giovedì 28 aprile 2016

Combattere lo Stato Islamico con la cultura cristiana


Quando si veicola una visione del mondo che è di per sé una barzelletta, succede di incappare in qualche topica.
Probabile che in media succeda una settantacinquina di volte al giorno.
La screenshot in alto, dal sito de "Il Giornale", è del 27 aprile 2016.
Se la cosa ha una propria logica possiamo aspettarci che il malcapitato Padre Najeeb Michaeel ritratto nella foto, già alle prese con una vitaccia, sarà più prima che poi costretto a schierare contro lo Stato Islamico armi ancora più tremende e ancora meno nominabili.
Si noti in basso a destra Fausto Biloslavo, che bussa a quattrini per andare a cacciarsi in qualche altro guaio.

martedì 19 aprile 2016

"...Preciso uguale a ora...!"



E quando in Palazzo Vecchio, bello come un’agave di pietra,
salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze,
e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del vecchio fiume, delle case
tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava.

E guardai dietro la sua bocca i fili abbaglianti della tappezzeria, la pittura che
da queste strade contorte venne a mostrare il fior della bellezza a tutte le
strade del mondo.

La cascata infinita che il magro poeta di Firenze lasciò in perpetua caduta
senza che possa morire, perchè di rosso fuoco e acqua verde son fatte le sue sillabe.

Tutto dietro la sua testa operaia io indovinai.

Però non era, dietro di lui, l’aureola del passato il suo splendore:
era la semplicità del presente.

Come un uomo, dal telaio all’aratro, dalla fabbrica oscura, salì i gradini col suo popolo
e nel Vecchio Palazzo, senza seta e senza spada, il popolo, lo stesso
che attraversò con me il freddo delle cordigliere andine era lì.

D’un tratto, dietro la sua testa, vidi la neve, i grandi alberi che sull’altura
si unirono e qui, di nuovo sulla terra, mi riceveva con un sorriso e mi dava la mano,
la stessa che mi mostro il cammino laggiù lontano nelle ferruginose cordigliere ostili che io vinsi.

E qui non era la pietra convertita in miracolo, convertita alla luce generatrice,
né il benefico azzurro della pittura, né tutte le voci del fiume quelli che
mi diedero la cittadinanza della vecchia città di pietra e argento, ma un operaio,
un uomo, come tutti gli uomini.

Per questo credo ogni notte del giorno, e quando ho sete credo nell’acqua,
perchè credo nell’uomo.

Credo che stiamo salendo l’ultimo gradino.

Da lì vedremo la verità ripartita, la semplicità instaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.


Così Pablo Neruda nel 1951.
L'operaio capo della città era Mario Fabiani.
Nel 2016 il non operaio capo della città è un certo Dario Nardella.
Invece della maestà del popolo, in Palazzo Vecchio governa una festa di ricchi.

Valorizzare.
Non ci sono alternative.

domenica 3 aprile 2016

Alastair Crooke - Vladimir Putin e l'arte di ascoltare



Traduzione da Conflicts Forum.

Esiste una serie di resoconti quotidiani di non facile accesso e di non facile compilazione che può dirci molto di quello che i russi pensano della Siria. A produrli è il Centro Russo per la Riconciliazione che funziona nella base aerea di Hmeymim in Siria. Dalla loro lettura si nota che il presidente Putin non è affatto disposto a giurare che i colloqui di Ginevra porteranno ad una soluzione, così come gli accordi di Minsk non hanno portato ad una soluzione della questione Ucraina anche se rimangono a tutt'oggi il contesto in cui muoversi per arrivarci.
Si consideri questo paragrafo, che viene da un comunicato del 21 marzo:

Durante gli ultimi tre giorni sono state tenute 17 sessioni di colloqui cui hanno preso parte rappresentanti del centro russo per la riconciliazione, comitati per il cessate il fuoco ed i capi di sei partiti politici e movimenti, allo scopo di espandere le zone sicure nelle province di Homs, Hama ed Aleppo.
Con i rappresentanti di tre cittadine nelle province di Daraa e di Damasco sono stati siglati degli accordi preliminari per la tregua.
Il numero complessivo di incontri i cui partecipanti hanno firmato accordi di riconciliazione è fermo a 51.
Proseguono i negoziati con i comandanti della piazza cui fanno capo due formazioni armate attive nella provincia di Damasco. Sono state discusse questioni che riguardano l'accettazione del cessate il fuoco. Il numero di impegni di tregua firmati con i capi di formazioni armate ammonta sempre a 43.

