martedì 19 febbraio 2019

Alastair Crooke - La guerra di Trump contro la Cina per rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa. Conseguenze tragiche e impreviste.



Traduzione da Strategic Culture, 18 febbraio 2019.


Una storia come questa dovrebbe suonare familiare. Una grande potenza imbattibile sul piano militare e su quello del progresso tecnologico esporta in tutto il mondo il suo modello economico basato sul libero mercato. Le frontiere crollano, le distanze si restringono e il mondo sembra diventare più piccolo. A quel punto però si afferma un'altra potenza la cui politica di dominio si basa su un sistema fondato sul nazionalismo economico e su una politica industriale [a direzione statale]. Quest'ultima prospera, la prima ristagna, e questo provoca un conflitto che non porta soltanto allo scontro armato, ma a un declino del commercio mondiale e dei valori dei titoli lungo dieci anni. Il mio riferimento è, chiaramente, al primo periodo di globalizzazione che ha interessato la Gran Bretagna e la Germania, che finì con la prima guerra mondiale e con la grande depressione. Fu un periodo di boom che durò quasi ottant'anni, nel corso dei quali i volumi del traffico commerciale e dei titoli raddoppiarono quasi. Eppure, per dirlo con le parole usate dalla Banca dei Regolamenti Internazionali nella relazione annuale del 2017, "il crollo della prima ondata globalizzatrice ebbe conseguenze notevoli almeno quanto la sua costruzione" ed ebbe come risultato "il quasi completo scompaginamento" dei traffici internazionali e dei flussi finanziari.
Così scrive sul Financial Times Rana Foroohar, aggiungendo che "I mercati non si accorsero del rovescio imminente. A rischio di sembrare una Cassandra, mi chiedo se oggi gli stessi mercati non siano altrettanto disattenti nei confronti di quanto sta succedendo fra Stati Uniti e Cina. Il conflitto che esiste fra queste due grandi potenze presenta ovviamente delle similitudini col caso precedente non soltanto in termini di opposizione tra modelli economici e di crescente nazionalismo, ma anche nella durata temporale della fase di crescita che precede il crollo." Una buona osservazione.
Certo, la determinazione di cui oggi gli Stati Uniti danno prova nel ridimensionare la Cina si manifesta per lo più in una sorta di "tranquilla divisione" della sfera globale in uno spazio economico statunitense e in uno russo-cinese da separare e ostracizzare. A questa si accompagna una stretta radicale nel settore tecnologico e in un'ampia sfera industriale di interesse per la sicurezza nazionale; su questo vigilano l'egemonia del dollaro, dell'energia, e sul piano militare.
Potremmo chiamarla anche deglobalizzazione, ma ormai c'è anche dell'altro: è quasi un processo di abbandono di un qualche cosa che fino a oggi è stato omogeneo nel contesto di una complessa struttura a rizoma. L'isolamento da un sistema le cui radici -economiche e politiche- sono intrecciate e annodate tra loro. Qualsiasi cosa si pensa della globalizzazione, sia essa buona o cattiva, la guerra che Trump ha intrapreso contro la Cina per rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa comporterà probabilmente degli strascichi indesiderati che potranno senz'altro sfociare in disordini e tragedie come quelli del secolo scorso.
Non si tratta di supporre che l'attrito fra Stati Uniti e Cina finirà così come sono finite le ostilità fra Gran Bretagna e Germania. E neppure di constatare il fatto che un lungo periodo di sviluppo del commercio mondiale sembra destinato a finire bruscamente ("Le frontiere crollano, le distanze si restringono e il mondo sembra diventare più piccolo"). Questo può senz'altro succedere; ma il fatto che le conseguenze ampiamente distruttive sul piano economico descritte nell'articolo del Financial Times sono emerse da una concatenazione di eventi piuttosto chiara: nel primo caso la Gran Bretagna era decisa a fermare l'ascesa di una Germania potente, in primo luogo costringendola in una fitta rete di alleanze ostili, e quindi stroncandola usando di concerto la forza militare britannica, russa e degli Stati Uniti. Nel caso odierno gli Stati Uniti sono assolutamente decisi a ridimensionare la Cina innanzitutto sottoponendola a un boicottaggio tecnologico e nel settore della proprietà intellettuale, e poi riarmandosi massicciamente.
