martedì 23 gennaio 2024

Alastair Crooke - Netanyahu chiude i conti. Non con uno stratagemma, ma con una sperimentata strategia sionista

 


Traduzione da Strategic Culture, 22 gennaio 2024.

 Il defunto Ariel Sharon, leader militare e politico sionista di lungo corso, una volta confidò al suo caro amico Uri Dan che "gli arabi non avevano mai accettato veramente la presenza dello stato sionista... e che quindi una soluzione basata su due Stati non era possibile e nemmeno auspicabile".
I due, al pari della maggior parte dei cittadini dello stato sionista di oggi, avevano ben presente il nodo gordiano che si trova al centro del sionismo: come mantenere diritti differenziati su un terreno fisico che comprende una popolazione palestinese numerosa.
I leader dello stato sionista ritenevano che con l'approccio non convenzionale di Sharon, basato sulla "ambiguità spaziale", lo stato sionista fosse vicino a trovare una soluzione alla questione della gestione dei diritti differenziati all'interno di uno Stato a maggioranza sionista ma comprendente minoranze consistenti. Molti cittadini dello stato sionista erano convinti, fino a poco tempo fa, che i palestinesi fossero stati confinati con successo in uno spazio politico e fisico delimitato e che fossero addirittura "scomparsi" come entità significativa; solo che Hamas, il 7 ottobre, ha fatto saltare tutto questo elaborato paradigma.
Questo evento ha innescato un serpeggiante timore esistenziale: che il progetto sionista possa implodere, se l'eccezionalismo sionista su cui si basa dovesse essere rifiutato da un ampio fronte di resistenza pronto a portare la questione sul piano della guerra.
Il recente articolo del giornalista statunitense Steve Inskeep Israel's Lack of Strategy is the Strategy [La strategia dello stato sionista consiste nel non avere una strategia, n.d.t.] mette a fuoco un apparente paradosso: mentre Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane ostinatamente sibillino sul futuro che vuole per i palestinesi che vivono su un territorio condiviso. Per coloro che pensano che la pace in Medio Oriente possa (o debba) essere l'obiettivo di Netanyahu, questa opacità appare come un fallo grave per la risoluzione della crisi di Gaza. Tuttavia, se Netanyahu (sostenuto dal suo esecutivo e dalla maggioranza dei cittadini) non espone alcuna strategia per la pace con i palestinesi, allora forse la sua omissione non è propriamente un difetto, ma una caratteristica.
Per comprendere l'ossimoro di fondo, bisogna capire perché Ariel Sharon e Uri Dan "hanno detto quello che hanno detto", e comprendere come l'esperienza militare di Sharon risalente alla guerra del 1973 abbia effettivamente plasmato l'intero paradigma palestinese. Nel 2011 ho scritto un articolo su Foreign Policy in cui sostenevo che mantenere i palestinesi in una condizione di perenne incertezza, come aveva fatto Sharon, era -ed è rimasta- la principale risposta dei sionisti su come aggirare il paradosso insito nel sionismo. Trent'anni dopo, tale concetto rimane sottinteso in tutte le recenti dichiarazioni di Netanyahu e dei leader sionisti di tutto lo spettro politico.
Anche nel 2008 il ministro degli Esteri (e avvocato) Tzipi Livni spiegava perché "l'unica risposta dello stato (al problema di come conservare il proprio fondamento sionista) è stata quella di mantenere indefiniti i propri confini -controllando le scarse risorse idriche e le terre fertili- lasciando i palestinesi in uno stato di incertezza permanente, dipendente dalla buona volontà dello stato sionista".
Io notai in un inciso che
Livni stava dicendo che voleva che lo Stato fosse uno Stato sionista, basato sulla Legge del Ritorno e aperto a qualsiasi ebreo. Tuttavia, garantire una forma stato di questo tipo in un Paese con un territorio molto limitato significa che la terra e l'acqua devono essere mantenute sotto controllo ebraico, con diritti differenziati per ebrei e non ebrei; diritti che riguardano tutto, dalla casa all'accesso alla terra, ai posti di lavoro, ai sussidi, ai matrimoni e all'emigrazione.
