sabato 29 dicembre 2018

Alastair Crooke - Ecco l'effetto Khashoggi: Erdogan rovescia gli equilibri e i paesi del Golfo precipitano nella confusione



Traduzione da Strategic Culture, 26 novembre 2018.

Sembra che il quartetto impegnato a discolpare Mohammed bin Salman -composto dagli USA, dallo stato sionista, dagli Emirati Arabi Uniti... e dallo stesso Mohammed bin Salman, ovviamente- pensi di aver raggiunto alla grande il proprio scopo con Trump che ha sentenziato a discolpa: "Magari è stato lui, magari no". Probabilmente sono piuttosto soddisfatti di se stessi. Ora come ora Mohammed bin Salman rimane al suo posto e può imbarazzare tutti con la sua presenza al G20 mettendosi caparbio a cercare di stringere la mano agli altri leader davanti a una falange di fotografi, intanto che quelli cercano di scansare l'appestato arto. Ma seppure Mohammed bin Salman riesce a scampare alla crisi, dall'accaduto emerge più di ogni altra cosa quanto sia stato bravo a distruggere la Casa dei Saud intesa come impresa dedita alla leadership condivisa, e a minare alle radici le credenziali islamiche dell'Arabia Saudita. Il Presidente Trump e Jared Kushner, quasi inconsapevolmente, hanno cospirato perché questo fosse il risultato.
E che risultato. Come hanno detto a Istanbul a Pepe Escobar, "La macchina di Erdogan ha visto [nella vicenda Khashoggi] una di quelle occasioni che càpitano una volta nella vita per distruggere allo stesso tempo la traballante credibilità islamica della Casa dei Saud e per rafforzare il neoottomanesimo turco, ma tutto entro un contesto ikhwanita [ovvero nello stile dei Fratelli Musulmani]". Ora, si tratta di una sparata un po' grossa: magari il mondo arabo non è così ansioso di accogliere a braccia aperte il ritorno dell'impero ottomano o i Fratelli Musulmani. Ma con i paesi del Golfo così a terra in tedmini di legittimazione, Erdogan probabilmente è nel giusto se pensa di essersi messo a sfondare una porta aperta.
Ci sono interessi strategici che mettono il vento in poppa agli intenti di Erdogan. Erdogan ha dalla sua -come parte di ciò che la Turchia intende cercare di ottenere smettendola di rivelare poco per volta i dettagli della vicenda Khashoggi- la fine dell'assedio saudita al Qatar. Nel contesto della contrattazione è possibile che l'emiro del Qatar (così ci è stato detto) si rechi prossimamente in visita a Riyadh e che possa esserci una qualche distaccata -per non dire gelida- riconciliazione con Mohammed bin Salman. Il fatto è che il Qatar è fortemente debitore verso Erdogan per la fine dell'assedio... e per il precedente dislocamento di militari turchi nell'emirato, a tutela da qualsiasi aggressione saudita. Al pari della Turchia, anche l'emiro del Qatar è un generoso sostenitore dei Fratelli Musulmani.
La Turchia può contare anche su una stretta collaborazione strategica con l'Iran, divergenze sulla Siria nonostante. I due paesi condividono un forte interesse per la fine della presenza statunitense in Siria, e per la fine del progetto curdo nella regione patrocinato dallo stato sionista. Della partita fanno parte anche in questo caso i Fratelli Musulmani; il loro idillio con l'Arabia Saudita è finito, e certi settori del movimento -ancora in frantumi dopo la guerra contro di esso condotta dagli stati del Golfo- stanno tornando ai vecchi amori: Hezbollah e l'Iran; i Fratelli Musulmani non hanno mai rotto con la Turchia. Insomma, sembra che i Fratelli Musulmani siano destinati a diventare la bassa truppa nella battaglia in cui la Turchia intende strappare la corona della supremazia del mondo islamico all'Arabia Saudita.
Dietro questo convergere di interessi politici ci sono comunque anche il petrolio e il gas. A condurre i giochi in questo campo è la Russia, e la Turchia ne è il presunto centro. Senza troppo chiasso, Mosca sta consolidando un nuovo asse dell'energia: il Qatar ha già iniettato preziosa liquidità nella Rosneft, il gigante petrolifero russo, acquistandovi una voce rilevante e fornendole i mezzi per effettuare acquisizioni nel grande giacimento egiziano di Zohr. Il Qatar sta anche collaborando con l'Iran per lo sfruttamento del giacimento North Dome - South Pars, che i due paesi condividono nel Golfo Persico e che è il più grande del mondo. Recentemente il Qatar ha esteso in modo significativo i propri impianti per la produzione di gas naturale liquefatto. Anche l'Iraq ha appena ecconsentito a coordinare con la Russia le operazioni nel settore del petrolio e del gas.
Non è difficile capire cosa sta succedendo. Questa settimana la Russia ha completato la costruzione del TurkStream, il gasdotto sottomarino che la connette a quella Turchia che è al centro dei giochi in materia di fonti energetiche. Come nota Pepe Escobar, "il TurkStream si compone di due linee, ciascuna delle quali in grado di veicolare 15,75 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è destinata al mercato turco. La seconda passerà a 180 Km dalle frontiere occidentali della Turchia e raggiungerà l'Europa meridionale e sudorientale; le prime consegne sono previste per la fine del prossimo anno. I potenziali clienti sono la Grecia, lo stato che occupa la penisola italiana, la Bulgaria, la Serbia e l'Ungheria".
E la seconda fase? Ecco, presto il vecchio progetto di un oleodotto regionale che parte dal Golfo Persico e attraverso l'Iran e la Siria va verso l'Europa, magari passando dalla Turchia, potrebbe diventare di nuovo politicamente fattibile perché risponderebbe agli interessi di tutte le parti interessate ai nuovi equilibri politici regionali. Cosa significa questo? Significa che l'asse costituito da Qatar, Turchia, Iran e Russia può imporsi nel campo della produzione energetica in Medio Oriente, costringendo l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a un ruolo da comprimari. E poi c'è l'Iraq. Oltre al suo accordo di cooperazione nel settore con i russi, l'Iraq si è appena impegnato con l'Iran in un accordo di libero scambio, nonostante le minacce dei funzionari statunitensi. Pare proprio che gli sforzi fatti per mantenere l'Iraq entro la sfera di influenza degli USA non abbiano portato a gran che.
L'opportunità più unica che rara che la Turchia ha per "sotterrare la credibilità in materia di Islam della Casa dei Saud e per ripristinare le antiche istanze di Istambul per la supremazia sul mondo islamico" hanno ovviamente messo in allarme i paesi del Golfo, che si sentono profondamente vulnerabili.
Mohammed bin Zayed sta facendo pressione, con gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e il Bahrain, perché in Siria venga ripristinata la "prerogativa araba" e per "unirsi" al Presidente Assad nel respingere le influenze non arabe -ovvero turche ed iraniane- nel Levante. Non c'è dubbio che almeno in parte l'iniziativa di bin Zayed è dovuta all'intento di prendere le distanze e di differenziarsi rispetto all'oggi vituperato Mohammed bin Salman.
Nel Levante sunnita tira una pessima aria per Mohammed bin Salman, ci riferiscono persone recatesi negli ultimi tempi sul posto; si sta mettendo in discussione anche il ruolo di Custode dei Luoghi Santi di Mecca e Medina perché la barbarie commessa contro Khashoggi ha costretto a prendere in considerazione questioni che riguardano la sicurezza personale, oltre che quelle legate allo sfruttamewnto economico dei pellegrini diretti alla Mecca. I musulmani osservanti in genere si chiedono se valga la pena affrontare il pellegrinaggio: esiste un movimento che si è fatto portavoce del boicottaggio. La questione dell'indignazione popolare non andrebbe sottovalutata; i Luoghi Santi, con Gerusalemme, sono una componente identitaria importante.
L'iniziativa di Mohammed bin Zayed intenzionata a "salvare" il Levante dagli influssi non arabi potrebbe avere l'effetto collaterale di riportare la Siria all'ordine del mondo arabo, ovvero di restituirle il seggio nella Lega Araba; anche solo per questo sarebbe ben accolta a Damasco. Nel suo senso più ampio inoltre l'idea attesta il riconoscimento politico da parte dei paesi del Golfo del dato di fatto strategico della regione. Un altro fatto che non può che aiutare ad ampliare la portata della riconciliazione sul piano interno, e ad ultimare l'emarginazione degli jihadisti in Siria.
A nostro parere, pretendere di più non sarebbe altro che un pio desiderio per Mohammed bin Zayed e per i suoi patrocinatori occidentali. In generale i siriani non sono più sensibili alle sirene del panarabismo come in passato. In fondo, i siriani sono stati traditi più di una volta dall'ideale panarabo e l'idea di "una più grande Siria" ha perso terreno; oggi si nota di più un nazionalismo arabo siriano intransigente. Dalla guerra emerge una Siria più dura, meno cedevole. Damasco può anche accogliere di buon grado i tentativi di riavvicinamento da parte dei paesi del Golfo, ma non tollererà lezioni di idealismo panarabo da parte di chi ha finanziato la guerra contro questo antico paese arabo o contro chi lo ha sostenuto nei momenti difficili.
A restare nei pasticci adesso non è la Russia, come prevedeva fiducioso Obama, non è la Siria, non sono i suoi alleati. Il vento è cambiato. Adesso sono i paesi del Golfo, timorosi per quello che potrebbe succedergli se la Casa dei Saud dovesse crollare, a doversela vedere con una credibilità e una legittimazione in pezzi. Ed è lo stato sionista a trovarsi anch'esso nei pasticci, sia pure per ragioni diverse. Lo stato sionista aveva deliberatamente iniziato un percorso per il quale si era aggressivamente adoperato; un percorso che lo metteva contro l'Iran, contro la Siria, contro l'Iraq, contro la Turchia (combattuta avvalendosi dei curdi) e contro Hezbollah. Probabilmente Netanyahu sperava di trarre vantaggi dalla mancanza di buonsenso mostrata da Trump in questo contesto e dalla manipolazione delle smodate ambizioni di Mohammed bin Salman. Lo stato sionista ha oltremodo inasprito la propria ostilità con centinaia di incursioni aeree sulla Siria fino ad impattare e a mettere in pericolo gli interessi militari russi, a furia di insistere sul proprio diritto di bombardare liberamente e regolarmente il territorio siriano.
Ebbene, il comando supremo russo è stanco delle incursioni aeree sioniste. I russi vogliono una Siria stabile. Netanyahu aveva scommesso sul fatto che Trump, Kushner e Mohammed bin Salman -una compagine esigua e che non rappresenta nessuno- avrebbero cambiato il volto del Medio Oriente e ha perso: ci ha rimesso la supremazia nei cieli del settore nord dello scenario mediorientale. Putin rifiuta adesso di incontrarlo. Bibi ha messo lo stato sionista all'angolo: deve decidere se rovesciare il tavolo e mettersi contro gran parte della regione -oltre che contro i propri sottomessi palestinesi- o se fare come stanno facendo a Damasco i leader dei paesi del Golfo: prendere atto di una realtà sgradita, e fare buon viso.
L'altra domanda è: perché Erdogan continua a centellinare dettagli sul caso Khashoffi anche quando Trump e lo establishment europeo vorrebbero cordialmente che la facesse finita? Perché non accetta quanto gli viene offerto e non chiude il becco? Perché anche Erdogan teme che la Turchia resti impelagata nei propri problemi tutti particolari. Khashoggi rappresenta la possibilità di uscire dall'impasse, ed Erdogan se ne sta servendo.
In effetti la Turchia ha usato toni retorici vivaci, ma al di sotto di essi ci sono le preoccupazioni concrete dei turchi: Erdogan sa che la Turchia è apertamente sotto pressione alle proprie frontiere marittime e terrestri e che ha sofferto sul piano interno per la crisi della lira e per le sanzioni finanziarie venute adesso meno grazie alle oculate rivelazioni sull'affare Khashoggi. Erdogan sa bene che una volta che lo stato sionista avrà completato il gasdotto EastMed diretto a Cipro e verso l'Europa la Cipro Nord controllata dai turchi dovrà probabilmente fare a meno delle entrate che le derivano dal gasdotto. Sa anche che le prospezioni condotte dalle compagnie petrolifere occidentali che fanno gli interessi degli USA e della UE si stanno spingendo in zone di dubbia sovranità, rivendicate dalla Turchia e dalla Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Poi ci sono i curdi, sostenuti dallo stato sionista e dai paesi europei, che stanno cercando alacremente di liberare una fascia di territorio lungo la frontiera meridionale del paese. E ad est, in Armenia, c'è il nuovo governo filooccidentale, da rivoluzione colorata, di Nikol Pashinyan. La Turchia è sotto pressione da ogni lato. Queste tensioni esasperate e il logorio finanziario che le ha precedute, secondo la valutazione turca, denunciano una politica di contenimento capeggiata dagli USA e anche la possibilità di un ulteriore colpo di stato contro la Turchia.
Non c'è da meravigliarsi che a Istanbul regni l'eccitazione. Erdogan sta usando in modo competente e strategicamente vantaggioso le rivelazioni sul caso Khashoggi che vengono porte ai mass media. Erdogan se ne serve per coprirsi dal minaccioso piano, nato nel Golfo, per cacciare i rivali turchi in un accerchiamento ostile; al tempo stesso può assistere alle contorsioni di chi agevolò il tentativo di colpo di stato contro la sua persona -la stampa turca ha identificato in questo ruolo proprio Mohammed bin Zayed e Mohammed bin Salman- alle prese con una perdita di credibilità che sta invertendo gli equilibri fra le forze in campo.

