Traduzione da Conflicts Forum.
Perché si è mosso l'esercito? La storia è complicata (si veda qui) ma in sostanza gli ideologi dei Fratelli Musulmani erano arrivati a credere che il successo ottenuto dallo AKP in Turchia avesse alla base il corteggiare gli uomini d'affari e il perseguire una politica economica di libero mercato. Molti islamici sono giunti a credere che adottare un orientamento neoliberista potesse in qualche modo immunizzarli dalle interferenze occidentali. Speravano che un simile successo nel campo economico avrebbe loro permesso di instaurare un Islam sociale "alla turca".
Certo, al momento in cui hanno preso il potere in Egitto i Fratelli non potevano trovarsi in un momento economico peggiore. Ogni indicatore economico andava di male in peggio e qualunque governo di qualunque genere avrebbe dovuto affrontare difficoltà estreme ed un possibile fallimento. In ogni caso, il programma economico era stato definito "di modello turco" dagli ideologi dei Fratelli, a cominciare da Esam al Arian. Non si trattava di un nome appropriato, anche se il modello dei Fratelli riprendeva quello di Ataturk in un aspetto essenziale: accordava all'esercito egiziano una posizione privilegiata mettendolo al riparo dall'influenza della politica e permettendogli di mantenere i propri considerevoli interessi economici. Il programma ha avallato il cosiddetto "stato profondo" anziché minarlo alla base come è successo in Turchia. L'essenza del patto chiamato al Selmi, siglato nel novembre 2011 dai Fratelli e dall'esercito, era questa.
Il patto, che doveva tutelare i reciproci interessi dei Fratelli e dell'esercito nella conservazione dello status quo, ha funzionato bene per qualche tempo, ma lo "stato profondo" egiziano è comunque riuscito a superare l'estromissione di Mubarak e a tramare per il proprio ritorno sulla scena. Alcuni paesi del Golfo -in particolare gli Emirati, il Kuwait e l'Arabia Saudita- non chiedevano di meglio che foraggiare e fomentare la nuova ribellione laica e liberale contro Morsi e contro i Fratelli, in questo spinti dal crescente risentimento contro l'appoggio che il Qatar forniva ai Fratelli Musulmani. Questa divisione tra stati del Golfo, sempre più profonda ed aspra, ha avuto un ruolo centrale nel susseguente sviluppo degli avvenimenti. A maggio una delegazione di leader politici del Golfo aveva fatto pressioni lobbistiche su Obama affinché mettesse un freno all'emiro di Doha e alla sua promozione dei Fratelli, in cui essi vedono un potenziale avversario politico. Gli Stati Uniti avevano già iniziato a chiedersi se i vertici del Qatar non stessero facendo il doppio gioco, sostenendo da una parte i movimenti dell'Islam radicale e dall'altra facendo ostentatamente gli interessi degli statunitensi nella regione; Obama ha tuttavia mostrato cautela.
In Egitto, il crescente malcontento fomentato dall'opposizione urbana laica e liberale finanziata dalla fazione ostile al Qatar ha causato timore nelle forze armate, già preoccupate del fatto che una mobilitazione popolare potesse minacciare lo status quo trasformandosi in un autentico movimento rivoluzionario; come notato dal prof. Frish, questo ha dato l'occasione allo "stato profondo" di tornare al potere. Paradossalmente, la stessa gioventù delle classi medie ed alte che soltanto un anno fa gridava "abbasso l'esercito" e di cui Morsi si è servito nel suo confronto con l'esercito, adesso è stata usata un'altra volta, ma dall'esercito e da altri che fanno parte dello"stato profondo", per ritornare al potere. L'esercito aveva perso il potere in favore di Morsi dopo aver inadeguatamente mandato avanti il paese per diciotto mesi dopo la caduta di Mubarak. A solamente un anno di distanza l'esercito si ritrova un'altra volta al comando. Naturalmente tutto questo viene presentato come una transizione verso la democrazia, ma ci sono tre fattori chiave che possono far prendere agli avvenimenti una piega differente. In primo luogo, a tirare le fila del colpo di stato c'è l'Arabia Saudita, che tra l'altro pare abbia anche promesso di indennizzare l'esercito egiziano nel caso vengano meno gli aiuti dagli Stati Uniti (in caso di colpo di stato, gli statunitensi per legge devono interrompere gli aiuti); in secondo luogo, un ex di Mubarak è stato messo a fare il presidente "ad interim"; in terzo luogo, la stridente assenza di qualsiasi cadenza temporale per il processo di transizione.
Certo, al momento in cui hanno preso il potere in Egitto i Fratelli non potevano trovarsi in un momento economico peggiore. Ogni indicatore economico andava di male in peggio e qualunque governo di qualunque genere avrebbe dovuto affrontare difficoltà estreme ed un possibile fallimento. In ogni caso, il programma economico era stato definito "di modello turco" dagli ideologi dei Fratelli, a cominciare da Esam al Arian. Non si trattava di un nome appropriato, anche se il modello dei Fratelli riprendeva quello di Ataturk in un aspetto essenziale: accordava all'esercito egiziano una posizione privilegiata mettendolo al riparo dall'influenza della politica e permettendogli di mantenere i propri considerevoli interessi economici. Il programma ha avallato il cosiddetto "stato profondo" anziché minarlo alla base come è successo in Turchia. L'essenza del patto chiamato al Selmi, siglato nel novembre 2011 dai Fratelli e dall'esercito, era questa.