Possiamo ricordare che molta parte della disastrosa situazione dell'economia tedesca dopo la prima guerra mondiale derivò dalla messa in circolazione di moneta per finanziare la corsa agli armamenti in vista della seconda.
Il Segretario di Stato Mike Pompeo nel corso del suo recente viaggio in Europa è andato vicino all'imporre agli europei un ultimatum: "se ricorrete nelle vostre infrastrutture statali a sistemi per il 5G fabbricati in Cina non potrete affiancarvi alcun sistema prodotto in AmeriKKKa". O con noi contro di loro, o con loro contro di noi. Il riconsiderato monitoraggio degli investimenti stranieri negli Stati Uniti e la normativa per il controllo delle esportazioni, specie per quanto riguarda le "tecnologie all'avanguardia e fondamentali" finirà con l'interrompere legami di importanza significativa tra gli Stati Uniti e la Cina.
Si cerca di fare pressione sull'Europa perché in questa guerra fredda economica contro la Russia e contro la Cina essa si schieri dalla parte degli Stati Uniti. E per costringere l'Europa a schierarsi gli Stati Uniti sono pronti a dividere l'Unione Europea, arruolando i paesi dell'est nella loro polarizzazione contro la Russia e contro la Cina.
Ian Bremmer e Cliff Kupchan di Eurasia Group pensano che le prime conseguenze di questa nuova polarizzazione ostile si sentano già:
I dazi stanno già costringendo le imprese statunitensi a spostare fuori dalla Cina parte delle loro catene di rifornimento, spostandosi nel sud-est asiatico, in America Latina e in qualche caso riportandole negli Stati Uniti. Il processo di separazione diventerà più veloce man mano che le pressioni politiche finanziarie devieranno parti più consistenti della produzione statunitense, compresi quelli assemblaggi finali potenzialmente complessi verso mercati politicamente più sicuri.
Stati Uniti e Cina si stanno dividendo. Cosa altrettanto importante, gli sforzi degli Stati Uniti per tenere sotto controllo gli studenti e i lavoratori cinesi nel settore scientifico e tecnologico e per limitare la durata o respingere le domande in materia di visti ridurranno l'afflusso di talenti creativi alla volta degli Stati Uniti. Verosimilmente questo limiterà il ritorno in Cina di ingegneri e imprenditori che hanno fatto esperienza negli Stati Uniti. Questa tendenza interromperà l'afflusso di talenti innovativi con contraccolpi mai visti per settori chiave della produzione tecnologica.
Bisogna inoltre considerare i contraccolpi. In tutto il mondo si stanno ponendo regolamentazioni al mondo digitale perché i governi -che devono affrontare un'ondata di preoccupazione da parte del pubblico in materia di privacy e sono inoltre preoccupati per le campagne di influenza ordite dall'estero avvalendosi dei social media- hanno iniziato ad affibbiare tasse ai giganti del settore e a restringere alle frontiere il flusso di informazioni sensibili. Il Brasile, l'India e anche la California hanno addotto passo o stanno pensando di adottare leggi che ricalcano e in certi casi superano le severe normative europee in materia di protezione dei dati.
Il fatto che le catene di rifornimento statunitensi e cinesi nonché la cooperazione tecnologica fra i due paesi continueranno a frammentarsi e a dividersi secondo le due sfere di influenza, processo che continuerà anche se dovesse venire meno la minaccia dei dazi statunitensi. I dazi non sono altro che un aspetto della campagna statunitense volta in fin dei conti a bloccare la supremazia cinese.