domenica 23 dicembre 2018

Alastair Crooke - L'Iran, albatro legato al collo degli USA



Traduzione da Strategic Culture, 19 novembre 2018.


"Né il signor Trump, né alcun altro esponente della sua amministrazione, hanno reso pubblica alcuna conclusione su come sia morto il signor Khashoggi o su chi abbia la responsabilità di averne ordinato l'uccisione", scrive seccamente un editoriale dello Washington Post. "Anzi, hanno fatto finta di star aspettando gli esiti di un'indagine saudita... il problema ovvio, in questo caso, è che si dà per scontato che lo stesso Mohammed bin salman non si trovi dietro il caso Khashoggi, nonostante esistano abbondanti prove a carico del principe ereditario. Non esiste alcuna indagine saudita, e l'amministrazione statunitense questo lo sa di sicuro; esiste solo un'operazione di depistaggio maldestramente camuffata da inchiesta."
Un aspetto della questione è quello che riguarda la politica interna statunitense. La Casa Bianca viene sempre più considerata -come implica lo scritto dello Washington Post- coinvolta in un tacito avallo del depistaggio. Questo significa che la Casa Bianca viene considerata talmente dedita a mantenere Mohammed bin Salman al suo posto di cardine per la strategia in Medio Oriente di Trump, che essa e il signor Bolton vedranno solo quello che vogliono vedere -e sentiranno solo quello che vorranno sentire- di qualsiasi prova il governo turco esibirà e che abbia l'aria di riguardare Mohammed bin Salman.
Il Presidente Trump si mantiene pronto all'azione. Ha detto: "Nel corso della prossima settimana avrò un'opinione molto più definita sulla vicenda... Mi sto facendo un'idea molto chiara." Ma potrebbe essere saggio muoversi con prudenza: l'importante quotidiano turco Yeni Safak, che è vicino al governo e che giorno per giorno ha riportato indiscrezioni sull'inchiesta, ha riferito che Maher Mutrib, funzionario dei servizi sauditi che ha guidato ad Ankara una squadraccia composta da quindici persone, dopo l'uccisione di Khashoggi ha parlato direttamente in quattro occasioni col capo dell'ufficio privato del principe ereditario Badr al Asaker. Se è stato Mutrib a rivolgersi al capo di gabinetto di Mohammed bin Salman con l'espressione "Di' al tuo capo", le implicazioni che ne derivano sono chiare. Non esistono conferme ufficiali ma è possibile -e probabile- che i servizi turchi dispongano di altri dettagli, prezioso materiale da svelare poco per volta per gettare discredito sulla linea politica saudita ogni volta che il regno cercherà di mettere la parola fine alla questione. Sembra proprio che Erdogan voglia la pelle di Mohammed bin Salman.
In ogni caso, la natura e i rapporti fra costi e benefici della relazione fra sauditi e statunitensi rappresenta chiaramente una questione destinata a diventare importante a Washington. Adam Schiff, presidente del comitato dei servizi alla Camera, la ha già identificata -insieme al "chi, cosa, dove"- come primo argomento per un'interrogazione a cura del Partito Democratico in occasione della prima sessione con i nuovi eletti.
La questione comunque più importante -e questo Trump può non essere ancora pronto ad ammetterlo- è il fatto che la sua strategia per il Medio Oriente si trova in grossi guai, anche se Mohammed bin Salman riesce a sopravvivere nel suo ruolo di erede designato, cosa che sembra probabile dato il forte attaccamento di Trump nei suoi confronti. A rendere complicate le cose non è solo l'orripilante uccisione di Khashoggi; si tratta di ben di più. Il caso Khashoggi ha aperto un vaso di Pandora pieno di brutti sviluppi. Dagli ambienti del Golfo sta venendo fuori che l'assassinio di Khashoggi non è né un fatto isolato, né un caso straordinario nel Golfo di oggi. Buzzfeed News ha rivelato che i vertici degli Emirati Arabi Uniti hanno organizzato e diretto una unità composta da mercenari stranieri al preciso compito di uccidere metodicamente i capi dei Fratelli Musulmani nello Yemen (al Islah) intanto che l'Arabia Saudita agevolava in silenzio le forze di al Qaeda nello stesso paese nella lotta agli insorti Houthi. Più recentemente il New York Times ha svelato il tentativo di un ufficiale superiore saudita di stringere un contratto da due miliardi di dollari con organizzazioni statunitensi, sempre per eliminazioni metodiche di personalità iraniane. Per dirla senza tanti giri di parole, a leggere roba del genere sembra di essere tornati ai tempi di Saddam Hussein: principi che "spariscono" dalla Svizzera o da Parigi, primi ministri sequestrati, dissidenti e principi anziani incarcerati a capriccio.
Ovvio che i cosiddetti realisti reagiranno con un "e allora?". E risposte del genere arrivano dai "funzionari occidentali" in contesti come le conferenze stampa col Financial Times, da cui grondano sospiri svogliati pieni di "non ci sono alternative". "Funzionari occidentali dubitano che il trentatreenne principe corra il rischio di essere rimosso, tanto esteso è il suo potere; sotto il suo controllo ci sono le forze armate e i servizi di sicurezza... Non esiste alcun candidato preciso per sostituirlo, e il principe Mohammed si è accattivato il sostegno dei giovani e della élite liberale grazie alle riforme sociali varate nel corso della propria veloce quanto effimera ascesa," sentenziano. Davvero non ne esiste nessuno? Non esiste nessun altro in grado di ricoprire nessuno di questi ruoli?
Bene, allora la strategia complessiva di Trump ha un problema. Un problema che ha tre aspetti. Il primo è quello psicologico. Mohammed bin Salman o l'Arabia Saudita oggi come oggi incarnano qualcosa di autorevole e di cogente sotto il punto di vista della leadership o della visione politica? Il regno saudita ha oggi il carisma necessario a unire il mondo sunnita sotto il proprio stendardo e a guidare le ostilità di Trump contro l'Iran? La maggior parte dei popoli della regione è rimasta disgustata dalla guerra nello Yemen, già prima che Khashoggi venisse ucciso.
In secondo luogo, può essere che non tutti i resoconti abbiano evidenziato i rischi che il signor Trump corre sul piano politico a sovvenzionare con tanta generosità quella autentica idiozia che è una piattaforma costituita da un solo uomo? Cos'altro sta in agguato, ignorato ed invisibile, appena sotto la superficie? A proposito, anche il Primo Ministro Netanyahu ha fondato la propria piattaforma su pilastri altrettanto precariamente sottili.
Infine, in considerazione di tutto quello che sta venendo fuori, c'è quella che oggi costituisce l'idea sostanziale veicolata dai paesi del Golfo: di cosa si fanno portabandiera oggi i paesi del Golfo, dopo il tramonto delle benevole elargizioni monarchiche e paternalistiche nei confronti di soggetti più o meno capaci di gratitudine? Forse dell'idea di un'autocrazia semilaica, di uno stato securitario onnipresente, e di un neoliberismo scatenato? Chiaramente, tutto questo si potrebbe rivelare un valido argomento nei confronti dello stato sionista, ma nel contesto della riacquisizione di sovranità sul piano energetico, nazionale e culturale che sta avendo luogo nel quadrante settentrionale della regione questa plumbea prospettiva non ha alcun corso. Inoltre, far propria la struttura di uno stato securitario, in sé e di per sé, non è cosa da paese che ha fiducia in se stesso ma fa pensare all'esistenza di un dissenso interno in crescita e a pressioni che mettono in pericolo l'esistenza stessa dello stato, che è necessario arginare e reprimere.
Effetto collaterale della morte di Khashoggi è stato proprio questo inatteso gettare luce su quest'ultimo punto, la crescita della repressione sul piano interno. Si tratta di rivelazioni che fanno pensare che l'asse di un futuro conflitto in Medio Oriente non sarà quello che Trump e Netanyahu avevano sperato. Al centro non ci sarà l'Iran, ma un'ulteriore serie di confronti con i Fratelli Musulmani e con i loro protettori, la Turchia e il Qatar. Alcuni paesi del Golfo temono di più la dissidenza di orientamento islamico dei Fratelli Musulmani sul fronte interno dei propri emirati di quanto temano l'Iran, che non ha una storia di espansionismo statale al di fuori dei propri confini. Sono questi timori a guidare -e a rappresentare- il nuovo riallineamento della regione.
Gli stessi paesi del Golfo, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, temono che la Turchia, antica potenza politica ottomana ed imperiale nonché sede della 'umma islamica, potrebbe riuscire ad usurpare le credenziali saudite in materia di Islam; una deminutio capitis che ridurrebbe l'Arabia Saudita a nulla più che un mero custode della Mecca e di Medina. La stampa turca è piena di rivendicazioni di questo tipo. Tutto questo toglierebbe ai paesi del Golfo molto del loro significato e del loro valore agli occhi di Washington.
Intanto che i paesi del Golfo si volgevano ad un assetto semilaico per compiacere l'Occidente, la Turchia si impossessava senza tanto chiasso di quanto rimaneva della screditate credenziali islamiche del Golfo, sottoforma di un islamismo dai toni morbidi, nello stile dei Fratelli Musulmani, e di un assai esplicito revanscismo neoottomano, alimentato dalla convinzione che la Turchia sia la vittima di un complotto di cui fanno parte Mohamed bin Zayed, gli USA e lo stato sionista.
Un prossimo conflitto dunque è più probabile si svolga fra un Golfo intimorito e una Turchia sempre più assertiva e decisa a puntare alla guida del mondo islamico. L'Iran? L'Iran può assistere agli eventi con ottimismo: i sauditi sono sotto pressione affinché mettano termine alla loro guerra contro lo Yemen e all'assedio del Qatar. Inoltre, la nuova dinamica della regione non farà che spingere verso l'Iran sia la Turchia che il Qatar.
Niente di tutto questo può essere considerato come promettente per il signor Trump. La Turchia rincarerà la dose abbracciando la causa palestinese, sostenuta dall'Iran e dal Qatar. Mohammed bin Salman non avrà né la credibilità né la levatura necessarie a guidare una qualsiasi nuova "guerra" contro l'Iran dopo il disastro dello Yemen. Né potrà costringere i palestinesi alla capitolazione a fronte dell'"accordo del secolo". Anche suo padre, praticamente interdetto, e la Casa dei Saud, sono consapevoli del fatto che la strategia di Netanyahu è quella di seppellire anche l'idea di uno stato palestinese; in ogni caso la strategia di Bibi verrà probabilmente superata da questioni di politica interna, dal momento che lo stato sionista è alle prese con le conseguenze delle dimissioni di Lieberman.
Tutto questo genera un interrogativo: perché l'amministrazione Trump continua a considerare un'Arabia Saudita guidata da Mohammed bin Salman come una fonte di stabilità strategica? Non è che, semplicemente, le vecchie abitudini sono dure a morire? La linea politica di Trump non contempla solo l'uscita dall'accordo sul nucleare iraniano ma si spinge ben oltre, fino a cercare di rovesciare la Repubblica Islamica per mezzo di sanzioni che alla fine, pensiamo noi, si riveleranno un albatro che lo stesso Trump si è avventatamente appeso al collo senza che ce ne fosse alcun bisogno. Non funzioneranno, e la credibilità dell'AmeriKKKa in Medio Oriente sarà perduta appena questo fallimento diverrà evidente.

