sabato 2 settembre 2017

Alastair Crooke - Netanyahu nel panico: ecco perché



Traduzione da Consortium News, 1 settembre 2017.


Una delegazione di altissimi funzionari dei servizi dello stato sionista si è recata a Washington una settimana fa. Poi, il Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu ha interrotto le vacanze estive del Presidente Putin per incontrarlo a Sochi. Nel corso dell'incontro, secondo un importante membro del governo sionista (citato come tale dallo Jerusalem Post) Netanyahu ha minacciato di bombardare il palazzo presidenziale di Damasco e di mandare all'aria il cessate il fuoco di Astana se l'Iran dovesse continuare a "estendere la propria presenza in Siria."
La Pravda russa ha scritto: "Secondo testimoni presenti alla sessione di colloqui aperta al pubblico il Primo Ministro sionista era troppo impulsivo e in certi momenti anche vicino al panico. Ha detto al Presidente russo che il mondo rischia di assistere a uno scenario apocalittico se non viene posto un freno all'Iran che -Netanyahu ne è convinto- intende distruggere lo stato sionista."
Insomma, cosa sta succedendo? A prescindere dall'accuratezza della Pravda (il quadro è stato confermato da autorevoli editorialisti sionisti) è assolutamente chiaro -e a dirlo sono fonti sioniste- che sia a Washington che a Sochi gli esponenti sionisti sono stati fatti sfogare, ma non hanno ottenuto alcunché.
Lo stato sionista è solo.
Insomma, sembra che Netanyahu stesse cercando "garanzie" sul ruolo che l'Iran avrà in futuro in Siria, e non certo "pretendendo la luna" rappresentata dall'estromissione dell'Iran. Ma quale realistica garanzia in proposito avrebbero mai potuto fornirgli Washington o Mosca?  
Lo stato sionista ha capito in ritardo che in Siria ha sostenuto la parte sbagliata e ha perso. Non è nelle condizioni di pretendere nulla. Non ci sarà alcuna zona cuscinetto garantita dagli ameriKKKani a ridosso della linea armistiziale del Golan, la frontiera tra Iraq e Siria non sarà né chiusa né supervisionata per conto dello stato sionista.
La situazione in Siria è certamente importante, ma considerare solo questo aspetto impedirebbe di cogliere l'insieme della situazione. La guerra del 2006 che lo stato sionista scatenò per distruggere Hezbollah (col sostegno degli USA, dell'Arabia Saudita e anche di qualche settore libanese) è stata un fallimento. Un fallimento simbolico, perché per la prima volta in Medio Oriente uno stato-nazione di ispirazione occidentale massicciamente armato e che poteva contare su tecnologie sofisticate è stato seccamente sconfitto. A rendere il fallimento ancor più bruciante e doloroso, il fatto che questo paese occidentale non è stato soltanto superato militarmente, ma ha perso anche la guerra elettronica e quella combattuta con l'elemento umano dell'intelligence: due campi in cui gli occidentali pensavano che la loro supremazia fosse fuori discussione.


