Traduzione da Strategic Culture, 16 luglio 2018.
Con le guerre vere va così. Cominciarle è facile, si promette una vittoria sicura e rapida... e poi va sempre tutto storto. Le iniziali dichiarazioni fiduciose, a fronte delle dinamiche proprie della guerra che contemplano l'arrivo dell'inatteso e dell'imprevisto e che scuotono l'iniziale sicumera, durano appena un giorno. Il picco adrenalinico dovuto alla finale messa in pratica del piano operativo a lungo contemplato viene mitigato alla svelta dalla comprensione del fatto che questa guerra nuova di zecca dovrà essere combattuta in fangose trincee.
E queste sono le guerre di Trump: una guerra su piani multipli contro la Cina, una contro l'Iran, una contro Angela Merkel e contro le élite europee liberali ("sono peggio della Cina"), un assedio logorante attorno alle roccaforti istituzionali globali del WTO e della NATO.
I leader cinesi e russi hanno capito, e sono occupati a scavare le rispettive trincee per una guerra lunga. Anche Trump sta aggiustando il tiro. Si sta lavorando a una bozza di legislazione destinata a far fuori una delle cose che Trump più detesta: il WTO. Trump vuole che il WTO smetta di fare distinzioni fra mercati sviluppati e mercati emergenti e che smetta di riservare particolari attenzioni a questi ultimi. A suo modo di vedere questa distinzione in due categorie è una sorta di "azione affermativa" di tipo liberale per stati come la Cina che, sempre a suo modo di vedere, non meritano alcun particolare "favoritismo" sul piano commerciale.
Trump è apparso irritato anche per il concetto, messo in pratica sul terreno, per cui ogni dazio a titolo vantaggioso concesso a uno stato deve essere riconosciuto anche agli altri. Nei rapporti con gli altri paesi egli preferisce dedicarsi a transazioni bilaterali e differenziate sia in campo commerciale sia nella difesa. Questo significa che l'ombrello difensivo USA non dovrebbe espandersi in maniera generica ma in modo differenziato, come partita di un più ampio accordo bilaterale specifico e di tipo commerciale.
A questo scopo occorre una bozza legislativa che affidi al presidente degli USA e all'esecutivo la facoltà di decidere sui dazi, marginalizzando così il Congresso. Essa può anche includere con più determinazione il prestesto della sicurezza nazionale per l'imposizione di dazi, fattispecie già prevista nella struttura del WTO sia pure come caso speciale e non come giustificativo valido per spargere gabelle in tutto il settore commerciale.
Da parte sua la Cina sa che non può avere la meglio sul piano dei soli dazi: la Cina importa beni statunitensi per soli centotrenta miliardi, il che significa che ha margini limitati per controbattere dollaro per dollaro ai dazi degli USA. Lo scorso anno invece gli USA hanno importato merci dalla Cina per cinquecentocinque miliardi, ed hanno promesso dazi su beni che valgono duecentocinquanta miliardi. I vertici della Repubblica Popolare Cinese hanno già iniziato a ridisegnare le proprie misure difensive contro il tentativo di Trump di impossessarsi dei vertici strategici del WTO, segnalando all'Europa la seria minacca per i commerci rappresentata dalla prospettiva di una sconfitta nel WTO e offrendole di collaborare a una comune difesa strategica di questo caposaldo. L'Unione Europea pensa comunque di detenere già una ponderata supremazia morale e di non avere bisogno di alleati, per cui l'iniziativa dei cinesi non è stata accolta.
Insomma, la Cina si sta preparando per un confronto di lunga durata. La sua priorità è innanzitutto quella di evitare grossi contraccolpi per la propria economia. Questo contempla, al secondo posto per importanza, la realizzazione di profondi mutamenti strutturali in grado di ridurre le vulnerabilità della Cina verso le interruzioni o i blocchi alla catena di rifornimento delle industrie tecnologiche strategiche indicate come prioritarie dal Partito Comunista: il settore IT comprese le reti 5G e la sicurezza informatica, la robotica, l'aerospaziale, l'ingegneria oceanica, le ferrovie ad alta velocità, i veicoli a propulsione alternativa, gli impianti energetici, i macchinari agricoli, i nuovi materiali e la biomedicina.
Per conservare la sicurezza nel campo della disponibilità energetica, nonostante i quattrocentomila barili di greggio giornalieri che la Cina importa dagli USA per un valore di un miliardo di dollari non siano ancora coperti dai dazi da rappresaglia, il governo cinese ha minacciato di mettere una tassa di impportazione del venticinque per cento sulle importazioni di greggio statunitense; gli importatori cinesi stanno quindi precorrendo gli eventi. "I cinesi sono costretti a ribattere; devono reagire," afferma John Driscoll, direttore dell'azienda di consulenza JTD Energy, che dice anche che tagliare le importazioni di greggio dagli USA è un modo per "reagire (contro) gli USA in modo molto concreto". Driscoll ha detto che la Cina può persino sostituireSecondo il Japan Times, in un'avvisaglia di quanto sta per succedere, un dirigente di una raffineria indipendente della provincia di Shandong, il Dongming Petrolchemical Group, ha detto che la sua raffineria ha già cancellato gli ordini di greggio dagli USA: "Ci aspettiamo che il governo imponga dei dazi sul greggio statunitense," ha detto il dirigente rimasto anonimo. "Ci rivolgeremo a fornitori mediorientali o dell'Africa Occidentale".
