venerdì 29 giugno 2018

Alastair Crooke - A cosa servirebbe oggi come oggi un incontro fra Trump e Putin?



Traduzione da Strategic Culture, 13 giugno 2018.

Il Presidente Trump è tornato da pochi giorni sulla questione arrivando a suggerire l'idea di invitare Putin a Washington. All'apparenza si tratta di una bella pensata: la distensione con la Russia permetterebbe al principale artefice del clima di tensione che esiste nella geopolitica mondiale di uscire dalla defatigante e pericolosa spirale in cui si trova.
Un incontro al vertice, per una volta, poteva sembrare la soluzione giusta. Solo che la politica estera di Trump non è più quella di un tempo. Si sta evolvendo in una maniera in qualche misura in attesa.
A livello formale le dichiarazioni dell'amministrazione statunitense in materia di politica estera e difesa hanno preso una strada tutta loro, a cominciare da un primo difficile connubio tra i punti fermi della campagna elettorale di Trump (sull'arrestare il degrado della zona industriale ameriKKKana e sulla necessità per gli USA di tornare vincenti) e le posizioni del consiglio per la sicurezza nazionale, abbigliate per l'occasione nel vestito da sposa costituito dal concetto di predominio globale caro a Paul Wolfowitz. Da qui hanno attraversato una trasformazione successiva in cui la Russia e la Cina da "rivali e competitori" che erano sono diventate delle facinorose "potenze revisioniste" dedite all'indebolimento dell'ordine mondiale. Ultimamente hanno preso la veste attuale, in cui parlano di un'AmeriKKKa che risorge e rinasce come una fenice nucleare e dominatrice.
Questa la marcia di avvicinamento verso un'ideologia di predominio non collima bene con la precedente immagine da campagna elettorale di un Presidente che avrebbe riportato in patria i posti di lavoro perduti e che avrebbe riposto in qualche cassetto i sogni di gloria militare. Addio all'immagine della campagna elettorale.
Anche il "riportare in patria i posti di lavoro" si è rivelato avere poco a che fare col raggiungimento di accordi più vantaggiosi e molto a che vedere col modello d'affari della mafia. Vale a dire,  "lasciate perdere immediatamente il Nord Stream 2 (un gasdotto) o vi spacco le gambe, tedeschi." Ossia distruggo il vostro export di automobili negli Stati Uniti.
In poco tempo ne abbiamo fatta di strada, da un Trump che agevola il ritorno di posti di lavoro nel settore manifatturiero alternando il bastone alla carota, a un Trump che mente a scena aperta a tutti i partner commerciali dell'AmeriKKKa agitando il randello delle sanzioni e dei dazi inteso come parte di un diverso approccio al negoziato rispetto a quell'arte del giungere a un accordo che perlomeno implicava un minimo di negoziazioni invece di puntare alla resa senza condizioni della controparte come nel caso dell'Iran.
Anche la natura del nuovo randello che Trump ha preso ad agitare costituisce un passo indietro, soprattutto nei confronti dell'Iran; in questo caso non si spende nemmeno un po' di fatica per far finta che si tratti di qualcosa di diverso dal puro e semplice tentativo di rovesciarne il governo.
Di fatto è qui in gioco la visione retrospettiva di Trump: la volontà di recuperare e ripristinare i pilastri storici della potenza statunitense e del mondo anglofono: il predominio nel sistema finanziario globale, la supremazia tecnologica e il controllo dell'energia. Tutto sempre con le forze armate a disposizione. Il dominio in questi tre campi negli anni fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale costituiva la fonte della supremazia politica.
La cosa essenziale in tutto questo che qualunque passo avanti nella politica estera di Trump indica un ampliamento ed un allargamento della potenza ameriKKKana piuttosto che l'intenzione di assecondare -in un certo senso stoicamente- il suo lento declino. Insomma, l'intento è quello di prolungare e di puntellare l'esistenza di un mondo unipolare e di posticipare l'affermazione di un mondo multipolare.
Occorre ricordare che nei primi tempi dell'influenza di Steve Bannon su Trump le cose stavano in un altro modo. All'epoca Bannon, in modo simile a quello di Evola e di Guénon, era senza dubbio orientato verso il multipolarismo: l'AmeriKKKa voleva essere culturalmente ameriKKKana a modo proprio, perché dunque la Russia non avrebbe dovuto essere russa, anch'essa a modo proprio?
Perché il Presidente Trump inviterebbe il Presidente Putin a Washington, dal momento che l'epoca di Bannon ha ceduto il posto al desiderio di rafforzare culturalmente i settori della antica supremazia dell'uomo bianco e anglofono?
Si potrebbe rispondere che Trump sta cercando di separare la Russia dalla Cina, considerando il Presidente Putin come un potenziale appartenente allo stesso club culturale, in base alla dottrina cara a Kissinger del perenne mantenimento di una triangolazione tra le due potenze e chiaramente del fatto che la Cina non fa parte di quello che la squadra di Trump chiama retaggio giudaico-cristiano.
Per quale motivo il Presidente Putin dovrebbe farsi coinvolgere in una situazione del genere? Schierarsi col mondo unipolare di Trump sancirebbe la fine di quel mondo multipolare che rappresenta la principale piattaforma politica di Xi e di Putin, oltre che la base su cui essi hanno costruito il loro prestigio agli occhi del resto del mondo. Trump cercherebbe di circuire Putin per portarlo lontano da questa prospettiva, una cosa cui Putin non può certo accondiscendere.
È vero che il Presidente Putin, nonostante le considerevoli pressioni che subisce sul piano interno, almeno per il momento non ha ancora del tutto chiuso alla prospettiva di raggiungere una qualche distensione con Washington. Indice ne è il fatto che il suo governo è rimasto favorevole alla distensione e almeno per il momento non ha lasciato il posto ad una sorta di Stavka.
D'altra parte, l'invito da parte del Presidente Trump a condividere con l'AmeriKKKa il predominio nel settore della produzione energetica in una sorta di nuova OPEC potrebbe costituire una carota abbastanza allettante da tentare il Presidente Putin? Anche questo sarebbe problematico. Gli Stati Uniti possono anche controllare il mercato speculativo del petrolio di carta, ma non controllano il mercato del petrolio vero, in cui gli USA potrebbero al limite fare la parte dei produttori ondivaghi. Inoltre l'AmeriKKKa non è potente a tal punto, a meno che gli USA non riescano ad acquisire il controllo della produzione iraniana ed irachena da aggiungere alla produzione interna e a quella del Golfo che sono effettivamente in mano loro.
Perché il tentativo di Trump sia davvero allettante il Presidente Putin dovrebbe concludere che l'Iran non è in grado di sostenere l'assedio economico del signor Trump e che si arrenderà. I russi hanno qualche interesse a vedere la sottomissione dell'Iran? Ovviamente no. Una cosa del genere supera la linea rossa rappresentata dall'impegno di Cina e Russia a favore di un mondo multipolare. È chiaramente interesse strategico di Cina e Russia che un elemento chiave di qualsiasi costruzione multipolare del mondo come l'Iran non cada vittima dell'unipolarismo di Trump.
È verosimile che l'Iran finisca per implodere? No. Da Mosca -e probabilmente anche da Pechino- le cose vengono viste da una prospettiva piuttosto diversa: a Mosca non vedono l'Iran come una vittoria facile, come una passeggiata per la potenza unipolare, ma come l'esatto contrario: l'Iran è per Trump l'ingresso di una trappola a trabocchetto, per dirla con Tom Luongo.
Quello del trabocchetto è un piano militare russo in cui un punto in uno schieramento difensivo che agli occhi di un nemico appare debole lo incoraggia a puntare senza riflettere direttamente contro di esso, solo per scoprire di essersi inavvertitamente andato a cacciare in una manovra di accerchiamento che finisce per annientarlo.
Cosa significa questo in termini di geopolitica? Luongo pensa che Trump si stia esponendo troppo nel suo desiderio di rovesciare sia il governo che la rivoluzione iraniani, per conquistare agli USA il predominio nel settore energetico. Si tratta di un passo più lungo della gamba, e Trump sta dando fastidio a tutti.
Per fare in modo che le sue sanzioni abbiano un effetto devastante sul popolo iraniano Trump sta minacciando tutti quanti, sta comminando sanzioni a tutti, sta umiliando tutti, sta facendo danni agli interessi commerciali e sta scorrazzando per tutto il Medio Oriente: sanziona l'Iran, consolida l'autocrazia saudita, denigra i palestinesi e tratta la "città santa" (Gerusalemme) come se fosse una qualche casella importante nel gioco del Monopoli, di quelle da scambiare al prossimo tiro di dadi.
Non c'è da stupirsi se Mosca pensa di poterlo aspettare al varco: il paradigma si sta rovesciando. Il mondo di oggi bussa alla porta di Mosca. I leader europei che fino a poco tempo fa facevano a gara a comportarsi rudemente nei confronti del Presidente Putin adesso cinguettano che l'Europa ha bisogno di lui. Ovviamente si tratta soltanto della retorica di una Unione Europea indebolita e screditata; non è ancora dato sapere se sotto vi sia qualcosa di sostanziale.
Con quasi tutto il mondo sotto sanzioni o interessato secondariamente da esse, tra gli stati sovrani serpeggia la rabbia. Con il commercio mondiale dominato dalle sanzioni e in fase di contrazione è sicuro che la liquidità del dollaro diventerà evanescente in tutto il mondo e non soltanto per i mercati emergenti; i fondi cercano sicurezza in valori tangibili e facilmente collocabili sul mercato. Questo è quello che accade quando emissioni denominate in dollari statunitensi vengono ridenominate in qualche altra valuta, e ha in sostanza inizio lo sganciamento dal dollaro.
Insomma, andare alla Casa Bianca a Putin sembra poco utile, almeno fino a quando non si concluderanno le elezioni di metà mandato di novembre e Trump avrà smesso di irritare il mondo e fino a quando ad agosto non avrà dispiegato il suo effetto il grosso delle sanzioni e ne saranno chiare le conseguenze. Nondimeno il signor Putin intende oggi sottolineare che a cose fatte -e posatasi la polvere- un signor Trump a quel punto ridotto a ben più miti consigli sarà il benvenuto a Mosca.

giovedì 28 giugno 2018

Alastair Crooke - La politica di Trump per il predominio sull'energia e le sue conseguenze per il mondo



Traduzione da Strategic Culture, 5 giugno 2018.

