mercoledì 8 marzo 2017

Alastair Crooke - Lo stato profondo contro Donald Trump




Traduzione da Consortium News, 28 gennaio 2017.

Il Presidente Putin lo ha ripetuto varie volte: alla cooperazione con gli USA la porta restava aperta con uno spiraglio. E varie volte ha ripetuto che non era stata Mosca ad iniziare ad assottigliare e poi a tagliare i vari canali di comunicazione con Washington. Il signor Putin si è dimostrato coerente nel favorire al signor Trump l'accesso a Mosca. Gli ameriKKKani avevano fatto capire, di recente, che "un gesto" da parte di Mosca sarebbe stato gradito, e ne hanno ottenuto uno perché Mosca ha invitato l'amministrazione entrante ai colloqui sulla Siria ad Astana. A Mosca questo gesto è quasi costato il sostegno dell'alleato iraniano ai colloqui.
Forse proprio la porta socchiusa di Putin è alla base della convinzione di molta parte della stampa che parlare di distensione tra i due leader significhi scommettere sul sicuro: Trump e Putin sono della stessa pasta, e in qualche maniera andrà a finire che prenderanno insieme a legnate gli islamici radicali. Una fiducia, quella su un accordo unanime, forse prematura e probabilmente mal riposta.
Certo, la porta è aperta e magari i due leader arriveranno anche a imbastire una distrensione. Ma non c'è nessuna certezza, non è una scommessa sicura. Di sicuro Mosca non la considera tale. Al contrario, i russi sanno che anche se esistono temi in cui vige una visione condivisa tra Mosca e la nuova amministrazione statunitense, ne esistono anche altri in cui dominano le divergenze e probabilmente anche veri e propri disaccordi. La sperata distensione potrebbe rivelarsi fuori portata. Staremo a vedere.
Non abbiamo idea di quale sarà in concreto la politica estera del Presidente Trump. Non tutto è chiaro, e questa scarsa chiarezza è in parte deliberatamente voluta; la squadra di governo inoltre deve ancora accordarsi perché è occupata in un complesso passaggio di consegne. Possiamo comunque identificare, forse, alcuni punti fermi basandoci sul discorso inaugurale del nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Il signor Trump ha assistito al declino politico ed economico dell'AmeriKKKa nel corso degli anni; in uno scritto della sua campagna elettorale nel 2000 già si diceva preoccupato per il peggiorare della situazione. Trump è sinceramente convinto che gli USA siano in crisi, e che senza una riforma complessiva, radicale ed urgente l'AmeriKKKa come tale si troverà in pericolo. Trump è uno che ha visto decadenza e corruzione e che ne è stato profondamente cambiato: nel suo discorso di insediamento c'era di sicuro un sentore di nuovo esercito alla Cromwell. Trump ha detto che intende ripulire e ricostruire l'AmeriKKKa, nientemeno. Contro di lui c'è tutto il potere ancora intatto dello stato profondo, eppure Trump per lo più sceglie di deriderlo. Nel suo discorso di insediamento si è rivolto allo stato profondo, dicendogli senza mezzi termini che deve prepararsi ad essere esautorato. Facendo questo, Trump ha tagliato i ponti dietro di sé e non corre così il faustiano pericolo di vendersi l'anima. Per lui, o la va o la spacca.
Al di là degli ordinari fasti del passaggio dei poteri avvenuto il 20 gennaio, esiste in realtà una guerra aperta fra il presidente degli USA e le élite dello stato profondo che sono ancora al loro posto; non è necessariamente lo stesso, invece, con i semplici peones che a quanto sembra hanno in molti casi votato per lui.
Artemis Capital così descrive con preveggenza le probabili tattiche di Trump:
...Trump sa che se non si può vincere [per come stanno le cose] bisogna cambiare le regole del gioco; è quello che ha già fatto con la politica ameriKKKana, ed è quello che si appresta a fare con tutto l'ordine mondiale nato dopo Bretton Woods. Se si vuole davvero conoscere una persona, bisogna considerare quello che fa e non quello che dice... o quello che mette su Twitter... Le filippiche e le sfuriate su Twitter sono parte di una strategia che serve a controllare e ad eludere i mass media.
