Traduzione da Monthly Review, 16 marzo 2009.
I necrologi per la Repubblica Islamica dell'Iran hanno cominciato ad apparire prima ancora che essa nascesse. Nei frenetici mesi del 1979, prima che la Repubblica Islamica venisse ufficialmente dichiarata, molti docenti universitari e giornalisti, partecipanti e osservatori, conservatori e rivoluzionari iraniani o stranieri che fossero, avevano predetto con sicurezza la sua imminente fine.
Prendendo in considerazione ogni protesta di strada, ogni sciopero, ogni scontro in provincia come presagio sicuro della sua inevitabile caduta, concessero al nuovo regime pochi mesi, nel miglior caso pochi anni di vita.
Queste previsioni erano comprensibili: dopo tutto l'Iran -per tacere dell'intera storia mondiale- di teocrazie vere e proprie ne aveva prodotte poche. Anche forme di governo spesso considerate delle teocrazie si rivelano, ad un più ravvicinato esame, esser state qualcosa d'altro. L'Inghilterra di Cromwell era controllata dai generali e dai proprietari terrieri e furono più i principi che i predicatori a governare i regni protestanti. Anche la Ginevra di Calvino, uno dei primi esempi di stato totalitario, era gestita più da giurisperiti laici che da seminaristi. Inoltre, pochi nel 1979 potevano considerare la possibilità che dei religiosi formati in scuole religiose potessero amministrare un paese che aveva attraversato oltre cinquant'anni di moderno sviluppo e che era la patria di centinaia di migliaia di ingegneri, di medici, di scienziati, di funzionari pubblici, insegnanti e lavoratori nel settore industriale. Come potevano, dei "mullah" venuti su a scritti esoterici medievali affrontare i formidabili problemi del ventesimo secolo? Non c'era bisogno di essere dei trozkisti, nel 1979, per pensare che la caduta dello Shah avrebbe inevitabilmente e velocemente aperto la strada ad una più profonda rivoluzione permanente.
Nonostante le cattive previsioni, la Repubblica Islamica non soltanto è sopravvissuta per tre interi decenni, ma negli ultimi anni ha acquisito fama di grande potenza mediorientale, che minaccia tanto i suoi vicini quanto l'unica superpotenza mondiale. Negli Stati Uniti viene ritratta spesso come una via di mezzo tra l'Impero Sassanide ed il terzo Reich, tra il califfato dei primi anni e l'Unione Sovietica. A parte le ragioni geopolitiche per cui la minacciosità di uno stato del terzo mondo con un esercito di quart'ordine viene gonfiata in questo modo, quello che ci si deve chiedere è: cos'è che ha fatto sì che la Repubblica Islamica sopravvivesse per trent'anni?
Vengono rapide in mente quattro risposte, nessuna delle quali tuttavia implica un esame attento. La prima è che il regime dei religiosi abbia scatenato un regno del terrore. E' vero che la Repubblica Islamica ha a volte usato la vioplenza: nel 1979, immediatamente dopo la rivoluzione, quando mise al muro 757 persone molte dfelle quali avevano partecipato al regime dello Shah; nel periodo compreso tra il 1981 ed il 1985, quando soffocò una insurrezione dei Mojahedin-e Khalq, vicini alle posizioni marxiste, uccidendone 12500, e nel 1988, immediatamente dopo la guerra lunga otto anni con l'Iraq, quando impiccò altri duemila prigionieri, anche questi quasi tutti dei Mojahedin. Ma questo bagno di sangue, pur granguignolesco com'è, impallidisce a confronto delle violenze che hanno caratterizzato le altre grandi rivoluzioni, soprattutto quele inglesi, francese, messicana, russa e cinese. Impallidisce anche a confronto con i massacri delle controrivoluzioni di destra come quella indonesiana, quelle in America centrale ed anche quelle francesi del 1848 e del 1870. E la violenza pretese un pedaggio anche dal governo. Tra il 1981 ed il 1982 i Mojahedin uccisero circa duemila appartenenti all'apparato governativo, compreso un presidente, un primo ministro e l'ayatollah Mohammed Beheshti, l'eminenza grigia della leadership religiosa, così come un certo numero di ministri, deputati, giudici, guide della preghiera del Venerdì, dirigenti e funzionari dei Pasdaran. La violenza, nel complesso, ha più contribuito ad indebolire che a rafforzare la Repubblica Islamica.
