Un elicottero viene gettato fuori bordo dalla USS Blue Ridge a largo delle coste del Vietnam nell'aprile 1975.
Un'immagine simbolo della fine dell'impegno statunitense in Vietnam.
Un'immagine simbolo della fine dell'impegno statunitense in Vietnam.
Traduzione da Consortium News, 2 febbraio 2018.
Se lasciamo un attimo da parte l'acredine del Presidente Trump nei confronti di Barack Obama e di tutto il suo operato (con particolare riferimento all'accordo sul nucleare iraniano) e il suo considerevole attaccamento a Benjamin Netanyahu, gran parte di quanto fatto dalla sua amministrazione in politica estera sembra privo di coerenza strategica a chiunque non sia parte in causa: l'aumento del numero di soldati statunitensi in un Afghanistan dove la guerra dura da sedici anni, la realizzazione di uno staterello militarizzato nel nord est della Siria, un piano per dividere il Libano, la collaborazione operativa con l'Arabia Saudita nella guerra in Yemen, e il "togliere di mezzo la questione di Gerusalemme".
Tutte politiche che sembrano concepite all'insegna di una completa indifferenza nei confronti del probabile fallimento e della conseguente umiliazione.
Adesso, uno storico militare che ha prestato servizio con le truppe statunintensi in Iraq ci viene a spiegare, e in modo convincente, che se non troviamo coerente questo insieme di cose è perché non siamo riusciti ad afferrare l'essenza di quello che c'è alla base di queste scelte. In una parola, ci mostra l'elemento che manca: il Vietnam.
"Sempre presente," scrive Danny Sjursen della guerra del Vietnam, "essa aleggia nel passato e plasma il futuro. Una guerra di cinquant'anni fa, una volta indicata come la più lunga della nostra storia, è viva e vegeta, ed esiste un gruppo di ameriKKKani che la sta ancora combattendo: il Comando Supremo. E dopo quasi cinquant'anni la sta ancora perdendo, e sta ancora incolpandone qualcun altro."
Un coinvolgimento durato più di vent'anni, a partire dall'inizio degli anni Cinquanta per finire alla metà dei Settanta, nel cui momento culminante c'erano sul terreno cinquecentomila soldati statunitensi; eppure, al punto debole di base non fu mai posto rimedio. Il governo di Saigon sostenuto dagli USA era semplicemente incapace di stare in piedi senza il sostegno ameriKKKano, e finì per crollare sotto il peso di un'invasione convenzionale nordvietnamita nell'aprile del 1975.
"Il fatto è," scrive Sjursen, "che la maggioranza degli storici... concorda con le grandi linee di questa narrativa; la maggioranza degli ufficiali superiori ameriKKKani invece no. Anzi, loro la guerra del Vietnam la stanno ancora combattendo."
Molti degli alti quadri in servizio hanno iniziato la carriiera quando il prestigio delle forze armate era al suo minimo assoluto. Sono invecchiati credendo che il fallimento in Vietnam fosse dovuto alla codardia dei politici di Washington, o al fatto che il comando supremo era troppo debole per imporre con efficacia la propria autorità. Nessuna delle analisi militari svolte dalla generazione di ufficiali del dopoguerra ha mai affrontato l'interrogativo essenziale, "se la guerra in Vietnam si poteva vincere, se era una guerra necessaria, se era una mossa avveduta" fin dal principio.
Nossignore. Secondo loro la guerra poteva essere vinta, e sarebbe stata vinta se solo la si fosse affrontata nella maniera giusta.
Ecco perché ci troviamo con questa guerra a tempo indeterminato, che è stata appositamente ideata per fornire prova delle due più importanti tesi degli ambienti militari sulle questioni che, se affrontate correttamente in Vietnam invece di essere ignorate, avrebbero portato ad una "vittoria" ameriKKKana.
Questa operazione di revisionismo storico è iniziata nel 1986 con uno scritto di David Petraeus sulla rivista militare Parameters. Petraeus sosteneva che l'esercito degli Stati Uniti non era preparato per combattere in conflitti a bassa intensità come quello vietnamita, e che "non era qualche Vietnam in meno quello di cui il paese aveva bisogno, ma di combatterli meglio. La prossima volta", era la sua fatalistica conclusione, l'esercito dovrebbe impegnarsi molto di più nell'organizzazione di forze antiguerriglia e nell'adottare quegli equipaggiamenti, quelle tattiche e quelle dottrine che consentono di vincere conflitti del genere."