Nel mondo degli affari Trump ha fatto carriera basandosi soprattutto su tre strategie fondamentali. Prima, fare pressione; seconda, riorganizzare; terza, mettere il proprio segno. In quest'ordine. Dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta Trump ha sfruttato l'onda lunga del declino dei tassi di interessi e del credito facile per acquistare molte proprietà immobiliari di prestigio, compreso il Grand Hyatt (1978), la Trump Tower (1983), il Plaza Hotel (1988) ed il Taj Mahal (1988). Negli anni Novanta è andato in bancarotta per sei volte a causa della sopravvalutazione degli hotel e delle attività nelle case da gioco ad Atlantic City e a New York. Negli anni 2000 si è man mano allontanato dagli investimenti immobiliari basati sull'indebitamento e si è dedicato alla costruzione di un'immagine a livello mondiale tramite la trasmissione televisiva Apprentice. Trump gestirà il paese nel modo in cui ha gestito i propri affari... farà pressione, pressione, pressione, pressione... e poi riorganizzerà la propria strada verso il successo, qualsiasi cosa si indichi con questo nome, adottando ogni volta le risoluzioni che risulteranno maggiormente popolari. L'economia di Trump, se verrà messa in pratica, sarà una specie di libera tutti per la produzione: massicci tagli alle tasse, spesa in deficit per la creazione di posti di lavoro, deregulation per il mondo finanziario e quello dell'energia, creazione di attività nel campo degli affari e protezionismo commerciale. Tutte cose che fanno crescere l'inflazione. La cosa più importante è che Trump considera la bancarotta come uno strumento, non come una condizione da cui derivano degli obblighi, e non avrà problemi a spingere gli USA fino ai limiti estremi dell'indebitamento. 'Io con il diritto fallimentare ci gioco; mi ci diverto un sacco!'ha detto un volta.
A grandi linee sono cose che già abbiamo sotto gli occhi. Lo scrivere su Twitter serve a Trump per creare scompiglio, per ritagliarsi una posizione negoziale di vantaggio per mezzo dell'incertezza. Nessuno conosce quali siano gli scopi sostanziali di Trump, quale sia il suo limite. La sua strategia è proprio questa. Gli scritti su Twitter come granate scagliate nel mucchio, per creare confusione, per distrarre, per ammorbidire l'ordine vigente e renderlo meglio disposto al negoziato... ed anche alla successiva riorganizzazione, nel caso i negoziati iniziali si concludessero con un nulla di fatto.
Lo stesso vale per le pressioni. Trump ha gli strumenti per esercitarne: gli USA, soprattutto, sono il maggior acquirente mondiale di beni di consumo e controllano quella che è la valuta di riserva di tutto il mondo, oltre a controllare tutte le istituzioni finanziarie nate da Bretton Woods, con tutte le posizioni privilegiate che questo comporta. Gli USA hanno la Federal Reserve e possono manipolare le valute degli altri paesi; gli USA "hanno" la NATO, e detengono con essa il potere di estendere o meno ad altri paesi il suo ombrello difensivo; gli USA hanno l'esercito più grande, e sono più o meno indipendenti dal punto di vista energetico. Non è roba da poco.
Possiamo attenderci che Trump si avvarrà, e continuerà ad avvalersi, di tutto questo. Eliminerà qualunque cosa freni il suo interesse di mettere l'AmeriKKKa al primo posto, farà rientrare posti di lavoro e manifatture a tutto vantaggio della borghesia e della classe operaia statunitensi finite ai margini. Per far questo eserciterà pressioni dal punto di vista finanziario (con il debito, i dazi, gli incentivi fiscali) e farà a braccio di ferro con i rivali commerciali degli USA. Il marchio "AmeriKKKa" trarrà vantaggio da tutti i trucchi da venditore con cui Trump si è impratichito nel corso del suo reality televisivo: disattenzione, sorpresa, colpi di scena pubblicitari capaci di ammantare di successo; perché Trump è deciso a riuscire. Pare quasi che senta di avere il potere di destare lo "spirito animale" degli ameriKKKani pubblicando su Twitter quei perentori e concisi messaggi da una riga. A giudicare dai sondaggi sulla fiducia nutrita nell'ambiente degli affari negli USA, pare che entro certi limiti ci sia già riuscito.