Il secondo motivo spesso addotto come ragione per la sopravvivenza della Repubblica Islamica è la guerra con l'Iraq (1980-1988). E' vero che l'iniziale invasione irachena contribuì a far sì che la nazione serrasse i ranghi dietro al proprio governo. Ma la prosecuzione dei combattimenti al di là della frontiera irachena nel maggio 1982, sotto le parole d'ordine di "guerra, guerra fino alla vittoria" e "la strada per Gerusalemme passa per Baghdad" ha fatto molto per danneggiare la Repubblica Islamica. La maggior parte dei danni subìti dall'Iran in termini di vite umane, distruzioni e depauperamento econoico si è verificata negli ultimi cinque anni di combattimenti, e nel 1988 l'Ayatollah Ruhollah Khomeini dovette accettare condizioni che gli erano state proposte già nel maggio 1983. Adesso la chiamano la guerra imposta, ma la guerra è stata imposta all'Iran in più modi, non soltanto in uno.
In terzo luogo, si fa comunemente riferimento alle entrate petrolifere. E' vero che il denaro che viene dal petrolio unge molte ruote nella macchina governativa iranaiana, esattamente come succede nei rentier states vicini. Ma le entrate petrolifere non sono né una maledizione assoluta, né il deus ex machina che si nasconde per forza dietro l'ascesa e la caduta di tutte le forme di governo e via di questo passo. In fin dei conti, il petrolio non ha garantito la sopravvivenza dello Shah. E dal 1979 la Repubblica Islamica ha patito per le accentuate fluttuazioni del prezzo internazionale del greggio. Dopo aver raggiunto i trentanove dollari a barile nel 1981, il prezzo del petrolio è crollato ad un minimo di nove dollari nel 1986, è rimasto sotto i venti dollari per la maggior parte degli anni ultimi anni Ottanta, è arrivato a trentadue nel 1991 ed è caduto di nuovo sotto i dieci nel 1999. Il prezzo del petrolio non si è impennato nuovamente fino all'invasione statunitense dell'Iraq nel 2003. Gli ultimi trent'anni sono dunque stati in pari misura di carestia e di abbondanza.
L'Islam sciita rappresenta la quarta ragione cui si fa riferimento per spiegare sia la Rivoluzione Islamica sia la durata nel tempo della Repubblica Islamica. Vero è che non si possono analizzare le manifestazioni di massa del 1978 senza prendere in considerazione la religione: lo testimonia il potente slogan "Fate di ogni luogo una Karbala, di ogni mese un muharram, di ogni giorno un ashura". Ma se davvero la motivazione principale risiede nell'Islam sciita, ci troviamo davanti ad un'altra questione, ovvero il perché l'Iran, che è a maggioranza sciita fin dal 1500, non è arrivato alla Rivoluzione Islamica prima del 1979. Per la maggior parte dei quattrocentosettant'anni precedenti l'Islam sciita è stato considerato, nel migliore dei casi, apolitico e quietista e nel peggiore dei casi conservatore e reazionario. Non esiste storico che poss far propria la spiegazione ufficiale secondo la quale l'imperialismo, l'assetto monarchico dello stato ed il sionismo avevano per secoli distorto l'Islam sciita e che il mondo doveva attendere l'arrivo di Khomeini che svelasse la natura autenticamente rivoluzionaria dell'Islam. L'idea che la repubblica sia sopravvissuta perché repubblica islamica è una tautologia.