martedì 18 dicembre 2018

Alastair Crooke - Dopo le elezioni di metà mandato Trump continuerà a mettere a rischio il commercio mondiale e la sfera economica del dollaro?



Traduzione da Strategic Culture, 12 novembre 2018.

Le elezioni di metà mandato ci sono state. Non c'è stata nessuna "ondata blu" e il risultato è stato tale che entrambi i principali partiti possono affermare di averle vinte. In concreto nessuno si è imposto in maniera decisiva, e Trump se l'è cavata meglio di quanti pensavano. Piuttosto vi sarà una polarizzazione ancora maggiore a livello popolare, e un'opposizione al Congresso ancora più intransigente. Il che significa maggiori difficoltà per portare avanti il paese, e l'aria di crisi e il clima di assedio attorno alla Casa Bianca si faranno ancora più grevi. La promessa di ulteriori tagli alle tasse adesso sembra una chimera, e lo stesso vale per qualsiasi ulteriore grande aumento alla spesa militare (addio allo sperpero per un altro missile a medio raggio?). Controllare il finanziamento del deficit fiscale statunitense non diventa più facile, e diventa più probabile che l'aumento nei tassi di interesse farà calare la disponibilità di spesa federale con la crescita inesorabile degli interessi di un debito che è arrivato al 106% del PIL statunitense o, se il fenomeno verrà ignorato, porrà le condizioni per una grave crisi nei finanziamenti.
Secondo una vecchia prassi, quando un leader trova ostacoli nella realizzazione del programma di politica interna si imbarca in qualche intrapresa al di là della frontiera, di quelle che a prima vista possono apparire più semplici che non il battagliare con le fragilità della propria legislatura, e che invece spesso si rivelano dolorosamente diverse dal previsto. Dopo le elezioni Trump imporrà qualche cambiamento alla propria linea in politica estera?
Si sa che dapprincipio la politica "alla Times Square" del Pentagono lo ha fatto sentire frustrato; con questa espressione si indica la risposta che il generale Mattis avrebbe rivolto a Trump quando questi, nel corso di un incontro per fare il punto della situazione, gli aveva chiesto perché dopo sedici anni di fallimenti gli USA mantenessero ancora tanti soldati in Afghanistan, perché ce n'erano ancora tanti in Corea e perché gli USA erano ancora presenti in Siria. "Ragazzi, voi volete che mandi soldati dappertutto," avrebbe detto Trump; "ma con quale giustificativo?" Mattis gli avrebbe detto semplicemente che la presenza statunitense in quei contesti era necessaria "per impedire che scoppi una bomba in Times Square... Purtroppo, signore, lei non ha scelta," ha soggiunto Mattis: "la sua sarà una presidenza di guerra".
Trump si è già mosso per sistemare una cosa che lo frustrava da molto tempo: ha chiesto a Jeff Sessions di dimettersi. Sembra che intenda mettere fine alla tiritera del cosiddetto Russiagate. Trump ha ulteriormente inasprito durante la campagna elettorale la propria retorica contro le malefatte economiche cinesi, e Xi ha risposto denunciando la protervia statunitense; ci troveremo ad assistere a qualche mutamento di rotta anche nei confronti della Russia e del Medio Oriente? Le dimissionoi di Session all'indomani delle elezioni di metà mandato segnano il ritorno di una qualche agibilità politica per la distensione con la Russia?
Da Mosca, Dimitri Trenin scrive:
Per questo fine settimana è possibile che a parigi si tenga un breve vertice ai massimi livelli [fra Putin e Trump] e che faccia seguito un più ampio scambio tra qualche giorno a Buenos Aires. In molti in Russia si chiedono perché mai incontrarsi dal momento che tutti i precedenti vertici -quello di Amburgo del 2017 e quello a Helsinki dello scorso luglio- sembra abbiano fatto più male che bene alle relazioni fra Russia e Stati Uniti. C'è chi consiglia al Cremlino di tenersi alla larga dalla Casa Bianca finché c'è Trump, e a non farsi trascinare nella litigiosa e spietata politica interna ameriKKKana. La teoria operazionale che sottende il consiglio sembra essere questa: lasciamo che la guerra civile fredda in AmeriKKKa si sfoghi, e poi riprendiamo i contatti con chi vince le elezioni del 2020. Putin tuttavia appare determinato a continuare gli incontri faccia a faccia con Trump. Perché insistere in un comportamento apparentemente privo di logica?
Le considerazioni di Trenin sono fondate. I russi sono comprensibilmente irritati e frustrati per quella che percepiscono come una litania quasi quotidiana di strampalate asserzioni di ogni genere sulla loro vocazione al Male. La pazienza è finita; perché mai darsi anche solo la pena di replicare. Più concretamente, il pubblico russo sa che Trump sulle sanzioni ha le mani legate. Le sanzioni sono materia quasi esclusivamente per un parlamento ora a maggioranza democratica; inoltre, almeno fino a oggi, Trump è stato incastrato dall'assioma di "Times Square" del Pentagono, e da una fronda di consiglieri neoconservatori ossessionati da una storica avversione a qualsiasi cosa sia russa.
Interessante è la risposta di Trenin a questo paradosso:
L'investimento che il leader russo fa sul presidente degli USA non è gran che dovuto al Congresso o alla politica statunitense nei confronti della Russia, e neppure all'insuccesso o meno del Partito Repubblicano alle elezioni di metà mandato. Per Putin, Trump rappresenta un punto e a capo per la politica estera degli USA. Quello che Putin considera positivo per la Russia è l'elemento di rottura che Trump sta introducendo nel sistema mondiale che gli USA hanno sostenuto dopo la fine della Guerra Fredda.
In altre parole, quello che Putin apprezza è il fatto che Trump è dedito per sua natura allo smantellamento di tutta la panoplia dell'impero ameriKKKano, e con esso, soprattutto, del concetto di egemonia svincolata dalla cultura, cosmopolita e utopistica.
Questo concetto è antitetico alla risovranizzazione e alla via euroasiatica russe e rappresenta dunque un ostacolo fondamentale per l'instaurazione del mondo multipolare caldeggiato da Russia e Cina. Trenin aggiunge: "Trump, per tutte le idiosincrasie e per i suoi comportamenti incoerenti, è [dunque] il leader ameriKKKano più scopertamente favorevole alla Russia in cui Putin possa imbattersi". Più importante ancora di questa ultima considerazione di Trenin  è il modo peculiare con cui Trump intende rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa, che passa essenzialmente da una trattativa individuale fondata sul gioco delle parti: Trump non è più il depositario di un'ideologia globale come ai tempi della Guerra Fredda, e il cosiddetto "interesse nazionale" è sempre soggetto a mutamenti.
Fin qui è tutto chiaro. Ovviamente, la leadership russa non può aver mancato di notare che le bordate a mezzo Twitter di Trump stanno rendendole accessibile l'Europa in un modo mai visto prima, anche se ancora tutto da definire. Insomma, eccoli qui: Trump e Putin sono gente da trattativa. Ma questo non significa che esista qualcosa, che esista alcunché di trattabile su cui possano trattare.
La politica estera di Trump non corrisponde affatto agli interessi dei russi: Trump vuole ristabilire una supremazia statunitense unilaterale, vuole rimettere al suo posto la Cina (che è alleata della Russia), la sua squadra di governo vuole scompaginare i piani per le vie commerciali cui stanno pensando russi e cinesi e mettere loro contro un qualche rivale, vuole intromettersi nelle questioni interne della Corea del Nord, compiervi ispezioni e spedire tutte le sue attrezzature nucleari negli USA a mezzo DHL; Trump vuole rovesciare lo stato iraniano, che è alleato della Russia; i suoi consiglieri vogliono destabilizzare la stessa Siria che la Russia cerca di stabilizzare; la sua squadra vuole cacciare Assad e vuole che i curdi diventino un "progetto" occidentale da usare per indebolire la Turchia e la Siria; Trump vuole servirsi della consolidata influenza dell'Arabia Saudita sugli altri paesi del Golfo e sul mondo sunnita per condurre le ostilità contro l'Iran e per costringere i palestinesi a rassegnarsi ad essere dei cittadini di seconda classe in un dispotico "stato-nazione ebraico". Quali spazi di trattativa offre, un elenco del genere?
Nessuno. Torniamo dunque alla prima questione di Trenin: perché mai impegnarvisi? Il Presidente Putin conosce di sicuro la posta in gioco. Sa anche che l'AmeriKKKa, a furia di sanzionare tutti quanti e di servirsi del dollaro come di un randello e delle sanzioni come di una bomba H sta rischiando scopertamente di far collassare i traffici commerciali mondiali.
Altrettanto scopertamente rischiosa è la possibilità che tutto il mondo rinunci alla considerevole sfera del dollaro, la cui esistenza è servita a finanziare per tutti gli ultimi settant'anni i deficit di bilancio statunitensi. Tutte cose messe a rischio nel tentativo di restituire all'AmeriKKKa il suo ruolo di giocatore unico, quello che ha tutti gli assi in mano.
Si scommette sul fatto che si possa far paura agli altri ricorrendo a un linguaggio da mafiosi. Paura che dovrebbe condurre al rientro in patria dei dollari che si trovano all'estero, al loro ritorno a Wall Street, col conseguente indebolimento o col crollo dei mercati emergenti in primo luogo, e poi con l'estensione del contagio all'Europa come conseguenza del venir meno della liquidità in dollari, dalla periferia fino al centro. A quel punto l'AmeriKKKa, che detta legge alle valute mondiali e può erogare (o non erogare) liquidità in dollari, avrà in mano tutte le carte vincenti per negoziare una riformulazione dei traffici mondiali in senso ad essa favorevole.
Esiste un'antica storia cinese che risale al terzo secolo avanti Cristo. Un ragazzo viene mandato dal suo maestro a catturare una lepre per pranzo. Il ragazzo si dirige in un bosco e appena vi arriva vede una grossa lepre che corre a tutta velocità fra gli alberi. Stupito, il ragazzo vede la lepre che sbatte diritta contro un albero rimanendo tramortita. Non deve fare altro che raccoglierla e portarla tutto contento a casa, direttamente in cucina.
La morale della storia è questa: diventato uomo, il ragazzo passò cinquant'anni accanto allo stesso albero, in attesa che altre lepri ci sbattessero contro. Ovviamente non successe mai; non ci si deve dunque aspettare che la storia si ripeta. Il caso degli USA per certi versi è simile. Dopo la seconda guerra mondiale il resto del mondo è andato a capofitto contro un albero ed economicamente è rimasto tramortito nell'irrilevanza. Gli USA non hanno dovuto fare altro che tirar su il proprio pranzo, che giaceva stecchito al suolo. A settant'anni di distanza un Presidente degli USA sta accanto allo stesso albero, spera che il mondo ci vada contro un'altra volta e resti tramortito battendo la testa contro le sanzioni e contro il venir meno della liquidità in dollari, rimanendo lì a farsi tirar su dagli USA e a farsi portare a casa per pranzo.
Questa allegoria non va intesa alla lettera. Ma la sostanza è questa; Xi e Putin l'hanno afferrata. E se il "mondo" riesce ad evitare l'albero di Trump, è probabile che sarà la situazione fiscale degli USA a prendere fuoco.