Tutto questo racconto implica che l'intera linea politica sotto Trump potrà essere decisa sostanzialmente a lume di naso. Fin qui l'impressione che Trump comunica, che è solo un lato della medaglia. Ad apportare qualche correzione ci pensa John Maudlin di Maudlin Economics.
Ecco qui un breve, sommario scritto sulle impressioni che ho ricavato dagli ultimi giorni [trascorsi a Washington a parlare con la squadra che si occupa della transizione al potere per conto di Trump]. Penso sia più facile renderne conto in una lista.
I mass media possono dare l'impressione che la squadra di transizione di Trump si trovi in una fase di totale disorganizzazione. Parlare con i suoi responsabili non mi ha certo lasciato di questo parere. Il processo di transizione è stato suddiviso in oltre trenta comparti, ciascuno dei quali è stato dotato di una sorta di manuale per lo sbarco. La loro idea è che la transizione vada progettata come un'invasione: quindi stanno distribuendo la documentazione necessaria all'equivalente delle teste di ponte sulla spiaggia, che ne eseguiranno le istruzioni.
Mi hanno permesso di dare uno sguardo (ma non sono riuscito a leggere propriamente gran che) ai piani per una cosa di livello ministeriale. Erano cento e più pagine di dettagli puntigliosi su quali ordini esecutivi avrebbero dovuto essere rimossi o aggiunti, su quale personale avrebbe dovuto essere rimpiazzato (sia tra il personale che lavora per incarichi che tra il personale vero e proprio), quali politiche avrebbero dovuto essere cambiate, e così via.
Mi hanno detto che per ogni ministero esisteva una programmazione altrettanto accurata. Secondo me molte persone di think tank diversi, assieme a gente esperta di transizioni di questo genere, hanno lavorato alla messa a punto dei piani per ciascun ministero. Una pianificazione così dettagliata non si prepara in capo ad un paio di mesi: penso che parte di queste linee sia stata messa a punto nel corso di anni e possa oggi essere messa in pratica.
Detto questo, sappiamo che non esiste piano di battaglia che regga all'urto col nemico; è stata un'esperienza istruttiva parlare con Bill Bennet, che raccontava della sua esperienza quando si trattò di cercare di riformare il ministero dell'educazione ai tempi di Reagan. Dopo un anno erano ancora lì a vedersela con questioni di personale e di politica, ed erano tempi in cui il ministero era molto più piccolo di adesso. E si tratta di un caso soltanto.
Quando ho chiesto ad un personaggio chiave quanta parte del piano generale si sarebbe tradotta in qualcosa di concreto, ho avuto in risposta un sorriso mesto ed una scrollata di spalle. "Se nei primi anni riusciremo a fare anche solo la metà di tutto questo, si tratterà di una grossa riforma..."
Lo stile direttivo di Trump manderà i mass media -e di sicuro la gran parte del paese e del mondo insieme ad essi- letteralmente fuori di testa. Una persona che ha lavorato fianco a fianco con Trump durante la fase di transizione afferma che è più che altro come trovarsi dentro la brigata d uno spettacolo sulla HBO, e non come in quella sitcom britannica intitolata Yes, Minister. Trump si circonderà di persone in competizione le une con le altre per porgergli le informazioni che gli servono. In questa organizzazione, lui presenta una visione d'insieme e poi ingaggia le persone che la realizzino. A quel punto torna a fare le cose che gli abbiamo visto fare così bene: creare un marchio ed un'immagine per il risultato.
Sta reclutando gente che metta in pratica la sua visione, e si attende che questa gente saprà farlo. Si farà vivo immediatamente quando penserà che c'è bisogno di lui, o che c'è qualcosa da aggiungere a tutto il processo, ma per lo più seguirà con attenzione l'operato della sua squadra.