Se questo fastello di spiegazioni non è abbastanza, dove altro cercare? La risposta autentica non sta nella religione, ma nel populismo economico e sociale. Dall'inizio degli anni Settanta l'Iran aveva cominciato a produrre una generazione di intellettuali radicalli che erano rivoluzionari non solo dal punto di vista politico, perché volevano sostituire la monarchia con una repubblica, ma anche nelle loro prospettive economiche e sociali. Volevano trasformare da capo a piedi l'assetto della società. Il loro pioniere fu un giovane intellettuale di nome Ali Shariati, che non visse abbastanza per vedere la rivoluzione ma che nutrì dei suoi insegnamenti il movimento rivoluzionario. Ispirato dagli algerini, da Che Guevara e da Ho Chi Minh, Shariati trascorse la sua breve vita reinterpretando l'Islam sciita come ideologia rivoluzionaria, e facendone una sintesi con il marxismo. Approdò a quella che può essere definita una versione sciita della teologia della liberazione prodotta dagli ambienti cattolici. I suoi insegnamenti toccarono non soltanto gli studenti delle università e delle scuole superiori, ma anche i più giovani studenti delle scuole religiose. Questi teologi in erba potevano accettare senza difficoltà i suoi insegnamenti, fatto salvo un loro sporadico anticlericalismo. Uno di questi studenti di teologia si spinse al punto di descrivere l'imam Hussein come un Che Guevara ante litteram, e Karbala come la Sierra Madre. La maggior parte di coloro che hanno organizzato manifestazioni e scontri nelle strade e nei bazar durante i turbolenti mesi del 1978 erano studenti universitari e delle scuole superiori ispirati soprattutto da Shariati. I suoi slogan, che avevano più in comune con il populismo terzomondista che non con l'Islam sciita comunemente inteso, si trasformarono, a volte passando per Khomeini, in slogan e striscioni che pavesarono tutta la rivoluzione. Esempi classici erano:
I nostri nemici si chiamano imperialismo, capitalismo e feudalesimo!
L'Islam appartiene agli oppressi, non agli oppressori!
Oppressi di tutto il mondo unitevi!
L'Islam non è l'oppio dei popoli!
L'Islam è per l'uguaglianza e per la giustizia sociale!
L'Islam rappresenta quelli che abitano nei ghetti, non quelli che abitano nei palazzi!
L'Islam eliminerà le differenze di classe!
L'Islam promana dalle masse, non dai ricchi!
L'Islam sradicherà la povertà!
Noi siamo per l'Islam, non per il capitalismo e per il feudalesimo!
L'Islam libererà gli affamati dalla stretta dei ricchi!
I poveri hanno combattuto a fianco del Profeta, i ricchi hanno combattuto contro di lui!
I poveri muoiono per la rivoluzione, i ricchi complottano contro di essa!
Indipendenza, libertà, Repubblica Islamica!
Libertà, uguaglianza, Repubblica Islamica!
Questo populismo contribuisce a spiegare non solo il successo della rivoluzione, ma anche il fatto che la Repubblica islamica continui a sopravvivere. La Costituzione della Repubblica -in 175 articoli- ha trasformato queste aspirazioni generiche in propositi scritti nero su bianco. Si è impegnata ad eliminare la povertà, l'analfabetismo, le baraccopoli e la disoccupazione. Ha inoltre promesso di fornire alla popolazione un'istruzione gratuita, cure mediche accessibili, alloggi decorosi, pensioni, sussidi di invalidità ed assicurazione contro la disoccupazione. "Il governo", si legge nella Costituzione "è obbligato per legge a fornire i servizi su menzionati ad ogni individuo del paese." In breve, la Repubblica Islamica ha promesso di realizzare un vero e proprio stato sociale, nel senso proprio del termine che l'espressione ha in Europa, non in quello dispregiativo che essa assume in America.
Nei tre decenni successivi alla rivoluzione, la Repubblica Islamica -nonostante la sua pessima immagine all'estero- ha compiuto passi significativi verso la realizzazione di queste promesse. Lo ha fatto dando la priorità ai servizi sociali piuttosto che alle spese militari e, quindi, ampliando significativamente i Ministeri della Pubblica Istruzione, della Sanità, dell'Agricoltura, del Lavoro, degli Alloggi, dell'Assistenza e della Previdenza sociale. Le forze armate assorbivano fino al 18 per cento del prodotto interno lordo negli ultimi anni dello Shah. Ora assorbono meno del 4 per cento. Il Ministero delle Industrie è cresciuto, in gran parte anche perché nel 1979-1980 lo Stato ha acquisito numerose grandi fabbriche i cui proprietari sono fuggiti all'estero. L'alternativa sarebbe stata quella di chiuderle e di creare una disoccupazione di massa. Poiché la maggior parte di queste fabbriche avevano lavorato soltanto grazie ai sussidi elargiti dal vecchio governo, il nuovo non ha avuto altra scelta che continuare a sovvenzionarle.