Ora, dopo la morte di Khashoggi, è in corso d'opera anche un nuovo progetto per la sistemazione del Medio Oriente. A quanto si dice gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita sono sul punto di normalizzare i rapporti con la Siria del Presidente Assad, con la riapertura delle missioni diplomatiche a Damasco. Una buona notizia per la Siria, certamente. Su questo nessun dubbio. Ma la vicenda ha un suo rovescio. A quanto sembra l'idea è quella di formare una specie di fronte contro i Fratelli Musulmani in cui troverebbero posto una Siria laica, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. In teoria il fronte sarebbe diretto contro i Fratelli Musulmani, ma in pratica il suo obiettivo è la Turchia, con il suo alleato Qatar. Da tempo i turchi hanno denunciato il complotto che si preparava e si sono messi a cercare di sventarlo. E la Turchia non permetterà né ai sauditi né agli USA di servirsi dei curdi dell'est della Siria come di un cuneo puntato contro il suo ventre molle. Sembra che Erdogan sia in un momento fortunato: sta cercando di strappare la leadership del mondo sunnita ai sauditi e l'assassinio di Khashoggi gli ha fornito proprio il destro che gli serviva.
A giustificare questa nuova alleanza, nel caso essa entri davvero in essere, è il solito bromuro buono per tutti i casi: arginare l'Iran e indebolirlo. Ovviamente ci sono delle gravi pecche: perché mai un simile fronte con la Siria dovrebbe d'un tratto indebolire l'Iran? La siria ha a tutt'oggi, e le ha fin dal 1979, relazioni molto strette con l'Iran. Dagli anni venti del XX secolo la Siria in quattro occasioni ha combattuto duramente contro i Fratelli Musulmani, eppure Siria e Iran fanno causa comune con i palestinesi, gran parte dei quali simpatizza proprio con i Fratelli Musulmani. La Siria non si metterà contro l'Iran; gli stati del Golfo hanno già cercato senza successo di corrompere il Presidente Assad perché rescindesse i legami con l'Iran. La Siria non volterà neppure le spalle ai palestinesi, e anche se le relazioni fra la Siria e il Presidente Erdogan sono tese e stanno prendendo la forma di unb confronto diretto, il Presidente Assad sa certamente che i giocatori di maggiore rilievo e gli alleati stretti come la Russia e la Cina hanno parte vitale in qualsiasi "grande gioco" della Turchia, cosa cui la Siria deve fare molta attenzione.
Mosca può accogliere di buon grado i vantaggi tattici che un fronte come questo le permetterebbe di conseguire e al tempo stesso riconoscere il fatto che è improbabile che l'idea abbia successo. La nuova iniziativa nata nel Golfo ha però un significato più profondo, che è necessario cogliere. Per riassumere in due parole una questione molto complicata, si può dire che nella supremazia saudita, storicamente, l'elemento politico è sempre stato marginale. L'Arabia Saudita deve la propria influenza più al controllo che ha dei luoghi santi, e al suo asserito diritto di interpretare il Corano secondo la propria ottica.
Gli stati del Golfo hanno agevolato gli jihadisti wahabiti nel loro tentativo di sovvertire gli stati iracheno e siriano coi più barbari sistemi. Questo li ha costretti a prendere poi le distanze dal bagno di sangue perpetrato dallo Stato Islamico. Mohammed bin Salman tuttavia si è trattenuto dal condannare esplicitamente lo wahabismo dello Stato Islamico e non ha collegato quanto stava accadendo in Siria e a Mossul ai principi dello wahabismo su cui è stato fondato lo stesso stato saudita. Simili critiche sarebbero state assolutamente inaccettabili per lo establishment religioso saudita.
I paesi del Golfo si sono risolti dunque a non esprimere condanne esplicite e ad esortare le parti a mostrare una non meglio definita "moderazione". Con questa storia della "moderazione" l'Arabia Saudita è diventata sotto certi aspetti abbastanza laica, sia pure senza assimilare principi politici laici e senza ricavarne alcun nuovo modello per il regno. Anziché adottare una completa laicizzazione i giovani principi hanno fatto proprio un neoliberismo da scuola aziendale occidentale, cui hanno aggiunto una estrema centralizzazione del potere rafforzata da un apparato repressivo ubiquo e intollerante. Un modello totalitario in stile Singapore. Nel Bahrein per esempio è oggi lecito fraternizzare con cittadini dello stato sionista, ma parlare bene del Qatar costa dieci anni di carcere.
Alcuni paesi del Golfo sono consapevoli dei rischi che comporta questa virata repressiva. Se non altro, l'uccisione di Khashoggi ha per lo meno gettato una luce negativa sulla repressione politica nei paesi del Golfo. I principi non hanno altro modello e la loro "moderazione" non ha portato idee nuove sulla pratica di governo. Di qui la proposta del nuovo fronte su descritto. L'ostilità verso i Fratelli Musulmani è popolare a Washington perché nel contesto del Golfo costituisce un utile diversivo rispetto alla guerra di Trump contro l'Iran, che non c'è modo di vincere. Un fronte che si oppone ai Fratelli Musulmani rappresenta tanto una giustificazione per l'apparato repressivo in patria quanto una piattaforma per dirigere i paesi occidentali contro la Turchia, che protegge, insieme col Qatar, i Fratelli Musulmani.
Il significato più profondo che è necessario cogliere è dunque rappresentato dalle ansie e dalle paure dei paesi del Golfo. I Fratelli Musulmani sono stati indeboliti e frammentati dalla campagna di logoramento lanciata contro di loro e sono stati messi in larga misura in condizioni di non poter reagire; eppure i paesi del Golfo vogliono una nuova offensiva. Chiaramente i fantasmi della Primavera Araba del 2011, che scosse l'autocrazia tribale, turbano ancora i sonni dei re e degli emiri. Hanno paura.
In ultimo, il Presidente Putin potrebbe anche chiedersi se le elezioni di metà mandato porteranno a qualche cambiamento della linea fin qui seguita in politica estera. Sicuramente non ce ne saranno per quanto riguarda la Cina, ma con i neoconservatori così infiltrati in tanti livelli dell'amministrazione Trump l'unico interrogativo non può essere altro che "cosa vorrà dai russi il signor Bolton, ora?".
A Mosca forse si ragiona tenendo presente l'idea che gli USA possono uscire da questa fase scoprendo di non ritrovarsi a essere la potenza egemone che avevano sperato e di essersi invece bruciati le dita scommettendo sulla supremazia del dollaro, con le ambiziose speranze mediorientali di Trump sparite nel nulla, come già successo fino ad oggi in tanti casi. Perché mai il signor Putin non dovrebbe mantenere con pazienza aperto qualche canale con il signor Trump, per quanto la cosa possa risultare impopolare in Russia dal momento che non c'è altro da aspettarsi se non altre sanzioni statunitensi e altre calunnie. Il signor Putin potrebbe aspettare la Quarta Svolta[*], e il relativo sovvertimento politico.


[*] La "fase apocalittica" nelle teorizzazioni politiche di Steve Bannon, N.d.T.


lunedì 10 dicembre 2018

Alastair Crooke - I piani di Netanyahu per il Medio Oriente stanno andando in malora



Traduzione da Strategic Culture, 5 novembre 2018.

