sabato 10 novembre 2018

Alastair Crooke - Due grandi progetti per l'assetto del Medio Oriente sono in corso di sviluppo e stanno prendendo campo. E sono in rotta di collisione.



Traduzione da Strategic Culture, 12 settembre 2018.

Dalle ceneri delle due vastissime concezioni che hanno caratterizzato il decennio che si chude -la tentata conquista del Medio Oriente da parte dei Fratelli Musulmani e l'opposto progetto delle monarchie del Golfo di mandare in pezzi i Fratelli e di ricostituire il "sistema arabo", un assolutismo tribale di stampo ereditario- stanno sviluppandosi due opposti intenti. Due opposti intenti che stanno prendendo l'abbrivio e che presto o tardi entreranno in rotta di collisione. Di fatto lo sono già. Il problema è fino a dove arriverà la schermaglia.
Uno dei due riguarda l'unificazione del quadrante settentrionale della regione tramite la diffusione di uno spirito politico comune -basato sulla resistenza all'insistere degli USA per essere presenti in zona al fine di ravvivare l'egemonia ameriKKKana- e sul più pratico imperativo di trovare il modo di superare e di sopraffare la macchina da guerra finanziaria degli USA.
Negli ultimi giorni questo movimento ha conseguito una vittoria sostanziale. Elijah Magnier, giornalista esperto di Medio Oriente, così la descrive in poche parole:
Il candidato preferito dagli USA per la carica di Primo Ministro [in Iraq] Haidar Abadi ha perso la sua ultima possibilità di ottenere un secondo mandato quando una rivolta ha provocato nella città meridionale di Bassora un incendio che ha attaccato le mura del consolato iraniano. Mentre gli abitanti dimostravano avanzando a buon diritto la richiesta di acqua potabile, elettricità, lavoro e infrastrutture, gruppi prezzolati con intenzioni diverse si sono infiltrati fra i manifestanti e sono riusciti a incendiare uffici, ambulanze, un edificio governativo e una scuola che faceva capo a al Hashd al Shaabi e ad altri gruppi politici contrari agli Stati Uniti. Il comportamento della folla ha costretto Sayyed Moqtada al Sadr, cui fanno capo cinquantaquattro parlamentari, ad abbandonare il proprio partner politico Abadi e a chiuderne la carriera politica. Al Sadr ha cercato di prendere le distanze dai fatti di Bassora in modo che la colpa ricadesse sul solo Abadi. Si è messo dalla parte del vincitore, si è messo dalla parte dell'Iran...
Questo insieme di eventi ha portato al Sadr ad aggregare i suoi cinquantaquattro deputati alla maggioranza. L'aperto sostegno degli USA e i fatti di Bassora hanno messo fine alla carriera politica di Abadi... La coalizione più grande adesso potrà contare ben più che centosessantacinque deputati, e in questo modo sarà in grado di scegliere il Presidente del parlamento e i suoi due vice, il Presidente e il nuovo Primo Ministro... La grande coalizione che si sta consolidando non avrà più bisogno del sostegno dei quarantadue deputati curdi.
Il leader di questa grande coalizione di partiti sciiti e sunniti sarà con ogni probabilità Faleh al Fayyadi capo di Hashd al Shaabi, le Unità di Mobilitazione popolare. Politicamente parlando l'Iraq è adesso disponibile a entrare nell'alleanza di cui fanno parte russi iraniani e siriani, anche se le divisioni che ci sono fra gli sciiti iracheni continuano ad essere una potenziale fonte di conflitti. Se, come è probabile che succeda, l'Iraq verrà messo sotto embargo dagli USA per non aver ottemperato alle sanzioni statunitensi contro l'Iran, sarà l'imperativo delle circostanze a spingere il paese verso la sfera economica in via di consolidamento che è stata al centro dell'incontro di Tehran del 14 settembre, verso una serie di infrastrutture economiche attualmente in evoluzione i cui fini sono l'abbandono del dollaro e il contrasto alle sanzioni degli USA.
Istigare i dimostranti di Bassora -ci sono consistenti sospetti che dietro ci fosse la mano dei sauditi- è stato un errore di calcolo che per gli USA ha conseguenze anche più ampie. Intanto è possibile che le forze armate ameriKKKane si sentano dire di lasciare il paese. Poi, per il Pentagono sarà più difficile sostenere la propria presenza militare in Siria. Le linee logistiche per lo schieramento ameriKKKano nel nord est della Siria passano dall'Iraq e potrebbero non essere più utilizzabili; le forze USA in Siria si troveranno isolate e saranno quindi più vulnerabili.
Il voltafaccia iracheno sgonfia anche le aspirazioni del Presidente Trump sulla riaffermazione della supremazia degli USA nel campo energetico mediorientale. Si sperava che l'Iran avrebbe finito per capitolare e per arrendersi alle pressioni economiche e politiche, e che l'effetto domino avrebbe trascinato anche l'Iraq in una politica di condiscendenza.