L'esercito russo sta lavorando in cooperazione con il Gruppo Internazionale per il Cessate il Fuoco e col Ministero per la Riconciliazione della Repubblica Araba di Siria; le trattative di pace devono essere state un impegno piuttosto gravoso, al pari della fornitura di aiuti umanitari. Il bollettino del 18 marzo riferisce che nella sola settimana precedente la base aerea di Hmeymim ha smistato 144 tonnellate di aiuti umanitari verso varie cittadine e vari paesi che fino agli ultimi tempi sotto controllo di formazioni armate e che adesso, grazie al progredire di questo dialogo, stanno ricevendo aiuto dai russi e, in via ufficiale, dal Ministero per la Riconciliazione.
Si tratta di un considerevole sforzo per un processo di costruzione della pace dal basso, portato avanti dall'esercito russo. Le circostanze in cui esso si sta svolgendo sono quelle che seguono: nel corso degli anni della guerra il governo siriano si è innanzitutto preoccupato di mantenere vive le istituzioni dello Stato nelle zone urbane del paese, anche in quelle controllate dallo Stato Islamico. Lo stato siriano ha continuato a pagare gli stipendi ai funzionari in città come Raqqa, anche quando non era loro permesso di svolgere alcuna attività lavorativa nella città sotto occupazione. Nelle aree rurali del paese invece le istituzioni statali sono in larga parte scomparse. I responsabili locali sono stati costretti a badare a se stessi, a difendere la propria terra e le proprie case nel miglior modo possibile spesso fondando milizie locali per l'autodifesa.
A quanto sembra paesi cittadine toccate da questo fenomeno non sono oggi abbastanza fiducia da intraprendere un percorso di dialogo, magari fino ad arrivare ad aderire a quegli accordi per la riconciliazione in cui i russi, il governo siriano o le organizzazioni internazionali hanno fatto da mediatori lavorando sul terreno. Parecchi commentatori occidentali hanno spesso dato per scontato che queste realtà fossero antigovernative o fornissero direttamente sostegno le formazioni armate. Adesso sembra che le cose non stessero affatto in questo modo: avevano invece adottato quella accorta neutralità che permette di sopravvivere in circostanze avverse: si tratta di un atteggiamento comprensibile. Cosa ancora più importante, sembra proprio che i siriani siano stanchi di guerra, che desiderino tornare ad una vita normale e che i russi stiano offrendo loro il miglior modo per farlo.
Perché tutto questo è tanto significativo? Perché evidenzia il fatto che il "piano B" russo nel caso di un fallimento a Ginevra è già in corso d'opera. Per il governo siriano inoltre un cessate il fuoco che funzioni meglio delle attese è probabilmente il miglior punto di partenza per avere la meglio anche sul piano militare, cosa che avrebbe una grande importanza. I bollettini mostrano anche un'altra cosa: dall'esperienza russa in Ucraina sono state tratte lezioni che trovano adesso campo di applicazione in Siria; tra queste, l'importanza di fornire aiuti umanitari, che rappresentano un'importante strumento per il raggiungimento della pace. Le vicende ucraine ci forniscono anche un'inquadratura di massima per comprendere meglio quali sono gli obiettivi che il presidente Putin si è prefisso di raggiungere tramite il cessate il fuoco e la riduzione della presenza militare nel paese. In Ukraina i combattenti del Donbass hanno ricevuto sostegno militare, ma non sono mancate le tregue e neppure le occasioni in cui i russi hanno interrotto tra le polemiche il loro sostegno ai combattenti, di fatto fermandone le operazioni.
In altre parole, Putin ha evitato di intromettersi con troppa decisione nelle questioni ucraine, forse perché un'intromissione troppo perentoria avrebbe destato l'aggressività statunitense -cosa assolutamente da evitare- che a sua volta avrebbe provocato una escalation. Putin ha così alternato attività militare e attività diplomatica e nel campo diplomatico, passo dopo passo, ha man mano indirizzato gli europei e dietro di loro Washington verso parametri politici che sono diventati, come del resto erano, "eventi sul terreno". Poco per volta Putin ha indirizzato la comunità internazionale verso l'accettazione della proposta russa per risolvere il problema ucraino.
In Ucraina la Russia si è pronunciata a favore di un ampio federalismo; in Siria invece ha accettato l'idea che il federalismo non rappresenti una soluzione: in Siria gli elementi costitutivi sono rimasti per troppo tempo connessi tra loro e l'identità nazionale del paese è troppo robusta perché il federalismo sia una soluzione proponibile. Per il caso siriano i russi pensano ad uno stato unico e indivisibile; le istituzioni devno rimanere intatte e deve essere il popolo siriano ad esprimersi sul proprio futuro politico. Anche in questo caso Putin e Lavrov sono riusciti a presentare le istanze russe, senza chiasso e con forza crescente, come "dati di fatto" diplomatici raggiunti tramite i processi di Vienna 1 e Vienna 2, nello spirito della risoluzione per il cessate il fuoco promulgata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