Nahum Barnea è nello stato sionista un editorialista autorevole. Sullo Yedioth Ahronoth dello scorso maggio (nell'edizione in lingua ebraica) ha messo nero su bianco i termini che sottendono la linea politica di Trump per il Medio Oriente: dopo l'uscita degli USA dall'accordo sul nucleare iraniano avvenuta l'8 maggio, secondo Barnea Trump avrebbe minacciato una grandinata di fuoco e fiamme contro Tehran... e ci si aspettava che Putin avrebbe trattenuto l'Iran dall'attaccare lo stato sionista muovendo dal territorio siriano, lasciando così Netanyahu libero di stabilire nuove regole del gioco che mettessero lo stato sionista in condizioni di colpire e distruggere i militari iraniani in qualsiasi punto della Siria -e non solo nelle zone di confine, come gli era consentito in precedenza- secondo volontà e senza timore di reazioni.
Questo era il primo livello della strategia di Netanyahu: l'arginamento dell Iran e la mancanza di reazioni da parte dei russi a fronte di operazioni aeree coordinate dello stato sionista nei cieli siriani. "Solo una cosa non è chiara [su questo accordo]", ha detto a Ben Caspit un alto funzionario della difesa sionista vicinissimo a Netanyahu: "chi è che lavora per chi? Netanyahu è a servizio di Trump, o è il Presidente Trump a essere a servizio di Netanyahu? A un osservatore esterno... sembra che i due agiscano in perfetta sincronia. Dall'interno la sensazione è ancora più forte, è quella di una collaborazione... che a volte fa sembrare che i due facciano davvero parte di un unico, grande ufficio".
Fin dall'inizio c'è stato anche un secondo livello. La "piramide rovesciata" delle operazioni di ridefinizione del Medio Oriente ha avuto come punto di partenza Mohammed bin Salman. Secondo lo Washington Post è stato Jared Kushner a "fare di Mohammed bin Salman il campione riformista in grado di portare quella ultraconservatrice monarchia zuppa di petrolio nella modernità. Kushner ha sostenuto in privato per mesi, l'anno scorso, che Mohammed bin Salman sarebbe stato l'elemento essenziale per dare forma a un piano per la pace in Medio Oriente e che con la benedizione del principe la gran parte del mondo arabo vi si sarebbe adeguato". Continua poi il Post scrivendo che è stato Kushner "a insistere perché il suocero facesse il primo viaggio all'estero una volta in carica a Riyadh, a dispetto delle obiezioni dell'allora Segretario di Stato Rex Tillerson e degli ammonimenti del Segretario alla Difesa Jim Mattis".
Ecco, adesso Mohammed bin Salman risulta implicato nell'assassinio di Khashoggi, in un modo o nell'altro. Bruce Riedel del Brookings, esperto conoscitore della realtà saudita ed ex funzionario superiore della CIA e della Difesa statunitense scrive che "per la prima volta da cinquant'anni a questa parte il regno agisce a favore dell'instabilità" (anziché per la stabilità del Medio Oriente) e suggerisce che in certi ambienti a Washington adesso ci sia un po' di evidente resipiscenza tardiva. Il "processo di formazione di un unico grande ufficio" cui ha fatto riferimentov il funzionario dello stato sionista che ha parlato con Caspit è noto come "passaggio a tubo di stufa": la difesa della linea politica di un altro paese e le informazioni su cui essa si basa vengono fatte arrivare direttamente al Presidente saltando a piè pari gli ambienti ufficiali di Washington e aggirando qualsiasi supervisione statunitense, eliminando la possibilità che qualche funzionario si esprima in merito al suo contenuto. Risultato di questo modo di fare è stata la débacle strategica del caso Khashoggi. Che arriva all'indomani di precedenti "errori" strategici: la guerra nello Yemen, l'assedio del Qatar, il sequestro di Hariri, il ricatto in alte sfere al Ritz-Carlton.
Per colmare questa lacuna, uno "zio" (il principe Ahmad bin Abdel Aziz) è stato richiamato a Riyadh dall'esilio in Occidente sotto garanzie fornite dai servizi statunitensi e britannici, per rimettre ordine in questi pasticci e per controllare e valutare la torma di consiglieri di Mohammed bin Salman, oltre che per prevenire ulteriori e roboanti "errori". Sembra anche che il Congresso statunitense voglia la fine della guerra nello Yemen, cui il prinicipe Ahmad si è sempre opposto così come si era opposto all'innalzamento di Mohammed bin Salman al ruolo di principe ereditario; il generale Mattis ha invocato un cessate il fuoco entro un mese. Si tratta di un passo avanti verso il ripristino del buon nome del regno.
Per adesso, principe ereditario è sempre Mohammed bin Salman. Lo sostengono il presidente egiziano al Sissi e il Primo Ministro Netanyahu. "Mentre funzionari statunitense considerano una più vigorosa risposta [all'uccisione di Khashoggi], Kushner ha sottolineato l'importanza dell'alleanza fra Arabia Saudita e USA nella regione", riferisce lo Washington Post. Lo zio di Mohammed bin Salman, che come figlio di re Abdel Aziz in base al tradizionale sistema di successione sarebbe anch'egli compreso nella linea dinastica, spera senz'altro di rimediare a qualcuno dei danni apportati alla reputazione della Casa dei Saud e a quella del regno. Ci riuscirà? Mohammed bin Salman permetterà ad Ahmad di mettere ordine nella centralizzazione di potere che gli ha procurato soprattutto tanti nemici? La Casa dei Saud ha la volontà di farlo, o è ancora troppo sconcertata dalla piega presa dagli eventi?
Il Presidente turco Erdogan potrebbe rendere questo delicato processo ancora più difficile rivelando ulteriori dettagli sul caso Khashoggi in mano al suo paese, nel caso Washington rifiutasse di prendere in sufficiente considerazione le sue, di richieste. Erdogan sembra pronto ad adoperarsi per il ripristino della supremazia ottomana all'interno del mondo sunnita ed è verosimile che abbia in mano altre buone carte, come le intercettazioni delle chiamate fra il cellulare dell'assassino e Riyadh. E sono carte che stanno comunque perdendo valore col puntare dell'attenzione dei mass media alle elezioni statunitensi di metà mandato.
Sarà il tempo a dirlo, ma è questo concorrere di dinamiche dall'esito incerto quello cui Bruce Reidel fa riferimento quando parla di "instabilità" in Arabia Saudita. Qui si impone anche un'altra questione: quale influenza potrebbe avere tutto questo sulla "guerra" contro l'Iran di Netanyahu e di Mohammed bin Salman?
Sembrano passati secoli dal maggio 2018. Trump è sempre il solito Trump, ma Putin non è il solito Putin. L'apparato militare russo ha fatto valere il proprio peso presso il Presidente per esprimere il proprio disappunto per gli attacchi aerei dello stato sionista in territorio siriano, attacchi che avevano l'asserito proposito di colpire le forze iraniane in Siria. Il Ministero della Difesa russo inoltre ha avvolto la Siria in una fascia di missili e apparati di disturbo elettronico che coprono lo spazio aereo del paese. Anche la situazione politica è cambiata: Germania e Francia sono entrate nel processo di Astana per la Siria. L'Europa vuole che i profughi siriani tornino alle loro case, e questo significa che l'Europa vuole la stabilità in Siria. Anche alcuni paesi del Golfo hanno intrapreso tentativo per normalizzare le relazioni con lo stato siriano.
Gli ameriKKKani sono ancora in Siria, ma un Erdogan rinvigorito -che oltre a tutti gli elementi sul caso Khashoggi che gli hanno messo in mano i suoi servizi segreti ha dalla propria parte anche il rilascio del pastore statunitense- intende distruggere le ambizioni curde nel nord e nell'est della Siria appoggiate dagli USA e dallo stato sionista. Mohammed bin Salman, che finanziava il progetto per conto degli USA e dello stato sionista, si dissocerà dalla questione secondo le richieste fatte da Erdogan nel contesto dell'uccisione di Khashoggi. Washington inoltre vuole che la guerra nello Yemen, che doveva servire come pantano in cui cacciare l'Iran, finisca quanto prima. Washington vuole anche che cessino le pressioni contro il Qatar.
Tutto questo significa la rovina del piano di Netanyahu per il Medio Oriente, ma ci sono due ulteriori conseguenze ancora più cariche di significato.
Intanto, Netanyahu e Mohammed bin Salman hanno perso l'accesso diretto a Trump che passava da Jared Kushner saltando a piè pari l'intera trafila statunitense di tare e di controlli. La scorciatoia che passava da Kushner non è servita a mettere Washington in guardia per gli "errori" prossimi venturi, né Kushner è stato in grado di prevenirli. Sia il Congresso che i servizi segreti statunitensi e britannici stanno già dandosi di gomito a riguardo, e non hanno alcuna stima per Mohammed bin Salman. Non è un segreto che il loro uomo fosse invece il principe Mohammed bin Naif. Mohammed bin Naif che è a tutt'ora agli arresti nel suo palazzo.
Trump continuerà a sperare di proseguire col suo "piano Iran" e con l'Accordo del Secolo fra stato sionista e palestinesi, patrocinato a livello nominale dall'Arabia Saudita con dietro tutto il mondo sunnita. Tump non vuole arrivare alla guerra con l'Iran, ma è convinto piuttosto che un'insurrezione popolare rovescerà la Repubblica Islamica.
Seconda conseguenza, l'obiettivo del principe Ahmad chiaramente non è causare instabilità o arrivare alla guerra con l'Iran. Ahmad intende ripristinare la reputazione della sua famiglia e recuperare qualcuna delle credenziali che ne facevano l'eminenza del mondo sunnita e che sono venute meno con la guerra nello Yemen e con la sfida che la Turchia neoottomana le sta portando adesso. Si può supporre che la Casa dei Saud non abbia alcun interesse a sostituire la disastrosa e costosa guerra contro lo Yemen con un'altra guerra, di più ampia portata e contro un vicino grande e potente come l'Iran; sarebbe una cosa priva di senso. Ecco forse il motivo per cui si assiste all'affannarsi dello stato sionista per la normalizzazione dei rapporti con gli stati arabi, anche se la cosa non comporta alcun miglioramento per la condizione dei palestinesi.
Con buona capacità di preveggenza Nehum Barnea scriveva a maggio sullo Yediot Ahronot: "Trum può anche dichiarare il ritiro degli USA dall'accordo sul nucleare iraniano, e dare ad esso corso. Ma sotto l'influenza di Netanyahu e della sua nuova squadra di governo ha scelto di spingersi anche oltre. Le sanzioni economiche contro l'Iran saranno molto più severe di quelle in vigore prima che l'accordo venisse siglato. "Colpiscili nel portafoglio," ha deetto Netanyahu a Trump: "se li colpisci nel portafoglio inizieranno a soffocare. E quando inizieranno a soffocare cacceranno gli ayatollah".
Anche stavolta, un po' di considerazioni sono passate direttamente al presidente degli USA saltando la trafila. I suoi funzionari possono anche avergli detto che si trattava di fantasie. Non esiste alcun caso in cui le sole sanzioni abbiano causato il rovesciamento del governo di un paese. Gli USA possono anche usare le loro pretese di egemonia giudiziaria come ulteriore rinforzo, ma nell'elevare sanzioni contro l'Iran si sono di fatto isolati. L'Europa non vuole che l'insicurezza aumenti, non vuole diventare meta di altri profughi. La rigida posizione di Trump ha costretto Kim Jong Un al negoziato? O magari è stato Kim Jong Un a considerare un incontro con Trump come il prezzo da pagare per continuare sul percorso di riunificazione della Corea? Trump era consapevole del fatto che l'Iran avrebbe sofferto economicamente ma che avrebbe proseguito sulla sua strada, sanzioni o non sanzioni? No. Ecco: il problema dell'affidarsi a chi salta la trafila è proprio questo.

lunedì 3 dicembre 2018

Alastair Crooke - Un ordine mondiale fondato su delle regole, o un "ordine" mondiale senza regole e capeggiato dagli USA?



