A quanto sembra la svolta è già in atto. Il primo incontro ai massimi livelli dopo l'abbattimento dell'aereo militare russo sopra i cieli siriani avvenuto lo scorso novembre ha avuto luogo questa settimana. I vice primi ministri di Turchia e Russia si sono incontrati a Mosca per gettare le basi per un altro vertice ad agosto, in cui il presidente Putin ed Erdogan -nella ex capitale San Pietroburgo- sanciranno il nuovo riavvicinamento.
Con questa mossa Erdogan sta solo giocando la carta russa contro gli Stati Uniti e la NATO, o sta davvero cambiando orientamento? Di sicuro i vertici dello AKP stanno facendo ampio ricorso ad una retorica centrata sulla asserita complicità statunitense nel fallito colpo di Stato, al punto che rimangiarsi quanto detto sarebbe ormai imbarazzante per il partito. Se i turchi davvero intendono cambiare orientamento, la cosa avrebbe una portata strategica estremamente rilevante. Significherebbe l'indebolimento dell'ultimo autentico caposaldo dell'egemonia statunitense in Medio Oriente, e significherebbe anche la rottura della catena con cui la NATO circonda la Russia.
E del neoottomanismo che ne sarà? La natura peculiare delle ambizioni di Erdogan, al tempo stesso turche, nazionaliste ed islamiche di orientamento sunnita non collimano facilmente con il concetto che i russi hanno della sicurezza in Medio Oriente o in Asia Centrale. Questa è la cosa essenziale. Il Presidente Putin vorrà essere sicuro che Erdogan non stia solo mettendo in piedi la faccenda per ottenere maggiori concessioni dall'Occidente, o per mettere i russi contro gli statunitensi. La Russia si è adoperata pazientemente per arrivare a collaborare con gli USA in Siria, e non ha certo intenzione di gettar via gli sforzi compiuti.
Dunque, il neoottomanismo di Erdogan quali caratteristiche ha? E perché costituisce un potenziale problema non da poco?
Uno dei suoi aspetti è particolarmente evidente ed è il revanscismo. Nell'agosto 2014 Piotr Zalewski notava che Ahmet Davutoglu appena prima di diventare ministro degli esteri nel 2009 aveva detto con una certa concisione: "Noi siamo i nuovi ottomani". "Qualunque cosa abbiamo perso tra il 1911 e il 1923, qualunque sia la terra da cui ci siamo ritirati, tra il 2011 ed il 2023 vi torneremo, per incontrare di nuovo i nostri fratelli." In altre parole, noi (intesi come la Turchia) torneremo ad essere una grande potenza sunnita.
Già ho esposto nei dettagli, in un'altra occasione, le ambizioni turche di rimettere le mani sugli antichi vilayet ottomani di Aleppo e di Mossul, e sugli sforzi compiuti per radicare le etnie turche degli uiguri e dei turkmeni nel nord della Siria e per schierare truppe turche nell'Iraq settentrionale; lo scopo a lungo termine è quello di tornare ad essere una grande potenza sunnita.
Valga a titolo di esempio il fatto che lo scorso anno il giornale turco Takvim ha annunciato che "Aleppo [era destinata a diventare] l'ottantaduesima [provincia della Turchia]: "una zona cuscinetto sarà costituita nel nord della Siria; una zona comprendente la città di Aleppo che sarà sotto totale controllo turco. [Una volta che] gli USA e la Turchia hanno siglato gli 'accordi di Incirlik' l'equilibrio politico e militare ha cominciato a cambiare con rapidità [...] i giornali statunitensi hanno scritto che 'la nuova mappa [della Siria] sarà tracciata durante l'incontro di Erdogan con Obama".
Secondo la mappa del nord della Siria pubblicata in prima pagina da Takvim quella che si sarebbe preparata a diventare la "ottantaduesima provincia" comprendeva non solo Aleppo, ma anche Idlib e il nord di Latakia. Ora, la riannessione di questi territori non è più un'opzione praticabile. Il corso degli eventi, in Siria ed in Iraq, è cambiato in seguito all'intervento russo.
