sabato 26 settembre 2015

Se la NATO si intromette nel conflitto siriano



Traduzione da Conflicts Forum.

Lawrence Wilkerson è stato direttore del Dipartimento di Stato sotto Colin Powell. Nella sua presentazione in The travails of Empire parla di come gli USA si siano attivamente adoperati perché la situazione in Medio Oriente rimanesse invariata fin dai tempi dell'incontro di Roosevelt con re Abdul Aziz nel 1945, avvenuto su una nave da guerra nei Laghi Amari di Suez. Il primo caso pratico di applicazione di questa dottrina fu il rovesciamento del governo di Mossadeq in Iran, attuato assieme ai britannici. "All'epoca, il 40% della valuta forte di cui poteva disporre il Regno Unito veniva dal petrolio angloiraniano [che Mossadeq minacciava di nazionalizzare]. Fu insediato lo Shah, e la situazione rimase la stessa per i successivi ventisei anni", spiega Wilkerson.
Poi esclama: "Ma ecco che -bum!- gli iraniani si stancarono". Sicché, dopo il 1979, "abbiamo ristabilito la situazione mettendo gli arabi contro i persiani: Baghdad e Tehran divennero nemici irriducibili, e così abbiamo mantenuto l'equilibrio". Wilkinson racconta che così stavano le cose quando egli fece il suo ingresso sulla scena: il sentire predominante, all'epoca da lui condiviso, era che l'AmeriKKKa avrebbe dovuto lasciare che i due contendenti si ammazzassero tra loro. "Abbiamo fatto il doppio gioco [nella guerra tra Iran e Iraq]". Quando sembrò che l'Iran potesse vincere, l'AmeriKKKa decise di schierarsi con l'Iraq. In seguito, quando fummo costretti a spodestare Saddam Hussein, l'equilibrio che avevamo costruito "se ne andò a quel paese". Così, dice, "alla fine siamo giunti alla conclusione che [per gli USA] rimanere in Medio Oriente è pericoloso perché può contribuire ad unire molti elementi eterogenei in una sola opposizione contro di noi: per questo ce ne siamo tirati fuori".
Cosa c'entra tutto questo con la Siria? Lasciare che arabi e persiani dessero sfogo al loro odio viscerale armando gli uni contro gli altri fu una decisione che provocò disastri e caos, non certo un "equilibrio di poteri facile da gestire". A tutt'oggi, come spesso succede, la lezione della storia pare sia stata velocemente dimenticata e la solita idea di agevolare un "equilibrio" tra fazioni in lotta tra loro ed in ugual misura disprezzate dall'Occidente -Saddam contro Khomeini, per dire- è ancora difficile da sopire.
I leader europei di oggi, in Francia e nel Regno Unito in modo particolare, considerano parimenti cattivi il Presidente Assad e le sue bombe artigianali ed uno Stato Islamico con la propensione all'assassinio facendo pensare che nessuno dei due debba prevalere. Più o meno lo stesso spirito che dominava a Washington ai tempi del conflitto tra Iran ed Iraq: secondo Wilkerson era un po' una cosa del tipo che quando l'ultimo iracheno e l'ultimo iraniano si sarebbero trovati faccia a faccia "noi statunitensi gli avremmo dato due pistole da duello".
Ad essere sinceri Wilkerson oggi deplora il fatto di aver in passato assunto questo atteggiamento, ed in alcune interviste successive ne dà la colpa all'essersi lasciato andare all'atteggiamento occidentale improntato all'orientalismo. In ogni caso esiste nella politica europea un nuovo orientalismo a tutt'oggi presente ed in crescita, rafforzato ogni giorno dal massiccio afflusso di rifugiati che raggiunge l'Europa. In ogni caso esistono anche altre correnti di pensiero che invitano a riconsiderare il tutto, e sembra possibile che siano destinate a prevalere: si consideri il recente cambiamento di rotta dell'Unione Europea, che ha accettato che il Presidente Assad rimanga in carica nel corso di un'ipotetica "transizione".
Crispin Blunt presiede la commissione di lavoro sugli affari esteri nel parlamento britannico; è tra quelli che specificano come "nessuna presa di posizione nei confronti dello Stato Islamico può dirsi compiuta senza una coerente politica nei confronti del governo di Damasco, e di un accordo in Siria". Secondo Blunt "prima di partire con iniziative diplomatiche multilaterali il parlamento britannico ed il governo devono trovare il coraggio di discutere apertamente del futuro di Bashar al Assad. Pretenderne la cacciata senza alcun riguardo per la complessità della situazione non è il miglior modo di mandare avanti la politica estera. E' ora di ammettere che tra le nostre priorità e tra i nostri valori c'è la tutela delle condizioni di sicurezza per gli esseri umani cui si deve giungere con una soluzione politica che metta fine alle violenze, anche se questo può portare, sul piano morale, a dilemmi difficili da risolvere".
Nonostante tutto questo pare che la politica europea si stia muovendo con pochissima decisione, forse ancor più degli Stati Uniti, su quella Siria che è la più essenziale delle questioni geostrategiche. Dal punto di vista emotivo la politica europea si trova sotto il fuoco incrociato delle immagini dei profughi in ingresso da una parte e di quelle delle umane sofferenze dall'altra; i politici europei non hanno risposte per la crisi dei profughi e la politica brancola nell'incertezza, presa in mezzo tra le immagini dei profughi e quelle degli orrori e del carnaio in atto in Siria ed in Iraq.
Per rimanere sul concreto, è sufficiente paragonare le parole di Blunt con il discorso pronunciato da Cameron in parlamento il 2 settembre scorso: "Assad deve lasciare, lo Stato Islamico deve sparire, e in una certa misura questo richiedera non solo denaro, aiuti e diplomazia, ma all'occorrenza anche un duro impiego della forza militare". Questo ha detto il Primo Ministro. E' chiaro che le parole di Cameron non fanno riferimento ad una strategia coerente, ma forse l'Europa ha almeno cominciato a muoversi invece di rimanere impantanata, come gli USA ai tempi della guerra tra Iran e Iraq, in una fallimentare politica che puntava ad arginare entrambi i contendenti. Sicuramente, l'afflusso di profughi in Europa ha a suo modo contribuito, e forse questo era nelle intenzioni dei suoi promotori: ma questo contributo andrà a migliorare le cose o a peggiorarle?