Traduzione da Strategic Culture, 31 ottobre 2018.

"Al complesso militare e della sicurezza statunitense ci sono voluti trentun anni per liberarsi dell'ultimo accordo sul disarmo nucleare raggiunto dal Presidente Reagan, il trattato sui missili balistici a medio e corto raggio che Reagan e Gorbaciov siglarono nel 1987," scrive l'ex consigliere del Segretario del Tesoro di Reagan.
"Io vi ebbi un qualche ruolo dietro le quinte, e per quanto mi ricordo quel trattato riuscì a mettere al sicuro l'Europa da un attacco dei missili sovietici a corto e medio raggio [gli SS-20] e a mettere al sicuro l'Unione Sovietica da quelli statunitensi (i missili Pershing dislocati in Europa). Confinando gli armamenti nucleari ai soli missili balistici intercontinentali, che consentivano un minimo di preallarme e con esso la possibilità di una risposta e in ultima analisi il non ricorso alle armi nucleari, questo trattato INF fu visto come in grado di ridurre il rischio di un primo attacco ameriKKKano contro la Russia e di un primo attacco [sovietico] contro l'Europa... Reagan, a differenza di quei fuori di testa dei neoconservatori che allontanò dal potere e fece processare, non vedeva l'utilità di una guerra nucleare che avrebbe distrutto la vita sulla terra. Il trattato INF, nelle idee di Reagan, era un primo passo verso l'eliminazione degli armamenti nucleari dagli arsenali militari. Il trattato INF venne scelto come inizio perché non influiva in modo sostanziale sul budget del complesso militare e della sicurezza statunitense."
L'amministrazione Trump oggi vuole uscire unilateralmente da questo trattato. "In una conferenza stampa in Nevada, Trump ha detto: "La Russia ha violato l'accordo. Lo viola da parecchi anni e non so perché il Presidente Obama non abbia intavolato trattative o non abbia abbandonato l'accordo... Noi lo abbandoneremo... Non gli lasceremo violare un accordo nucleare e costruire armi mentre noi non possiamo farlo." A chi chiedeva delucidazioni ulteriori, Trump ha risposto: "A meno che la Russia non venga qui, la Cina non venga qui, non vengano qui tutti e due e dicano 'Facciamo una cosa intelligente, nessuno di noi sviluppi armamenti nucleari', se la Russia li fa e la Cina anche, e l'accordo lo rispettiamo soltanto noi, questa è una cosa inaccettabile. E abbiamo una quantità di fondi incredibile da usare per le nostre forze armate."
Ci sono dei chiari indizi rivelatori: la Russia e la Cina stanno "facendo" armamenti nuovi, e gli USA sono rimasti indietro; la Cina li sta "facendo" e non è parte del trattato INF, mentre "noi" abbiamo una quantità di fondi incredibile da usare per le nostre forze armate: possiamo vincere la corsa agli armamenti, e il complesso dell'industria militare ne sarà deliziato.
Un diplomatico (statunitense) ha detto allo Washington Post che "i piani [per il ritiro dal trattato] si devono a John Bolton, falco consigliere per la sicurezza nazionale di Trump [che si oppone di mestiere a qualsiasi trattato di controllo sugli armamenti, sulla base del principio che potrebbero limitare le possibilità dell'AmeriKKKa di passare unilateralmente all'azione] che ha detto agli alleati degli USA che a suo modo di vedere il trattato INF mette Washington in una posizione 'di eccessiva debolezza' nei confronti della Russia 'e, cosa più importante, nei confronti della Cina'".
Trump, per natura, non è uno stratega. Invece è orgoglioso delle proprie doti di negoziatore, di uno che sa come ricorrere con successo alla capacità degli USA di esercitare pressioni. In questo caso un astuto Bolton si è servto dell'ossessione di Trump per il potenziamento della forza degli USA per fare due cose:  primo, per far sì che gli USA abbiano la potenziale capacità di attaccare per primi la Russia (e quindi una maggiore capacità di pressione) disclocando missili a medio raggio come gli Aegis in Europa, a ridosso delle frontiere russe e contro la Russia stessa. Secondo per far sì che gli USA concludano di aver bisogno di missili a medio raggio per colpire il territorio cinese nel caso il confronto militare fra USA e Cina diventasse inevitabile e la tensione salisse. E non si tratta solo della Cina. Un esperto del CSIS [Centro per gli Studi Strategici e Internazionali, N.d.T.], Eric Sayers, afferma che "Il ricorso allo schieramento di missili terrestri convenzionali e a medio raggio può essere l'elemento chiavbe per riaffermare la superiorità militare statunitense nell'Asia orientale". Ovvero, la capacità USA di esercitare pressione.
Nella US Nuclear Posture Review dello scorso anno si rilevava comunque che "Con ogni probabilità la Cina dispone già del più grande arsenale missilistico a raggio medio ed intermedio di tutta l'Asia, e probabilmente di tutto il mondo." Gli USA sono ora impegnati a circondare la Cina con missili a raggio intermedio, prima con la decisione del Giappone di acquistare il sistema Aegis, e poi, probabilmente, con Taiwan a fare lo stesso. Si sa che Bolton è favorevole alla permanenza di truppe statunitensi a Taiwan, come ulteriore strumento di pressione verso la Cina.
Putin vede chiaramente che "Gli ameriKKKani continuano a baloccarsi con cose il cui scopo vero e proprio non è quello di sorprendere la Russia a violare qualche trattato e a costringerla invece ad attenervisi, ma quello di farne carta straccia, nel contesto di una bellicosa strategia imperialista." O, in poche parole, di imporre "un ordine mondiale senza regole capeggiato dagli USA".
Sembra proprio che Bolton e Pompeo stiano deliberatamente instradando Trump sulle linee guida per la politica di difesa tratteggiate in un vecchio documento del 1992 curato da Paul Wolfowitz, che statuiva una dottrina secondo cui gli USA non avrebbero permesso a nessuno di attentare alla loro egemonia. Il vicesegretario di Stato Wess Mitchell è poi tornato, con tutta chiarezza, alla linea politica dei tempi di Bush. In una dichiarazione al Senato ha detto:
Punto di partenza della strategia per la sicurezza nazionale è il prendere atto del fatto che l'AmeriKKKa è entrata in un epoca di competizione fra grandi potenze, e che la condotta seguita in passato non ha tenuto sufficientemente conto di questa tendenza emergente e neppure fornito al nostro paese gli strumenti adeguati per affrontarla con successo. Contrariamente agli speranzosi assunti delle precedenti amministrazioni, Russia e Cina sono dei contendenti temibili e stanno costruendo quanto serve loro sul piano materiale e su quello ideologico per contestare la supremazia e la leadership statunitense nel XXI secolo. Al primo posto, fra gli interessi per la sicurezza nazionale degli USA, continua a esserci la necessità di impedire che la massa territoriale euroasiatica finisca in mano a potenze ostili.
Al Consiglio Atlantico del 18 ottobre, il segretario ha detto chiaramente che l'Europa sarà costretta ad allinearsi a questa dottrina neowolfowitziana. 
Funzionari europei e ameriKKKani hanno lasciato che la crescente influenza russa e cinese nella regione arrivasse a "coglierci di sorpresa". "L'Europa occidentale non può continuare ad approfondire la propria dipendenza energetica da quella stessa Russia da cui l'AmeriKKKa la sta difendendo. Né possono continuare ad arricchirsi grazie a quello stesso Iran che sta costruendo missili balistici che sono una minaccia per l'Europa," ha insistito il vicesegretario. Aggiungendo poi che "non è accettabile che alleati degli USA in Europa centrale sostengano progetti come il Turkstream 2 o mantengano tranquillamente accordi in materia di energia che rendono la zona vulnerabile da parte di quella stessa Russia per proteggersi dalla quale sono entrati nella NATO."
Il rappresentante speciale degli USA in Ucraina Kurt Volker, in un discorso pronunciato nello stesso contesto, ha rivelato che gli USA hanno in programma di inasprire le sanzioni contro Mosca "ogni uno o due mesi" per renderla "più malleabile sulla questione ucraina."
Ovviamente ci si aspetta che l'Europa accetti di buon grado un nuovo dispiegamento di missili statunitensi sul proprio territorio. Alcuni paesi come la Polonia o gli stati baltici potranno anche accettare volentieri, ma l'Europa nel suo insieme non lo farà. La cosa costituirà un'altra possente ragione per ripensare i rapporti con Washington.
L'influenza di Bolton solleva la questione di quale sia oggi come oggi la politica estera di Trump: è sempre quella di ottenere condizioni favorevoli agli USA caso per caso, o è in stile Bolton, con la ridefinizione del Medio Oriente tramite il rovesciamento del governo in Iran e una lunga guerra fredda contro Russia e Cina? I mercati statunitensi fino ad oggi hanno ritenuto che essa avesse al centro gli accordi commerciali e i posti di lavoro, ma forse non è più così.
Abbiamo già scritto sulla crescente predominanza neoconservatrice nella politica estera di Trump. Non si tratta di una novità. Il principale problema, con questo nuovo imperialismo alla Wolfowitz unito alla radicale propensione di Trump per un ricorso a tutto campo ad ogni azione resa possibile dal controllo del dollaro, del mercato energetico e del predominio statunitense in materia di standard tecnologici e di normative è che esso, per sua stessa natura, preclude qualsiasi "grande accordo strategico" diverso da un'improbabile, totale capitolazione nei confronti degli USA. E mentre gli USA bastonano uno alla volta i paesi che non chinano la testa, essi reagiscono tutti insieme, e in modo asimmetrico, per far fronte alle pressioni statunitensi. Una corrente contraria che al momento si sta rapidamente rinforzando.
Bolton può aver convinto Trump che sia vantaggioso uscire dal tattato INF perché questo gli consentirebbe di alzare la voce con russi e cinesi. Lo avrà anche avvertito di quali sono i rischi? Probabilmente no. Bolton ha sempre considerato i limiti che il trattato imponeva alle iniziative statuitensi come dei puri e semplici svantaggi. Eppure, Putin ha detto che la Russia ricorrerà alle armi nucleari se la sua esistenza viene minacciata, anche se la minaccia prende la forma di missili convenzionali. I rischi sono chiari.
La corsa agli armamenti? Non siamo ai tempi di Reagan, quando il rapporto fra debito pubblico federale e prodotto interno lordo era basso. Come ha notato un editorialista, "nessun entità al mondo che non sia al momento impegnata con il quantitative easing è indebitata in modo tanto suscettibile rispetto ai mutamenti dei tassi di interesse a breve termine quanto lo è il governo ameriKKKano. Quando la FED parla di "un aumento [dei tassi di interesse] di cinque punti per la fine del 2019" bisogna grosso modo intendere "La FED [impone tali interessi al debito interno degli USA che in pratica] taglia le spese militari statunitensi per il 2019".
Trump apprezza le armi che Bolton sembra tirar fuori per magia dal cappello del consiglio nazionale per la sicurezza, ma ha idea di quanto effimero possa essere il loro effetto, quanto rapidamente può ritorcerglisi contro? Non è che può mettersi come Canuto sulla riva del mare, e copmandare all'incombente marea dei tassi di interesse sui buoni del tesoro statunitensi di ritirarsi... o al mercato azionario di crescere perché crescano anche le pressioni sulla Cina.

sabato 24 novembre 2018

Alastair Crooke - Il delitto Khashoggi al complesso incrocio di tre punti di svolta



Traduzione da Strategic Culture, 23 ottobre 2018.


