettono agli USA di allungare fino al cuore dell'Asia il proprio braccio militare.
Eccoci dunque al Trump che abbraccia i Mohammed bin Salman, i Mohammed bin Zayed e i Netanyahu, e che fa propria la narrativa che indica nell'Iran un'entità che agisce per il male della regione e che sostiene il terrorismo.
Il fatto è che si tratta solo di una narrativa, che per giunta diventa priva di senso se la si inquadra in una più ampia considerazione del contesto regionale. La storia dell'Islam non è mai stata priva di conflitti violenti fin dai suoi primi giorni, come nel caso delle guerre della Ridda, o apostasia, del 632-633. Ma è bene non dimenticarsi che l'attuale epoca di radicalizzazione sunnita -tale che ha dato origine allo Stato Islamico- risale almeno al XVII e XVIII secolo, al disastro ottomano dell'assedio di Vienna (1683), al conseguente inizio della dissoluzione del califfato, alla crescente licenziosità e permissività ottomana che provocò lo zelotismo radicale di Abd el Wahhab sulla cui base trovò fondazione l'Arabia Saudita, e infinie all'aggressivo laicismo occidentalizzante in Turchia e in Persia, che innescò quello che viene chiamato "Islam politico" (sia sunnita che sciita che, all'inizio, erano uniti in un singolo movimento).
La narrativa di Mohammed bin Salman secondo cui il "fondamentalismo" dell'Arabia Saudita è stato una reazione alla rivoluzione iraniana è un'altra tiritera di quelle che possono servire agli interessi di Trump e di Netanyahu, ma è falsa anch'essa. In realtà l'assetto contemporaneo del mondo arabo sunnita è un retaggio dell'epoca ottomana ed ha imboccato la via di un lento declino fin dai tempi della prima guerra mondiale, mentre l'Islam sciita ha conosciuto invece un'epoca di forte affermazione in tutto il quadrante settentrionale del Medio Oriente e anche oltre. Detto brutalmente, la cosa è molto semplice: oggi come oggi la storia sorride agli iraniani.
Quello che Trump sta cercando di ottenere è la resa dell'Iran a fronte dell'assedio statunitense, sionista e saudita, la liceità di disfare (anche stavolta) quanto fatto da Obama cercando di riaffermare il predominio statunitense in Medio Oriente, il controllo delle fonti energetiche e la riaffermazione dello stato sionista come potenza regionale. La sottomissione dell'Iran si è quindi affermata come il tornasole per antonomasia del ristabilimento di un ordine mondiale unipolare.
Il suo valore simbolico è così alto proprio perché Trump vorrebbe vedere l'Iran, l'Iraq e gli alleati dell'Iran ovunque si trovino chinare la testa davanti alla sua egemonia unipolare, ma allo stesso tempo l'Iran è fondamentale nella visione multipolare che hanno Xi e Putin almeno quanto lo è nel presunto "rifacimento" del Medio Oriente ad opera di Trump. Non si tratta di un elemento puramente simbolico, perché l'Iran è fondamentale per la strategia geopolitica russa e per quella cinese. Insomma, l'Iran può contare su maggiori risorse per assicurarsi la sopravvivenza di quanto possa aver previsto Trump.
L'AmeriKKKa sfrutterà il proprio dominio del mondo finanziario fino all'estremo limite per strangolare l'Iran; Cina e Russia faranno quanto necessario, sul piano finanziario e su quello commerciale, per evitare che l'Iran non imploda economicamente e continui a rimanere un pilastro di un ordine mondiale alternativo, di carattere multipolare.
E qui entra in gioco il cambiamento di paradigma in Europa. Di nuovo, non è che ci si possa apsettare che gli europei prendano in mano le redini di qualche iniziativa o facciano molto di concreto, ma l'apofatico discorso del "dire l'indicibile" si sta diffondendo anche nel vecchio continente. Al momento non ha imposto mutamenti al paradigma del potere, ma può farlo fra non molto, per esempio con una possibile sconfitta politica della Merkel. Può darsi che la Germania abbia una politica più seria rispetto allo stato che occupa la penisola italiana, ma la voce del nuovo Ministro dell'Interno di quello stato, Matteo Salvini, che oppone il suo no alle incarnazioni di Burnham a Berlino, sta riecheggiando in Europa e oltre. Uno schiaffo in pieno viso.
Ora, è bene essere assolutamente chiari: non stiamo affatto avanzando l'idea che l'Europa spenderà il proprio capitale politico nella difesa degli accordi sul nucleare iraniano. Questo non è probabile. Stiamo didcendo che l'egemonia del dollaro ameriKKKano si è rivelata per il resto del mondo una cosa tossica in molti sensi; servendosi di questa egemonia alla maniera dei gangster -"Noi siamo l'AmeriKKKa, e che cazzo", è la descrizione dell'atteggiamento statunitense data da un funzionario- Trump porta acqua all'antagonismo verso l'egemonia del dollaro, seppure non ancora verso l'AmeriKKKa in quanto tale. Trump sta spingendo tutto il mondo non ameriKKKano verso uno stesso atteggiamento di insofferenza nei confronti del dominio finanziario unipolare dell'AmeriKKKa.
Questo clima di rivolta sta già rafforzando Kim Jong Un, come scrive lo Washington Post:
"Con i rapporti commerciali tra USA e Cina ormai ai ferri corti, Kim si trova ben piazzato per giocarsela con entrambe le potenze, facendo buon viso a Trump intanto che cerca di stringere ulteriormente i rapporti con Xi... Kim capisce il concetto di gerarchia e sa che Xi è il padrino del continente asiatico," ha detto Yanmei Xie, un analista della politica cinese allo studio di ricerca economica Gavekal Dragonomics a Pechino. "Kim sta calcolando pragmaticamente che la Cina può fornirgli assistenza economica, per integrare diplomaticamente la Corea del Nord nell'Asia nordorientale..."
"A livello regionale ci si sta impegnando, in una sorta di coalizione di volenterosi dell'Asia nordoccidentale, a tenere in piedi la commedia secondo cui la Corea del Nord smantellerà l'arsenale nucleare fintanto che gli ameriKKKani continueranno a dialogarvi," ha detto Xie.
La Cina è meno concentrata sul far sì che Kim si liberi degli armamenti piuttosto che sul tenerlo in riga. Secondo gli esperti, alla fine potrebbe ricorrere ai traffici commerciali e agli investimenti per mantenerlo in gioco, dicono gli esperti.
"Con la Corea del Nord ancora alle prese con le sanzioni dell'ONU, il sostegno politico ed economico della cina è ancora molto importante," ha detto Zhao Tong, un esperto di questioni nordcoreane al Centro Carnegie-Tsinghua per le politiche globali di Pechino. Zhao ha detto che la questione adesso è: in che modo la Cina può aiutare la Corea del Nord a sviluppare la propria economia?"
La cina può anche aiutare Kim a normalizzare le relazioni diplomatiche della Corea del Nord. E per far questo si comincia trattandolo meno come un dittatore canaglia e più come un uomo di stato in visita."
La stessa cosa vale, e alla grande, per l'Iran. Cina e Russia sanno come ci si comporta, nei braccio di ferro di questo genere.

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