Fu un certo colonnello Harry Summers a inaugurare un filone di analisi militari orientate in senso clausewitziano, con alla base ipotesi di ampia portata, sul come "vincere" nella prossima occasione. A suo dire "sono stati i responsabili civili della linea politica a perdere la guerra, perché si sono concentrati senza speranza sull'insurrezione nel Vietnam del Sud invece di pensare alla capitale del Nord, Hanoi; più soldati, più aggressività, anche l'invasione vera e propria dei santuari comunisti in Laos, in Cambogia e nel Vietnam del Nord avrebbero portato alla vittoria."
H. R. McMaster (attualmente Consigliere per la Sicurezza Nazionale) in Dereliction of Duty uscito nel 1997 additava invece come responsabile lo Stato Maggiore Congiunto, che avrebbe mancato di onestà nel consigliare il Presidente Johnson in merito a quanto era necessario per "vincere", ed era d'accordo con Summers sul fatto che la "vittoria" richiedeva una strategia offensiva più decisa: un'invasione a tuttto campo del Vietnam del Nord, oppure un suo incessante bombardamento a tappeto.
In questo senso anch'egli era un clausewitziano di quelli propensi a fare le cose in grande, e possiamo identificare qualche elemento di questa prima forma mentis nel tentativo che McMaster ha fatto, ad aprile 2017, di convincere il Presidente Trump a dislocare in Afghanistan centocinquantamila soldati, per una impennata nello stile di Petraeus. Si ricorderà anche che McMaster pare sia sostenitore di un approccio più aggressivo -con il ricorso alle armi- nei confronti della Corea del Nord.
L'altro argomento, quello della mancanza in Vietnam di un atteggiamento centrato sull'antiguerriglia, è stato dapprincipio adottato dal colonnello Krepinevich come la spiegazione complessiva del fallimento dei militari statunitensi in Vietnam. La dottrina antiguerriglia definitiva, il Field Service Manual 3-24 - Operazioni Antiguerriglia, ha comunque la supervisione di David Petraeus, che vi ha lavorato con un altro funzionario, il luogotenente generale James Mattis attualmente Segretario alla Difesa.
Petraeus sarebbe "risaputamente tornato in Iraq nel 2007," nota Engelhardt, "con quel manuale in mano e cinque brigate, ventimilia soldati statunitensi, per quello che sarebbe stato chiamato l'impennata o la nuova marcia in avanti; un tentativo di salvare l'amministrazione Bush da un'occupazione condotta in modo disastroso."
"Queste interpretazioni revisioniste dell'esperienza in Vietnam avrebbero portato in Iraq e in Afghanistan a conseguenze tragiche, una volta percolate lungo l'intera scala gerarchica del corpo ufficiali," pensa Sjursen. "Tutti questi ricordi errati, tutte queste presunte lezioni tratte dall'esperienza vietnamita permeano oggi di sé l'approccio statunitense alle guerre in Medio Oriente e in Africa, fatto di "impennate" e di "consigli ed assistenza".
Entrambe le scuole di pensiero di orientamento revisionista sul conto del Vietnam sono rappresentate nell'amministrazione Trump, e dirigono la sua versione di strategia globale. Ci sono quelli che vogliono mano più libera nel fare la guerra di quanta ne abbiano avuta in Vietnam, ed esiste anche una compagine impegnata anima e cuore, formata da funzionari che hanno attraversato i mandati di tre presidenti effettuando missioni influenzate da un approccio antiguerriglia in più di due terzi dei paesi del mondo. "I leader di oggi neppure si curano di fingere che le guerre successive all'Undici Settembre avranno mai fine," nota Sjursen.
In un'intervista del giugno 2017 Petraeus ha descritto il conflitto Afghano usando il vocabolo "generazionale", levando così lo spettro di un impegno lungo decenni. Al News Hour della PBS, Petraeus ha detto:
"Ma questa [guerra in Afghanistan] è una lotta generazionale. Non è di quelle che si vince nel giro di qualche anno. Non è che conquisteremo una cima, pianteremo una bandiera [e] torneremo a casa a fare la sfilata della vittoria. Abbiamo bisogno di rimanere sul posto per un lungo periodo, ma di farlo, anche questo, in maniera sostenibile. Siamo rimasti in Corea per più di sessantacinque anni perché per questo esiste un interesse nazionale importante. Siamo rimasti per molto tempo in Europa e ci siamo ancora, certamente; ci siamo con ancora più convinzione, date le iniziative aggressive della Russia. Sono convinto che sia questo il modo con cui dobbiamo affrontare la questione."