Due settimane fa abbiamo scritto di come la politica estera del presidente Trump si era in un certo senso trasformata in una sorta di neoameriKKKanismo; abbiamo citato il docente di relazioni internazionali statunitense Russell-Mead, convinto che il cambiamento di rotta che Trump ha intrapreso l'8 maggio abbandonando l'accordo sul nucleare iraniano rappresenti una novità, un atteggiamento inedito rispetto alla sua sostanziale natura di ruvido negoziatore dedito all'arte dell'accordo e orientato a quella che Russell-Mead ha definito "un'epoca neoameriKKKana nella politica mondiale, piuttosto che verso un'epoca postameriKKKana [com'era quella di Obama]". "L'amministrazione è intenzionata ad ampliare la potenza ameriKKKana piuttosto che governarne il declino (come si sostiene abbia fatto Obama). Almeno per il momento è il Medio Oriente a trovarsi al centro di questo atteggiamento nuovamente assertivo", ha sostenuto Russell-Mead, spiegando come nasce il nuovo atteggiamento di Trump: "L'istinto dice [a Trump] che la maggior parte degli ameriKKKani sono tutt'altro che ansiosi di vedere un mondo "postameriKKKano". I sostenitori del signor Trump non vogliono lunghe guerre, ma non intendono neppure rassegnarsi alla stoica accettazione del declino del proprio paese."
A questo punto ci troviamo davanti a una specie di paradosso: Trump e la sua base elettorale lamentano i costi e l'impegno dell'ampio ombrello difensivo ameriKKKano che i globalisti hanno esteso a tutto il mondo e queste idee sono esacerbate dalla presunta ingratitudine di quanti ne traggono vantaggio. Eppure, il presidente vuole ampliare la potenza ameriKKKana piuttosto che governarne il declino. Insomma, vuole essere più potente ma un impero più piccolo. Come far tornare questa quadratura del circolo?
In questo senso si è avuto sentore di qualcosa circa un anno fa. Il 29 giugno 2017 il presidente ha utilizzato un'espressione abbastanza inusuale parlando al Ministero per l'Energia: scatenare l'energia ameriKKKana. invece di parlare dell'indipendenza energetica ameriKKKana come si sarebbe potuti aspettare, ha vaticinato una nuova era di supremazia dell'energia ameriKKKana.
In un discorso "mirato a sottolineare la cesura rispetto alle politiche di Barack Obama", scrive FT, il signor Trump alla collegato il tema dell'energia alla sua agenda politica basata sul Prima l'AmeriKKKa. "In verità oggi disponiamo nel nostro paese di riserve di energia praticamente illimitate," ha detto il signor Trump. "Siamo noi che conduciamo il gioco, e sapete perché: non vogliamo che altri paesi ci privino della nostra sovranità e ci dicano cosa dobbiamo fare e come dobbiamo farlo. Questo non succederà. Con questa incredibile quantità di risorse, la mia amministrazione non cercherà soltanto di arrivare all'indipendenza energetica, come abbiamo cercato di fare per tanto tempo, ma al predominio ameriKKKano sull'energia.
Come scrive Chris Cook, sembra che Gary Cohn, all'epoca consigliere economico del Presidente, abbia avuto un qualche ruolo nella nascita di questa ambizione. Cohn, che all'epoca lavorava per Goldman Sachs, nel 2000 ideò con un collega della Morgan Stanley un piano per prendere il controllo del mercato globale del petrolio tramite una piattaforma di commercio elettronico basata new York. Le grandi banche in poche parole attrassero grandi quantità di denaro gestito, provenienti ad esempio dagli edge fund, e le riversarono sul mercato scommettendo sui prezzi futuri senza neppure curarsi della consegna del greggio: commerciavano petrolio di carta piuttosto che petrolio vero e proprio. Le stesse banche operarono contemporaneamente con i principali produttori di petrolio, cui si aggiunse in un secondo tempo anche l'Arabia Saudita, per acquistare in anticipo petrolio non è proprio in modo tale che ammettendo o impedendo al greggio di raggiungere i mercati erano queste grandi banche di New York a influenzare i prezzi creando di proposito una scarsità o una sovrabbondanza.
Per dare un'idea di massima della capacità di questi banchieri di influenzare i prezzi è sufficiente dire che a metà del 2008 si pensava che nel mercato dell'energia fossero in ballo qualcosa come 260 miliardi di dollari di investimenti controllati, ovvero speculativi. Una somma che riduceva ad un niente il valore del petrolio realmente estratto ogni mese dai giacimenti nel Mare del Nord, che nel migliore dei casi valeva dai quattro ai 5 miliardi di dollari. Le schermaglie attorno a questo petrolio di carta avrebbero comunque spesso colpito la fornitura vera e propria di petrolio e la parimenti vera e propria richiesta.
Secondo Cohn il primo passo che gli USA dovevano compiere era prendere il controllo del mercato, sia sotto il profilo dei prezzi che sotto quello dell'accesso; antagonisti come l'Iran o la Russia avrebbero al massimo potuto accedervi in condizioni di inferiorità. L'ipotetico secopndo passo è stato curare la produzione dallo scisto, costruire nuovi terminal per l'esportazione di gas naturale liquefatto e aprire l'AmeriKKKa a ulteriori prospezioni per gas e petrolio, facendo al tempo stesso pressioni su chiunque, dalla Germania alla Corea del Sud alla Cina, perché acquistasse il gas esportato dagli USA. In terzo luogo, con le esportazioni di petrolio dal Golfo già sotto l'ombrello statunitense, fuori dal cartello dell'influenza USA sarebbero rimasti soltanto due grossi produttori di energia in Medio Oriente, entrambi afferenti alla massa continentale produttrice di energia secondo la visione russa: l'Iran -ora nel mirino di un assedio economico sulle esportazioni di greggio che mira a rovesciarne il governo- e l'Iraq, al momento soggetto a intense ma ovattate pressioni politiche, ivi compresa la minaccia di sanzioni sotto il pretesto del contrastare gli avversari dell'AmeriKKKa tramite un Sanction Act affinché esso sia costretto a rientrare nella sfera occidentale.
Come spiegare in parole semplici cosa significa l'idea di Trump del predominio sull'energia? Significa che se gli USA riuscissero ad ottenere la preminenza nel settore energetico controllerebbero le leve dello sviluppo (o del non sviluppo) economico di una Cina e di un'Asia avversarie. Allo stesso modo gli USA potrebbero drasticamente ridurre i redditi della Russia nel mercato energetico. In breve, gli USA potrebbero stringere in una morsa i piani di sviluppo economico della Cina e della Russia. E' per questo che il Presidente Trump ha lasciato l'accordo sul nucleare iraniano?
Eccoci dunque alla quadratura del circolo degli USA più potenti ma con un impero più piccolo: l'aspirazione al predominio degli USA di Trump non passa dall'infrastruttura permanente dei globalisti rappresentata dall'ombrello difensivo statunitense, ma dall'astuta manipolazione del dollaro e dal monopolio finanziario ottenuto salvaguardando e tenendo ben stretta la tecnologia statunitense e dominando il mercato dell'energia. Cose che a loro volta diventano l'interruttore della crescita economica dei rivali degli USA. In questo modo, Trump può tenere a casa i suoi soldati, e l'AmeriKKKa mantenere comunque la propria egemonia. Il ricorso alle armi diventa l'ultima opzione.
Il consigliere di alto grado Peter Navarro ha detto allo NPR qualche giorno fa che "possiamo far sì che [i cinesi] smettano di mettere fuori mercato le nostre imprese nel settore tecnologico" e "di comprarsi i tesori della nostra tecnologia... Ogni volta che introduciamo qualche cosa di innovativo, arriva la Cina e se lo compra. Oppure lo ruba."
Il nuovo piano di Trump è quello di prolungare la superiorità ameriKKKana nel campo della tecnologia, della finanza e dell'energia tramite il predominio del mercato e la guerra commirciale, e non quello di comportarsi in maniera in un certo senso obbligata in modo tale da "controllare il declino"? Trump intende stroncare sul nascere -o almeno rinviare- l'affermarsi dei rivali? In questo contesto si pongono immediatamente due interrogativi. Questo modo di procedere attesta il fatto che l'amministrazione statunitense ha adottato quel neoconservatorismo che la base di Trump detesta tanto? E un approccio come questo può avere successo?
Forse non si tratta proprio di neoconservatorismo ma della riedizione di un certo tema. Principalmente, i neoconservatori ameriKKKani desideravano prendere a sprangate quelle parti del mondo che non gli piacevano, e sostituirle con qualcosa che fosse di loro gradimento. Il metodo di Trump ha un carattere più machiavellico.
Entrambi questi modi di pensare hanno gran parte delle proprie radici nell'influenza che il pensiero di Carl Schmitt ha avuto sul conservatorismo ameriKKKano per tramite del suo amico Leo Strauss a Chicago. Che Trump abbia mai letto o meno le opere dell'uno o dell'altro, si tratta di idee che stanno ancora circolando nell'ambiente degli USA. Al contrario dei pensatori liberali o umanisti Schmitt pensava che la politica non avesse nulla a che vedere con la costruzione di un mondo più equo o più giusto; queste erano cose da moralisti e da teologi. Per Schmitt la politica ha a che fare con il potere e con la sopravvivenza nell'agone politico, e nient'altro.
I liberali (e i globalisti), pensava Schmitt, sono nauseati dall'idea di usare la forza per impedire agli antagonisti di affermarsi: il loro punto di vista ottimistico sulla natura umana li porta a credere alla possibilità di una mediazione e di un compromesso. L'ottica schmittiana liquida in maniera derisoria la prospettiva liberale ed enfatizza invece il ruolo della potenza pura e semplice, basta com'è su una più pessimistica concezione dell'autentica natura degli "altri" e dei rivali. Proprio questo elemento sembra essere alla base del pensiero di Trump: Obama e i "liberali" si stavano preparando a vendere i gioielli della cultura ameriKKKana (quella finanziaria, tecnologica e della gestione dell'energia) con una qualche "azione affermativa" multilaterale che avrebbe giovato a paesi meno sviluppati, prima fra tutti la rivale Cina. Pensieri del genere sono probabilmente il motivo per cui Trump ha abbandonato gli accordi sul climna: perché mai aiutare potenziali rivali e al tempo stesso tarpare volontariamente le ali della propria cultura?
Neoconservatori e trumpiani sono uniti proprio da quest'ultimo e piuttosto risicato fulcro: il dovere di mantenere intatta la potenza ameriKKKana. Essi condividono anche il disprezzo per gli utopisti liberali che darebbero via per un tozzo di pane i gioielli della cultura occidentale in nome di questo o quell'ideale umanitario, solo per consentire a dichiarati nemici dell'AmeriKKKa di affermarsi e di rovesciarla insieme a quella che in quest'ottica è la sua cultura.
Entrambe le correnti condividono lo stesso terreno; il concetto è stato espresso con notevole candore da un commento di Silvio Berlusconi: "dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà [occidentale]". Steve Bannon dice qualcosa di molto simile, sia pure nel contesto della difesa di una cultura giudaico-cristiana intesa come minacciata.
L'idea di un vantaggio culturale che va recuperato e difeso ad ogni costo probabilmente costituisce una sia pure non esaustiva giustificazione del fervente sostegno di Trump allo stato sionista: parlando al canale televisivo sionista Channel Two un importante figura della destra alternativa ameriKKKana (e costituente della base elettorale di Trump) come Richard Spencer ha messo in evidenza il senso di spoliazione profondamente sentito dai bianchi degli Stati Uniti:
"...come cittadini dello stato sionista, consapevoli della vostra identità e di appartenere a una nazione e a un popolo, consapevoli della storia e dell'esperienza del popolo ebraico, dovreste rispettare qualcuno che, come me, prova le stesse cose nei confronti dei bianchi. Potreste considerarmi un sionista bianco, nel senso che mi preoccupo per la mia gente, voglio che abbiamo una patria sicura per noialtri proprio come voi volete una patria sicura nello stato sionista."
Il tentativo di potenziare e di armare la cultura della élite ameriKKKana tramite il dollaro, una potenziale egemonia sull'energia e un freno al trasferimento delle tecnologie può riuscire a rafforzare la cultura ameriKKKana, intesa nel modo riduttivo con cui la intende la base elettorale di Trump? Una domanda da un milione, come si dice in questi casi.
 Tutto questo potrebbe anche solo provocare una reazione uguale e contraria, e negli USA potrebbero succedere molte cose di qui a novembre, quando si svolgeranno le elezioni di metà mandato che confermeranno o meno il potere del Presidente. Difficile poter fare analisi prima di allora.
Una questione di più ampia portata è però il fatto che mentre Trump si appassiona alla cultura ameriKKKana e alla sua egemonia, i capi politici non occidentali oggi sono altrettanto appassionati all'idea che è tempo di farla finita con "il secolo ameriKKKano". Dopo la seconda guerra mondiale molti paesi pretesero l'indipendenza; i politici di oggi, allo stesso modo, vogliono la fine del monopolio del dollaro, vogliono poter decidere di uscire dall'ordine globale a guida USA e dalle sue istituzioni cosiddette "internazionali"; vogliono esistere secondo la loro peculiare cultura... e vogliono indietro la loro sovranità. Non si tratta soltanto di nazionalismo culturale ed economico; tutto questo rappresenta un punto di svolta significativo. Lontano dalle politiche economiche neoliberiste, lontano dall'individualismo e dal mercantilismo puro, e verso un'esperienza umana più completa.
La tendenza che seguì la fine della seconda guerra mondiale fu all'epoca irreversibile. Possiamo anche ricordare come le ex potenze coloniali europee deplorarono il proprio forzato ritiro: "[Le ex colonie] se ne pentiranno", predissero con sicurezza. E invece non si è pentito nessuno. La tendenza di oggi è forte e si è diffusa anche in Europa. Chissà se gli europei avranno il coraggio di reagire contro le macchinazioni finanziarie e commerciali di Trump: sarebbe un indicazione importante per capire cosa succederà in futuro.
A differenza del dopoguerra però l'egemonia monetaria, il primato tecnologico e il predominio in campo energetico non sono affatto cose di sicuro controllo occidentale. L'Occidente non le detiene più; hann cominciato a sfuggirgli già da qualche tempo.