Per i realisti, un Khashoggi smembrato vivo e assassinato non è che un giornalista morto. Un evento non eccezionale; raramente poi gli stati cambiano linea politica per un morto, per quanto raccapricciante sia stata la sua fine. Tutto vero, senz'altro. Ma è vero anche che un evento isolato può verificarsi nel momento giusto, quello in cui la svolta è ormai innescata, quello in cui un qualsiasi unico fiocco di neve in più fa muovere una valanga di dimensioni sproporzionate rispetto a ciò che la scatena. Sarà lo stesso per la morte di Khashoggi? Molto probabilmente sì perché esistono diversi punti instabili in Medio Oriente; situazioni in cui anche un evento dalla portata trascurabile può innescare sommovimenti significativi. La situazione rappresenta un complesso incrocio di dinamiche in mutamento.
Khashoggi è stato letteralmente fatto a pezzi. Un'allegoria di quanto sta accadendo in una regione che si sta sgretolando. Khashoggi è stato un tempo un appartenente ai Fratelli Musulmani ed era considerato la loro icona; è stato smembrato in modo raccapricciante. La sua fine, almeno in Medio Oriente, potrebbe essere considerata allegoria del corpo vivo dei Fratelli Musulmani steso prono su un banco e fatto a pezzettini dagli apparatchik sauditi e ricordare quasi alla perfezione la campagna che gli Stati del Golfo hanno intrapreso per distruggere i Fratelli Musulmani e spazzarli via dalla regione.
L'allegoria si fa patetica soprattutto perché a suo modo Khashoggi simboleggiava anche l'ambiguo tentacolo che andava dalla al Qaeda di Bin Laden ai Fratelli Musulmani, anche se negli ultimi tempi Khashoggi riservava la sua stima al solo Bin Laden. Khashoggi era entrato nei Fratelli Musulmani più o meno contemporaneamente a Bin Laden; aveva fatto lunghi viaggi in Afghanistan con il leader di al Qaeda, e ne aveva scritto uno dei primi profili per una rivista saudita nel 1988 ( si veda The Osama Bin Laden I Know di Peter Bergen).
Il primo punto di svolta su cui il mondo si è giustamente soffermato è la possibilità che Trump si ritrovi, pur di malavoglia, costretto dal lento accumularsi delle prove a una radicale revisione dei rapporti fra USA e Arabia Saudita per la prima volta dal 1948. In questo contesto sarebbe costretto ad ammettere che Mohammed bin Salman non è un pilastro solido, nonostante vi si fondino i principali elementi della politica estera statunitense: il rovesciamento del governo in Iran, il calmiere al prezzo del petrolio intanto che si sottopone l'Iran ad ulteriori sanzioni, la vendita di armamenti statunitensi e il far arrivare allo stato sionista il suo "accordo del secolo". Certamente, nessuno sa cosa potrebbe succedere in Arabia Saudita nel caso Mohammed bin Salman venisse allontanato dal suo ruolo di presunto erede designato. Dalla famiglia degli al Saud stanno trapelando mugugni facili da udire.
Trump vorrà davvero arrivare a un esito del genere? Farà di tutto per evitarlo, solo che il Congresso e lo zoccolo duro evangelico già da molto tempo esprimono opinioni critiche e sempre più aspre circa i rapporti con l'Arabia Saudita: dagli avvenimenti dell'undici settembre 2001 fino alla catastrofe dello Yemen, scontento e critiche sugli stretti legami fra gli USA e Mohammed bin Salman non hanno fatto che crescere.
A Washington sono in pochi a credere che l'affermazione di Trump sul potenziale di vendita per centodieci miliardi di armamenti sia qualcosa di diverso da una spacconata; a tutt'oggi le transazioni in corso, già avviate ai tempi di Obama, assommano a nulla più di qualche lettera d'intenti non vincolante. E oggi come oggi gli USA non sono più dipendenti dalla sicurezza delle forniture petrolifere saudite. Che i rapporti fra i due paesi si raffreddassero (e virassero all'ostilità) era dunque inevitabile. L'opinione pubblica è chiaramente più consapevole degli orrori che sono alla base del brutale jihadismo wahabita (si consideri la Siria), e il lento mettersi in moto delle "riforme" come le intendono i sauditi non ha alcuna comunanza di significato con quello che si intende altrove con lo stesso vocabolo. L'assassinio di Khashoggi sarà il fiocco di neve che mette in moto la valanga? Se dobbiamo considerare il senatore Lindsay Graham come un indicatore attendibile, sembrerebbe di sì: "Questo tizio [Mohammed bin Salman] deve andarsene", continua a dire Graham.
L'uccisione di Khashoggi è allegorica anche in riferimento a un secondo punto di svolta. Khashoggi è stato fatto a pezzi in Turchia, proprio mentre stava per contrarre matrimonio all'interno dell'ambiente dello AKP (lo zio della promessa sposa era uno dei fondatori del partito). Khashoggi era anche amico del Presidente Erdogan. L'orribile evento ha permesso a Erdogan di perorare oltremodo la causa della Turchia, specie se si considera che esso si è verificato proprio mentre un tribunale turco ordinava la scarcerazione del pastore statunitense Brunson. Accogliendo Brunson alla Casa Bianca, Trump è stato oggetto di una conversione sulla via di Damasco e ha detto che adesso considera la Turchia molto di buon occhio. Erdogan sfrutterà al massimo questo vantaggio per allontanare gli USA dai curdi nell'est della Siria, e per rafforzarsi nel mettere Washington contro Mosca.
Erdogan ovviamente mira più in alto. Si sta servendo dell'affare Khashoggi per puntare, nientemeno, al ruolo di guida del mondo islamico, sperando di contenderlo con successo all'Arabia Saudita. Dopo la sconfitta degli wahabiti in Siria, Erdogan sente che l'Islam sunnita è sull'orlo del precipizio e si è messo a usare senza pudore il linguaggio e l'immaginario ottomani per sostenere le proprie istanze; i corsivi della stampa turca ci mettono del loro, chiedendo che l'Arabia Saudita smetta di esercitare la propria egemonia wahabita sui luoghi sacri di Mecca e Medina.
Anche questo costituisce un potenziale punto di svolta. L'Arabia Saudita sta perdendo colpi; dal punto di vista politico è sempre stato un paese marginale, ma il regno sopperiva profondendo denaro e accreditandosi come custode dei Luoghi Santi.
Gli Stati del Golfo, dopo che gli eccessi dello Stato Islamico hanno alienato loro le simpatie di ameriKKKani ed europei, hanno inziato a rifarsi a una narrativa improntata alla moderazione e a sostenere una "guerra alla teocrazia" piuttosto che arrischiarsi a condannare senza mezzi termini la violenza jihadista, presa di posizione questa inaccettabile al loro stesso clerov puritano. Il fatto è che mentre questa "guerra alla teocrazia" potrebbe essere intesa come un esplicito impegno a combattere lo Stato Islamico, dal punto di vista retorico è servita assai meglio per mettere l'Iran, Hezbollah e i Fratelli Musulmani sullo stesso piano dello Stato Islamico. La narrativa, molto artificiosa, che Trump ha adottato senza riserve è questa.
La tiritera della "moderazione" ha comportato per le monarchie del Golfo un concertato e confuso tentativo di prendere le distanze dall'assetto statale islamico. Come notato da Ahmad Dailami, il nazionalismo monarchico che Mohammed bin Salman ha usato per allontanare il regno dal suo stesso puritanesimo islamico non è stato sostituito né da un credo alternativo, né da un autentico laicismo.
In Occidente Khashoggi è considerato un liberale favorevole alle riforme democratiche; di fatto egli era un tenace sostenitore del sistema monarchico. Di cui Mohammed bin Salman è il capo effettivo. Khashoggi sosteneva che tutte le monarchie di questo genere fossero riformabili: solo le repubbliche laiche come l'Iraq, la Siria o la Libia non lo erano, e dovevano essere rovesciate. Il punto in cui si è trovato in disaccordo con Mohammed bin Salman era il suo vedere con maggior favore non una virata verso il laicismo o verso un liberalismo all'occidentale, ma una islamizzazione riformatrice della politica araba secondo i principi dei Fratelli Musulmani. Di fatto la stessa cosa che pensa Erdogan.
Ecco dunque il secondo potenziale punto di svolta. Per adesso Erdogan ha avuto successo nello sfruttare l'assassinio di Khashoggi; riuscirà anche a plasmarne le conseguenze, facendo venire meno il sostegno degli USA ai Paesi del Golfo per ridirigerlo verso il modello turco improntato ai dettami dei Fratelli Musulmani? Nel corso degli anni gli USA sono stati ondivaghi -spesso anche con brusche oscillazioni- passando dal sostegno per i Fratelli Musulmani visti come catalizzatore per il cambiamento in Medio Oriente, per tornare poi a guardare alla competenza con cui i servizi segreti sauditi riuscivano a schierare jihadisti pronti a tutto come alla miglior soluzione per un veloce rovesciamento di qualche governo.
Trump ha accennato alla possibilità di un cambiamento del genere quando si è espresso a favore della Turchia durante il suo incontro con il pastore Brunson: "Si tratta di un magnifico passo per instaurare sostanziali e peculiari rapporti con la Turchia. Oggi abbiamo della Turchia un'opinione molto diversa da quella che avevamo ieri. Credo che questa sia la nostra occasione per avvicinarci alla Turchia, per avere rapporti molto, molto, più stretti. Avere buoni rapporti col Presidente Erdogan sta diventando sempre più importante."
E che dire del possibile terzo punto di svolta? Si tratta, ovviamente, dello stato sionista. L'ex ambasciatore statunitense nello stato sionista Dan Shapiro scrive:
La raccapricciante eliminazione di Khashoggi ha implicazioni che vanno molto oltre l'aver mostrato la natura brutale e priva di scrupoli del principe ereditario saudita. A Gerusalemme e a Washington si stanno pentendo di tutta la strategia che avevano elaborato per il Medio Oriente, e non ultimo per contrastare l'Iran... La scioccante brutalità del rapimento e dell'assassinio di Jamal Khashoggi da parte delle forze di sicurezza saudite non può essere fatta passare in sordina, non importa quanto improbabili siano i tentativi di indorarne la pillola come il chiamare in causa un interrogatorio andato storto o affermare che si è trattato dell'opera di qualche canaglia.
Le implicazioni non si limitano alla tragedia che ha colpito la famiglia e la promessa sposa di Khashoggi. La videnda fa sorgere interrogativi sostanziali in USA e nello stato sionista sull'intera strategia che avevano elaborato per il Medio Oriente... l'assassinio di Khashoggi non è soltanto un gesto che per abiezione supera ogni limite; esso evidenzia anche la sostanziale inaffidabilità dell'Arabia Saudita di Mohammed bin Salman come partner strategico. Quanto accaduto nel consolato saudita di Istanbul riecheggia le parole che furono usate un tempo per descrivere l'eliminazione di un avversario da parte di Napoleone: "Si tratta di qualcosa di peggio di un delitto: si tratta di un errore." Di un errore strategico, si potrebbe aggiungere.
Di fatto esso dà adito a un punto di svolta gravido di potenziali conseguenze. Lo stato sionista ha perduto, o per lo meno ha visto molto ridimensionata, la superiorità aerea che aveva in Siria e nel quadrante settentrionale della regione. Lo stato sionista dipendeva da questa superiorità aerea; ma dopo la perdita di un aereo Ilyushin Il-20 con quindici uomini da parte dei russi nei cieli siriani il 17 settembre, Mosca ha installato un formidabile ombrello di difesa aerea ed elettronica che copre gran parte del settore.
In seguito a questo il bilancio strategico in Medio Oriente tende a una precaria parità. Il pendolo della potenza punta a nord: "Non sarà facile per lo stato sionista destreggiarsi in questa situazione, dato che il mondo della politica estera statunitense si è velocemente diviso in uno schieramento antiiraniano e in uno antisaudita... Pere lo stato sionista [è possibile che] il contraccolpo più grave della morte di Khashoggi [sia che] Mohammed bin Salman, ossessivamente dedito a mettere a tacere i propri critici, stia sabotando i tentativi di creare una corrente di consenso internazionale che faccia pressione sull'Iran," conclude Shapiro. Lo stato sionista si trova davanti diverse alternative: premere su Trump perché convinca Putin a fare marcia indietro sullo schieramento dei missili antiaerei S300 in Siria, sfidare direttamente le difese aeree russe, o accettare il nuovo equilibrio strategico nella regione.
Trump alla fine deciderà come considerare l'assassinio di Khashoggi, se far finta di nulla oppure no. Una cosa che potrà senz'altro avere un'influenza sulla strada che lo stato sionista deciderà di imboccare, insieme con tutto il Medio Oriente.