L'analisi di Sjursen aiuta a spiegare quelle che altrimenti parrebbero azioni sconsiderate da parte dell'appparato militare statunitense, per esempio l'occupazione sul campo -ovvero illegale- di un angolo della Siria... grande quanto il quaranta per cento del paese. Sembrerebbe che la guerra con la Russia e con l'Iran sia a tempo indeterminato anch'essa, una guerra destinata a durare per generazioni. Lo stesso vale per quella con la Cina, ma quello è un fronte sostanzialmente finanziario.
Nel maggio 2016 McMaster disse al Center for Strategic and International Studies: "Per indurre deterrenza in un paese forte... occorre giocare d'anticipo, occorre essere in grado di prospettare un alto prezzo per chi non si adegua, e assumere nei confronti della cosa un atteggiamento coerente con una deterrenza basata sulla negazione, infondendo nel nemico la convinzione che non ci sia modo di arrivare ai propri obiettivi a costi ragionevoli."
Forse, l'annessione da parte dell'AmeriKKKa del nord est della Siria serve proprio a questo: a prospettare un prezzo alto, a una deterrenza fondata sulla negazione del suolo siriano alle forze della Repubblica Islamica dell'Iran.
All'Europa potrebbe piacere qualche riflessione su quanto detto da McMaster. Perché se gli USA sono coinvolti nei confronti dell'Iran in operazioni in cui ha parte l'antiguerriglia e di cui si prospetta una durata "generazionale", gli europei stanno combattendo la guerra sbagliata: cercando di compiacere Trump mettendo in piedi un gruppo di lavoro con gli ameriKKKani per vedere come migliorare gli accordi sul nucleare, o affrontare colloqui sui missili balistici con l'Iran, probabilmente non porterà a nulla; rientrerà semplicemente in quello che McMaster ha descritto come la necessità, per gli USA, di operare con efficacia sul "campo di battaglia della percezione e dell'informazione".
Insomma, gli europei saranno collusi alle operazioni antiguerriglia che gli USA metteranno a segno contro l'Iran.
Quello che è meno chiaro, su quello che sta accadendo nella politica estera statunitense, è questo: durante l'iniziativa del 2016 McMaster disse che l'"invasione" russa dell'Ucraina e l'"annessione" della Crimea avevano messo la parola fine al periodo del dopo guerra fredda, ma che non si trattava di nuovi sviluppi "per quanto riguarda l'aggressività dei russi."
"Ovviamente quella che la Russia sta impiegando è una strategia sofisticata, e stiamo preparando a questo riguardo una ricerca con vari collaboratori; è una strategia che si avvale delle forze convenzionali come copertura per azioni non convenzionali, ma è anche una campagna molto più sofisticata che contempla l'utilizzo della delinquenza e del crimine organizzato e la concreta operazione sul campo della percezione e dell'informazione, specialmente come parte di un più ampio sforzo di diffondere il dubbio e le teorie cospirative in seno alla nostra alleanza," ha specificato McMaster.
"Questo impegno," ha proseguito, "non ha in realtà scopi difensivi, ma scopi offensivi; far collassare la sicurezza, l'ordine economico e politico in Europa come sono emersi dalla seconda guerra mondiale e sicuramente dal dopo guerra fredda, per sostituirli con qualcosa di più in linea con gli interessi russi."
Francamente, qui siamo a livelli di psicosi. Viene in mente I demoni di Fëdor Dostoevskij, in cui dei rivoluzionari preoccupati per l'anima della Russia (ovvero dell'AmeriKKKa) si convincono che se le minacce verso di essa non verranno sconfitte da una vigorosa ripresa di uno schietto nazionalismo, sarebbe finita col soccombere. L'opera è uno studio sulla frammentazione della psiche umana che porta un gruppo a considerare che il mondo intero cospiri contro di esso, per distruggere quello che esso ritiene la vera anima della propria patria.
Nella visione di McMaster l'AmeriKKKa rappresenta la psiche fragile e minacciata, sotto un malvagio attacco che arriva da ogni parte. Pare non esservi alcuna comprensione del fatto che questi timori potrebbero in larga parte non essere altro che proiezioni della propria stessa psiche, come nell'analisi di Dostoevskij, o del fatto che le iniziative militari ameriKKKane potrebbero non aver fatto altro che alimentare proprio gli antagonismi che McMaster identifica adesso come minacciosi per sé e per il suo paese, o del fatto che la dissoluzione dell'ordine mondiale plasmato dall'AmeriKKKa o del dominio ameriKKKano sul sistema finanziario mondiale possono non essere altro che la rappresentazione del mutamento di grandi dinamiche sottostanti che sussistono in quanto tali e non hanno connessione diretta con la Russia.
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