Una valutazione che fa pensare che nei primi sei mesi assisteremo ad un ricambio di personale più corposo del solito. I media diranno che Trump non riesce a trattenere il personale e che alla Casa Bianca regna il caos, come in tutte le altre sedi governative. Ma dal punto di vista di Trump e tenuto presente il suo stile direttivo, questo non  per forza un male per quanto riguarda il suo obiettivo più a lungo termine, che è quello di cambiare le cose.
Dacché sono vivo non abbiamo mai avuto un presidente con uno stile direttivo di questo genere. Dal momento che nessuno potrà basarsi su una precedente esperienza, saranno in diversi a trovarsi male finché non ci avranno fatto l'abitudine, e qualcuno l'abitudine non ce la farà mai.
Cosa c'entra la Russia con tutto questo? Il Presidente Putin è un uomo dello stesso stampo, come suggeriscono molti editorialisti?
Di primo acchito, sì. Per altri  versi, no. Anche il Presidente Putin ha assistito al declino del suo paese durante gli anni di Eltsin e, sì, anch'egli era sinceramente convinto, quando si è insediato, che la Russia fosse in crisi. Il Presidente Putin ha dovuto affrontare lo stato profondo che gli si era coalizzato contro, ma a differenza di Trump non gli ha pubblicamente dichiarato guerra. Il presidente russo si è invece posto l'obiettivo di cercare il bene del paese, e di impedire che i poli politici opposti della Russia si separassero dal tronco principale. Sotto questo aspetto il Presidente Putin non è un populista: nessuna metaforica marcia di operai con i forconi a caccia di esponenti delle élite. Putin ha preferito aggirare i propri nemici con sistemi meno pubblici e più discreti.
Insomma, una certa chimica, ammesso che si trasfonda nella carne, deriva da qualcosa d'altro. Lo stretto confidente di Donald Trump Steve Bannon in un'intervista del 2014 la mise in modo abbastanza semplice: Putin, "molto, molto, molto intelligente", "ci è riuscito", semplicemente. Putin capiva: comprendeva gli scopi dei vari movimenti in stile Tea Party (l'intervista è di prima che Trump si candidasse). Bannon lascia intendere che Putin sa che in Europa ed in AmeriKKKa sta montando una rivoluzione; il presidente russo si sarebbe adattato con calma (e "con intelligenza") agli eventi, soprattutto a quelli europei.
In altre parole non sono tanto le possibilità transazionali che spingono Bannon verso Putin, ma l'idea di avere a che fare con qualcuno che condivide per istinto, quasi per telepatia, gli intenti di Bannon e della sua cerchia del Breitbart (che adesso comprende anche Trump) e la loro visione del mondo. Una specie di comunicazione empatica che, se è frutto dell'esperienza, ha l'effettiva capacità di superare divergenze politiche altrimenti difficili.
E di differenze politiche ce ne sono eccome. I più grossi ostacoli potenziali come la politica del tipo "l'AmeriKKKa inanzitutto" o la aggressiva riedificazione delle basi nazionali non faranno scomporre minimamente il signor Putin. Le sue intenzioni per la Russia sono le stesse. Lo stesso vale per la politica energetica: il signor Putin non farà problemi e anzi potrebbero esserci rapporti fruttuosi con il signor Tillerson su questo specifico settore.