lunedì 25 giugno 2018

Alastair Crooke - Gli USA sanzionano il mondo intero... e tirano la volata a un mondo multipolare



Traduzione da Strategic Culture, 28 maggio 2018.

Hanno già coniato e pubblicato la madaglia commemorativa. Raffigura Trump e Jong Un di profilo uno di fronte all'altro per lo storico incontro del dodici giugno in cui ci si  aspetta che Jong Un rinunci per sempre agli armamenti nucleari e riceva da Trump la grazia di una benedizione. Al momento in cui scriviamo la riunione è in forse e pare sia stata cancellata, cogliendo di sorpresa Moon e Abe e lasciando Trump frustrato e irritato. Come avevamo previsto, invece di prendere atto del fatto che i suoi non avevano ascoltato bene quello che Kim Jong Un gli aveva fatto sapere, Trump se la prende con Xi che avrebbe messo i bastoni tra le ruote.
Il Global Time cinese centra l'essenza della questione:
Gli USA pretendono unilateralmente un'immediata denuclearizzazione della penisola prima di passare a Pyongyang qualunque contropartita. La Cina non si opporrà a un accordo di questo tipo fra USA e Corea del Nord; ma Washington è in condizione di conseguire un risultato del genere? Pyongyang una risposta in questo senso l'ha appena fornita... Se Washington facesse pressione su Pyongyang per acquisire un vantaggio nei negoziati andrebbe anche bene, ma Washington dovrebbe pensarci due volte perché c'è la possibilità di far tornare la penisola coreana a un antagonismo intransigente.
Dal punto di vista della Cina è chiaro che gli USA hanno sopravvalutato il proprio peso, quando hanno deciso di costringere la Corea del Nord ad accettare le loro richieste. Gli USA hanno dimenticato l'imbarazzante situazione dello scorso anno, quando non sono riusciti a fermare i test missilistici e nucleari coreani, e la difficoltà dell'intraprendere un'azione militare contro la Corea del Nord.
Gli USA hanno sempre creduto che la Corea del Nord li ingannasse, cosa che in realtà è tutt'altro che esatta. Sono stati gli USA i responsabili degli insuccessi della diplomazia nella penisola, e anche in molti casi.
 A irritare Trump c'erano anche le aspre considerazioni dei "falchi commerciali" sul fatto che i negoziati commerciali con la Cina non avessero ancora prodotto nulla di concreto. Steve Bannon, per esempio, ha detto al Bloomberg che Trump " aveva cambiato tutto quanto nel modo di affrontare la Cina, ma il Segretario Mnuchin ha rimesso tutto come stava nel corso di un fine settimana". Il Presidente sembra orientato ad assumere una posizione più dura sul commercio con la Cina perché a suo dire i colloqui non hanno portato a gran che, e ci sarebbe bisogno di una nuova prospettiva.
La cancellazione dell'incontro a Singapore, la cui colpa è stata in parte addossata a Xi, e la delusione per l'andamento dei colloqui sui traffici commerciali arrivano al Pentagono, che revoca l'invito alla Cina a partecipare al RIMPAC, "la più grande esercitazione navale del mondo", a causa dei gesti aggressivi di Pechino nel mar della Cina meridionale, dove stando ai resoconti disponibili avrebbe installato in silenzio alle isole Spratly dei missili "difensivi" in grado di raggiungere il territorio statunitense. Per nulla intimorita dalle minacce del Pentagono, la Cina ha risposto ricordando che il nuovo caccia stealth di quinta generazione J20 effettuerà d'ora in avanti voli di pattugliamento nello spazio aereo di Taiwan. Un chiaro segnale che Xi vuole indietro la "sua" isola, e sta progettando di riprendersela.
Insomma, gli attriti degli USA con la Cina sono in fase di crescita e possono ulteriormente inasprirsi se Washington intende minacciare azioni militari di un qualche tipo contro la Corea del Nord.
Gli attriti non ci sono solo con la Cina. La conversione di Trump a un neoameriKKKanismo a tutto tondo (si veda qui) sembra aver messo Washington a contrasto con il mondo intero: guerre commerciali con Cina, Russia, Unione Europea e Giappone, sanzioni contro la Russia, contro l'Iran e contro altri paesi, guerre valutarie con la Turchia, l'Iran e la Russia eccetera eccetera. Una serie di frizioni di questo livello e di questa gravità non è sostenibile. Una tensione di questo genere cessa perché qualcosa salta (e salta in modo esplosivo) e vi pone fine, o perché si verifica una virata di centoottanta gradi nel linguaggio e nel comportamento, ad alleviarla in modo meno traumatico. Oggi come oggi siamo ancora nella fase ascendente. Trump ha provocato tutti, anche i solitamente accomodanti europei, come mai prima. Di conseguenza -e senza volerlo- ha accelerato in modo rimarchevole l'instaurazione di un nuovo ordine mondiale; alzando la tensione geopolitica praticamente ovunque ha provocato un'accelerazione nell'abbandono del dollaro a livello mondiale.
Gli europei assicurano che al momento di decidere hanno scelto deliberatamente di non concepire l'eurozona come qualcosa di distinto e di separato rispetto all'egemonia del dollaro; adesso ne pagano il prezzo perché non possono fare nulla per rimediare al fatto che i loro scambi commerciali con l'Iran sono di fatto fuori legge. Ormai troppo tardi per rimediare, l'Unione Europea propone di abbandonare il petrodollaro in favore dell'euro per acquistare il petrolio iraniano, ma con tutta probabilità non riuscirà nell'intento. I leader della UE sono rimasti scioccati e irritati per la determinazione con cui gli USA sono decisi a strangolare qualsiasi scambio fra l'Unione Europea e l'Iran.
Interessante considerare come la Cina considera la natura degli attriti con gli USA e come ne indichi la causa fondamentale. Sul Global Times si comincia con un'aperta ammonizione: "Alla fine della seconda sessione di colloqui la scorsa settimana, vari articoli pubblicati su media [statunitensi] salutavano la fine delle minacce di una guerra commerciale. Alcuni si spingevano ad affermare che la Cina aveva vinto il primo round nei negoziati con gli USA. Questa conclusione è del tutto errata, e l'idea che i contrasti siano stati risolti non ha alcun fondamento. Ancora non c'è stata alcuna guerra commerciale, ci sono stati solo degli avvertimenti..." [corsivo dell'A., N.d.T.] L'articolo prosegue dicendo che i deficit commerciali degli USA non costituiscono il motivo essenziale dei dissapori fra i due paesi. "Il punto essenziale è il monopolio del dollaro USA nel mercato globale", e l'uso obbligato del dollaro per effettuare pagamenti. Gli USA devono "evitare una eccessiva circolazione del dollaro e lasciare che si faccia maggior uso di valute come lo yuan e l'euro, per promuovere una circolazione monetaria più equilibrata... [e] gli USA devono correggere la propria politica monetaria".
Il Presidente Putin sta dicendo la stessa cosa: in un discorso al parlamento russo ha detto che "il mondo intero vede che il monopolio del dollaro non è una cosa affidabile: è pericolosa per molti, non solo per noi". Ha aggiunto che esiste un crescente utilizzo improprio delle sanzioni e delle azioni commerciali tramite il WTO, specie ad opera degli USA, per assicurarsi vantaggi competitivi o per frenare lo sviluppo economico della concorrenza, cosa di cui si lamentano soprattutto i cinesi.
Insomma, vogliono che la palude dell'ordine mondiale a guida statunitense venga bonificata, almeno quanto Trump vuole vedere bonificata la palude di Washington.
Trump comunque sembra contento quando usa tattiche da palude in politica estera per far tornare grande l'AmeriKKKa, anche se in patria si lamenta per la palude dello establishment. Il fatto è che il mondo non occidentale non si fa più incantare dai giochetti della palude dell'ordine mondiale a guida USA, proprio come la base di Trump: il mondo non occidentale vuole la fine dell'egemonia del dollaro, ed il ripristino della sovranità, e si sta raggruppando sul piano politico per raggiungere questi obiettivi. Sembra che si stia arrivando a una certa unificazione, sia pure con le distinzioni fra le parti.
Il ricatto in stile mafioso di Trump verso la Cancelliera Merkel ("o mollate il Nord Stream II o vi rimettiamo al vostro posto, voi tedeschi, con l'acciaio e l'alluminio") sta innanzitutto facendo da catalizzatore per un possibile mutamento di rotta dell'intera politica europea.
Gli europei si sono a lungo mostrati ondivaghi sul piano delle sanzioni contro la Russia: gli interessi tedeschi e quelli dello stato che occupa la penisola italiana sono stati colpiti in maniera pesante sul piano finanziario, ed è stata la Merkel a indicare sostanzialmente la linea da seguire. Le sanzioni dell'Unione Europea hanno a che vedere solo con la questione dell'Ucraina. e la Cancelliera ha parlato lungamente dell'Ucraina con Putin a Soci. A Soci Putin ha presentato due idee: una forza di pace dell'ONU in Ucraina, e la prosecuzione del trasporto del gas russo attraverso il corridoio ucraino -cosa importantissima per l'Unione Europea- se si dovesse dimostrare un'iniziativa fattibile dal punto di vista commerciale.
Se queste proposte si concretizzassero, permetterebbero alla Merkel di fronteggiare "l'inevitabile no dello stato che occupa la penisola italiana al rinnovo delle sanzioni contro la Russia a settembre". La Merkel potrebbe assumere nuovamente un ruolo guida, e portare avanti iniziative per conto proprio. Un balsamo per l'ego europeo dopo la brutta esperienza dell'accordo sul nucleare iraniano. Alleviare l'irritante problema ucraino in questo modo permetterebbe alla Germania di considerare la Russia come un partner naturale, proprio adesso, nell'era dei dazi statunitensi in cui è ancor meno probabile segnare un punto contro un debito europeo fuori controllo o nel rifinanziare le infrastrutture francesi. La cosa permetterebbe alla Merkel anche di disinnescare in qualche modo la bomba immigrazione, elaborando in accordo con Putin un meccanismo che permetta al milione di rifugiati siriani presenti in Germania di tornare a casa. La prossima settimana la Merkel si recherà in Cina, a cercare il modo di rendere sopportabili le pressioni statunitensi sull'Europa schierandosi con l'AmeriKKKa contro la Cina. Potrebbe succedere al contrario che la Germania finisca con l'avvicinarsi alla Cina -che ha già effettuato corposi investimenti in Germania- invece che agli Stati Uniti. In ogni caso la Germania non può evitare facilmente di finire sotto il tiro incrociato di questa guerra commerciale.