Certi funzionari in Turchia starebbero facilitando l'uscita dei profughi siriani dai campi nella Turchia meridionale, nella speranza che in Europa si finisca per propendere per la cacciata del Presidente Assad come insinuato da Cameron: ad agosto il fenomeno ha avuto un picco senza precedenti ed altrimenti inspiegabile se non fosse per il fatto che la fine di Assad è il loro obiettivo fin da quando è cominciato il conflitto. Tuttavia, pare che in linea di massima si stia andando in tutt'altra direzione, dando ragione ai realisti che pensano che il governo siriano sia un alleato necessario in qualsiasi guerra contro lo jihadismo militante.
Il Regno Unito e la Francia stanno pensando ad attacchi aerei "contro lo Stato Islamico" dall'Iraq (dal sud del paese, più che dal nord) che di fatto trasformeranno la maggior parte della Siria in una no-fly zone. Anche questo ad Erdogan potrà far piacere, ma sicuramente non ne farà al Presidente Putin.
La scorsa settimana abbiamo accennato a quanto già successo in Libia, dove una no-fly zone stabilita dalla NATO in base ad una risoluzione dell'ONU venne utilizzata in modo distorto -secondo il punto di vista dei russi- perché facesse da sostegno agli insorti anti Gheddafi e per fornir loro appoggio aereo per mesi e mesi, finché la Libia non ne è uscita in pezzi.
Fin dall'inizio del conflitto in Siria i russi hanno detto che non avrebbero tollerato una riedizione del precedente libico. A partire dal 2013 i funzionari russi hanno rilasciato molte dichiarazioni in cui avanzavano obiezioni formali nei confronti di qualsiasi no-fly zone in Siria. Alcune dichiarazioni del Presidente Putin, redatte in termini perentori, non hanno lasciato dubbi sul fatto che i russi fossero propensi ad opporsi attivamente ad un simile sviluppo. Di qui la decisione dei russi di intervenire in Siria con una limitata presenza militare, per impedire agli occidentali di mettere in Siria un piede nella porta da usare per fornire appoggio ravvicinato alle proprie fazioni di riferimento, e che avrebbe finito per provocare il crollo dello stato siriano.  
Da ex funzionario dei servizi militari statunitensi, Pat Lang afferma:
Le mie fonti mi dicono che le schermaglie intrinseche all'amministrazione Obama sono alla base di quella che a mio parere è una decisione scriteriata, vale a dire opporsi all'intervento militare russo nella guerra civile in atto in Siria.
I dilettanti all'opera alla Casa Bianca, al National Security Council e al Dipartimento di Stato continuano a non capire che la colliquazione dello stato siriano porterà inevitabilmente alla creazione di un organismo statale dominato dagli jihadisti, là dove oggi c'è la Siria. Non è chiaro se questo stato sarà controllato da an Nusra o dallo Stato Islamico, ma è chiaro che in un caso o nell'altro si determinerà una situazione infetta, che sarà l'inizio della fine per qualunque governo moderato in Medio Oriente. Il trionfo dello jihadismo salafita sarebbe un esempio capace di agire come una potente leva sul capitale umano disponibile per il reclutamento e per la sovversione, e a mio parere nessun governo sarebbe in grado di opporsi ad un fenomeno del genere.
Per prevenire tutto questo i russi sembra abbiano intenzione di rafforzare il governo siriano: gli Stati Uniti stanno facendo tutto quello che possono per metter loro i bastoni tra le ruote. Gli USA hanno fatto pressione su vari governi per indurli a negare i permessi di sorvolo agli aerei cargo russi diretti in Siria. Hanno anche cercato il modo di far sì che le navi russe si vedessero negato il passaggio dal Bosforo e dai Dardanelli. Cosa diavolo stiamo pensando di fare?
Secondo noi di Conflicts Forum questo indica che sta tornando fuori l'altra vecchia storia dell'equilibrio dei poteri: col crescere della presenza aerea di Regno Unito, Francia, Turchia e Stati Uniti il contesto somiglierà sempre di più a quello della NATO in Libia. Il Presidente degli Stati Uniti sta fiaccamente collaborando in qualche misura con i russi, ma quest'altro circuito dell'equilibrio dei poteri, sempre al suo posto dai tempi della guerra fredda, sta ricevendo scariche elettriche: la NATO contro Putin. Ogni mossa russa, come nei riflessi pavloviani, deve suscitare una reazione con buona pace delle volte che si è fin lì seriamente posta attenzione agli interessi geostrategici dell'Occidente.
Il fatto che la cosa sia in mano alla NATO e non segua invece una fredda definizione di come stanno le cose sul terreno in Medio Oriente risulta chiaro da quello che succede in Bulgaria. Nello stesso momento in cui il governo bulgaro sta cercando di convincere la Russia che si può anche rivedere tutta la questione del gasdotto South Stream, arriva la NATO a fare pressioni perché ai russi siano negati i sorvoli, costringendo i bulgari a rimetterci. Lo stesso vale per la Grecia e per l'Ucraina.
Il pericolo di una stolta intromissione della NATO nel conflitto siriano è appunto questo, il mettere Russia e Stati Uniti semplicemente uno contro l'altro, invece che considerarli come stati che hanno anche vari motivi di attrito, ma che sono d'accordo sul fatto che si debba trovare una soluzione al conflitto. A trarre beneficio da un risultato del genere saranno solo gli jihadisti, o comunque gente di quel genere.