In compenso ci sono tre questioni che possono rivelarsi molto problematiche. La prima è l'enfasi con cui Trump sostiene che "il predominio militare statunitense non dev'essere messo in discussione" perché si tratta di una cosa che tocca direttamente la sicurezza nazionale russa. Mosca non sta cercando di raggiungere un equilibrio assoluto, ma una pari stima ed un assetto strategico stabile nei confronti degli USA. La seconda è il fatto che la squadra di Trump sostiene che "il presidente non permetterà ad altri paesi di superare la nostra [degli USA] capacità militare"; in una dichiarazione di intenti della Casa Bianca si legge che "Svilupperemo [noi Stati Uniti] un sistema di difesa missilistico aggiornato, per proteggerci dagli attacchi missilistici di paesi come l'Iran e la Corea del Nord." Il Ministro degli Esteri russo Lavrov ha già assicurato che le armi nucleari, la stabilità strategica e la parità nucleare e strategica sarannno questioni fondamentali nei rapporti tra Russia e Stati Uniti. La terza questione verrà sollevata nel caso Trump cerchi di intromettersi nell'architettura strategica che unisce Cina, Russia ed Iran. Qualunque tentativo di dividere questa coalizione o di far crollare il fondamento dell'architettura economica euroasiatica basata sul concetto di "Una fascia, una via" può inasprirer qualunque intesa possa esserci tra Trump e Putin.
Per la Russia esiste poi un'altra questione di primo piano. Putin potrà riuscire nei suoi intenti? E un suo fallimento cosa comporterebbe per la Russia? Il suo mandato potrà essere abbreviato in qualche modo? Trump potrà essere rimosso, e sostituito da qualcuno in vena di vendette contro una Russia accusata di aver parteggiato per lui?
Trump è deciso a liberarsi di ogni ostacolo che si frappone tra lui e il successo, ma farlo non sarà facile. Le correnti contrarie sono forti. La crescita economica continua a sfuggire a livello mondiale, per una serie di fattori complessi. Non è colpa di Trump, è semplicemente un dato di fatto.
Sul suo programma economico, poi, pende una spada di Damocle. Ovviamente Trump cercherà di premere, premere e premere ancora, come ha fatto nel corso della sua carriera di uomo d'affari: infrastrutture, tagli alle tasse, maggiori spese. Di sicuro sarà una politica inflazionistica e difatti i tassi di interesse stanno già salendo. Cosa succederà quando i buoni del tesoro a dieci anni arriveranno al 3% di interesse o più? Ci sarà una duisputa con una Fed che cercherà di stringere la borsa? Il mercato del debito in generale entrerà in crisi?
In concreto il programma di Trump può aggiungere del sale alla vita di certe multinazionali statunitensi, e magari farne crescere il valore in borsa; succederà quasi certamente. Riuscirà però a far rientrare posti di lavoro per la borghesia e per la classe operaia statunitensi, che è la cosa che in fin dei conti davvero conta per il signor Trump? Chi andrà a lavorare nelle imprese rientrate in patria? I robot? AmeriKKKani a quindici dollari all'ora o ameriKKKani a quarantacinque dollari all'ora, che sono la tariffa oraria di un impiego ben retribuito? E se quest'ultimo caso dovesse verificarsi, chi acquisterà le costose merci prodotte da questi ben pagati lavoratori? Presumibilmente gli ameriKKKani stessi, ma ci vorranno molti milioni di consumatori, anch'essi retribuiti quarantacinque dollari l'ora affinché possano permettersi di acquistare merci tanto costose. Se invece vi lavoreranno ameriKKKani a quindici dollari l'ora, da dove arriveranno gli "spiriti animali" dei consumatori, e il loro spendere liberamente? E se invece ci finiranno i robot...?
Davvero sarà possibile mostrarsi duri con la Cina? Le linee di rifornimento dei sistemi industriali moderni sono lunghe, complesse e internazionali. Se l'AmeriKKKa va a muso duro contro le sedi delle manifatture alla fine della catena, l'Asia può rivalersi a sua volta sulle linee di rifornimento. Prendere un'intera linea di rifornimento così com'è e trasferirla altrove è molto più difficile che non trasferire un singolo impianto. Poi c'è una questione più importante ancora: l'economia cinese è tutta grasso che cola, al punto che la Cina può privarsene in parte a pro dell'AmeriKKKa? Ci sono regioni degli USA che hanno avuto da soffrire per gli effetti della globalizzazione, ma ormai anche la Cina è una delle ultime vittime di questo fenomeno. La Cina potrebbe non disporre di alcuna eccedenza su cui negoziare. E di certo ha anch'essa le sue brave carte da giocare.

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