Questa guerra, che fino a questo momento è rimasta nell'ambito dell'economia, ormai viene considerata nei termini della sicurezza nazionale ameriKKKana. E la storia insegna che quando sono gli interessi in materia di sicurezza nazionale a dominare, il settore economico ne viene consumato in misura sempre maggiore fino a quando non interviene direttamente il governo a incrementarne ulteriormente il controllo. Un divorzio tecnologico confuso e contestato provocherà problemi alle imprese del settore; farà salire i costi perché imporrà il reperimento e la costruzione di linee di rifornimento alternative, e per entrare a regime avrà bisogno di una crescente e ingombrante sorveglianza normativa, di sicurezza e di rispetto della privacy.
La cosa potrebbe essere ancora controllabile se la guerra si limitasse al settore tecnologico, ma non sarà così. L'obiettivo di Trump è proprio quello di costringere le imprese statunitensi ad abbandonare la Cina e a minare le prospettive economiche di quel paese. Gli Stati Uniti continueranno a usare le barriere doganali, le restrizioni agli investimenti, gli ostacoli all'esportazione, le sanzioni finanziarie e il ricorso alla giustizia penale per raggiungere i propri obiettivi. La guerra si allargherà anche ai settori dell'energia e dell'informazione. Lo ha già fatto. Si ricordi che da principio la Gran Bretagna cercò di indebolire la Germania economicamente, bloccando il transito delle derrate alimentari attraverso il Mare del Nord. Gli Stati Uniti sostennero questo blocco.
Forse la preoccupazione che più probabilmente scaturirà dal passato sarà costituita dall'insistenza di Trump nel perseguire un riarmo a tutto campo. Trump ha promesso di spendere e spandere e di surclassare tutti gli avversari schierando nuovi sistemi d'arma e sta impegnandosi per liberare gli Stati Uniti da ogni genere di limitazione che gli derivi dai precedenti trattati di non proliferazione.
A questo proposito appena una settimana fa è successo qualcosa di molto importante. Come scrive Gillian Tett del Financial Times, "Beth Hammack, una bancaria esperta della Goldman Sachs che presiede un gruppo di consiglieri del governo statunitense noto come Treasury Bond Advisory Committee, ha spedito al segretario del Tesoro Steven Mnuchin una lettera che è una bomba." E prosegue: "Secondo i calcoli del suddetto Committee l'AmeriKKKa avrà bisogno di vendere la sbalorditiva quantità di dodicimila miliardi di buoni del tesoro nel prossimo decennio." Una cosa che, spiega la Hammack, "rappresenterà per il Tesoro una sfida mai vista prima, anche senza prendere in considerazione l'eventualità di una recessione." In parole povere, prosegue Tett, "i luminari di Wall Street al comitato si chiedevano forse chi diavolo, quale attore finanziario si sarebbe comprato questa montagna di buoni del Tesoro?"
Tanto per essere chiari, tali saranno le necessità di denaro degli USA ancora prima che Trump apra bocca in merito al suo vasto programma di aggiornamento dei sistemi d'arma statunitensi. Lo Advisory Committee ha detto anche che normalmente nei periodi di recessione il deficit sale del 2-5% rispetto al PIL, cosa che agli attuali livelli del PIL si tradurrebbe in un deficit aggiuntivo di cinquecento o mille miliardi di dollari, e che "il denaro necessario [avrebbe dovuto essere per intero] finanziato nel contesto di un'esposizione debitoria globale del dollaro già alta per conto proprio".
Nel caso il messaggio non fosse di per sé abbastanza serio, Tett aggiunge che "questa settimana uno degli hedge fund più grandi d'AmeriKKKa è arrivato in proprio a concludere che in capo a cinque anni il Tesoro avrà bisogno di vendere buoni per un importo equivalente al 25% del PIL (rispetto al 15% di oggi). Un fatto simile si è verificato solo due volte negli ultimi 120 anni: la prima durante la seconda guerra mondiale, la seconda durante la crisi finanziaria del 2008. Nel primo caso il governo statunitense costrinse i risparmiatori privati ad acquistare debito per mezzo di una campagna di propaganda patriottica e tramite il controllo finanziario. La seconda volta ha fatto ricorso al bilancio della banca centrale tramite il quantitative easing, ovvero stampando denaro."