L'aspetto più spinoso della questione, almeno per la Russia, è costituito piuttosto dalla portata turca ed islamica delle ambizioni neoottomane della Turchia. Paradossalmente, su questo punto Erdogan ha molto in comune con il movimento Hizmet di Fehtullah Gulen. Le vicende della comunanza di vedute tra Erdogan e Gulen e del loro accordo nella fondazione dell'AKP sono complesse, e complesse sono anche le vicende della loro inimicizia e degli scontri che hanno avuto in seguito. Tuttavia entrambe le ideologie nascono da radici nazionaliste, islamiche e liberalconservatrici simili. Ancor più precisamente, i due condividono il paradigma del ritorno all'ottomanismo, che è stato ben descritto da Ahmet Davutoglu parlando di una "grande restaurazione" in cui "abbiamo bisogno di abbracciare totalmente gli antichi valori che abbiamo perduto". Davutoglu continuava parlando in termini agiografici dei legami storici che accomunavano le genti turche, nonostante le "nuove identità che nei tempi moderni ci sono state ritagliate addosso con la forza". Questi storici legami, questi valori cui si riferiva l'ex Primo Ministro comprendevano ovviamente anche la lingua turca, l'Islam ed il califfato.
Le origini di Gulen risalgono al movimento Nur, una corrente islamica riformista e modernista ispirata dagli scritti del religioso ed attivista politico Said i Nursi. Il movimendo di Gulen opera in campo sociale ed educativo e almeno in prima istanza non è un movimento politico, anche se interagisce con i governi e porta avanti quella che potrebbe a buon diritto essere considerata un'attività diplomatica verso paesi occidentali ed islamici come se fosse un'entità politica consolidata.
L'obiettivo della cemaat, della comunità di Gulen, con quest'enfasi sulla scienza, sulla tecnologia, sull'economia occidentale di libero mercato, è quello di formare e di influenzare le future élite nazionali, che parleranno inglese e turco, e di favorire l'inclusione nel blocco occidentale. "Le materie religiose sono completamente assenti dai loro curricula. [Gli insegnanti della cemaat] non professano mai apertamente la filosofia dell'Islam, ma la vivono. Per esempio, gli insegnanti delle scuole del movimento devono essere educati, irreprensibili e rispettosi. Una condotta improntata a questa etica pretende dai missionari duro lavoro, accettazione dello hizmet insani ("servizio umano") oppure disponibilità nei confronti degli altri," nota lo studioso franco-turco Bayram Balci. Si tratta di un'organizzazione molto ricca, con think tank, scuole e case editrici sparse in tutto il mondo, anche se le scuole si concentrano per lo più nei Balcani ed in Asia Centrale.
Balci spiega che si tratta davvero di "un movimento missionario. La sua missione è reinstaurare l'Islam in una regione che per gli ultimi settant'anni è stata controllata da una potenza atea e persecutoria. A questo fine le Nurcu, le comunità che aderiscono alla dottrina Nur, impiegano metodi simili a quelli dei gesuiti. E come i gesuiti le Nurcu hanno sviluppato un metodo di reclutamento elitario. Vorrebbero cambiare la società per mezzo della formazione, ed intendono la formazione come una supervisione complessiva sugli allievi, dentro e fuori scuola. Il movimento missionario intrattiene anche ottimi rapporti con le popolazioni in cui si insedia, con l'intento di convertirle".
Tecnicamente la cemaat, cui si pensa aderiscano circa tre milioni di appartenenti, fa capo ad un orientamento sufi che è più culturale che filosofico, ma a differenza della maggior parte degli orientamenti sufi è veementemente anti sciita ed ostile nei confronti dell'Iran. Sotto certi aspetti la cemaat ha caratteristiche simili a quelle della massoneria. Unirsi alla cemaat in Turchia o in Asia Centrale è spesso stato il modo per avere un lavoro sicuro o uina promozione, ed in ultima analisi un posto nella élite. Non è troppo difficile capire perché questo movimento, con la sua liberale enfasi sull'insegnamento dell'inglese e delle discipline scientifiche e il suo orientamento aperto e favorevole all'economia occidentale basata sul libero mercato, possa incontrare il favore di un governo statunitense che stia cercando di plasmare il futuro del mondo islamico.