Ovviamente lo establishment britannico farà praticamente tutto per impedire che il centro di gravità della politica lasci le coste dell'Atlantico per spostarsi verso est. Il capo del British Security Service, il MI5, è già stato mandato in missione per conto di Washington a fare propaganda su una "minaccia" russa rivolta a un insieme di trenta paesi europei; l'inviato degli USA a Kiev, Kurt Volker, ha affermato che gli ameriKKKani sosterranno militarmente la riconquista dell'autoproclamata repubblica secessionista di Donetsk e di quella di Lugansk.
Poi c'è il Giappone, che ha considerato per molto tempo la penisola coreana come un cuscinetto fra l'arcipelago e il continente. Il fatto che fosse politicamente divisa e che al Sud fossero di stanza truppe ameriKKKane è sembrato costituire una garanzia di questa funzione. Adesso però il Sud ha dato a Moon il mandato di procedere alla riunificazione; in risposta Kim Jong Un ha iniziato in maniera teatrale un'accattivante offensiva diplomatica. Lo status quo del cuscinetto, fin qui dato per scontato, scontato non è più. Potrebbe intervenire un accordo e, sia pure in potenza, col tempo l'influenza cinese potrebbe aumentare. Il professor Victor Teo ha notato che "il fatto che Trump abbia concordato un incontro col leader nordcoreano Kim Jong Un ha messo da parte Abe e gli ha segato le gambe".
Sia pure a livello potenziale, si tratta di un problema grave per il Giappone che perderebbe il cuscinetto che lo separa dalla Cina e che perderebbe il proprio ombrello difensivo in proporzione a qualunque ipotetico ritiro statunitense dalla regione. Politico scrive che altrettanto snervante è stato "l'apparente voltafaccia di Trump sul partenariato transpacifico. A gennaio 2017, dopo tre giorni dall'insediamento, Trump ha stracciato l'accordo commerciale che Obama aveva stretto con dodici paesi per arginare l'influenza della Cina. [...] La cosa ha umiliato Abe, che sessantasette giorni prima si era precipitato alla Trump Tower per scongiurare l'uscita di Washington dal partenariato transpacifico. Dodici mesi dopo Trump ha rincarato la dose adottando una politica di indebolimento del dollaro e schiaffando dazi sull'acciaio e sull'alluminio, del venticinque e del dieci per cento rispettivamente. Ha dispensato  esenzioni per il Canada, il Messico e altri paesi, ma nessuna per il carissimo amico Abe. Poi Trump ha avanzato la proposta di dazi sulle merci cinesi per centocinquanta miliardi di dollari in complesso. E la Cina è il principale mercato per le esportazioni giapponesi."
Non c'è da stupirsi se Abe si sia rivolto alla Cina, sia per coprirsi le spalle sui dazi statunitensi sia per infilare il Giappone nei colloqui strategici sul futuro della Corea. Il premier cinese Li Keqiang è stato in visita ufficiale a Tokio il 9 maggio, per partecipare a colloqui a tre con il leader giapponese e quello sudcoreano.
Il fatto è che questa rifondazione delle relazioni a tre è venuta dopo una serie di colloqui ai massimi livelli in materia di economia svoltisi il mese scorso fra Cina e Giappone. Se si ha presente il chiaro ammonimento della Cina sul problema del dollaro e sulla necessità di ampliare il ricorso allo yuan e ad altre valute nei traffici commerciali, non è difficile intuire che se i colloqui avranno successo i commerci fra Cina e Giappone abbandoneranno gradualmente il dollaro.
A proposito degli stessi argomenti, Lawrence Sellin scrive sul The Daily Caller che
..L'impegno cinese per la cooperazione fra Iran e Pakistan è stato anch'esso fruttuoso. Negli ultimi mesi sono stati siglati molti accordi commerciali e nei settori della difesa, dello sviluppo di armamenti, del controterrorismo, in campo bancario e ferroviario, nella cooperazione parlamentare e da ultimo anche nelle arti e nella letteratura.
Colloqui segreti in materia di sicurezza fra militari cinesi, pakistani e iraniani sono in corso da almeno un anno. Un grosso incentivo alla discussione è stato il progetto cinese per la costruzione di una base navale sulla penisola pakistana di Jiwani, nell'immediate vicinanze di Gwadar e vicino alla frontiera iraniana...
Un'alleanza fra Cina, Iran e Pakistan avrebbe ripercussioni di vasta portata per la politica estera statunitense. Tanto per cominciare renderebbe insostenibile il corrente impegno in Afghanistan e porterebbe con ogni probabilità all'uscita degli ameriKKKani dal paese, a condizioni dettate da cinesi e pakistani. Poi segnerebbe l'inizio di una strategia di estromissione e di divieto d'accesso alla Quinta Flotta statunitense per le acque del Golfo Persico e del Mar Arabico simile a quella che i cinesi hanno cercato di realizzare contro la Flotta del Pacifico nel Mar Cinese Meridionale. Il solo prendere in considerazione un'alleanza come questa potrebbe fornire agli iraniani uno strumento di pressione di tutto rispetto per quanto riguarda le sanzioni statunitensi.
L'Iran è già entrato nella zona economica di libero commercio dell'Asia orientale, e il 9 giugno parteciperà anche all'incontro del 2018 del Consiglio per la Cooperazione di Shanghai. Non pare proprio che l'Iran stia soffrendo di emarginazione a livello internazionale per le vicende legate all'accordo sul nucleare.
A tenere insieme tutte le tessere di questo mosaico è l'idea cinese -nonché russa e iraniana- che lo yuan e l'euro debbano essere più facilmente utilizzabili come moneta di scambio, e che "gli USA correggano la propria politica monetaria", che non deve più oscillare fra cicli di forza e di debolezza in quel modo che è tanto remunerativo per le istituzioni finanziarie ameriKKKane ma letale per i mercati emergenti. Su questo sono praticamente tutti d'accordo.
Perché si arrivi a questo, la Cina ha bisogno di ampliare e di rafforzare la base dello yuan, e costruire un mercato liquido per il debito sovrano cinese. La borsa dei futures sul petrolio a Shanghai ha già un suo impatto sul mercato delle emissioni cinesi; è in esso che gli investitori piazzano i propri ordini, consapevoli del fatto che lo yuan è convertibile in oro. Le sanzioni statuitensi contro l'Iran tireranno la volata a questo fenomeno perché il petrolio iraniano verrà trattato a Shanghai. La borsa londinese dei metalli, che è di proprietà cinese, ha recentemente annunciato che inizierà a trattare anche opzioni su merci emesse in yuan. Presto ci saranno benchmark per le merci basati sullo yuan. Insomma, il ricorso al dollaro nelle transazioni commerciali che non coinvolgono gli USA sta progressivamente diminuendo.
Sembra che la seconda condizione che i cinesi considerano necessaria perché il mondo dei commerci si riequilibri grazie alla "correzione della politica monetaria" statunitense stia verificandosi, quasi secondo serendipità, grazie a dinamiche finanziarie interne che procedono per conto proprio. Il "dollaro debole" di Trump ha lasciato il passo per una serie di motivi a un forte apprezzamento. Ci sono dunque le condizioni ideali perché la Cina svaluti senza scosse lo yuan, che nel corso dei mesi scorsi ha acquistato valore sul dollaro, e perché anche l'Europa faccia lo stesso, in un ribasso coordinato contro l'impennarsi del dollaro. Il tasso di cambio più basso dello yuan e dell'euro non farà che rovesciare, in parte o del tutto, l'impatto delle sanzioni statunitensi sulle esportazioni verso gli USA. Chissà se la Merkel ha in agenda un'operazione monetaria di questo genere, per il suo prossimo viaggio in Cina.
Insomma, cosa succede se queste politiche statunitensi si rivelano insostenibili? Il punto debole fondamentale della dottrina neoconservatrice basata sull'esercizio della massima pressione è il fatto che in essa non è previsto alcun passo indietro che non si presenti come un'umiliazione nazionale. Di solito se con le pressioni non si ottiene niente si considera scontato che non se ne sono fatte abbastanza. Per esempio, Trump attribuisce la debolezza dei termini dell'accordo sul nucleare iraniano al fatto che Obama non riuscì a tenere sotto sanzione l'Iran per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Secondo Trump, Obama allentò la morsa troppo presto, e ottenne un "accordo viziato da debolezza".
Una questione più profonda, avanzata anche dalla Cina rispetto alla Corea del Nord, è che esistono altri che non pensano secondo la logica del Presidente Trump. L'utilitarismo radicale che traspare nell'affermazione di Trump secondo cui Kim Jong Un si troverà "più sicuro, più felice e più ricco" se deciderà di sottostare al suo ultimatum riflette esattamente il materialismo superficiale che ormai ispira tutta la politica mondiale. L'esortazione a ritornare ai valori nazionali tradizionali, bollata come "populismo", costituisce esattamente la negazione delle politiche ispirate ad un utilitarismo alla John Stuart Mills; essa è foriera della volontà di ritornare esseri umani a tutto tondo.

venerdì 22 giugno 2018

Il mercato immobiliare di Firenze: una carriera vincente solo per veri leader



Firenze. Nove e mezzo del mattino, una via senza traffico lontana dal centro.
Una signora bionda non più giovane, non esile, tutta scritta ne' bracci e con una brutta psoriasi ai gomiti va di portone in portone con un quadernone a quadretti.
Il sedicente "Soluzioni abitative Via Veneto" le sta facendo suonare tutti i campanelli della strada per chiedere a chiunque risponda se ci sono appartamenti in vendita.
Alla presenza di chi scrive, oltre a decine di silenzi colleziona tre vaffanculo, una maledizione e la cauta visita di una centenaria col deambulatore, venuta a controllare chi era, per una volta, a farle visita a quell'ora.



