(Traduzione da The Daily Beast).
In una clamorosa evasione di massa, circa cinquecento talebani sono fuggiti lunedì da un carcere afghano attraverso un tunnel sotterraneo. Ron Moreau e Sami Yousafzai dialogano in esclusiva con due degli evasi sul modo in cui sono riusciti a fuggire, su quali saranno le loro prossime mosse, e del perché l'accaduto rappresenti un grave rovescio per lo sforzo bellico statunitense.
Mullah Asadullah Akhund aveva intuito che stava per succedere qualche cosa, ma non sapeva bene che cosa. Ricorda che negli ultimi mesi uno dei comandanti talebani di più alto grado, incarcerato con lui nel braccio del carcere di Kandahar destinato ai prigionieri politici, pareva sorridere con gli occhi.
Mullah Asadullah Akhund aveva intuito che stava per succedere qualche cosa, ma non sapeva bene che cosa. Ricorda che negli ultimi mesi uno dei comandanti talebani di più alto grado, incarcerato con lui nel braccio del carcere di Kandahar destinato ai prigionieri politici, pareva sorridere con gli occhi.
Un poliziotto afghano guarda dentro l'ingresso della galleria nel carcere principale di Kandahar, in Afghanistan, attraverso il quale i prigionieri sono fuggiti il 25 aprile 2011
(Foto: Allauddin Khan / AP Photo)
(Foto: Allauddin Khan / AP Photo)
Lunedì mattina ha finalmente saputo quale segreto custodisse il comandante. Verso le due di notte, mentre stava dormendo sul duro pavimento di cemento della sua cella, è stato svegliato da qualcuno che lo tirava per l'alluce destro, ha raccontato in esclusiva al Daily Beast Akhund, raggiunto con una chiamata al telefono cellulare. Era il comandante, che gli sussurrò di alzarsi in silenzio e di andare in una cella vicina, dove qualcuno gli avrebbe indicato la strada per la libertà. Ancora senza credere alle proprie orecchie, obbedì in fretta e finì per trovarsi in una galleria sotterranea con una fila di altri prigionieri talebani che stavano evadendo.
Dice che aveva appena cominciato a strisciare attraverso lo stretto passaggio, quando un altro comandante talebano che teneva una torcia elettrica per illuminare il percorso davanti a lui gli disse di stare tranquillo, e che altri talebani stavano attendendo alla fine del tunnel per occuparsi di loro. "Era l'evasione più grandiosa della mia vita", dice, "era come un sogno".
Akhund è un comandante talebano sui trent'anni ed è stato arrestato a Marjah lo scorso anno; era stato condannato a dieci anni di carcere ed era uno dei circa cinquecento combattenti e comandanti talebani che hanno partecipato, prima dell'alba di lunedì nel carcere di massima sicurezza di Kandahar, ad un'evasione degna di finire in un libro di storia. Secondo il racconto di questo talebano, gli insorti e i loro fiancheggiatori avevano lavorato come formiche per più di cinque mesi per scavare la galleria, che partiva dall'abitazione di un simpatizzante, rimuovendo segretamente il terreno un po' alla volta con i pickup, con i cassoni dei trattori ed anche con carretti trainati da asini. La galleria partiva dalla casa, passava sotto la strada principale per Herat e sboccava in una sezione centrale del braccio del penitenziario destinato ai detenuti politici.
L'evasione non è solo un'importante vittoria per gli insorti sul piano psicologico, specie in un momento in cui vengono tallonati dai rinforzi statunitensi nelle province di Kandahar e di Helmand, ma contribuisce anche a rimpolpare i ranghi dei talebani con aluni dei loro comandanti più ricchi di esperienza, più rispettati e più competenti.
"Tra noi ci sono alcuni dei più forti comandanti di Kandahar e dintorni", dice un comandante ventottenne di Kandahar appena evaso, che ha chiesto di rimanere anonimo, parlando al cellulare con The Daily Beast.
Si tratta certamente di uno scacco non da poco per lo sforzo bellico statunitense nel sud del paese, fino ad oggi orgoglioso di quanti comandanti talebani erano stati uccisi o catturati negli ultimi mesi, e di come queste perdite sembravano aver invertito la tendenza delle sorti favorevoli di cui gli insorti avevano goduto fino ad allora nella regione in cui i talebani del mullah Mohammed Omar erano nati. L'evasione di massa rimette in discussione, ancora una volta, l'effettiva capacità del governo di Kabul e delle sue forze di sicurezza di mantenere il controllo delle aree del paese non direttamente controllate dalle truppe americane.
"Per la seconda volta la fede ha superato e sconfitto la tecnologia", si esaltava lunedì un sito web talebano, facendo riferimento ad un'altra ardimentosa ma violenta evasione di massa avvenuta nel giugno del 2008, quando uomini bomba suicidi e fucilieri talebani fecero irruzione attraverso le mura dello stesso carcere, uccidendo una quindicina di guardie carcerarie e liberando qualcosa come milleduecento prigionieri, oltre trecentocinquanta dei quali erano talebani. "Non siamo ricchi di tecnologia, ma con l'aiuto di Allah Onnipotente abbiamo causato al nemico una sconfitta imbarazzante, nonostante tutta la sua tecnologia e tutte le sue armi", dice il comandante di Kandahar che era stato catturato tre anni fa e condannato a quindici anni di carcere, mentre si gode il primo giorno di libertà sorseggiando tè verde in un rifugio sicuro talebano della città, insieme con i propri amici. "Dedichiamo al mullah Omar questa vittoria".