In tre decenni, lo stato è arrivato ad un passo dallo sradicare l'analfabetismo tra le generazioni post-rivoluzionarie, riducendone il tasso globale dal 53 per cento al 15 per cento [1]. Il tasso tra le donne è sceso dal 65 per cento al 20 per cento. Lo Stato ha aumentato il numero degli studenti iscritti nelle scuole elementari da 4.768.000 a 5.700.000, quello degli studenti iscritti nelle scuole secondarie da 2,1 milioni a oltre 7,6 milioni, quello degli iscritti negli istituti tecnici da 201.000 a 509.000, e quello degli studenti universitari da 154.000 a oltre un milione e mezzo. La percentuale di donne nella popolazione studentesca universitaria è salita dal 30 per cento al 62 per cento. Grazie ai miglioramenti nel sistema sanitario, l'aspettativa di vita alla nascita è passata da 56 a 70 anni, e la mortalità infantile è scesa dal 104 al 25 per mille. Sempre grazie ai miglioramenti del sistema sanitario, i tasso di natalità è sceso da un massimo storico di 3,2 a 2,1 mentre il tasso di fertilità -il numero medio di figli per donna- da sette a tre. Si prevede un ulteriore calo a due entro il 2012, il che significa che l'Iran nel prossimo futuro arriverà praticamente ad essere un paese a crescita zero.
La Repubblica islamica ha colmato il divario tra la vita urbana e vita rurale in parte facendo aumentare il prezzo delle derrate agricole in proporzione a quello degli altri prodotti ed in parte realizzando scuole, presidi medici, strade, elettrodotti e canalizzazioni nelle campagne. Per la prima volta chi vive in campagna può permettersi beni di consumo, anche moto e furgoni pickup. Secondo un economista che, nel complesso, è critico nei confronti della Repubblica Islamica, l'80 per cento delle famiglie che vivono in campagna possiede un frigorifero, il 77 per cento un televisore ed il 76 per cento una cucina a gas [2]. Circa 220.000 famiglie di contadini, inoltre, hanno ricevuto 850.000 ettari di terreni confiscati alla vecchia élite. Essi, insieme con le circa 660.000 famiglie che avevano ottenuto terra ai tempi della precedente Rivoluzione Bianca, formano una solida classe contadina che ha beneficiato non solo di questi nuovi servizi sociali, ma anche di cooperative sovvenzionate dallo Stato e barriere doganali di protezione. E' questa classe a fornire al governo una base sociale rurale.
La Repubblica Islamica si è fatta carico anche dei problemi della povertà urbana. Ha sostituito le baraccopoli con case popolari, abbellito i quartieri che si trovavano nelle peggiori condizioni e portato elettricità, acqua e fognature ai quartieri operai. Un giornalista americano molto critico nei confronti delle politiche economiche portate avanti dalla Repubblica Islamica ammette che "l'Iran è diventato un paese moderno, con pochi segni visibili di squallore." [3] Inoltre, cosa più importante, ha integrato il reddito del sottoproletariato -sia nelle aree rurali che nelle città- fornendo generosi sussidi sottoforma di pane, benzina, gas, calore, elettricità, medicine e mezzi di trasporto pubblico. La Repubblica Islamica può non aver eliminato la povertà, può non aver ridotto in misura apprezzabile il divario che esiste tra ricchi e poveri, ma ha fornito al sottoproletariato una rete di servizi sociali. Secondo quanto afferma lo stesso economista dalla mentalità sgombra, "La povertà è scesa ad un livello invidiabile, per quello che è un paese in via di sviluppo a reddito medio." [4]
Oltre alla forte espansione dei ministeri centrali, la Repubblica islamica ha anche istituito numerose fondazioni semi-indipendenti, come quella dei Mustad'afin (gli oppressi), quella dei Martiri, quella per le Abitazioni, ed anche le fondazioni assistenziali Alavi ed Imam Khomeini. Presieduta da religiosi o da altre persone nominate dalla Guida Suprema e ad essa fedeli, queste fondazioni insieme rappresentano ben il 15 per cento dell'economia nazionale ed hanno entrate che ammontano alla metà del bilancio statale. Gran parte della loro attività deriva da aziende confiscate alla ex élite. La più grande di ese, la Fondazione dei Mustad'afin, amministra 140 stabilimenti industriali, 120 miniere, 470 industrie agro-alimentari, 100 imprese di costruzioni e innumerevoli cooperative rurali. Possiede anche i due più importanti quotidiani del paese, Ettelaat e Keyhan. Secondo il Guardian, nel 1993 la Fondazione impiegava 65.000 persone ed ogni anno aveva entrate per oltre dieci milardi di dollari.[5] Alcune di queste fondazioni esecitano anche un'azione lobbyistica per proteggere le quote di iscritti all'università destinate ai veterani di guerra, e tutte insieme forniscono salari e benefits, come pensioni, abitazioni ed assicurazioni sanitarie, a centinaia di migliaia di persone. In altre parole, le fondazioni funzionano come stati sociali a sé stanti, all'interno di uno stato sociale più ampio.