Le origini di Erdogan al contrario si trovano nel Millî Görüs, il Movimento per una Prospettiva Nazionale, che aveva i suoi serbatoi naturali tra gli osservanti uomini d'affari di provincia e i coltivatori. All'inizio ostili ai seguaci di Gulen, visti come pericolosi forieri di forze laiche, i sostenitori di Erdogan si separarono dal Millî Görüs dopo il colpo di stato del 1997 e fondarono lo AKP insieme con seguaci di Gulen.
Che cosa hanno in comune dunque Gulen ed Erdogan? Nonostante tutti gli scontri che hanno avuto in seguito, hanno sempre condiviso una visione molto simile su ciò che implica una prospettiva neoottomana.
Bayram Balci ha scritto una tesi di dottorato sulle scuole della cemaat ed ha notato che il movimento di Gulen si adopera per il conseguimento di tre obiettivi. In primo luogo, la turchificazione dell'Islam; poi l'islamizzazione dell'ideologia nazionale turca, ed infine l'islamizzazione della stessa modernità. Un compito non da poco.
In breve, Gulen tende alla realizzazione di un nuovo movimento globale islamico di ampia portata. Nel 1997 dichiarò che "la Turchia [...] oggi supera i sessanta milioni di abitanti. Con i turchi che vivono in Asia Centrale si arriva a centoventi, centotrenta milioni. Se si riesce ad abbattere la muraglia cinese e ad unirsi con i turchi che vivono laggiù, arriveremo a trecento milioni". Sotto certi aspetti le critiche che gli vengono mosse sono fondate: lo Hizmat è uno stato parallelo che si infiltra senza chiasso e si insedia nei centri di potere fino a quando lo stato si abbandona supino alla sua presa senza fare resistenza.
L'obiettivo panturanico di Gulen trova piena condivisione da parte di Erdogan. Le differenze, profonde, sono nei metodi. Il presidente turco non avrebbe alcuna remora sulla creazione di una 'umma, di una comunità di credenti, interamente turca e che comprenda tutti i popoli turanici dalla Cina occidentale fino all'Europa orientale. Erdogan è stato zelante nel rivolgersi a tutte le popolazioni turche: nel 2009 ha definito la presenza cinese nello Xinjiang "una sorta di genocidio". Bulent Arinc, cofondatore dello AKP e poi vice Primo Ministro ha detto: "noi abbiamo legami storici molto profondi con i nostri fratelli nel paese degli Uiguri" ed ha affermato che in Turchia esiste una comunità uigura che ammonta a trecentomila persone.
Erdogan si è anche dedicato ad una silenziosa opera di turchizzazione dei Fratelli Musulmani, l'importante movimento islamico arabo; ha fatto opera di convincimento perché adottasse il modo turco di accostarsi alla modernità ed il concetto turco del ruolo che gli islamici devono ricoprire nella società contemporanea. Nelle elezioni presidenziali egiziane, ad esempio, i Fratelli Musulmani hanno basato la propria campagna su una piattaforma unica incentrata sul progresso socioeconomico e sull'economia di mercato liberale piuttosto che sui valori della giustizia e dell'Islam. Tutto su istanza di Erdogan, e sulla base del suo avvertimento che il benestare di Washington avrebbe immunizzato i Fratelli Musulmani da qualunque ritorsione occidentale.
Certo, i motivi della rottura tra Erdogan e Gulen sono svariati, a cominciare dal fatto che i sostenitori di Gulen hanno cercato di capitalizzare lo scontento antigovernativo all'indomani delle proteste in Gezi Park nel 2014 per finire ai dossier su casi di corruzione capaci di portare alla caduta del governo. Erdogan ha dichiarato guerra, ed ha intrapreso l'epurazione dal paese dei sostenitori di Gulen.