La civiltà dell'atomo, ogni giorno ancora un vertice.

mercoledì 20 giugno 2018

Alastair Crooke - Il trumpismo diventa netanyahuismo



Traduzione da Strategic Culture, 21 maggio 2018.

La dichiarazione presidenziale dell'otto maggio sull'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano ci impone una ridefinizione del trumpismo.
Quando Trump prese possesso della carica, era ampiamente noto che la sua ideologia si basava su tre pilastri fondamentali: in primo luogo i costi sostenuti dagli USA per mantenere l'apparato bellico imperiale (ovvero la gestione dell'ordine mondiale basato sul predominio ameriKKKano) erano semplicemente troppo onerosi e ingiusti, specie per quanto riguardava il mantenimento dell'ombrello difensivo, per cui altri paesi dovevano essere costretti a condividerne i costi. In secondo luogo, i posti di lavoro ameriKKKani erano stati, per così dire, rubati all'AmeriKKKa, e avrebbero dovuto essere ripristinati tramite cambiamenti forzati negli accordi commerciali. Terzo, a questo si sarebbe arrivati applicando le tattiche dell'Arte del Giungere a un Accordo.
La situazione aveva almeno il pregio della chiarezza, se non quello di costituire un progetto interamente realizzabile. Solo che per lo più pensammo che questa Arte del Giungere a un Accordo altro non contemplasse che minacciare, angariare e vessare la controparte, chiunque essa fosse, facendo alzare la tensione fino a livelli esplosivi per poi offrire "un accordo" all'ultimissimo minuto e nel momento più grave della crisi. All'epoca il punto era proprio questo: Trump avrebbe scagliato bombe verbali per mettere a soqquadro le aspettative correnti, si sarebbe mosso concretamente per forzare gli eventi, ma l'obiettivo, si pensava in genere, era quello di arrivare a un accordo. Un accordo in sintonia con gli interessi mercantili e politici ameriKKKani, ma pur sempre un accordo.
Probabilmente abbiamo mal interpretato l'incremento che Trump ha impresso al già surdimensionato apparato bellico ameriKKKano. Sembrava che si trattasse di farne un potenziale strumento di pressione, un qualcosa che può essere offerto come ombrello difensivo -a paesi che soddisfacevano determinate condizioni- o negato a quanti non avrebbero messo mano alla tasca nella misura desiderabile.
Con la dichiarazione dell'otto maggio tutto è cambiato. Non si è dibattuta solo l'uscita degli USA da un accordo; si è dichiarata contro l'Iran una guerra finanziaria senza quartiere, con termini di resa definiti come rovesciamento del governo e totale sottomissione agli USA. Solo che tutto questo non è più finalizzato al raggiungimento di un accordo migliore, più favorevole agli USA, o al renderlo più remunerativo. Si tratta di usare il sistema finanziario come strumento per distruggere la moneta e l'economia di un altro paese. L'apparato militare statunitense è stato ulteriormente enfiato per essere usato, perché sia in grado di rovesciare fuoco e fiamme sui paesi che non si mostrano condiscendenti.
Nahum Barnea, un editorialista di primo piano nello stato sionista, scrivendo nel quotidiano in lingua ebraica Yediot Ahronot esprime in termini stringati il piano: "Le aspirazioni nel lungo periodo dello stato sionista hanno un obiettivo ambizioso: portare l'Iran al collasso economico grazie alle sanzioni ameriKKKane. Il collasso economico porterà al rovesciamento del governo. Il nuovo governo abbandonerà l'opzione nucleare e i piani per espandersi in tutta la regione. Gli stessi fattori che hanno causato il crollo dell'Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso causeranno il crollo della repubblica islamica. Il Presidente Reagan lo fece con i sovietici; il Presidente Trump lo farà con gli iraniani. Trump si è innamorato di questa idea."
L'adozione dell'idea di rovesciare il governo iraniano, la "concessione" unilaterale di Gerusalemme allo stato sionista e il benestare statunitense per attacchi contro le truppe e le infrastrutture iraniane in Siria in qualunque località e in qualunque tempo costituiscono l'assoluta antitesi di un approccio basato sull'Arte di Giungere a un Accordo. Sono invece il modo di far crollare davvero, e in senso materiale, il Medio Oriente come esso è oggi, per mezzo della forza finanziaria e militare. Un altro utopistico progetto occidentale in cui si intende eliminare i difetti (per esempio questi "Ayatollah" che si oppongono perversamente all'AmeriKKKa e alla sua missione di civiltà) che l'elemento umano introdurrebbe in un mondo altrimenti perfetto, ricorrendo alla forza o all'eliminazione fisica.
Il politologo statunitense Russell-Mead pensa che l'otto maggio il trumpismo abbia attraversato una metamorfosi e abbia cambiato rotta, dirigendosi verso un'"epoca neoameriKKKana nella politica mondiale, piuttosto che verso un'epoca postameriKKKana [com'era quella di Obama]" (le iniziative di Trump sembrano molto spesso radicalmente ispirate dalla repulsione per Obama).
Insomma, "l'amministrazione vuole ampliare il potere ameriKKKano piuttosto che limitarsi a governarne il declino. Almeno per adesso, il Medio Oriente è il perno di questa posizione nuovamente assertiva", afferma Russell-Mead, spiegando come nasce il nuovo atteggiamento di Trump:
L'istinto dice [a Trump] che la maggior parte degli ameriKKKani sono tutt'altro che ansiosi di vedere un mondo "postameriKKKano". I sostenitori del signor Trump non vogliono lunghe guerre, ma non sono intendono neppure rassegnarsi alla stoica accettazione del declino del proprio paese. Per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti dell'Iran, Trump pensa che rafforzare l'Iran significhi più probabilmente rafforzare i sostenitori della linea dura piuttosto che i moderati. Come disse una volta Franklin Roosevelt in uno dei discorsi al caminetto, "Non c'è uomo che possa trasformare una tigre in un gattino a forza di carezze."
L'amministrazione Trump è convinta che anziché costringere gli USA alla ritirata, l'arroganza con cui l'Iran si è allargato in Medio Oriente rappresenti in realtà un'occasione d'oro per ribadire la potenza ameriKKKana. Spera che l'alleanza in via di consolidamento fra paesi arabi e stato sionista fornirà all'AmeriKKKa alleati nella zona pronti a sobbarcarsi la maggior parte dei rischi e dei costi di una politica antiiraniana, in cambio del sostegno degli USA. Il potenziale aereo dello stato sionista e gli eserciti arabi, uniti alle reti di servizi e alle relazioni locali che i nuovi alleati portano in dote, possono mettere l'Iran sulla difensiva in Siria e altrove. Questa pressione militare, unita alla pressione economica che deriva da una nuova ondata di sanzioni, indebolirà la presa che l'Iran ha sui suoi alleati di prossimità e creerà problemi politici ai mullah in patria. Se essi risponderanno facendo ripartire il programma nucleare, i raid aerei sionisti e ameriKKKani potrebbero sia fermare questi sviluppi, sia infliggere al prestigio della Repubblica Islamica una batosta umiliante.
A quel punto, sono convinti quelli di Trump, l'Iran dovrà affrontare un negoziato ben diverso; un negoziato in cui gli USA e i loro alleati si trovano in una posizione di forza. Oltre ad accettare limiti alle proprie attività in campo nucleare, sperano gli ottimisti, l'Iran rinuncerà anche alle proprie ambizioni sul Medio Oriente. Il futuro della Siria sarà deciso dagli arabi, e l'Iran accetterà che l'Iraq si comporti da stato cuscinetto neutrale fra le sue frontiere e il mondo arabo sunnita; una pace precaria finirà così per prevalere.
Davvero una bella utopia, Trump che risistema il Medio Oriente. Che cosa potrebbe mai andare storto?
Russell-Mead non lo dice esplicitamente, perché preferisce usare il vocabolo neoameriKKKano, ma quello che ci troviamo davanti non è che un miscuglio del trumpismo prima maniera col neoconservatorismo puro e semplice. O con quello che potremmo definire netanyahuismo. Certo, il classico approccio alla Trump che consiste nel prendere decisioni a effetto, di quelle lì per lì gradite alla base ma che spesso sembrano mancare di una visione strategica approfondita o di considerazione per i rischi nel più lungo periodo, è sempre presente; solo che l'"accordo" cui si puntava prima è stato sostituito dalla ricerca della sottomissione completa. Da quello che Russell-Mead chiama "ampliamento del potere ameriKKKano".
La cerimonia di passaggio dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme riflette esattamente questa perdurante campagna di decisioni ad effetto che sono poi una sua caratteristica essenziale. Dapprincipio infatti Trump aveva respinto le pressioni repubblicane favorevoli al trasferimento dell'ambasciata (come riportato da Haaretz), ma come sottolineato anche dal quotidiano sionista il suo atteggiamento all'inizio del mese era completamente cambiato: "La cerimonia di apertura della nuova ambasciata USA a Gerusalemme era sostanzialmente un evento ad invito della campagna di Trump":
I partecipanti previsti avevano tutti giurato lealtà al presidente e appartenevano a uno dei gruppi che lo aveva salutato come un nuovo Ciro il Grande: ebrei ortodossi, sionisti di destra (compreso il Primo Ministro Benjamin Netanyahu) e appartenenti alla sua base nel Partito Repubblicano, provenienti soprattutto dalla comunità evangelica.
Tutto questo era in bella evidenza fin dalla cerimonia di benedizione inaugurale tenuta dal pastore della enorme chiesa battista texana, il dottor Robert Jeffress. Gli occhi stretti in preghiera, ha ringraziato Dio per 'il nostro grande Presidente Donald Trump', ha lodato il modo in cui Israele "ha benedetto questo mondo indicandoci la tua persona, l'unico vero Dio, con i messaggi dei suoi profeti, con le sue scritture e con il Messia" e ha pregato per Gerusalemme "£in nome dello spirito del Principe della Pace, Gesù nostro signore."
Per Netanyahu un'ubriacatura di successo. Ben Caspit, nel quotidiano sionista Maariv, ha descritto in lingua ebraica le condizioni di Netanyahu: "è quella che chiamano euforia". I neoconservatori sono in piena azione: Eli Lake del Bloomberg fa collegamenti fra la dichiarazione sull'Iran e la condotta dei negoziati commerciali con la Cina. In un articolo intitolato "Trump capitola alla cinese ZTE e indebolisce la sua strategia contro l'Iran". Lake cita uno di coloro che hanno messo a punto le stringenti sanzioni contro l'Iran, Richard Goldberg, notando che "Se si comincia a barattare un allentamento delle sanzioni in cambio di migliori condizioni commerciali, il potere di deterrenza delle sanzioni ameriKKKane [contro l'Iran] si attenua molto velocemente."
Lake aggiunge che il suo collega David Fickling ha sottolineato qualcosa di simile nel suo editoriale, quando ha osservato che il passo indietro di Trump con la ZTE costituisce precedente di un pericoloso azzardo morale. "Qualunque governo abbia una disputa con Washington adesso sa che c'è solo bisogno di minacciare la base elettorale di Trump per averla vinta," ha scritto Fickling, intendendo in concreto che una volta che si imbocca il sentiero neoconservatore della guerra finanziaria puntellata con le armi occorre mantenere una linea in cui non si ha rispetto per nessuno, anche in negoziati abbastanza a se stanti come quello commerciale con la Cina.
Esatto. Neoconservatori come John Bolton rifuggono tradizionalmente dal negoziato e dalla diplomazia, e preferiscono invece il potere puro e semplice e l'applicazione di pressione a danno della controparte per costringerla a fare concessioni o a sottomettersi. Il fatto è che mentre la dichiarazione dell'otto maggio era diretta esplicitamente contro l'Iran, le sue conseguenze si espandono in tutto lo spettro della politica estera. Se venire incontro alla Cina per quanto riguarda la ZTE (un fabbricante cinese di smartphone e di semiconduttori) "indebolisce la strategia contro l'Iran", allora qualunque esenzione o qualunque allentamento delle sanzioni nei confronti delle società europee che hanno investito in Iran andrà a indebolire questa strategia in modo anche più diretto. Anche una qualsiasi concessione fatta alla Russia finisce per influire su di essa. Insomma, si tratta di una strategia del tipo "tutto o nulla" altamente sensibile al contagio.
C'è poi l'incontro con la Corea del Nord. Un funzionario europeo ha detto a Laura Rozen, cronista basata a Washington, che l'amministrazione Trump è sicura di avere la possibilità di arrivare ad un accordo sul nucleare con la Corea del Nord perché è arrivata al massimo la campagna di pressioni organizzata contro di essa. "Lo chiamano lo scenario Corea del Nord," ha detto il funzionario europeo. "Si schiacciano i nordcoreani, si schiacciano gli iraniani... e faranno quello che ha fatto Kim Jong Un: si arrenderanno".
Solo che la squadra di Trump, se davvero crede che siano state le sanzioni a costringere Kim Jong Un a chiedere un incontro a Trump, può aver mal interpretato la situazione.
Kim Jong Un in realtà ha esplicitamente avvertito il Segretario di Stato Pompeo, nel corso del loro incontro, che il motivo per cui chiedeva un inconto era che "abbiamo perfezionato la nostra capacità nucleare", vale a dire che la Corea del Nord, come potenza nucleare vera e propria, sente adesso di avere il potere necessario per costringere gli ameriKKKani a lasciare la penisola e a portarsi via anche le loro minacce e i loro missili. Su questo punto Kim Jong Un ha il sostegno della Corea del Sud, anche se è dubbio che esso sia tanto convinto da poter reggere le minacce di Washington; di qui la rabbia di Jong Un per la ripresa delle esercitazioni militari sudcoreane con gli USA, contrarie ai precedenti abboccamenti. L'avvertimento ricevuto da Pompeo è stato ampiamente ignorato a Washington, ma nondimeno "questo [incontro programmato] non è il risultato di sanzioni imposte dall'esterno".
In un certo senso adesso Trump ha bisogno di questo incontro, e di una rapida "vittoria" che arrivi in tempo per le elezioni di metà mandato. Ne ha più bisogno di quanto serva a Kim Jong Un. Il leader nordcoreano ha già avuto il suo successo dimostrando a Pechino, a Mosca e a Seoul che sta seriamente cercando di arrivare a una Corea nucleare, smilitarizzata e unificata (che sono le richieste fattegli dalla Cina) e che il problema non è lui, ma le richieste senza compromessi avanzate da Washington. Insomma, l'incontro serve alla Corea del Nord per migliorare le relazioni con la Cina e con la Russia e per continuare con le aperture verso la corea del Sud. Non segna certo la fine di Kim Jong Un.
In ogni caso vedremo come andrà a finire. Nascono però due interrogativi conseguenti: ora che Trump ha abbracciato quello che per Russell-Mead è il neoameriKKKanismo, quale strategia adotteranno gli USA se la Corea del Nord e l'Iran rifiuteranno di dare segno di sottomissione? Il passo successivo è l'attacco militare? In secondo luogo, è verosimile che questa strategia funzioni? Dovremo aspettare e vedere. Solo che a questo proposito c'è un dato di fatto importante: non siamo nel 2012, l'anno in cui gli USA imposero le sanzioni all'Iran, ma nel 2018, e molte cose sono cambiate.
Trump può anche credersi l'equivalente contemporaneo di un Cesare Borgia del sedicesimo secolo, con Bolton che gli fa da Machiavelli e Mattis da Leonardo che costruisce macchine belliche, fa assassinare i nemici e mette sotto assedio le città stato che non intendono sottomettersi. Il fatto è che Cina, Russia e Iran non sono città stato che è possibile assediare a capriccio e senza subire conseguenze. La base elettorale di Trump dirige il proprio disgusto sulla palude di Washington e sulle tasse cavasangue volute dalla sua élite politica e aziendale e chiede a gran voce che la palude sia bonificata; anche Cina, Russia e Iran vogliono che sia bonificata la palude che si chiama "ordine mondiale" e che venga loro restituita la sovranità.
Cina, Russia e Iran sanno benissimo che dovranno affrontare una guerra finanziaria per il loro rifiuto di collaborare. Capiscono, come Putin ha sottolineato ancora una volta anche questo mese, che il monopolio del dollaro ameriKKKano costituisce il centro della palude dell'ordine mondiale. E sanno che alla fine solo un'azione collettiva potrà bonificarla. Chissà, anche l'Europa alla fine potrebbe unirsi al fronte di coloro che non collaborano per protestare contro le sanzioni che gli USA hanno imposto.