Le ricadute del fallimento

L'inattesa sconfitta dello stato sionista ha destato profonda preoccupazione sia in Occidente che nel Golfo. Un piccolo movimento armato (e rivoluzionario) aveva tenuto testa allo stato sionista contro ogni previsione, e aveva vinto: non aveva ceduto un palmo di terreno. Un precedente ampiamente considerato come possibile punto di svolta a livello regionale. Le autocrazie feudali del Golfo si accorsero che la vittoria di Hezbollah rappresentava un latente pericolo per il loro predominio, e che ad esserne responsabile era una forza di resistenza armata.
Le contromisure furono immediate. Hezbollah fu messo al bando -e in questo i poteri sanzionatori d'AmeriKKKa fecero del loro meglio- e si iniziò fin dal 2007 a teorizzare la guerra in Siria nel contesto di una "strategia correttiva" riguardo alla sconfitta dell'anno precedente, anche se poi si è passati alla sua realizzazione pratica (e ad oltranza) soltanto con gli eventi successivi al 2011.
Contro Hezbollah lo stato sionista ha scagliato tutto il peso della propria forza militare, anche se oggi i sionisti dicono sempre che avrebbero potuto fare di più. Contro la Siria gli USA, l'Europa, i paesi del Golfo (e dietro le quinte anche lo stato sionista) hanno scatenato di tutto: jihadisti, al Qaeda, lo Stato Islamico (esatto), armamenti, corruzione, sanzioni, e la più massiccia guerra di propaganda che si fosse mai vista. Eppure la Siria, sia pure con l'innegabile aiuto dei propri alleati, sembra sul punto di prevalere: non ha ceduto, per quanto sfavorevoli fossero i pronostici.
Per dirlo con chiarezza, se il 2006 ha segnato un punto di svolta, il fatto che la Siria non abbia ceduto rappresenta un evento storico di portata assai più ampia. Si dovrebbe capire che è stato sconfitto il solito sistema dei sauditi -e degli statunitensi, e dei britannici- rappresentato dal fomentare il radicalismo sunnita. Questo va a danneggiare i paesi del Golfo, ma l'Arabia Saudita soprattutto, perché essa si affida alla forza dello wahabismo sin dai tempi della fondazione del regno. Solo che lo wahabismo in Libano, in Siria e in Iraq è stato pienamente sconfitto e screditato, anche agli occhi della maggior parte dei musulmani sunniti. Può essere sconfitto anche nello Yemen. Questa sconfitta cambierà il volto dell'Islam sunnita.
Già vediamo che gli appartenenti al Consiglio di Cooperazione nel Golfo, fondato in origine nel 1981 da sei capi tribù al solo scopo di preservare il proprio dominio tribale nella penisola arabica, che si fanno la guerra l'uno contro l'altro in quella che ha tutta l'aria di essere una lunga e aspra contesa intestina. Il "sistema arabo", il prolungamento delle vecchie strutture ottomane assicurato all'indomani della prima guerra mondiale dalla Francia e dall'Inghilterra, compiacenti vincitori del conflitto, sembra aver interrotto con il golpe in Egitto del 2013 la propria restaurazione, e abbia ripreso la lunga via verso il declino.


Il campo sconfitto

L'atteggiamento vicino al panico di Netanyahu, se davvero le cose si sono svolte come descritto, può senz'altro riflettere lo squassante mutamento in corso in Medio Oriente. Lo stato sionista ha a lungo sostenuto la parte sconfitta, e adesso si trova da solo e in ansia per i propri combattenti per procura che sono la Giordania e i curdi. La nuova strategia correttiva di Tel Aviv sembra si basi sull'allontanare l'Iraq dall'Iran e sull'inserimento di quel paese in un'alleanza che comprenda stato sionista, USA e Arabia Saudita.
Se le cose stanno così, stato sionista e Arabia Saudita si sono mossi probabilmente troppo tardi ed è anche verosimile che stiano sottovalutando l'odio viscerale che molti iracheni di ogni settore sociale provano nei confronti della criminosa condotta dello Stato Islamico. Non sono in molti a credere all'improbabile narrativa occidentale secondo cui lo Stato Islamico è sbucato fuori all'improvviso, armi soldi e tutto, a causa del preteso "settarismo" dell'ex Primo Ministro iracheno Nouri al Maliki. No: in linea generale, dietro un movimento tanto ben fornito si trova uno stato.
Daniel Levy ha scritto un interessante articolo in cui sostiene che in generale i cittadini dello stato sionista non sarebbero d'accordo con quanto ho scritto qui: anzi, "la lunga permanenza in carica di Netanyahu, le molte vittorie elettorali e la sua abilità di tenere insieme la coalizione di governo... [si basano] sul fatto che le sue parole d'ordine hanno ascolto presso un pubblico numeroso. Il discorso in genere è che Netanyahu [ha] 'portato lo stato sionista al miglior stato di cose in cui si sia mai trovato in tutta la sua storia, quello di una forza mondiale in ascesa... lo stato sionista ha una diplomazia fiorente.'  Netanyahu ha sconfitto quelle che chiama 'le istanze delle false notizie' che senza un accordo con i palestinesi 'lo stato sionista sarebbe rimasto isolato, indebolito e abbandonato' alle prese con un 'terremoto diplomatico.'
Quello che i suoi detrattori sul piano politico trovano difficile da capire è che le affermazioni di Netanyahu trovano ascolto perché riflettono uno stato di cose reale, e questo ha spostato sempre più a destra il centro di gravità della politica dello stato sionista. Si tratta di intenti che, se si riveleranno fondati e ripetibili nel corso del tempo, lasceranno un retaggio destinato a durare ben oltre il mandato di Netanyahu e al di là di qualsiasi accusa egli si troverà mai ad affrontare.
Netanyahu sostiene che non sta soltanto prendendo tempo nel conflitto con i palestinesi per ottenere le condizioni migliori in un compromesso conclusivo e inevitabile. Le affermazioni di Netanyahu si basano su una prospettiva differente, che è quella della vittoria definitiva, della sconfitta finale e definitiva dei palestinesi, dei loro obiettivi come nazione e come gruppo.
Negli oltre dieci anni in cui è stato Primo Ministro, Netanyahu ha sistematicamente e senza mezzi termini respinto qualunque piano o qualunque passo concreto per prendere anche solo in considerazione le aspettative dei palestinesi. Netanyahu è completamente dedito all'esasperazione del conflitto, non alla sua gestione; lasciamo perdere il risolverlo... [Il] messaggio è chiaro: non vi sarà alcuno stato palestinese, perché la West Bank e Gerusalemme Est sono soltanto Grande Israele."