L'Iran ha introdotto nel più ampio panorama di questo conflitto un'iniziativa militare ed inattesa, minacciando di rallentare o finanche fermare il passaggio del greggio attraverso lo stretto di Hormuz se le prospettate sanzioni secondarie degli USA dovessero strangolare l'export iraniano di petrolio. Se l'Iran chiude Hormuz, è possibile che l'economia mondiale ne soffra tali conseguenze da mettere gli USA sotto forti pressioni politiche affinché risolvano nel più breve tempo possibile l'impasse con l'Iran.
Come ha detto all'inizio di luglio John Kemp della Reuters, "La Casa Bianca può azzerare l'export petrolifero iraniano o calmierare i prezzi della benzina sul mercato interno, ma probabilmente non può ottenere entrambe le cose." L'Iran sa bene che il quadro oggi è diverso rispetto alla vicenda delle sanzioni contro l'Iran varate da Obama nel 2014: all'epoca la produzione da scisto statunitense e il ritorno sul mercato della Libia compensarono quello che veniva dalla produzione iraniana. Oggi il mercato petrolifero è duro e le minacce iraniane su Hormuz, anche se solo ventilate, colpiranno già da sole un settore dai nervi già scoperti e faranno salire il premio di rischio sul prezzo del petrolio, che è una voce che secondo il benchmark del Brent che detta legge per il prezzo dei carburanti è già salita del 67% rispetto allo scorso giugno.
Infine, la Cina ha iniziato a riposizionarsi rispetto al dollaro -ampliando la banda di fluttuazione dello Yuan che a quanto sembra si sta sganciando dal dollaro e svalutando senza scosse- e orientandosi verso una maggior ricorso, per le transazioni, al paniere delle valute proprie dei partner commerciali della Cina. Questo rifarsi a un tasso di cambio più flessibile è una mossa che causa deflazione, come spiega Russell Napier: "il prezzo di vendita in dollari statunitensi delle esportazioni cinesi probabilmente crollerà, mettendo sotto pressione tutti i competitori della Cina... gli USA reagiranno mettendo tutti sotto pressione, soprattutto i mercati emergenti che hanno contratto prestiti in dollari senza avere un flusso di cassa nella stessa valuta [con cui] onorare questi debiti".
Fino ad oggi il presidente della Federal Reserve ha rifiutato di unirsi alle operazioni di "sostegno monetario" di queste dinamiche deflazionarie in atto a livello mondiale: Powell ha detto chiaramente a Zurigo lo scorso 8 maggio che non ha alcuna responsabilità per le conseguenze che la sua politica monetaria ha sui mercati emergenti. Questo significa che la deflazione cinese verrà esportata direttamente nelle economie statunitense ed europea.
Cosa significa tutto questo? Per gli USA si preannunciano ulteriori pressioni su un consumatore ameriKKKano già spremuto e sovraindebitato: il mese scorso il grafico della spesa al consumo era assolutamente piatto. Considerato da solo, il deprezzamento dello yuan presagisce un pericolo evidente e concreto per la borsa statunitense perché le passate svalutazioni dello yuan hanno agevolato i crolli del mercato. "La Cina può svalutare lo yuan, e lo farà", scrive Tom Luongo. Poi amplierà lo stato patrimoniale della People's Bank per tenere liquido il sistema bancario, e salverà tutto quanto sia strutturalmente importante per il sistema bancario... La Cina ha bisogno di espandere rapidamente la massa monetaria a disposizione, nel caso lo yuan diventi a qualsiasi titolo una valuta di riferimento per il commercio regionale. E quale miglior momento per farlo, se non quando gli USA stanno cercando di mandare all'aria lo status quo esistente con l'Unine Europea e che dipende dalle esportazioni?"
Quali saranno poi le conseguenze per la Cina? La crescita sta rallentando: la miglior stima realistica è sul 4%, che è troppo poco per l'economia sistemica e per la stabilità sociale. La Cina si trova davanti a una crisi importante? L'economia cinese è meno vulnerabile di quella occidentale a un'implosione bancaria con effetto domino come quella del 2008, dal momento che il sistema bancario è controllato dallo stato, ma il settore della finanza personale è complesso, ed è più sensibile agli effetti delle sue strategie di investimento caratterizzate da una leva finanziaria importante.
La Cina deve affrontare dei rischi a livello sociale. Ecco... I mass media statali cinesi hanno scatenato un vero e proprio blitzkrieg propagandistico in cui si accusa il governo Trump di essere una "banda di delinquenti"; un'operazione lardellata di funzionari [cinesi] che chiedono a gran voce che si prendano provvedimenti, mentre il presidente della Sinochem, promosso sul campo comandante in capo della resistenza anti Trump, cita il famoso slogan di Michelle Obama: "Se loro si abbassano, noi ci alziamo". In breve, le tensioni sociali verranno incanalate in un sentimento antiameriKKKano, preparandoci per il prossimo inasprirsi delle tensioni.
Forse, la conseguenza più immediata sarà un grosso default nei mercati emergenti.
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