martedì 19 giugno 2018

Miguel Martinez - Zingari, campi e resilienza


Il politico toscano Enrico Rossi fece lodevolmente circolare anni fa questa foto, causando reazioni isteriche nella feccia "occidentalista" che sporca internet con i propri piagnistei.

I sudditi dello stato che occupa la penisola italiana sono stati sottoposti per almeno venticinque anni a una campagna mediatica incessante, prima centrata su una "libertà" contrapposta al "comunismo" -vale a dire alla giustizia sociale- e poi, dopo i radicali e innovativi interventi urbanistici sul suolo statunitense avvenuti nel settembre del 2001, su una "sicurezza" contrapposta al "degrado", ovvero ad ogni comportamento diverso da quelli di consumo. Perché il degrado diventi terrorismo non è necessario che la parola passi alle armi; è sufficiente che l'esposizione delle contraddizioni, delle nefandezze e delle ridicolaggini della one best way occidentale sia abbastanza documentata e mordace da farsi percepire come un pericolo dalla committenza.
La campagna ha raccolto frutti che ultimamente si sono fatti persino sovrabbondanti e ha comunque imposto da decenni un adattamento all'agenda politica dell'intero arco costituzionale che ha portato a risultati concreti che sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli. I sudditi vivono nel perenne timore di essere multati, sfrattati, denunciati, querelati, ripresi, tassati e licenziati; tutto grazie a un apparato legislativo a servizio di "libertà" e "sicurezza", pienamente avallato da amplissimi suffragi.
A questa situazione sfuggono due categorie soltanto.
La prima è quella di chi vive al di sopra delle regole, una classe sociale siderea sui cui redditi e sul cui tenore di vita multe, sfratti, denunce, querele, riprese, tasse e licenziamenti non hanno alcuna influenza. Anche in caso di rovesci davvero seri un party in tono ridotto e un servizio fotografico insieme a qualche comprensiva ragazza con pochi vestiti addosso sono sufficienti a riaccreditare come neo-perbene il soggetto interessato.
La seconda è quella di chi vive al di sotto delle regole. Una classe sociale talmente infima e insolvibile che multe, sfratti, denunce, querele, riprese, tasse e licenziamenti non trovano appiglio alcuno e  falliscono spesso il colpo.
La propaganda è ovviamente orchestrata in modo che il risentimento dei sudditi si diriga unicamente sulla seconda categoria: l'idea che esista qualcuno che vive, sia pure in maniera precaria e ai limiti dell'umanità, al riparo di tanto occhiuti ed artefatti impicci deve risultare intollerabile. Chi avalla i più sanguinari propositi è di solito un individuo convintissimo che in certe condizioni si troverà sempre e comunque qualcun altro e che per lui un piatto di spaghetti ci sarà sempre e comunque; di solito rimane molto male a scoprire che c'è chi si adatta a dormire sotto il palco delle esecuzioni invece che in un letto, e che per giunta la fa spesso franca mandando all'aria i suoi patetici conti da servo.
Al momento attuale al centro dell'attenzione mediatica sono tornati i rom, o zingari o comunque si vogliano chiamare le poche decine di rappresentanti della seconda categoria su cui un diplomato in sovrappeso incapace di laurearsi anche in dodici anni (e attuale "ministro dell'interno" dello stato che occupa la penisola italiana) ha basato una campagna elettorale permanente.
Incapaci come e più del solito di influire costruttivamente su eventi anche minimi, i politici "occidentalisti" giustificano la propria esistenza e soprattutto le proprie retribuzioni ricorrendo ai soliti sistemi.
Alla fine di giugno del 2018 il "ministro" su ricordato ha fatto sapere che intende sprecare il tempo di molti gendarmi di stanza a Firenze e il corrispettivo in denaro pubblico destinato a retribuirli per farsi scortare in visita nel "campo nomadi" del Poderaccio. Dal momento che la "libera informazione" occidentale registra da anni ogni movimento di individui come questo, chi possiede apparecchi televisivi o è solito consultare le gazzette potrà contare su una copertura mediatica dell'iniziativa ai limiti del capzioso.
Il compagno di malefatte telematiche Miguel Martinez ha lasciato perdere gazzette e televisori, e ha scritto qualcosa su Zingari, Campi rom e Resilienza che si riporta tal quale. 