Nessuno stato palestinese

Levi continua: "L'approccio rovescia ogni assunto che ha condotto gli sforzi di pace e la politica statunitense per oltre venticinque anni, secondo cui lo stato sionista non ha alternative rispetto ad un ritiro finale da determinati territori e all'accetazione di un qualche cosa che somigli a sufficienza ad uno stato sovrano palestinese indipendente più o meno secondo i confini del 1967. L'atteggiamento sfida il presupposto che il negare sistematicamente un simile risultato sia incompatibile con il concetto che lo stato sionista e i suoi cittadini hanno di se stessi come democrazia. Inoltre, sfida il presupposto delle iniziative di pace secondo cui negare questo esito sarebbe in qualche modo inaccettabile agli occhi degli alleati insostituibili dai quali lo stato sionista dipende... Nelle più tradizionali roccaforti di sostegno per lo stato sionista Netanyahu ha corso un rischio calcolato: il sostegno degli ebrei ameriKKKani sarebbe continuato a fronte di uno stato sionista sempre più illiberale e nazionalista su base etnica, permettendo alle asimmetriche relazioni tra USA e stato sionista di rimanere come sono? Netanyahu ha scommesso di sì, e aveva ragione.
Levy sottolinea un'altra cosa interessante: "Gli eventi hanno preso una piega ancor più favorevole a Netanyahu con la salita al potere negli USA e in alcuni paesi dell'Europa Centrale -oltre all'incrementata importanza acquisita altrove in Europa e in Occidente- della tendenza molto nazionalista su base etnica cui Netanyahu appartiene, e che lavora per sostituire la democrazia liberale con la democrazia illiberale. Non dovrebbe essere sottovalutata l'importanza dello stato sionista e di Netanyahu in qualità di avanguardie di questa tendenza."
L'ex ambasciatore statunitense e accreditato analista politico Chas Freeman di recente si è espresso senza mezzi termini: "l'obiettivo fondamentale della politica statunitense in Medio Oriente è stato per molto tempo quello di arrivare a far sì che si arrivasse all'accettazione dello stato dei coloni ebrei in Palestina." In altre parole, la politica mediorientale di Washington e tutte le conseguenti iniziative sono state determinate da un "essere o non essere": essere a fianco dello stato sionista, oppure no.