Gli evasi sembrano più convinti che mai a riprendere le armi. "L'esser fuori di galera non vuol dire che abbandonerò il jihad", dice Akhund. "Sono ancora più deciso a cacciare gli stranieri e i loro burattini fuori dall'Afghanistan". "Adesso combatteremo il jihad con più determinazione ed intelligenza", aggiunge il comandante di Kandahar. "Ma la cosa peggiore è il linguaggio ingiurioso che essi usano contro il nostro capo, il mullah Omar. Adesso io odio più che mai gli americani, l'esercito [afghano, N.d.A.] e la polizia".
Entrambi gli intervistati, e probabilmente anche i loro compagni d'armi freschi di liberazione, sottolineano la loro gratitudine per l'organizzazione talebana, che spesso viene presentata come frammentata, se non del tutto caotica, che non si è mai dimenticata di loro ed ha lavorato con tanto impegno alla loro liberazione. "Sono contento che i nostri mujahedin non ci abbiano dimenticato e si siano occupati di noi", afferma il comandante di Kandahar. "Onore a questi mujaheddin, che hanno realizzato un'azione a lungo termine e tanto a lungo sono stati capaci di mantenere il segreto".
Nel raccontare la loro fuga, i due comandanti liberati si stupiscono per la segretezza e la capacità organizzativa che hanno reso possibile il successo del piano.
Ad un certo punto, mentre strisciava lungo il tunnel, Akhud ha temuto che sarebbe crollato. Dicce di aver sentito una sorta di rimbombo e dei detriti che cadevano dalla volta, mentre un camion passava sulla strada soprastante. Dice che all'uscita della galleria c'erano cinque o sei uomini bomba talebani, con i giubbetti esplosivi ed armi pesanti, che man mano che gli uomini uscivano dal buco nel pavimento della casa li conducevano ai pickup, agli autobus ed alle moto che li avrebbero portati altrove. Akhud è stato condotto via con un pickup (che viaggiava a fari spenti) con altri dieci evasi, in un percorso che ha richiesto una ventina di minuti fino ad un rifugio talebano in città. Il pickup poi tornò indietro per riprendere degli altri evasi. Da lì, lui ed altri due prigionieri liberati hanno noleggiato un camion in paese che li ha condotti fino alla città di Geresk, appena oltre i confini della provincia di Helmand, dove adesso sta festeggiando la sua liberazione insieme agli amici. "Mai avevo pensato che sarei riuscito a sfuggire alle mura dei miei nemici, così alte e solide", dice.
Il comandante di Kandahar dice che dall'interno del carcere l'operazione è stata coordinata da tre comandanti esperti. Anche lui è stato svegliato poco dopo mezzanotte da uno dei tre, che aveva confiscato a ciascuno il cellulare introdotto clandestinamente in modo che nessuno riferisse per telefono la bella notizia, svelando il piano proprio mentre la fuga era in corso. Per passare per la galleria, che era forse ampia due metri ed alta due e mezzo, gli ci sarebbero voluti da cinque a dieci minuti. Dice anche che alla fine c'erano diversi combattenti suicidi con i gubbotti esplosivi. E' stato portato, in un grosso camion insieme ad altra cinquanta evasi, in un luogo più sicuro immediatamente dopo essere uscito dal buco.
Il comandante dice che il piano originale prevedeva che i combattenti suicidi entrassero nel carcere attraverso il tunnel dopo la fuga dell'ultimo detenuto, ed attendessero che le guardie e gli ufficiali si accorgessero del fatto che l'ala riservata ai detenuti politici era vuota. A quel punto si sarebbero fatti esplodere, uccidendo tutti. Il piano è stato cancellato all'ultimo istante. Secondo i talebani, il personale carcerario ha scoperto l'evasione di massa, ed il fatto che l'ala dei detenuti politici era vuota, soltanto alle sette del mattino, varie ore dopo che i prigionieri si erano già dispersi per Kandahar e per le cittadine ed i villaggi circostanti. Dopo un breve riposo, dicono, cominceranno a progettare la propria rivalsa.
Sami Yousafzai è corrispondente per Newsweek dal Pakistan e dall'Afghanistan, dove si occupa di questioni militari, di Al Qaeda e di talebani per contro della rivista fin dall'undici settembre 2001. E' nato in Afghanistan e si è trasferito in Pakistan con la famiglia dopo l'invasione russa del 1979. Ha iniziato la carriera come giornalista sportivo, passando poi dal 1997 a fare il corrispondente di guerra.
Ron Moreau è corrispondente per Newsweek dal Pakistan e dall'Afghanistan, regione di cui si occupa da dieci anni. Da quando ha iniziato a lavorare per Newsweek ai tempi della guerra del Vietnam, si è occupato con assiduità dell'Asia, del Medio Oriente e dell'America Latina.
Ron Moreau è corrispondente per Newsweek dal Pakistan e dall'Afghanistan, regione di cui si occupa da dieci anni. Da quando ha iniziato a lavorare per Newsweek ai tempi della guerra del Vietnam, si è occupato con assiduità dell'Asia, del Medio Oriente e dell'America Latina.
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