 Ascoltando il dibattito sulla minaccia di Salvini di mettere ordine nel misterioso mondo dei “campi Rom”, a parte qualche risata sulla sua presunzione, mi sono venute in mente alcune riflessioni.
Definiamo i termini: a me la parola rom, come viene usata non piace. Significa semplicemente, “maschio sposato”, non esistendo – giustamente – alcun termine per definire l’insieme di quei “maschi sposati”, delle loro mogli e figlioli, i cui avi venivano dalla lontana India (cosa di cui loro non hanno ovviamente coscienza, se non in qualche caso di “tradizione inventata”).
Dire “Rom” dà la falsa idea che esista un “popolo Rom”, una “nazione Rom” magari, secondo la fatale scia dei nazionalismi ottocenteschi.
Si dice Rom per non dire Zingaro, che sarebbe offensivo, perché indica un antipatico lavativo probabilmente ladro.
Ma se proprio Salvini usa il termine Rom, vuol dire che anche quel termine ormai significa antipatico lavativo probabilmente ladro, per cui tanto vale usare la parola zingaro, che almeno ha un tocco di romantico.
Ora, precisiamo che quando dico zingaro, non intendo chiunque abbia un lontano avo che era un fuoricasta del nordest  indiano verso l’anno Mille: nella scuola elementare del quartiere, nessuno tranne me e qualche romeno si rende conto che la bravissima bambina romena dalla pelle scura, e la sua mamma che fa la donna delle pulizie (cui le famiglie affidano le chiavi di casa senza esitare) è una zingara.
Qui per zingari intendo soltanto quelli che abitano nei Campi e nei Paracampi. Dove per paracampi, intendo quelle case popolari in cui gli abitanti “zingari” ricostruiscono in brevissimo tempo più o meno la stessa struttura sociale.
Mentre per “italiani” intendo tutto il dispositivo culturale/legale/valoriale che possiamo associare alla “legalità”, al “progresso”, ai “diritti”, ecc. ecc.
Ora, definiti in questo modo capriccioso e impreciso i termini, guardiamo la cosa per la prima volta dal punto di vista degli zingari, e non solo da quello degli italiani:
Per gli zingari, vivere da italiani sarebbe suicida.
Ogni giorno, gli zingari vedono come sarebbero ridotti, se vivessero da italiani.
Basta infatti guardare i clochard.
I clochard non hanno affetti, non hanno sostegno, hanno solo l’alcol e crepano presto.
Gli zingari stanno incomparabilmente meglio, perché hanno una rete di rapporti tessuti attraverso i matrimoni, con una gerarchia del Padre Padrone e della Matriarca, che si regge sulla possibilità di disporre a suon di risate e di botte, di figlie e nuore, per mendicare, andare in sposa, allevare bambini, pulire tappeti e dedicarsi ad altri compiti utili, finché non diventeranno anche loro matriarche.
Mendicare permette di interagire in maniera complessa con il mondo esterno: da una parte prendendone risorse, dall’altra creando comunque un muro. La zingara che ti chiede soldi suscita reazioni molto complesse, perché sai che sta abusando del tuo senso di pietà, allo stesso tempo sai che ti fa sentire in colpa.
Questo muro viene rafforzato anche dalla scelta a prima vista sorprendente di abbigliarsi in maniera clamorosamente riconoscibile, come ha sottolineato Ugo Bardi anni fa, in un post che non riesco più a ritrovare.
In fondo erano riconoscibili anche i mestieri che offrivano qualche forma di scambio (calderai, venditori di cavalli, leggere la fortuna, fare musica, fare gli orsari).
Mendicare permette di ridistribuire risorse e fatica in modo ragionevole. Mentre lavorare – in senso “italiano” – significa che uno su venti che dovesse trovare lavoro, dovrebbe mantenere venti parenti. Per cui non è che si sia terribilmente tentati, almeno finché la Famiglia veglia: poi ne conosco, di zingari che hanno mollato per strada moglie e figli per andare a fare l’operaio e godersi la pazza vita da VIP di Individui Liberati e Moderni, facendosi post su Facebook, per ostentare l’ebbrezza di essere stati assunti in qualche fabbrica.
E’ fondamentale poi un sottofondo di ostilità esterna, che permette di rafforzare la solidarietà interna. Mai ideologica o nazionalista, semplicemente la certezza che il poliziotto o l’assistente sociale sono persone pericolose, che per pura cattiveria ti possono fare del male, e quindi è meglio fidarsi delle persone che si conoscono.
A questo punto subentra un altro meccanismo eccezionale: quello che erroneamente chiamiamo “nomadismo“, ma non ha nulla a che fare con il nomadismo delle steppe o dei deserti.
Quando gli zingari iniziano a pesare un po’ troppo, tolgono il disturbo. Che tra l’altro è il modo migliore per evitare rancori e violenza, a cui si affianca il brillante rifiuto del passato, l’idea che i parenti morti – invece di essere avi da divinizzare – siano vampiri.
Ecco che è naturale anche sfuggire a tutto il dispositivo di schedatura che caratterizza la modernità.
La prima volta che ho sentito degli zingari abruzzesi parlare nella loro lingua, sono rimasto folgorato: senza scrivere nulla, rifiutando ogni tentazione di “storia”, con un bell’accento da terroni, parlavano una lingua il cui parente più vicino è l’Urdu.
E la lingua, totalmente orale, non è solo un veicolo di segretezza, è anche l’elemento fondante della maniera in cui si immagina il mondo: almeno fino all’arrivo di Facebook, nulla minaccia di più di scioglierla, della scuola. E quindi non sorprende che per molti, la scuola sia più fonte di preoccupazione che di speranza.
Ponendoci per un momento fuori dai giudizi, ci sarà pure un motivo per cui un sistema sociale di questo tipo resiste da mille anni fuori dall’India (e magari da millenni nella stessa India), permettendo a chi altrimenti sarebbe già morto da secoli di prosperare e diffondersi ovunque.
Un sistema che non ha bisogno di libri, di bandiere, di religioni, di re, di costituzioni, di parlamenti, di magistrati, di conti, di banche…
… e che è sopravvissuto a tutti i libri, le bandiere, le religioni, i re, le costituzioni, i parlamenti, i magistrati, i conti e le banche.
Esiste vita al di fuori del vostro mondo.


domenica 17 giugno 2018

Alastair Crooke - Trump recede dalla strategia degli accordi: lo scenario mediorientale cambia



Traduzione da Strategic culture, 14 maggio 2018.