La Russia è riuscita a sventare il pericolo di un qualche colpo di coda statunitense o turco-saudita in Siria, che avrebbe potuto avere a pretesto il suo intervento militare, tramite una strategia basata su tre passi: primo, un intervento militare effettivo, secondo un cessate il fuoco in accordo con gli USA e infine il ridimensionamento delle forze militari presenti. Erano decenni che i paesi della NATO non vedevano una qualche altrui proiezione di forza in altri teatri a tutela di obiettivi in politica estera; la cosa può aver provocato sconcerto.
Di nuovo, come in Ucraina, questo alternare armi e diplomazia è riuscito ad arginare l'ostilità occidentale nei confronti delle mosse russe. La posizione dei russi è di molto migliorata ed è probabile che i recenti attentati di Bruxelles condotti dallo Stato Islamico contribuiranno a rafforzarla. In questo momento sta prendendo forma un atteggiamento più risoluto, a livello internazionale, a chiudere i conti con lo Stato Islamico e a porre fine in qualche modo al conflitto in Siria.
E' abbastanza probabile che a Ginevra non si venga a capo di nulla, visto che le parti interessate non si sono trovate d'accordo tra di loro neppure per quello che basta ad incontrarsi direttamente. In questo caso il processo integrato e tutto interno al paese, nato da basso ed in cui l'esercito russo sta avendo un ruolo fondamentale, costituisce un'alternativa praticabile. I comunicati del Centro Russo per la Riconciliazione hanno uno stile asciutto e di molta sostanza, ed indicano che in linea di massima la tregua sta reggendo, nonostante tutti i giorni vi sia qualche violazione di poco conto, lasciando all'Esercito Arabo Siriano e ai suoi alleati il respiro sufficiente a combattere lo Stato Islamico ed an Nusra.
Senza tanto chiasso, intanto che per lo più ci si preoccupa del processo politico, la Siria e le forze di cui dispone sul terreno hanno deciso di rischiare, e di provare a fare quello che secondo il consueto pensiero occidentale non è possibile fare: vincere la guerra. Il cicaleccio mediatico sul "ritiro" russo ha per lo più ignorato il fatto che Russia e Siria hanno richiamato da Aleppo le proprie forze più sperimentate ed hanno lasciato sul posto solo soldati delle ultime leve, e hanno assegnato un altro incarico ad uno dei più esperti e dei più decorati comandanti del Qalamun, il generale Tarraf.
Un reparto siriano con l'assistenza di Hezbollah ha prima tagliato le vie di rifornimento e poi ha riconquistato Palmira. Tarraf e le sue forze speciali invece sono arrivati a Deir ez Zor. Pare che da Palmira si debba aprirsi la strada fino a Deir ez Zor per collegarsi con gli uomini di Tarraf e rompere l'assedio. Se si può arrivare a tanto, anche un attacco siriano contro Raqqa diventa possibile.
Si tratta di una mossa molto audace e probabilmente c'è dietro la mano di Qassem Soleimani; la Forza Tigre è stata trasferita a Palmira, il reggimento di fanteria di marina è stato allontanato dalla provincia di Lattakia, che è stata liberata dagli jihadisti quasi per intero. E' possibile che lo Stato Islamico cerchi di approfittarne ad Aleppo est, e che an Nusra faccia lo stesso a Idlib. Molto dipenderà dalla tempra delle ultime leve dell'esercito siriano, fresche di addestramento ma prive di esperienza, messe a tenere le posizioni fin qui presidiate dalle unità d'élite. Il fatto è che in Siria ancora non si crede che poche migliaia di soldati esperti possano arrivare in fondo ad un'operazione offensiva di questa portata senza rischiare di perdere i territori recentemente conquistati.
Tutto questo quale impatto avrà sull'intento russo di mettere alle corde gli USA per costringerli a ripartire da zero nelle loro relazioni con la Russia, e che si fonda sulla cooperazione sulla questione siriana? Di certo il Presidente Putin si è espresso in modo conciliante in merito alla collaborazione con gli ameriKKKani la notte prima del suo incontro con Kerry: "Si capisce che quello che siamo riusciti a fare in Siria è stato possibile soltanto grazie all'atteggiamento costruttivo del capo politico degli Stati Uniti, del Presidente Obama", ha detto Putin.
Thomas Graham è stato consigliere presidenziale ed è stato direttore responsabile dell'ufficio per le questioni russe presso la commissione per la sicurezza nazionale dal 2004 al 2007, dopo avervi rivestito un ruolo dirigenziale tra il 2002 ed il 2004. In una recente intervista ha spiegato che rifondare le relazioni tra i due paesi non sarà una cosa facile.