Una soluzione basata su due Stati quindi non risolveva il problema di come mantenere il fondamento sionista; anzi, lo aggravava. L'inevitabile richiesta di pieni diritti per i palestinesi porterebbe alla fine dei "diritti speciali" degli ebrei e del sionismo stesso, ha sostenuto Livni; che questo rappresenti una minaccia è opinione condivisa dalla maggior parte dei sionisti.
La risposta di Sharon a questo paradosso finale, tuttavia, era diversa.
Sharon aveva un piano alternativo per gestire un grande gruppo non ebraico, fisicamente presente all'interno di uno Stato sionista in cui vigono diritti differenziati. L'alternativa di Sharon consisteva nel rendere impossibile arrivare all'istituzione di due Stati compresi entro confini definiti.
Questo fa pensare a intenzioni molto diverse e in contrasto con quello che è stato a lungo ipotizzato dal consenso internazionale: che una soluzione a due Stati si sarebbe comunque affermata -comunque andasse- perché che questo accadesse era dal punto di vista della demografia nell'interesse dello stato sionista.
Le radici dell'"alternativa" di Sharon risalgono al suo pensiero militare radicalmente eterodosso su come difendere il Sinai (allora sotto occupazione sionista) dall'esercito egiziano durante la guerra con l'Egitto del 1973.
L'esito della guerra del Kippur del 1973 confermò pienamente la dottrina di Sharon per una difesa a rete, basata su una matrice di alte piazzeforti distribuite in tutta la profondità del Sinai; una struttura che agiva come una trappola spaziale estesa e che forniva agli israeliani un alto livello di mobilità, paralizzando al contempo il nemico catturato all'interno della sua matrice di piazzeforti interconnesse.
Il lettore avrà notato che i punti di insediamento sionisti costituiscono capisaldi interconnessi oggi in tutta la Cisgiordania proprio secondo un analogo criterio; non si tratta di una coincidenza.
Sharon aveva considerato la Cisgiordania nella sua interezza come una "frontiera" estesa, permeabile e temporanea. Un approccio che poteva quindi prescindere da qualsiasi sottile linea a matita venisse tracciata per indicare un confine politico. Questo quadro era destinato a lasciare i palestinesi in uno stato di incertezza permanente, intrappolati in una matrice di insediamenti interconnessi e soggetti ad intervento militare a totale discrezione dello stato sionista.
Nel 1982 Sharon elaborò il suo piano "H", una matrice di insediamenti in Cisgiordania a immagine e somiglianza della strategia nel Sinai. Questa strategia difensiva, tuttavia, ebbe anche l'effetto di conferire al "sionismo dei coloni" nuovi scopi e nuova legittimità.
Il successo di questa strategia ha vista quindi trasformarsi una struttura difensiva nata a scopi essenzialmente militari (paralizzare i palestinesi all'interno di una matrice di piazzaforti dell'esercito sionista) a base per un controllo di più ampia portata. Nel corso degli anni è diventata sempre più repressiva, iniqua e vessatoria. E alla fine ha dato vita alla soluzione dei due stati dell'apartheid.
Quando Ariel Sharon ha preso la linea di confine dello stato sionista e l'ha calata su entrambi i lati della Cisgiordania, di fatto stava dicendo che sono i coloni in Cisgiordania a costituire una linea di confine del territorio pre-1967 estesa nello spazio, così come la frontiera dello stato sionista si era estesa attraverso le matrici delle piazzaforti nel Sinai.
Era proprio questo il senso della sua visione: Non importa se lo stato sionista è costituito dal territorio pre-1967 o da quello post-1967; secondo lui tutti i confini erano fluidi e mutevoli. La "frontiera" di Sharon, estesa, elastica, permeabile e dotata di trappole a matrice, ha così dato il via a un processo -nella sfera militare- di offuscamento della distinzione tra un piano politico interno e piano politico esterno. Questo, insieme all'idea di Sharon sul non rispetto dello spazio, è diventato nello stato sionista la dottrina militare consolidata.