Il ruolo importante che lo stato sociale riveste fa sì che le spese ad esso associate costituiscano una sorta di terzo binario per la politica iraniana. Pochi politici -conservatori o liberali, riformisti o fondamentalisti, radicali o moderati, pro-business o pro-lavoro- sono tanto sconsiderati da farsi consigliare da economisti della scuola di Chicago che, all'interno e all'esterno del paese, denunciano il "pericolo morale" di uno stato ingombrante e invece incensano estatici le "virtù" del libero mercato come le privatizzazioni, le macchine governative snelle, la competizione tra le imprese, il rapporto costo-beneficio, l'efficienza, l'imprenditorialità, la globalizzazione e l'ingresso nel WTO. In realtà, la maggior parte dei politici dopo la rivoluzione ha aderito, in misura più o meno ampia, al populismo economico. Alcuni, come gli ex presidenti Ali Akbar Hashemi-Rafsanjani e Mohammad Khatami, hanno messo sì la sordina al populismo, ma non hanno certo toccato le realizzazioni dello stato sociale. Altri, come il presidente Mahmoud Ahmadinejad, si sono comportati da populisti tutti d'un pezzo, promettendo di "portare le rendite petrolifere sui tavoli da pranzo di tutto il popolo" e di ampliare ulteriormente i programmi sociali. Nessuno, dotato di realismo, opererebbe tagli drastici alla rete della sicurezza sociale, anche se esistono in ogni modo dei limiti anche al populismo: Ahmadinejad, per esempio, ha messo dei limiti alle quantità di carburante ammesse ai sussidi.
I prossimi decenni metteranno alla prova la capacità del'assetto statale vigente di destreggiarsi tra le esigenze dei programmi populisti, che contrastano con quelle della classe media istruita -in particolare con quelle dell'esercito in continua espansione di laureati prodotti, ironia della sorte, da una delle principali conquiste della rivoluzione. Questa nuovo strato ha bisogno non solo di posti di lavoro e di un livello di vita decoroso, ma anche di una maggiore mobilità sociale, di accesso al mondo esterno -con tutti i pericoli che questo comporta, soprattutto per le ben protette industrie nazionali- e, al tempo stesso, della creazione di una società civile vera e propria. La Repubblica Islamica può essere in grado di soddisfare queste richieste formidabili se trova nuove fonti di reddito sottoforma di petrolio e di gas, ma per farlo avrà bisogno di migliorare notevolmente le sue relazioni con Washington, in modo che le sanzioni economiche possano essere revocate. Senza la revoca delle sanzioni, l'Iran non potrà accedere alla tecnologia e ai capitali necessari a sviluppare le sue grandi riserve di gas. Se non si concretizzeranno nuove entrate, le politiche classiste potrebbero alzare nuovamente la testa. Per trent'anni il populismo è riuscito a smussare l'impatto delle politiche classiste: potrebbe non poterlo fare in futuro.
Note.
1. La maggior parte di queste statistiche provengono da relazioni governative. Per una sintesi aggiornata di queste relazioni, vedere Middle East Institute, The Iranian Revolution at 30 (Washington, DC, 2009).
2. Djavad Salehi-Isfahani, "Poverty and Inequality Since the Revolution," The Iranian Revolution at 30 (Washington, DC: Middle East Institute, 2009), p. 107.
3. Laura Secor, "The Rationalist," New Yorker, February 2, 2009.
4. Salehi-Isfahani, p. 105.
5. Guardian, July 9, 1993.
Ervand Abrahamian è Professore Emerito presso il dipartimento di storia della Central University of New York, al Baruch College ed al Graduate Center della City University di New York. E' autore di A History of Modern Iran (Cambridge, 2008). Questo articolo è stato pubblicato da Middle East Report 250 (primavera 2009), è qui riprodotto per scopi didattici.
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