Era difficile non avere rapporti problematici [Graham così risponde a domanda su come mai rapporti impostati in un certo modo sono destinati a non cambiare di rotta, neppure con l'arrivo di un'amministrazione di altro orientamento] non fosse che per il fatto che USA e Russia si basano su visioni dell'ordine mondiale radicalmente diverse. Sovranità, integrità territoriale ed autodeterminazione sono concetti chiave che interpretiamo in modo diverso; la pensiamo diversamente su cosa legittimi o meno il ricorso alla forza; non siamo d'accordo sulle legittime sfere di influenza ed ovviamente possiamo contare su un diverso numero di poli di potere nel mondo di oggi. In un mondo multipolare due paesi tanto diversi possono coesistere e anche cooperare, ma non potranno mai condividere la stessa strategia, come invece erano in molti a sperare in entrambi i paesi con la fine della Guerra Fredda. Una competizione serrata era ed è a tutt'oggi una condizione inevitabile: solo che nei primi anni del dopo Guerra Fredda la Russia non era abbastanza forte da difendere i propri interessi. La situazione è cambiata con l'arrivo al potere di Vladimir Putin.
Quello che si poteva evitare era una cesura nei rapporti, la chiusura totale delle comunicazioni. A questo si è arrivati per come Mosca e Washington si sono comportati in seguito alla crisi in Ucraina. Ogni parte accusa l'altra di quanto successo e nessuna delle due è pronta per fare il primo passo in direzione di una ripresa delle relazioni. Fare tanto per dire, come fa Mosca quando dice di essere pronta a dialogare se è pronta anche Washington non significa affatto fare qualche passo avanti per incoraggiare il dialogo. "Non siamo stati noi a cominciare" non è certo un invito al ripristino delle relazioni. Di fatto, anche Washington è pronta a riprendere i rapporti... a patto che Mosca faccia un passo indietro su tutto: la Crimea e l'est ucraino in particolare, che sono il punto essenziale delle tensioni in corso. Mutatis mutandis, anche a Mosca la pensano allo stesso modo.
L'amministrazione Clinton era decisa a trasformare la Russia in una democrazia basata sul libero mercato secondo il modello statunitense; se parliamo di rapporti tra i due paesi, Mosca era sicuramente la parte in minoranza. L'amministrazione Obama invece vuole soltanto lavorare con la Russia su una ristretta gamma di questioni per le quali è indispensabile la partecipazione dei russi, prima tra tutte quella del controllo degli armamenti strategici, in linea con il traguardo fissato dal principio da Obama di arrivare ad un mondo privo di armi nucleari. Sia sotto Clinton che sotto Obama ci sono state fitte commissioni bilaterali (la Gore-Cernomyrdin, la Commissione Presidenziale Bilaterale) che hanno creato l'illusione di una più ampia partnership, ma in entrambi i casi i risultati sono stati trascurabili.   
A non perseguire l'obiettivo di una partnership strategica sono stati quelli dell'amministrazione Bush, in gran parte neoconservatori in buona fede. Da parte russa erano in campo forze altrettanto retrograde, specie nei ministeri chiave, che temevano le conseguenze di una autentica partnership strategica e che si sono date da fare per inficiarne la realizzazione. Il punto fondamentale è che invece entrambi i presidenti condividevano questa ambizione. Un'ambizione condivisa che è sopravvissuta persino all'intervento statunitense in Iraq nella primavera del 2003. Nell'autunno di quell'anno entrambi i paesi stavano facendo grossi sforzi per ricostruire dalle fondamenta quella partnership.
Il punto di svolta è stato nell'autunno del 2004, ed è stato segnato da due eventi: la strage di Beslan a settembre, e la rivoluzione arancione in Ucraina tra novembre e dicembre. Questi accadimenti hanno portato Putin e gli alti gradi della politica russa a pensare che gli USA stessero di fatto comportandosi in modo da indebolire ed arginare la Russia: la guerra al terrorismo e la promozione della democrazia altro non erano che cortine fumogene dietro cui stava l'avanzata geopolitica statunitense in quello che era stato lo spazio sovietico. A metà del 2005 la Russia aveva sviluppato una strategia coerente volta a respingere l'influenza ameriKKKana nella regione. Da allora la competizione non ha fatto che inasprirsi ed ha avvelenato i rapporti tra i due paesi.
Al tempo stesso mosca ha abbandonato ogni desiderio di integrarsi nelle strutture transatlantiche, che era il fondamento della politica statunitense nei confronti di Mosca. Putin mise in chiaro la questione nel suo famoso discorso alla conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco nel febbraio 2007. Poi c'è stata la guerra tra Russia e Georgia nel 2008: per la prima volta Mosca ha dimostrato che era pronta a ricorrere alla forza per resistere agli sconfinamenti statunitensi -rappresentati da ampliamenti della NATO- in quelle che considera "zone di interesse privilegiato". Washington ha considerato quella guerra come una palese violazione delle regole che avevano retto le relazioni in Europa almeno dagli accordi di Helsinki del 1975.
Da allora non si è mai avuta una vera ripresa delle relazioni. Il loro ripristino non è stato altro che un intervallo breve, destinato a mettere a posto un po' di cose e giunto a conclusione il ventiquattro settembre del 2011, una data precisa perché quel giorno Putin annunciò di aver deciso di tornare al Cremlino in veste di presidente. a allora in poi il susseguirsi degli eventi non ha fatto che approfondire il baratro...
...Il ritorno di Putin ha rappresentato un punto di svolta per l'amministrazione Obama, perché aveva dato per buono che Medvedev sarebbe rimasto in carica per un altro mandato. Il ritorno di Putin è stato scioccante, e ha messo la parola fine al riallacciamento delle relazioni, ma come ho già detto i problemi sono ben più radicati e riguardano questioni essenziali per l'ordine mondiale, non questo o quel personaggio. Quindi le cose rimarranno come sono, chiunque sia il prossimo presidente degli USA. Si arriverà ad avere relazioni migliori quando a livello mondiali interverranno mutamenti tali da convincere entrambe le parti che c'è bisogno di collaborare per portare avanti i rispettivi interessi nazionali. A quel punto al presidente degli Stati Uniti non interesserà se il presidente russo sarà Putin o no. Si metterà d'accordo col presidente russo, chiunque sia.