Il patto, che doveva tutelare i reciproci interessi dei Fratelli e dell'esercito nella conservazione dello status quo, ha funzionato bene per qualche tempo, ma lo "stato profondo" egiziano è comunque riuscito a superare l'estromissione di Mubarak e a tramare per il proprio ritorno sulla scena. Alcuni paesi del Golfo -in particolare gli Emirati, il Kuwait e l'Arabia Saudita- non chiedevano di meglio che foraggiare e fomentare la nuova ribellione laica e liberale contro Morsi e contro i Fratelli, in questo spinti dal crescente risentimento contro l'appoggio che il Qatar forniva ai Fratelli Musulmani. Questa divisione tra stati del Golfo, sempre più profonda ed aspra, ha avuto un ruolo centrale nel susseguente sviluppo degli avvenimenti. A maggio una delegazione di leader politici del Golfo aveva fatto pressioni lobbistiche su Obama affinché mettesse un freno all'emiro di Doha e alla sua promozione dei Fratelli, in cui essi vedono un potenziale avversario politico. Gli Stati Uniti avevano già iniziato a chiedersi se i vertici del Qatar non stessero facendo il doppio gioco, sostenendo da una parte i movimenti dell'Islam radicale e dall'altra facendo ostentatamente gli interessi degli statunitensi nella regione; Obama ha tuttavia mostrato cautela.
In Egitto, il crescente malcontento fomentato dall'opposizione urbana laica e liberale finanziata dalla fazione ostile al Qatar ha causato timore nelle forze armate, già preoccupate del fatto che una mobilitazione popolare potesse minacciare lo status quo trasformandosi in un autentico movimento rivoluzionario; come notato dal prof. Frish, questo ha dato l'occasione allo "stato profondo" di tornare al potere. Paradossalmente, la stessa gioventù delle classi medie ed alte che soltanto un anno fa gridava "abbasso l'esercito" e di cui Morsi si è servito nel suo confronto con l'esercito, adesso è stata usata un'altra volta, ma dall'esercito e da altri che fanno parte dello"stato profondo", per ritornare al potere. L'esercito aveva perso il potere in favore di Morsi dopo aver inadeguatamente mandato avanti il paese per diciotto mesi dopo la caduta di Mubarak. A solamente un anno di distanza l'esercito si ritrova un'altra volta al comando. Naturalmente tutto questo viene presentato come una transizione verso la democrazia, ma ci sono tre fattori chiave che possono far prendere agli avvenimenti una piega differente. In primo luogo, a tirare le fila del colpo di stato c'è l'Arabia Saudita, che tra l'altro pare abbia anche promesso di indennizzare l'esercito egiziano nel caso vengano meno gli aiuti dagli Stati Uniti (in caso di colpo di stato, gli statunitensi per legge devono interrompere gli aiuti); in secondo luogo, un ex di Mubarak è stato messo a fare il presidente "ad interim"; in terzo luogo, la stridente assenza di qualsiasi cadenza temporale per il processo di transizione.
Implicazioni geostrategiche. La più scontata è data da un rovescio per le fortune del Qatar, che sosteneva politicamente e finanziariamente i Fratelli Musulmani. Politicamente, il Qatar è stato spazzato via dall'Arabia Saudita. Prima conseguenza è stata l'abdicazione dell'emiro, avvenuta proprio al momento giusto come l'inattesa partenza del Primo Ministro per un confortevole esilio londinese: il suo protetto tra i Fratelli è stato deposto, i suoi uomini in Egitto sono stati arrestati, e il nuovo emiro è stato obbligato a congratularsi con l'esercito egiziano per aver salvaguardato la sicurezza nazionale del paese. I paesi del Golfo hanno percezione della propria fragilità. Non si sarebbero mai lasciati andare ad una reazione tanto veemente in Egitto, se non fosse la loro situazione interna a preoccuparli tanto.
Questo mutare delle sorti del Qatar, insieme al rovesciamento di un esecutivo islamico liberamente eletto spalleggiato dall'Occidente avranno senza dubbio un cattivo impatto sulle sorti già traballanti dell'opposizione siriana. E' possibile un rinnovo dell'asse egiziano-saudita, ma arrivare a questo dipende interamente da come l'Egitto affronterà i prossimi mesi. La cosa più importante è anche quella sul cui conto è impossibile fare previsioni e riguarda le conseguenze e l'impatto che questi avvenimenti avranno sul mondo sunnita, già percorso da profonde divisioni e popolato di identità sempre più avversarie le une contro le altre. In tutto il Medio Oriente il dissolversi di identità onnicomprensive come l'arabismo in identità faziose e polarizzate ha storicamente portato quasi sempre al conflitto civile ed alla guerra. Nonostante vi siano labili segnali di una nuova identità araba in ascesa in grado di contrapporsi alle polarizzazioni di oggi, c'è da dubitare che essa emergerà con velocitùà e forza sufficienti a mitigare le più ampie dinamiche che portano verso lo scontro.
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