Il terreno perduto dallo stato sionista

Il fatto è che il Medio Oriente è appena passato, e bruscamente, nel campo del non essere. L'AmeriKKKa può porre a questo un vero rimedio? Lo stato sionista è davvero da solo, c'è solo un'Arabia Saudita indebolita a sostenerlo, e le iniziative che i sauditi possono prendere hanno dei limiti evidenti.
L'invito rivolto dagli USA ai paesi arabi affinché si impegnino di più per intavolare un dialogo con il Primo Ministro iracheno Haider al Abadi sembra in un certo senso non all'altezza della situazione. L'Iran non sta cercando di far guerra allo stato sionista, cosa di cui hanno preso atto anche svariati osservatori sionisti; tuttavia è vero anche che il Presindente siriano ha detto chiaramente che il suo governo intende recuperare il controllo "di tutta la Siria", e tutta la Siria singifica anche le alture del Golan occupato. Durante l'ultima settimana di agosto Hassan Nassrallah ha invitato il governo libanese "a ideare un piano e a prendere la sovrana decisione di liberare le fattorie di Shebaa e le colline di Kfarshouba" dalla presenza sionista.
Molti commentatori sionisti stanno già dicendo che tutto è ormai deciso, e che sarebbe meglio per lo stato sionista cedere unilateralmente del territorio invece di rischiare di perdere centinaia di soldati nel vano tentativo di mantenerne il controllo. Difficile che questo si accordi con il temperamento del Primo Ministro sionista -che è di quelli che "non cedono di un centimetro", e con le sue recenti dichiarazioni.
Il nazionalismo su base etnica permetterà di trovare nuove basi al sostegno per lo stato sionista? In primo luogo io non considero la dottrina politica dello stato sionista come una "democrazia illiberale", ma come un sistema di apartheid che ha lo scopo di affossare i diritti politici dei palestinesi. Mentre lo scisma politico in Occidente si allarga, con un'ala che cerca di delegittimare l'altra tacciandola di razzismo, di intolleranza e di nazismo, è chiaro che gli autentici sostenitori del "Prima l'AmeriKKKa" cercheranno di prendere le distanze dagli estremisti, costi quello che costi.
Daniel Levy sottolinea il fatto che il leader della destra alternativa Richard Spencer definisce il suo movimento "sionismo bianco". Ma è davvero probabile che una cosa del genere rafforzi il sostegno verso lo stato sionista? Quanto ci vorrà prima che i "globalisti" tirino fuori la tiritera secondo cui la "democrazia illiberale" di Netanyahu contrasta contro i diritti costituzionali statunitensi, che è proprio quello cui aspira la destra alternativa, col suo modello di società in cui i messicani e gli afroamericani vengono trattati come i palestinesi?


Il nazionalismo etnico

La tendenza al venir meno del sostegno verso lo stato sionista che domina attualmente in Medio Oriente indica il "nazionalismo etnico" di Netanyahu in modo più semplice. Lo chiama colonialismo occidentale. Fine della questione.
La prima fase del piano di Chas Freeman per far sì che il Medio Oriente stesse dalla parte dello stato sionista è stata l'aggressione militare contro l'Iraq, condotta con il massimo della forza. Risultato, l'Iraq è oggi alleato dell'Iran, e la milizia Hashad -le forze di mobilitazione popolare- sta diventando una forza combattente di ampia mobilitazione.
La seconda fase era quella del 2006. Risultato, Hezbollah è una forza regionale, non più confinata al solo Libano.
La terza fase era l'attacco contro la Siria. Risultato, la Siria è alleata con la Russia, con l'Iran, con Hezbollah e con l'Iraq.
Cosa ci riserverà la prossima fase in questa guerra dell'essere o non essere [a fianco dello stato sionista, n.d.r.]?
Dopo tutte le sbruffonate di Netanyahu sullo stato sionista che è più forte, che ha sconfitto quelle che chiama "le istanze delle false notizie" secondo cui senza un accordo con i palestinesi "lo stato sionista sarebbe rimasto isolato, indebolito e abbandonato" alle prese con un "terremoto diplomatico," è possibile che negli ultimi quindici giorni lo stesso Netanyahu si sia reso conto di aver scambiato l'aver messo al loro posto i palestinesi indeboliti con una vittoria, solo per accorgersi di essere rimasto solo in un "Nuovo Medio Oriente" di tutt'altro genere, proprio nel momento del suo apparente trionfo.
Forse la Pravda aveva ragione, e Netanyahu sembrava davvero vicino al panico durante l'incontro di Sochi da lui organizzato in fretta e furia e con urgenza sollecitato.

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