Graham ha ragione a pensare che il divario tra i due paesi rimarrà tale? Ci sono motivi per essere un po' più ottimisti. Graham si concentra sullo specifico retaggio che caratterizza l'amministrazione in carica e che aveva puntato tutto su Medvedev, mettendo, come si suol dire, tutte le uova in un unico paniere. Si era pronti a giurare che alla fine la Russia avrebbe dovuto per forza adottare un orientamento filoatlantico ed accettare di integrarsi in un sistema finanziario e politico ad egemonia statunitense. La stessa scommessa che gli ameriKKKani hanno fatto sull'Iran, e che è anch'essa passibile di pari smentita.
Il punto debole di tutto questo sta nel considerare il presidente Putin come una specie di retrogrado che si ostina a voltare le spalle ad uno scorrere della storia che convergerebbe sui valori occidentali, la "fine della storia" com'è stata intesa da gran parte della élite statunitense. L'amministrazione USA non è stata capace di considerare il Presidente Putin altro che come un individuo ingestibile che si è trovato a fare il presidente in Russia invece che come un leader che si è affermato a partire da orientamenti e modi di intendere in ugual misura autentici ed in competizione tra loro all'interno della realtà di quel paese.
Il nuovo presidente degli USA può anche prendere possesso della propria carica senza accettare questa eredità. Trump ad esempio ha definito il presidente russo "una persona brillante e di talento" con la quale "si troverebbe molto bene". Di particolare interesse nella campagna presidenziale in USA è il fatto che tutti gli assunti su come l'ordine mondiale dovrebbe essere considerato da Washington sono in discussione nel cuore stesso del sistema: il "ventunesimo secolo ameriKKKano", l'AmeriKKKa come "benevola potenza egemone", l'interventismo, le guerre e l'importanza della stessa NATO.
Nel corso della stessa intervistga Graham afferma che a suo parere "i veri statisti alla fine troverebbero il modo per riprendere le relazioni. Un paese che si sente forte sarebbe pronto a fare il primo passo perché, fiducioso nei propri mezzi e nelle proprie capacità, non si preoccuperebbe di dover innanzitutto salvare la faccia. Il problema è se gli USA si accorgerebbero che è in corso un'iniziativa del genere, quando sono destinatari di affermazioni come "Si capisce che quello che siamo riusciti a fare in Siria è stato possibile soltanto grazie all'atteggiamento costruttivo del capo politico degli Stati Uniti, del Presidente Obama".
Staremo a vedere.