"Vogliamo opporre al concetto di spazio striato della antiquata pratica militare tradizionale una fluidità che ci consenta il movimento attraverso lo spazio, e che attraversi qualsiasi confine e barriera senza impedimenti. Piuttosto che mantenere e organizzare le nostre forze secondo i confini esistenti, vogliamo muoverci attraverso di essi", ha osservato nel 2006 un alto ufficiale sionista.
È fondamentale il fatto che l'indefinitezza che ha preso il posto dello spazio fissato e delimitato è gradualmente passata dalle forze armate alla sfera politica dello stato sionista. Inoltre, il principio per cui non esistono confini tra ciò che è dentro e ciò che è fuori è stato esteso allo spazio politico e legale dei Territori palestinesi occupati. Ha permesso la creazione di uno spazio a due livelli, sottoponendo gli ebrei dello stato sionista e gli arabi palestinesi a matrici di mobilità e di trattamento amministrativo differenti.
Lo spazio giuridico e amministrativo differenziato ha così tradotto in pratica il principio sionista dei diritti politici differenziati. Questo sistema a due livelli prevede l'esclusione dei palestinesi dalla vita politica, ma cura il persistere del loro stato di dipendenza e la loro sottomissione legale all'apparato di controllo sionista. Si tratta essenzialmente di un sistema basato su uno stato di eccezione, di cui si sono occupati filosofi come Carl Schmitt e Giorgio Agamben.
Arriviamo a oggi: Una volta esplicitato che l'obiettivo principale è il mantenimento del sionismo, tutto ciò che Netanyahu sta facendo acquista un senso. Il nocciolo del problema è immutato: la intrinseca contraddizione di uno Stato sionista eccezionalista che incorpora un gruppo esterno non ebraico rilevante e privo di diritti -sia esso detenuto nel ghetto recintato di Gaza o in una "matrice" formata dalle roccheforti dei coloni in Cisgiordania- è diventata insostenibile.
Una volta che il "doppio sistema" di Ariel Sharon si rompe, come è successo il 7 ottobre, nozioni come le proposte di Blinken sul "giorno dopo" per Gaza sono sufficienti a mettere in dubbio la fattibilità del progetto sionista in sé. In parole povere, il sionismo dovrà essere ripensato - o abbandonato.
Anche le risposte politiche dell'Occidente dovranno essere riviste. I luoghi comuni pieni di buone intenzioni sulla "soluzione" dei due Stati sono arrivati con anni di ritardo. Troppa acqua è passata sotto i ponti. Piuttosto, l'Occidente potrebbe iniziare a considerare le implicazioni della sconfitta per coloro che si sono schierati da una certa parte in questo conflitto. Non è solo lo stato sionista a Gaza a essere sul banco degli imputati all'Aia, ma anche molto altro, dal punto di vista del Sud del mondo.
Potrebbe davvero persistere questa "inclusione escludente" tipica dello stato sionista? Il sistema politico tecno-spaziale ispirato da Sharon, nonostante la sua pretesa di legittimità filosofica, in fondo non è altro che un'evoluzione del paradigma associato a un importante stratega sionista come Vladimir Jabotinsky, ovvero nient'altro che un modo diverso per far "sparire" i palestinesi.
E se l'escludendo gruppo palestinese non può essere fatto "sparire" per mezzo di costrutti tecno-spaziali, non sarebbe sorprendente se la logica della situazione portasse Netanyahu e il suo governo a tornare alla strategia originale di Sharon, centrata su una radicale mancanza di rispetto per lo spazio militare e i confini politici al fine di prendere di sorpresa i palestinesi creando una trappola che si estende nello spazio, proprio come Sharon fece con l'esercito egiziano.
"Lo stato sionista è lo Stato del popolo ebraico", ha sottolineato la Livni nel 2008 mettendo enfasi sul sionismo come orientamento fondante- "E vorrei sottolineare che con l'espressione "il suo popolo" si intende il popolo ebraico, con Gerusalemme capitale unita e indivisa di Israele e del popolo ebraico da 3007 anni".

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