Questo scenario avrebbe lasciato in mano statunitense le principali fonti di energia "a basso costo di produzione" del Medio Oriente. In considerazione di quanto successo però è più probabile che tutto questo, o per lo meno tutto quanto attiene l'Iran e l'Iraq, finisca nell'orbita russa assieme alle prospezioni nel Bacino del Levante siriano, che è inesplorato. Alla fine la "massa continentale" russa produttrice di energia può rivelarsi un avversario più che considerevole per l'aspirazione degli USA, recentemente riaffermata, di tornare a detenere la supremazia del settore.
L'intento che si oppone a questo, e che si sta parimenti affermando, è l'idea di Kushner, Friedman e Greenblatt di mettere fine alla pretesa dei palestinesi di avere un progetto politico. Dal poco che ne trapela sembra di capire che l'idea è quella di svuotare le loro pretese politiche innanzitutto tagliando via pezzo a pezzo i principali pilastri su cui si basa la natura politica del progetto palestinese.
In primo luogo si intende porre fine al paradigma dei due stati e sostituirlo con quello di "uno stato", uno "stato-nazione" ebraico in cui vigono diritti differenziati e prerogative politiche differenziate. In secondo luogo, mettendo fuori discussione l'idea che Gerusalemme possa essere capitale di uno stato palestinese. In ultimo, cercando di eliminare lo status di rifugiati per i palestinesi buttando il peso della loro sistemazione direttamente sulle spalle dei paesi che li ospitano. In questo modo si cacciano i palestinesi fuori dalla sfera della politica promettendogli che se la passeranno meglio e che saranno più "felici" se seguiranno i dettami di Kushner.
Basandosi sulla loro esperienza di immobiliaristi alle prese con quegli inquilini riottosi la cui cacciata è alla base di qualsiasi sviluppo immobiliare di un qualche peso, Kushner e Friedman hanno iniziato con le pressioni togliendo fondi all'Agenzia dell'Onu per i Rifugiati, chiudendo l'ufficio dell'OLP negli USA, tagliando gli aiuti agli ospedali di Gerusalemme Est e demonizzando i leader palestinesi presentandoli come corrotti e poco concentrati sugli asseriti desideri dei palestinesi (per una vita più prospera dal punto di vista materiale).
Di recente quelli di Kushner hanno tirato fuori una vecchia idea, presentata nello specifico dal quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahoronot da Sima Kadmon il 7 settembre scorso, che Abu Mazen non ha respinto a prescindere quando glie ne è stata fatta parola. L'idea risale al gennaio 2010 e fu presentata dal generale dello stato sionista Giora Eiland in un articolo scritto per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies. Eiland scriveva:
La soluzione consiste nel fondare un regno federale di Giordania comprendente tre "stati": la East Bank, la West Bank e Gaza. Questi stati nel senso ameriKKKano [della parola] saranno come la Pennsylvania o il New Jersey. Saranno pienamente indipendenti per gli affari interni, avranno un bilancio, istituzioni governative, leggi proprie, polizia e altri espliciti simboli dell'indipendenza. Solo che, come la Pennsylvania e il New Jersey, non avranno responsabilità sulla politica estera e sull'esercito. Questi due settori, proprio come negli USA, resteranno di competenza del governo federale di Amman.
Elland ipotizzava che lo stato sionista avrebbe tratto evidenti vantaggi da una soluzione del genere, invece che da una che contemplasse l'esistenza di due stati. "Innanzitutto si introduce un cambiamento nel modo di vedere la situazione. Non si parla più di popolo palestinese che vive sotto occupazione, ma di un conflitto territoriale fra due paesi: lo stato sionista e la Giordania. In secondo luogo la Giordania può essere più propensa al compromesso su determinate questioni, come quella territoriale." Aggiungeva che "in Medio Oriente l'unico modo per assicurare la sopravivenza di un governo consiste nel controllare a tutti gli effetti la sicurezza... quindi, il modo per prevenire in Giordania disordini fomentati da un futuro governo di Hamas nella West Bank consiste nell'affidare alla Giordania il controllo militare di quella zona [oltre a realizzare una West Bank demilitarizzata che continuerebbe a rimanere sotto il controllo dello stato sionista]."
Insomma, i palestinesi di Gaza (stando a quanto si legge) verranno fatti stabilire a Gaza e nel Sinai (e sorvegliati dai servizi egiziani), mentre le enclave palestinesi rimaste nella West Bank finirebbero sotto controllo della polizia giordana sotto la supervisione generale dello stato sionista. Un corrispettivo governo "federale" in Giordania sarà considerato dallo stato sionista responsabile di tutto quanto.
