sabato 29 dicembre 2018

Alastair Crooke - Ecco l'effetto Khashoggi: Erdogan rovescia gli equilibri e i paesi del Golfo precipitano nella confusione



Traduzione da Strategic Culture, 26 novembre 2018.

Sembra che il quartetto impegnato a discolpare Mohammed bin Salman -composto dagli USA, dallo stato sionista, dagli Emirati Arabi Uniti... e dallo stesso Mohammed bin Salman, ovviamente- pensi di aver raggiunto alla grande il proprio scopo con Trump che ha sentenziato a discolpa: "Magari è stato lui, magari no". Probabilmente sono piuttosto soddisfatti di se stessi. Ora come ora Mohammed bin Salman rimane al suo posto e può imbarazzare tutti con la sua presenza al G20 mettendosi caparbio a cercare di stringere la mano agli altri leader davanti a una falange di fotografi, intanto che quelli cercano di scansare l'appestato arto. Ma seppure Mohammed bin Salman riesce a scampare alla crisi, dall'accaduto emerge più di ogni altra cosa quanto sia stato bravo a distruggere la Casa dei Saud intesa come impresa dedita alla leadership condivisa, e a minare alle radici le credenziali islamiche dell'Arabia Saudita. Il Presidente Trump e Jared Kushner, quasi inconsapevolmente, hanno cospirato perché questo fosse il risultato.
E che risultato. Come hanno detto a Istanbul a Pepe Escobar, "La macchina di Erdogan ha visto [nella vicenda Khashoggi] una di quelle occasioni che càpitano una volta nella vita per distruggere allo stesso tempo la traballante credibilità islamica della Casa dei Saud e per rafforzare il neoottomanesimo turco, ma tutto entro un contesto ikhwanita [ovvero nello stile dei Fratelli Musulmani]". Ora, si tratta di una sparata un po' grossa: magari il mondo arabo non è così ansioso di accogliere a braccia aperte il ritorno dell'impero ottomano o i Fratelli Musulmani. Ma con i paesi del Golfo così a terra in tedmini di legittimazione, Erdogan probabilmente è nel giusto se pensa di essersi messo a sfondare una porta aperta.
Ci sono interessi strategici che mettono il vento in poppa agli intenti di Erdogan. Erdogan ha dalla sua -come parte di ciò che la Turchia intende cercare di ottenere smettendola di rivelare poco per volta i dettagli della vicenda Khashoggi- la fine dell'assedio saudita al Qatar. Nel contesto della contrattazione è possibile che l'emiro del Qatar (così ci è stato detto) si rechi prossimamente in visita a Riyadh e che possa esserci una qualche distaccata -per non dire gelida- riconciliazione con Mohammed bin Salman. Il fatto è che il Qatar è fortemente debitore verso Erdogan per la fine dell'assedio... e per il precedente dislocamento di militari turchi nell'emirato, a tutela da qualsiasi aggressione saudita. Al pari della Turchia, anche l'emiro del Qatar è un generoso sostenitore dei Fratelli Musulmani.
La Turchia può contare anche su una stretta collaborazione strategica con l'Iran, divergenze sulla Siria nonostante. I due paesi condividono un forte interesse per la fine della presenza statunitense in Siria, e per la fine del progetto curdo nella regione patrocinato dallo stato sionista. Della partita fanno parte anche in questo caso i Fratelli Musulmani; il loro idillio con l'Arabia Saudita è finito, e certi settori del movimento -ancora in frantumi dopo la guerra contro di esso condotta dagli stati del Golfo- stanno tornando ai vecchi amori: Hezbollah e l'Iran; i Fratelli Musulmani non hanno mai rotto con la Turchia. Insomma, sembra che i Fratelli Musulmani siano destinati a diventare la bassa truppa nella battaglia in cui la Turchia intende strappare la corona della supremazia del mondo islamico all'Arabia Saudita.
Dietro questo convergere di interessi politici ci sono comunque anche il petrolio e il gas. A condurre i giochi in questo campo è la Russia, e la Turchia ne è il presunto centro. Senza troppo chiasso, Mosca sta consolidando un nuovo asse dell'energia: il Qatar ha già iniettato preziosa liquidità nella Rosneft, il gigante petrolifero russo, acquistandovi una voce rilevante e fornendole i mezzi per effettuare acquisizioni nel grande giacimento egiziano di Zohr. Il Qatar sta anche collaborando con l'Iran per lo sfruttamento del giacimento North Dome - South Pars, che i due paesi condividono nel Golfo Persico e che è il più grande del mondo. Recentemente il Qatar ha esteso in modo significativo i propri impianti per la produzione di gas naturale liquefatto. Anche l'Iraq ha appena ecconsentito a coordinare con la Russia le operazioni nel settore del petrolio e del gas.
