sabato 30 ottobre 2010

Sette anni di carcere per aver manifestato contro la guerra


La "libera informazione" che sporca quotidianamente l'esistenza di chi vive nel cosiddetto "occidente" non perde occasione per dilungarsi sugli orrori del sistema giudiziario e dell'apparato repressivo della Repubblica Islamica dell'Iran. E se di orrori veri e propri non ne saltano fuori a sufficienza si può sempre inventarne qualcuno.
Abbiamo non il sospetto, ma la certezza che uno dei fini di una simile organizzazione di palinsesti e di agenda settings sia il legittimare a contrario apparati repressivi e sistemi giudiziari "occidentali" capacissimi di altrettanto. Politici e mass media stanno da decenni assecondando con ogni mezzo l'involuzione scimmiesca di un'opinione pubblica tanto esperta in pornografia quanto totalmente priva di senso critico, di competenza e ordinariamente anche di conoscenza dei problemi: la situazione è giunta al punto che si dànno numerosi casi in cui perfino carcerieri e gendarmi esibiscono comportamenti e pareri meno forcaioli del rimanente dei sudditi.
Nella primavera del 2009 l'"onda verde" compiva la sua disastrosa parabola e a Firenze si ristabiliva l'ordine contro qualche decina di ragazzini delle scuole secondarie. Le immagini risalgono a quel periodo.

Vi si vedono due episodi identici. Una è stata scattata nella Repubblica Islamica dell'Iran, l'altra nello stato che occupa la penisola italiana. La differenza sta nel fatto che nello stato che occupa la penisola italiana detta legge una torma di sfaticati con la cravatta capaci di pretendere che la patente di "democrazia" venisse elargita a loro discrezione, previo esame di certificazione a mezzo di bombardamento "chirurgico" o "intelligente" o da "drone", a seconda della moda gazzettiera del giorno.
Detto ancora più chiaramente, per politici e gazzettieri le manifestazioni di contestazione al potere sono lodevoli e degne di appoggio solo quando si svolgono a Tehran.
Nel 2002 un tizio, presentato come "ministro della giustizia" dello stato che occupa la penisola italiana paragonò testualmente le carceri ad "hotel a cinque stelle". Nulla di grave: solo l'ennesima prova di come in quello stato sia ordinaria amministrazione affidare responsabilità fondamentali ad individui cui in contesti meno sovvertiti non si affiderebbe nemmeno la gestione di una latrina. Ad ogni modo la formula fece fortuna sul gazzettaio "occidentalista" che ha a tutt'oggi la spudoratezza di utilizzarla in modo abituale.
A ricordare che di carceri non esiste solo Evin sono le decine di suicidi (o presentati come tali) che si verificano ogni anno negli hotel di lusso della penisola italiana.


Nel 2001 a Genova un graduato della gendarmeria politica, validamente sostenuto da un gruppo di appoggio data la pericolosità della missione, ridusse in questo modo un quindicenne. Lo stato che occupa la penisola italiana ha fatto carte false per lanciarsi nel truogolo del democracy export: affidarne la responsabilità a gente simile fa per lo meno pensare che si stia tentando l'esportazione di merce avariata. Le scene fecero il giro del mondo e ricordiamo benissimo che furono accolte dal giubilo di marmaglia in canottiera incitante l'aggressore a fare del suo peggio, dimostrando che anche sull'utenza di tanta democracy, oltre che sui suoi exporters, ci sarebbe non poco da obiettare. In ogni caso appartenere alla gendarmeria ed esibirsi in mondovisione in comportamenti tanto eroici frutta alla fin fine un anno di detenzione.

Il non appartenere alla gendarmeria ed essere presi a manganellate davanti al consolato amriki di Firenze, invece, di anni di detenzione ne frutta sette.

Altracittà - Giornale della periferia è un quotidiano on line fiorentino immune dalla lebbra a sfondo pornografico e securitario che colpisce l'intero mainstream. Ha pubblicato un appello sulla vicenda che riportiamo per intero, e che invitiamo a sottoscrivere.

Il 5 novembre 2010 comincerà il processo di appello per i fatti avvenuti oltre dieci anni fa, il 13 maggio 1999, nei pressi del consolato statunitense di Firenze. Quel giorno migliaia di persone parteciparono a una manifestazione contro la guerra in Jugoslavia, che si concluse appunto sotto il consolato. Vi fu un breve concitato contatto fra le forze dell'ordine e i manifestanti, per fortuna senza conseguenze troppo gravi, se non alcuni manifestanti contusi, fra cui una ragazza che dovette essere operata ad un occhio.
Nessuno, sul momento, fu fermato o arrestato, ma in seguito vi furono identificazioni e denunce. Si è arrivati così alle condanne di primo grado, molto pesanti per i 13 imputati: ben sette anni, per le accuse di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Nel dibattimento si sono confrontate le tesi - molto divergenti – delle forze dell'ordine e dei manifestanti.
Non intendiamo sindacare le procedure legali, né esprimere giudizi tecnico-giuridici sulla sentenza, ma ci pare che le pene inflitte in primo grado e le loro conseguenze sulla vita delle persone imputate, siano del tutto sproporzionate rispetto alla reale portata dei fatti.
Non vi furono, il 13 maggio 1999, reali pericoli per l'ordine pubblico o per l’incolumità delle persone, e non è giusto - in nessun caso – infliggere pene pesanti, in grado di condizionare e stravolgere l'esistenza di una persona, per episodi minimi: perciò esprimiamo la nostra pubblica preoccupazione in vista del processo d'appello, convinti come siamo che la giustizia non possa mai essere sinonimo di vendetta e nemmeno strumento per mandare messaggi "esemplari" a chicchessia.
Seguiremo il processo e invitiamo la cittadinanza a fare altrettanto, perché questa non è una storia che riguarda solo 13 persone imputate, ma un passaggio significativo per la vita cittadina e per il senso di parole e concetti che ci sono cari, come democrazia, giustizia, equità.

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