Fin qui il terreno dello scontro diretto. Erdogan però ha anche un modello di nuovo ordine islamico molto diverso da quello di Gulen. Ha già messo il cappello sulla corrente principale dei Fratelli Musulmani che già erano sotto la sua influenza e che all'indomani della "Primavera Araba" sembrava fosse in grado di conseguire risultati politici sostanziali in tutto il mondo arabo. Si trattava di una piattaforma politica praticamente già pronta, con milioni di seguaci e l'indispensabile organizzazione sul terreno suddivisa in cellule diffuse in tutto il mondo arabo.
Col susseguirsi degli eventi la principale corrente dell'islamismo arabo di cui i Fratelli Musulmani fanno parte è diventata ogni volta più intransigente e puritana dal punto di vista dottrinale, avvicinandosi al modello salafita. Non voleva più intromissioni di sufi o di personalità alla Gulen. Non sentiva la necessità di "permeare di sé" i centri di potere secondo lo spirito della cemaat. Se la base politica già esistente dei Fratelli Musulmani avesse in qualche modo potuto abbracciare -a livelli diversi e con Erdogan a controllare l'operazione- l'apparato militare dei movimenti jihadisti, agendo separatamente ma in vista dello stesso obiettivo di fondo (la costituzione di uno Stato Islamico), la nuova 'Umma non avrebbe potuto che impadronirsi del mondo islamico.
In Siria Erdogan ha utilizzato in massima parte questo approccio. I turchi si atteggiavano a "moderati" sul piano politico internazionale, mentre sostenevano gli jihadisti sul terreno. Gli jihadisti wahabiti sono stati mandati perché, come bulldozer, spianassero i detriti della vecchia cultura islamica sunnita levantina, e con essi la storica idea di una Siria tollerante; ai "moderati" sarebbe poi spettato il compito di infilarsi nel vuoto lasciato dalle scavatrici jihadiste colmandolo con un Islam intransigente, puritano e salafita, al tempo stesso però "moderno" sotto il punto di vista della finanza, della scienza e dell'affermarsi del progresso in campo sociale, alla maniera di Hamas.
Questo grandioso piano non è approdato a nulla di fatto, né in Siria né in Egitto. Ora, sono tramontate anche le relative ambizioni? Il problema per Putin è proprio questo. Erdogan si atterrà davvero alla sua idea di fare della Turchia una potenza globale neoottomana con una radicata influenza in Europa, nel Caucaso, in Russia, in Asia Centrale e nello Xinjiang? Volterà le spalle alle truppe d'assalto wahabite che stanno spazzando via il vecchio panorama culturale e gli antichi edifici, facendo posto al suo ordine nuovo? Smetterà di addestrare gli jihadisti sul versante nord del Caucaso, gli uiguri, gli uzbeki, gli albanesi? O stiamo forse assistendo soltanto ad una pausa temporanea che è un'espediente?
Le vere intenzioni del presidente Erdogan rischiano di essere messe alla prova molto presto. Il ministro degli esteri Sergej Lavrov ha detto il 22 luglio che
Lo sviluppo delle relazioni tra Russia e Turchia dipenderà dalla loro collaborazione in Siria e dal fatto che la Turchia prenda contromisure contro quanti usano il suo territorio per finanziare i terroristi in Siria... Molto dipenderà da come lavoreremo insieme per la ricomposizione della crisi siriana... Nel corso dei colloqui sulla crisi in Siria abbiamo fornito molte prove del fatto che il territorio turco viene utilizzato per rifornire i terroristi e per far passare combattenti in Siria. Tutte cose che restano sul tavolo.Adesso che abbiamo ristabilito i rapporti diplomatici, sarà difficile ignorare le prove che abbiamo prodotto; speriamo che i nostri interlocutori turchi inizieranno a darci delle risposte e prenderanno le misure necessarie ad impedire che il loro territorio venga utilizzato per alimentare la guerra fratricida in corso in Siria.
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