"Date le dimensioni dell'economia statunitense e dei mercati... ci vorrà un trasferimento di circa il 6% di tutti i valori azionari mondiali" per assorbire il debito, dicono quelli dello hedge fund... "cosa succederà se gli investitori non vorranno saperne?"
Un rilievo importante. Ma Trump si è impadronito dello stendardo del riarmo con il piglio nazionalista di chi vuole rendere di nuovo grande l'AmeriKKKa. E ormai non passa giorno senza che il Congresso non si senta descrivere la Cina come "la più grande minaccia strategica a lungo termine" per gli USA. Il complesso militare industriale, il Congresso e gli ambienti governativi sono risoluti ad affrontare il difficile compito. Su tutti e cinquanta gli stati dell'Unione pioveranno i dollari della politica, di questo si può stare tranquilli, e al Congresso tutti hanno già fatto la bocca a questa allettante prospettiva. Non ci sarà modo di tornare indietro del tutto.
Ora, tornando alle cifre sbalorditive di cui parla il Committee, essa va considerata in un contesto in cui la quota del dollaro come valuta di riserva è passata dal 70% del 1999 al 63% alla fine del 2017 e in cui il commercio mondiale, come quota del PIL mondiale, pare aver segnato un picco.
La Cina oggi ha una bilancia commerciale in pari.
Esattamente. Ad agosto si è verificato un evento storico. Per la prima volta nella sua storia moderna la bilancia commerciale cinese per i primi sei mesi dell'anno è andata in deficit. Per essere ancora più chiari, niente surplus commerciale vuol dire niente finanziamenti cinesi per il debito statunitense. Dalla Cina già da un po' non arriva niente.
Riassumendo, per motivi psicologici e politici gli USA non possono rimangiarsi la parola sull'ammodernamento dei sistemi d'arma, e non lo faranno. "Spendere e rinnovare" tutto quanto, anche se alla fine qualcosa rimarrà per forza escluso dall'operazione. Questa minaccia è stata agitata per troppo tempo, e il dado è tratto. Solo che nessuno dall'estero acquista debito statunitense, e da settant'anni il deficit ameriKKKano trovava finanziatori in questo modo. E il Tesoro deve vendere carta pari al venticinque o al trenta per cento del PIL statunitense, magari in mezzo a una di quelle recessioni che fanno automaticamente salire la spesa pubblica.
Lo spazio di manovra fiscale degli Stati Uniti non verrà semplicemente meno: verrà sopraffatto. Le nuove leve dei Democratici radicali come Ocasio-Cortez non troveranno denaro per finanziare i loro progetti sociali, e questo provocherà ovvie tensioni che metteranno alla prova la coesione del partito. Ma non ci saranno soldi neppure per le infrastrutture che stanno andando in briciole. Non ci saranno soldi per incrementare le pensioni insufficienti. Le tensioni sociali si impenneranno.
Sarà inevitabile: il Tesoro stamperà denaro a tutt'andare e la fiducia nel dollaro andrà in crisi. E non vuol dire essere una Cassandra come dice la Foroohar rifarsi al passato per indicare che cosa può succedere (e infatti succede) quando l'unico paese che aveva avuto il predominio fino a quel momento decide di ostacolare l'ascesa di un concorrente ricorrendo ad ogni mezzo possibile. E' già troppo tardi perché Trump si tiri indietro, e ricomponga i dissidi solo per vendere alla Cina un mucchio di semi di soia e un po' di gas? Probabilmente sì. 


Nessun commento:

Posta un commento