Nahum Barnea sullo Yedioth Ahronoth spiega abbastanza chiaramente quale sia il gioco fra stato sionista e Iran (in cui Trump sta cercando di intromettersi): dopo l'uscita degli USA dagli accordi sul nucleare iraniano, Trump minaccerà di scatenare una tempesta di fuoco contro Tehran nel caso l'Iran si azzardasse ad attaccare direttamente lo stato sionista. A Putin toccherà trattenere l'Iran dall'attaccare lo stato sionista dal territorio siriano, lasciando così libero Netanyahu di fissare nuove regole del gioco per cui lo stato sionista potrà attaccare e distruggere le truppe iraniane ovunque in Siria (e non solo alla frontiera meridionale, come fino ad oggi accordato) senza il timore di subire conseguenze.
Secondo Barnea si tratta di un triplo azzardo. "Netanyahu conta sulla moderazione di Khamenei, sulla credibilità di Trump e sulla generosità di Putin. Tre caratteristiche che questi personaggi non si sapeva possedessero... Il problema è cosa succederà se invece di demordere gli ayatollah sceglieranno la guerra o, più probabilmente, se la regione precipita in un conflitto a causa della condotta avventata e mal calcolata di una delle parti in causa. Trump aprirà un nuovo fronte in Medio Oriente per difendere lo stato sionista e l'Arabia Saudita? Se lo fa, va contro ogni promessa elettorale della sua campagna". Secondo un collega di Barnea, Ben Caspit, quello del sostegno militare statunitense è un problema già chiuso: "Gli Stati Uniti [hanno] promesso allo stato sionista pieno e totale sostegno su ogni fronte... se scoppia davvero una guerra regionale, gli Stati Uniti prenderanno immediatamente una posizione netta, si pronunceranno a favore dello stato sionista e manderanno a Mosca i messaggi appropriati per assicurarsi che il Presidente russo Vladimir Putin resti fuori dal conflitto e non si azzardi a intervenire, direttamente o indirettamente, a favore dei propri alleati Iran e Siria. Di ritorno da Washington [il ministro della difesa dello stato sionista] Liberman ha comunicato al Primo Ministro di aver ricevuto 'luce verde' in materia di sicurezza."
Caspit tratteggia con candore la relazione che esiste fra Bibi e Trump dopo l'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano. "Solo una cosa non è chiara," ha detto ad Al-Monitor una fonte molto vicina a Netanyahu a condizione di rimanere anonima; "vale a dire, chi è al lavoro per chi? Netanyahu sta lavorando per Trump, o è il Presidente Trump a servizio di Netanyahu? Almeno dall'esterno e dopo un attento esame, sembra che i due agiscano in perfetta sincronia". Dall'interno la sensazione è anche più forte; "esiste una tale coordinazione fra i due leader e i loro due uffici -l'Ufficio Ovale alla Casa Bianca e l'ufficio del Primo Ministro a Gerusalemme- che a volte sembra che siano un unico grande organismo", ha detto a Caspit un ufficiale superiore della difesa dello stato sionista.
"Per adesso l'azzardo sta funzionando: gli iraniani non hanno (ancora) risposto, e adesso hanno un'altra buona ragione per mostrare prudenza: la battaglia per l'opinione pubblica europea" dice Barnea. "Trump può anche aver dichiarato il ritiro degli Stati Uniti e agire di conseguenza. Ma sotto l'influenza di Netanyahu e del suo nuovo esecutivo ha scelto di spingersi anche oltre. Le sanzioni economiche contro l'Iran saranno molto più pesanti, assai più di quanto lo fossero prima della firma dell'accordo. "Colpiscili al portafoglio," aveva suggerito Netanyahu a Trump; se li colpisci al portafoglio soffocheranno, e se soffocheranno cacceranno gli ayatollah. La scorsa notte, con l'uscita dagli accordi sul nucleare, Trump ha abbracciato calorosamente questo approccio."
Insomma, a detta di sue stesse fonti lo stato sionista ha questa prospettiva: colpire ovunque l'Iran in Siria, isolarlo diplomaticamente (cosa assai meno plausibile) e colpirne l'economia. Il "regime" iraniano si troverà "costretto" a gettare l'economia del paese in un "vortice mortale" e la valuta iraniana finirà in caduta libera. Questo, se di deve credere alla narrativa dei falchi sionisti e ameriKKKani.
Va detto che l'escalation e lo scambio di missili attraverso la frontiera sionista del 9 e 10 maggio scorsi non è iniziata per colpa degli iraniani; non ci sono truppe del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica a ridosso del Golan. Non è stato l'Iran a prendere l'iniziativa, ma lo stato sionista, che ha colpito bersagli siriani come ha fatto regolarmente nel corso delle settimane precedenti. In questo caso tuttavia lo stato sionista ha cercato di accusare l'Iran (la preannunciata apertura dei rifugi nel Golan occupato rappresentava in qualche modo un avallare un'incombente provocazione) e di mettere Tehran sotto ulteriore pressione.
In concreto è stata Damasco a rompere lo status quo lanciando venti missili conto il Golan occupato senza tenere conto delle richieste di moderazione provenienti da Mosca; si tratta di un evento di maggiore portata di quanto lo sarebbe stato il lancio di missili da parte iraniana. Lo scambio di salve di missili è stato il primo caso, da decenni a questa parte, di fuoco siriano contro bersagli sionisti nel Golan.
Si tratta della prima "conseguenza non voluta" dell'annuncio di Trump: le provocazioni sioniste contro la Repubblica Islamica dell'Iran hanno paradossalmente costretto il governo siriano a tirare in ballo le alture del Golan occupato in qualità di prossimo campo di battaglia: "Se lo stato sionista continua con gli attacchi, la Siria penserà di lanciare missili o razzi al di là del territorio del Golan, per raggiungere lo stato sionista", ha previsto l'editorialista esperto in eventi bellici mediorientali Elijah Magnier.
Contrariamente a quanto se ne dice sui principali media, la lotta di Trump contro l'Iran ha ramificazioni geopolitiche assai più ampie che non l'inasprimento delle tensioni che esistono tra Iran e stato sionista. Nelle prossime settimane assisteremo senz'altro ad ulteriori casi di "conseguenze non volute" per gli USA.
Le implicazioni di più vasta portata dell'interpretazione sionista della "sintonia fra Trump e Netanyahu" su esposta -sempre che l'interpretazione sia corretta, e probabilmente lo è- implicano un mutamento strategico. Non è più l'Arte del Giungere a un Accordo a dettare la linea bellica, quella che implica uno scambio fra le parti e in ultima analisi un accordo negoziato.
Barnea e altri osservatori sionisti possono aver ragione: Netanyahu e i suoi falchi hanno spinto Trump un passo oltre. Adesso siamo all'Arte del Rovesciamento dei Governi, alla guerra di logoramento contro l'Iran. All'assedio medievale, detto altrimenti.
Non solo l'Iran, ma anche la Corea del Nord, la Russia e la Cina dovranno fare molta attenzione. Sembra che la volontà di Kim Jong Un di parlare di abbandono del nucleare con Trump abbia galvanizzato e in qualche modo legittimato l'entusiasmo di trump per uno stile basato sull'Arte del Giungere a un Accordo, per le minacce di ferro e fuoco e per la tattica del bastone e della carota. A quanto sembra Netanyahu è riuscito a far giungere alle narici di trump l'odore di un piatto succulento come il rovesciamento del governo iraniano e a indurlo a seguirne la scia fino alle sue zampe nella speranza di conseguire un grosso successo. Promettere tempeste di fuoco -Trump pare proprio sicuro- è una carta sicura per ottenere l'altrui capitolazione.
Il problema è che Trump può trovarsi ad aver costruito un castello di carte. E quali buone carte aveva in mano Trump, da convincere Kim Jong Un a sedersi al tavolo delle trattative? O al contrario è Kim Jong Un a intravedere in un incontro con Trump proprio il prezzo che è necessario e sufficiente pagare affinché la Cina gli copra le spalle nel caso l'accordo che scambia la denuclearizzazione con la deameriKKKanizzazione della regione non funzionasse, e per portare avanti una sua diplomazia per la riunificazione con una Corea del Sud che adesso per la prima volta si è detta disponibile senza stare a considerare i desideri ameriKKKani?
Trump è al corrente di questa possibilità? Alle spalle della Corea c'è la potenza cinese. La Cina è il principale, quasi l'unico, partner commerciale della Corea del Nord; di fatto controlla l'applicazione delle sanzioni stabilite. E la Cina ne ha man mano stretto le maglie. La Cina ha invocato a lungo e con insistenza dei colloqui fra Kim Jong Un e Washington: Xi vuole che il vicino rinunci al nucleare e si riappacifichi con il Sud. Kim sta assecondando i desideri della confinante potenza, ma non c'è dubbio che abbia chiesto alla Cina di coprirgli le spalle nel caso andasse tutto storto.
Il fatto che con l'Iran Trump abbia fatto un passo indietro sull'Arte del Giungere a un Accordo in favore dell'Arte del Rovesciamento dei Governi non è di buon auspicio per la strategia cinese nei confronti della Corea del Nord. Se Trump pretende che Kim Jong Un capitoli -e se non lo ottiene la Cina avrà poche altre scelte se non mettersi nel mezzo, per impedire che Trump si dia ad exploit a base di nasi sanguinanti o a tentativi di rovesciare il governo nordcoreano. La Cina non vuole che Kim capitoli, né che venga deposto; non ha alcuna intenzione di ritrovarsi con un satellite statunitense o con missili statunitensi alla frontiera.
Questo abbandono della negoziazione in favore di un approccio centrato sul rovesciamento dei governi può indurre Trump ad equivocare l'atteggiamento condiscendente di Kim Jong Un, con la "conseguenza indesiderata" di trovarsi a scoprire che la Cina sostiene Kim Jong Un, e non lui. Le ripercussioni possono essere di vasta portata.
Lo stato sionista, in maniera simile, per decenni è andato vaticinando il rovesciamento dello stato iraniano ad opera degli iraniani stessi, proprio come i funzionari sionisti hanno vaticinato a cadenza regolare la debolezza di Hezbollah e la disaffezione dei libanesi nei suoi confronti... fino alle elezioni libanesi di maggio.
L'economia iraniana è stata in un certo senso poco reattiva, questo va detto; ma non è per nulla debole e men che meno si trova in una spirale mortale come vanno sostenendo i mass media. Di sicuro esiste disoccupazione giovanile, ma la situazione è la stessa in gran parte d'Europa. Il 2018 inoltre non è il 2012; L'Iran non si troverà isolato finanziariamente o politicamente dopo l'editto di Trump. In concreto l'inizativa di ameriKKKani e sionisti stringerà ulteriormente l'alleanza dell'Iran con la Cina e con la Russia. L'Iran guarderà certamente ad est.
Per i russi il messaggio ameriKKKano non potrebbe essere più chiaro: USA e stato sionista vogliono tenere aperta la piaga siriana perché è una piaga in cui lo stato sionista può mettere il dito quando vuole, in primo luogo per negare al Presidente Putin il conseguimento di un qualunque successo in politica estera, ma anche per mantenere Damasco in condizioni di debolezza. E Trump vuole che il governo iraniano capitoli su tutta la linea, o venga rovesciato.
Con l'uscita statunitense dall'accordo sul nucleare iraniano e la consegna di Gerusalemme allo stato sionista, Putin si ritrova un Medio Oriente destabilizzato, conflittuale e fragile. Proprio quello che la Cina e la Russia non volevano. I percorsi della Siria, dell'Iran e della Russia si incrociano adesso fittamente. Ci possono essere delle divergenze, ma la Siria rappresenta la ragione del loro combattere insieme, da veri compagni d'armi; ed è anche la ragione per cui, in una prospettiva più ampia, si comportano di comune accordo come parte di un'alleanza militare e strategica con la Cina.
Siria, Iran e Russia costituiscono un'alleanza di fatto, il cui campo strategico propriamente inteso è il Medio Oriente nel suo complesso, sia che lo si consideri dal punto di vista dell'inziativa cinese sulle vie commerciali, o della corrispondente struttura Russa del blocco territoriale fondato sull'energia. Tutti hanno interesse a mantenerlo stabile, non a destabilizzarlo. Le due mosse di Trump, l'abbandono dell'accordo e la questione di Gerusalemme, sono come granate a frammentazione scagliate nella struttura degli interessi strategici russi e cinesi.
L'abbandono della negoziazione a favore di un approccio che punta al rovesciamento dei governi di cui Trump è adesso protagonista sottopone Mosca a minacce di un tipo differente. Di sicuro Putin è consapevole del fatto che lo "stato profondo" in USA vuole che la quinta colonna filoatlantista, la base di potere economico di cui dispone a Mosca, lo tolga dalla carica e che la Russia abbracci l'ordine mondiale a guida ameriKKKana.
Forse Putin ha pensato che in qualche modo Trump avrebbe avuto ragione della "guerra civile" interna all'amministrazione statunitense e avrebbe trovato il modo di proseguire sulla strada della distensione. Purtroppo i segnali che arrivano sono inequivocabili: nelle dichiarazioni della Difesa statunitense la Russia è passata da "competitore" a "potenza revisionista" a minaccia numero uno (anche più del terrorismo) e infine a minaccia di tale livello da richiedere l'aggiornamento dei sistemi missilistici statunitensi, il rinnovo della flotta di sommergibili nucleari e il rimaneggiamento dell'arsenale atomico. Da lì si è passati a una dottrina di utilizzo delle armi nucleari basata su condizioni, e ultimamente ad un passo ulteriore, il rovesciamento del governo.
Comprensibilmente, Putin intende evitare un conflitto militare con gli USA se appena fosse possibile; al tempo stesso però si rende condo del fatto che se non pone limiti precisi all'azione degli USA e di Netanyahu, arriverà il momento in cui i falchi statunitensi lo presagiranno debole, e la cosa li farà solo insistere ancora di più. Putin ha cercato di mediare fra stato sionista e Iran, ma l'ardore antiiraniano venato di ideologia redentrice professato da Pompeo e da Trump gli ha messo i bastoni fra le ruote. Nei confronti degli USA anche Putin deve dunque prepararsi al peggio, comunque evitando di inficiare anzitempo le condizioni che permetterebbero al suo collega Xi Jinping di condurre il complesso confronto con Washington in materia di traffici e tariffe e di Corea del Nord.
La "conseguenza indesiderata" più notevole sarà che Putin e Xi decideranno che il mutato atteggiamento di Trump ha segnato il momento di tracciare un limite invalicabile e di decidersi a farlo rispettare. Se si arriva a tanto, tutto cambia. Trump è in grado di capirlo?