Non è difficile capire cosa sta succedendo. Questa settimana la Russia ha completato la costruzione del TurkStream, il gasdotto sottomarino che la connette a quella Turchia che è al centro dei giochi in materia di fonti energetiche. Come nota Pepe Escobar, "il TurkStream si compone di due linee, ciascuna delle quali in grado di veicolare 15,75 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è destinata al mercato turco. La seconda passerà a 180 Km dalle frontiere occidentali della Turchia e raggiungerà l'Europa meridionale e sudorientale; le prime consegne sono previste per la fine del prossimo anno. I potenziali clienti sono la Grecia, lo stato che occupa la penisola italiana, la Bulgaria, la Serbia e l'Ungheria".
E la seconda fase? Ecco, presto il vecchio progetto di un oleodotto regionale che parte dal Golfo Persico e attraverso l'Iran e la Siria va verso l'Europa, magari passando dalla Turchia, potrebbe diventare di nuovo politicamente fattibile perché risponderebbe agli interessi di tutte le parti interessate ai nuovi equilibri politici regionali. Cosa significa questo? Significa che l'asse costituito da Qatar, Turchia, Iran e Russia può imporsi nel campo della produzione energetica in Medio Oriente, costringendo l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a un ruolo da comprimari. E poi c'è l'Iraq. Oltre al suo accordo di cooperazione nel settore con i russi, l'Iraq si è appena impegnato con l'Iran in un accordo di libero scambio, nonostante le minacce dei funzionari statunitensi. Pare proprio che gli sforzi fatti per mantenere l'Iraq entro la sfera di influenza degli USA non abbiano portato a gran che.
L'opportunità più unica che rara che la Turchia ha per "sotterrare la credibilità in materia di Islam della Casa dei Saud e per ripristinare le antiche istanze di Istambul per la supremazia sul mondo islamico" hanno ovviamente messo in allarme i paesi del Golfo, che si sentono profondamente vulnerabili.
Mohammed bin Zayed sta facendo pressione, con gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e il Bahrain, perché in Siria venga ripristinata la "prerogativa araba" e per "unirsi" al Presidente Assad nel respingere le influenze non arabe -ovvero turche ed iraniane- nel Levante. Non c'è dubbio che almeno in parte l'iniziativa di bin Zayed è dovuta all'intento di prendere le distanze e di differenziarsi rispetto all'oggi vituperato Mohammed bin Salman.
Nel Levante sunnita tira una pessima aria per Mohammed bin Salman, ci riferiscono persone recatesi negli ultimi tempi sul posto; si sta mettendo in discussione anche il ruolo di Custode dei Luoghi Santi di Mecca e Medina perché la barbarie commessa contro Khashoggi ha costretto a prendere in considerazione questioni che riguardano la sicurezza personale, oltre che quelle legate allo sfruttamewnto economico dei pellegrini diretti alla Mecca. I musulmani osservanti in genere si chiedono se valga la pena affrontare il pellegrinaggio: esiste un movimento che si è fatto portavoce del boicottaggio. La questione dell'indignazione popolare non andrebbe sottovalutata; i Luoghi Santi, con Gerusalemme, sono una componente identitaria importante.
L'iniziativa di Mohammed bin Zayed intenzionata a "salvare" il Levante dagli influssi non arabi potrebbe avere l'effetto collaterale di riportare la Siria all'ordine del mondo arabo, ovvero di restituirle il seggio nella Lega Araba; anche solo per questo sarebbe ben accolta a Damasco. Nel suo senso più ampio inoltre l'idea attesta il riconoscimento politico da parte dei paesi del Golfo del dato di fatto strategico della regione. Un altro fatto che non può che aiutare ad ampliare la portata della riconciliazione sul piano interno, e ad ultimare l'emarginazione degli jihadisti in Siria.
A nostro parere, pretendere di più non sarebbe altro che un pio desiderio per Mohammed bin Zayed e per i suoi patrocinatori occidentali. In generale i siriani non sono più sensibili alle sirene del panarabismo come in passato. In fondo, i siriani sono stati traditi più di una volta dall'ideale panarabo e l'idea di "una più grande Siria" ha perso terreno; oggi si nota di più un nazionalismo arabo siriano intransigente. Dalla guerra emerge una Siria più dura, meno cedevole. Damasco può anche accogliere di buon grado i tentativi di riavvicinamento da parte dei paesi del Golfo, ma non tollererà lezioni di idealismo panarabo da parte di chi ha finanziato la guerra contro questo antico paese arabo o contro chi lo ha sostenuto nei momenti difficili.