Ovviamente tutto questo potrebbe non essere altro che un esercizio di fantasia di Kushner e soci. Non sappiamo cosa prevede il più volte rimandato "Accordo del Secolo" di Trump, ma quello che sembra chiaro è che c'è l'intenzione di cancellare il concetto di qualsiasi entità politica palestinese in quanto tale e di redere malleabile il popolo palestinese distaccandolo dai propri leader e offrendogli vantaggi materiali. Al momento attuale i palestinesi sono deboli. Non c'è dubbio che operando di concerto gli USA e lo stato sionista possano riuscire a far fuori qualsiasi opposizione al suddetto accordo. Gerusalemme sarà "consegnata" allo stato sionista. I palestinesi saranno cancellati dalla scena politica. Ma a quale prezzo? Che succederà allora alle monarchie del Golfo?
Lo studioso di Oxford Faisal Devji, in un editoriale sul New York Times, ha sottolineato la situazione problematica dell'Arabia Saudita:
Dopo la prima guerra mondiale la marina statunitense ha sostituito quella britannica, e il petrolio fece del regno una cosa essenziale per il capitalismo occidentale. Solo che la centralità economica e religiosa dell'Arabia Saudita strideva con la sua perdurante marginalità politica: militarmente erano la Gran Bretagna, gli USA e persino il Pakistan ad essere responsabili della sua stabilità sul piano interno e della sua sicurezza dalle minacce provenienti dall'estero.
Al giorno d'oggi l'Arabia Saudita si contrappone a prima vista all'Iran, ma le sue pretese di supremazia trovano spazio solo per il declino dell'Egitto e per la marginalizzazione dell'Iraq e della Siria. A parte l'Iran, solo la Turchia le tiene testa, sia pure con un comportamento ambiguo.
...Il regno del principe Mohammed sembra più un paese laico che teocratico; la sovranità sembra sia stata finalmente strappata dalle mani delle tribù e dei religiosi per essere avocata direttamente dalla monarchia. Ma l'Arabia Saudita può diventare ancora più potente sul piano geopolitico solo mettendo a rischio il suo status religioso... [corsivo dell'autore, N.d.T.]
Il piano per fare dell'Arabia Saudita uno stato definito sul piano politico anziché sul piano religioso distrugge la concezione vecchia di secoli della geografia islamica [sunnita], che ha sempre considerato l'Arabia come un proprio centro depoliticizzato... La Mecca e Medina continueranno a ricevere i pellegrini, ma è probabile che l'Islam [sunnita]... troverà il proprio centro in Asia, dove vive di gran lunga il numero maggiore di seguaci e verso cui si stanno dirigendo in misura sempre maggiore la ricchezza e la potenza mondiali.
Solo che questo non è proprio il caso dell'Islam sciita, che è riuscito a unire il potere politico con un rinnovato status religioso, come attesta il prosperare straordinario di Karbala come centro dei pellegrinaggi degli sciiti, e che ha visto il successo dell'Iran nel contrastare gli jihadisti wahabiti sia in Siria che in Iraq. Di contro, la guerra nello Yemen ha invece eroso le credenziali politiche e religiose dell'Arabia Saudita.
Eppure, nonostante le traiettorie contrastanti, proprio qui può verificarsi la collisione: lo stato sionista si è ineluttabilmente alleato con l'Arabia Saudita e con l'Islam sunnita. E così anche gli USA hanno assunto la stessa posizione di parte dello stato sionista e dell'Arabia Saudita nei confronti dell'Iran. Entrambi stanno alle spalle del re saudita e lo spingono a condurre una guerra su più livelli contro il potente vicino.
Alon Ben David, un corrispondente militare dello stato sionista, sul quotidiano in lingua ebraica Ma'ariv ha scritto il 7 settembre un articolo che costituisce un esempio della narrativa prometeica con cui lo stato sionista celebra i propri successi, dovuti essenzialmente al sostegno incondizionato di Trump: "Le forze di difesa dello stato sionista, che hanno tardato per anni ad accorgersi della potenziale minaccia costituita dall'espansionismo iraniano, hanno capito che dovevano passare all'azione... questa settimana le forze di difesa hanno rivelato che dall'inizio del 2017 in Siria sono stati condotti oltre duecento attacchi aerei. Ma se si considerano le attività svolte in questa guerra dalle forze di difesa nel loro complesso, per lo più effettuate sotto copertura negli ultimi due anni, risulta che le forze di difesa dello stato sionista hanno portato a termine oltre frontiera centinaia di operazioni di vario tipo. La guerra tra le guerre è diventata la guerra delle forze di difesa, ed è stata foraggiata giorno e notte... A tutt'oggi, lo stato sionista si è rafforzato nel confronto diretto con l'Iran... Ogni volta che colpiamo l'Iran, il nostro potere di deterrenza si rafforza."
Beh, questione di opinioni. Di opinioni molto rischiose.

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