Post scriptum. Nel caso qualcuno pensi che an Nusra potrebbe dopotutto rappresentare l'alternativa più accettabile, chissà che questo resoconto dello statunitense Institute for the Study of War non possa chiarirgli le idee.
An Nusra [Al Qaeda] si comporta in modo più sottile ed insidioso dello Stato Islamico, ed è più difficile da arginare o da sconfiggere. Lo Stato Islamico intende stabilire un controllo diretto, aperto e gerarchico; an Nusra invece mantiene una forza militare di élite in grado di conquistare alleati tra le opposizioni armate, e di garantire per strutture governative tagliate a misura per i contesti locali in aree del paese prive di governo. An Nusra ha tratto vantaggi dalla mancanza di un efficace intervento occidentale in Siria, e ne ha tratti ancora di più dalla radicalizzazione dell'opposizione siriana dopo il settembre del 2013, quando la decisione degli USA di non intervenire in Siria demoralizzò vasti settori dell'opposizione. An Nusra può contare su un afflusso di combattenti stranieri e contribuisce ai contingenti dell'opposizione con la competenza che le sue forze speciali hanno nella guerra asimmetrica, assicurando consistenti vittorie alle campagne dei ribelli per mezzo del proprio contributo allo sforzo militare inteso nel suo senso più ampio... [questo] ha fatto crescere l'importanza relativa del contributo di an Nusra al conflitto: con la sua campagna militare an Nusra ha acquisito un notevole ascendente sugli altri gruppi ribelli. Alla fine del 2014 l'ascesa dello Stato Islamico ha provocato un mutamento nell'ambiente in cui si combatte ed ha costretto an Nusra a notevoli cambiamenti del proprio schieramento nel paese. E' possibile che col tempo questi cambiamenti facciano sentire le loro conseguenze sulla rete di ribelli dell'organizzazione. Comunque, l'essere riuscita ad estendere la propria influenza sulle formazioni ribelli ha impedito ad an Nusra di perdere il sostegno popolare nel breve termine, nonostante il suo atteggiamento sempre più aggressivo. Non è dunque probabile che la posizione di an Nusra tra le formazioni ribelli potrà indebolirsi senza ulteriori pressioni esterne.

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