A restare nei pasticci adesso non è la Russia, come prevedeva fiducioso Obama, non è la Siria, non sono i suoi alleati. Il vento è cambiato. Adesso sono i paesi del Golfo, timorosi per quello che potrebbe succedergli se la Casa dei Saud dovesse crollare, a doversela vedere con una credibilità e una legittimazione in pezzi. Ed è lo stato sionista a trovarsi anch'esso nei pasticci, sia pure per ragioni diverse. Lo stato sionista aveva deliberatamente iniziato un percorso per il quale si era aggressivamente adoperato; un percorso che lo metteva contro l'Iran, contro la Siria, contro l'Iraq, contro la Turchia (combattuta avvalendosi dei curdi) e contro Hezbollah. Probabilmente Netanyahu sperava di trarre vantaggi dalla mancanza di buonsenso mostrata da Trump in questo contesto e dalla manipolazione delle smodate ambizioni di Mohammed bin Salman. Lo stato sionista ha oltremodo inasprito la propria ostilità con centinaia di incursioni aeree sulla Siria fino ad impattare e a mettere in pericolo gli interessi militari russi, a furia di insistere sul proprio diritto di bombardare liberamente e regolarmente il territorio siriano.
Ebbene, il comando supremo russo è stanco delle incursioni aeree sioniste. I russi vogliono una Siria stabile. Netanyahu aveva scommesso sul fatto che Trump, Kushner e Mohammed bin Salman -una compagine esigua e che non rappresenta nessuno- avrebbero cambiato il volto del Medio Oriente e ha perso: ci ha rimesso la supremazia nei cieli del settore nord dello scenario mediorientale. Putin rifiuta adesso di incontrarlo. Bibi ha messo lo stato sionista all'angolo: deve decidere se rovesciare il tavolo e mettersi contro gran parte della regione -oltre che contro i propri sottomessi palestinesi- o se fare come stanno facendo a Damasco i leader dei paesi del Golfo: prendere atto di una realtà sgradita, e fare buon viso.
L'altra domanda è: perché Erdogan continua a centellinare dettagli sul caso Khashoffi anche quando Trump e lo establishment europeo vorrebbero cordialmente che la facesse finita? Perché non accetta quanto gli viene offerto e non chiude il becco? Perché anche Erdogan teme che la Turchia resti impelagata nei propri problemi tutti particolari. Khashoggi rappresenta la possibilità di uscire dall'impasse, ed Erdogan se ne sta servendo.
In effetti la Turchia ha usato toni retorici vivaci, ma al di sotto di essi ci sono le preoccupazioni concrete dei turchi: Erdogan sa che la Turchia è apertamente sotto pressione alle proprie frontiere marittime e terrestri e che ha sofferto sul piano interno per la crisi della lira e per le sanzioni finanziarie venute adesso meno grazie alle oculate rivelazioni sull'affare Khashoggi. Erdogan sa bene che una volta che lo stato sionista avrà completato il gasdotto EastMed diretto a Cipro e verso l'Europa la Cipro Nord controllata dai turchi dovrà probabilmente fare a meno delle entrate che le derivano dal gasdotto. Sa anche che le prospezioni condotte dalle compagnie petrolifere occidentali che fanno gli interessi degli USA e della UE si stanno spingendo in zone di dubbia sovranità, rivendicate dalla Turchia e dalla Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Poi ci sono i curdi, sostenuti dallo stato sionista e dai paesi europei, che stanno cercando alacremente di liberare una fascia di territorio lungo la frontiera meridionale del paese. E ad est, in Armenia, c'è il nuovo governo filooccidentale, da rivoluzione colorata, di Nikol Pashinyan. La Turchia è sotto pressione da ogni lato. Queste tensioni esasperate e il logorio finanziario che le ha precedute, secondo la valutazione turca, denunciano una politica di contenimento capeggiata dagli USA e anche la possibilità di un ulteriore colpo di stato contro la Turchia.
Non c'è da meravigliarsi che a Istanbul regni l'eccitazione. Erdogan sta usando in modo competente e strategicamente vantaggioso le rivelazioni sul caso Khashoggi che vengono porte ai mass media. Erdogan se ne serve per coprirsi dal minaccioso piano, nato nel Golfo, per cacciare i rivali turchi in un accerchiamento ostile; al tempo stesso può assistere alle contorsioni di chi agevolò il tentativo di colpo di stato contro la sua persona -la stampa turca ha identificato in questo ruolo proprio Mohammed bin Zayed e Mohammed bin Salman- alle prese con una perdita di credibilità che sta invertendo gli equilibri fra le forze in campo.

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