lunedì 19 novembre 2018

Alastair Crooke - Nel commercio internazionale e in politica estera gli USA vanno verso il punto di rottura



Traduzione da Strategic Culture, 9 ottobre 2018.


L'amministrazione Trump sta puntando tutto sul rosso, sulla roulette di un commercio e di una politica estera sottoposti alle radicali pressioni statunitensi. Scommettono sul fatto che un puro e semplice perseguire i meri interessi commerciali statunitensi senza fare prigionieri possa ripristinare l'egemonia economica ameriKKKana. Solo che come ha spiegato Vali Nasr sul The Atlantic la radicale politica della terra bruciata messa oggi in pratica dai corrispondenti affondi in politica estera di Donald Trump non ha solo lo scopo di far tornare gli USA al loro status quo, ma quello di costringere alla resa chiunque resista all'egemonia statunitense, sia egli amico -come il Canada- o sia una delle cosiddette "potenze revisioniste" o degli stati in possesso di armamenti nucleari.
È sempre più chiaro che quello che Trump spera di ottenere con una campagna di forti pressioni non corrisponde alla visione del gruppo che si occupa della sicurezza nazionale. In considerazione del comportamento che Trump ha tenuto con Kim Jong Un e delle sue dichiarazioni sull'Iran, l'obiettivo [di Trump] è quello di portare la Corea del Nord e l'Iran al tavolo dei colloqui. Gli appartenenti al suo entourage invece parlano come se fossero intenzionati piuttosto a costringere i due paesi alla resa. Pyongyang e Teheran questo lo capiscono molto bene. [corsivo dell'autore, N.d.T.]
Il punto essenziale però è che quando alla roulette si punta su un colore piuttosto che su un altro si vince o si perde tutto.
Per quanto riguarda le politiche commerciali, la vecchia pretesa degli Stati Uniti di voler correggere le storture nel settore è ormai un'impostura. La loro linea politica oggi non è altro che la persecuzione ad oltranza del tornaconto economico statunitense. Il Ministero del Commercio per esempio ha recentemente imposto restrizioni a dodici società russe che stanno "comportandosi in modo contrario alla sicurezza nazionale o agli interessi degli Stati Uniti in politica estera". Nessuna delle dodici società ha niente a che vedere con l'apparato militare russo o rappresenta una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Esse stanno solo costruendo un nuovo aereo passeggeri.
Come dimostra Arkady Savitsky, il vero obiettivo degli Stati Uniti è rappresentato dalla aviazione civile russa: "un esame più accurato della lista nera mostra che gli Stati Uniti hanno sanzionato società coinvolte nella produzione dell'aereo civile russo Irkut MC-21". Lo MC-21 un jet passeggeri di nuova generazione caratterizzato dall'utilizzo di materiali compositi e di leghe metalliche avanzate. Queste sanzioni insomma non servono ad altro che a proteggere il vantaggio mercantile della Boeing -più che la sicurezza nazionale delle Stati Uniti- e a sabotare i piani per applicare la tecnologia dello MC-21 al jet commerciale wide body CR929 al cui sviluppo collaborano Cina e Russia.
Ovviamente la Russia è stata definita dagli Stati Uniti una "potenze revisionista", ma lo stesso non vale per il Canada. Eppure, nell'accordo recentemente annunciato fra Stati Uniti Messico e Canada secondo il Globe and Mail il governo canadese è stato costretto a rassegnare una parte vitale della sovranità nazionale agli Stati Uniti:
Pochi hanno compreso l'accordo capestro che consente agli Stati Uniti di controllare la diplomazia canadese definito in modo piuttosto esplicito tra i commi dell'articolo 32.10: '...accordi di libero scambio con paesi non ad economia di mercato..." Nonostante il signor Trudeau abbia assicurato in termini vaghi che questo articolo ha effetti insignificanti, in presenza di questo accordo il Canada non è più libero di stringerne uno con la Cina.
Adesso Ottawa è tenuta a notificare agli altri contraenti se intende stringere un accordo commerciale con un paese "non ad economia di mercato", che è una perifrasi per indicare la Cina. Il Canada non è libero di considerare la Cina come un paese ad economia di mercato... Le relazioni commerciali di Ottawa e il suo impegno per la diversificazione economica saranno [adesso] soggetti alle interferenze di Washington. Agli USA viene in sostanza dato potere di veto: Pechino sarà costretta a negoziare con Washington se vuole stringere un accordo di libero scambio con il Canada o con il Messico.
Cedendo su un punto tanto fondamentale, il Canada ha prodotto un precedente che l'amministrazione Trump potrebbe usare per costringere altri partner commerciali come l'Unione Europea o il Giappone a prevedere clausole simili nei loro trattati commerciali, producendo così una polarizzazione del mondo: da una parte un sistema basato sul dollaro e legato agli Stati Uniti, cui è vietato l'accesso a chi fa affari con la Cina a meno che gli USA non concedano il proprio benestare, dall'altra quanto resta, condannato alla marginalizzazione.
Questo approccio al commercio, che punta a creare una rottura, ha iniziato a creare una spaccatura fra il governo Trump e Wall Street. Una Wall Street che fino a poco tempo fa si mostrava assolutamente ottimista sul fatto che nella stanza dei bottoni ci fossero gli USA e nessun altro. I mercati adesso sono preoccupati per le conseguenze sul commercio mondiale e sui profitti delle società statunitensi che potrebbe avere un inasprirsi di questa guerra fredda... ovvero, se la pallina della roulette non si fermasse sul rosso.
Quali conseguenze avrebbe una vittoria di Trump, vittoria su cui non è molto concentrato dal momento che sta continuando a punzecchiare russi e cinesi? Questo interrogativo evidenzia esattamente l'incertezza causata dalla spaccatura che sta nascendo fra Trump e il suo gruppo di combattenti della guerra commerciale guidato dall'ideologia. Solo che non sappiamo cosa questo voglia dire. Probabilmente Trump si accorderebbe con il Presidente Xi semplicemente alzando la mano, come Trudeau, e chiedendo un accordo commerciale; anche in questo caso si tratterebbe di un accordo di cui farebbero le spese la sovranità nazionale della Cina e le sue grandi aspirazioni per il futuro.
Il Robert Lighthizer di Trump andrebbe avanti su questa strada fino all'esaurimento della disponibilità dei cinesi ad umiliarsi. Ma ci sono segnali che fanno pensare che i suoi consiglieri vogliano di più. Molto di più. Steve Bannon, che dice di aver partecipato direttamewnte all'ideazione delle politiche commerciali di Trump nei confronti della Cina, lo dice chiaramente:
"La strategia di Trump è quella di estendere su una scala senza precedenti la guerra commerciale alla Cina, di farne qualcosa di insopportabilmente doloroso per Pechino. E Trump non mollerà prima di aver vinto." Bannon ha detto (in un'intervista al South China Morning Post, che) l'intento non era solo quello di costringere la cina a cessare con le sue "pratiche commerciali inique"; l'obiettivo finale era quello di "reindustrializzare l'AmeriKKKa perché il settore manifatturiero è il cuore della potenza di un paese.
"Non è solo una questione di dazi. Ma di dazi su una scala e su una profondità cui mai si è pensato prima nella storia degli Stati Uniti," ha detto Bannon. Ha detto che Pechino ha confidato su "tornate e tornate di colloqui" per togliere efficacia alle misure punitive degli USA, ma che le tattiche dilatorie non avrebbero funzionato. "Cercano sempre un dialogo strategico per tirare le cose per le lunghe. Non hanno mai preso in considerazione l'idea che qualcuno avrebbe davvero fatto qualcosa del genere."
In pratica Bannon sta dicendo che l'obiettivo degli USA è quello di sradicare le attività statunitensi dalla Cina e ricondurle in patria; questo significa tagliare e scompaginare le ramificate catene di rifornimento delle società statunitensi e trapiantarle -con i loro posti di lavoro- di nuovo negli USA. Solo che in questo modo le società statunitensi perderanno per prima cosa proprio quella competitività sui costi che le ha condotte in Cina. Cercare di compensare l'aggravio di costi alleggerendo ulteriormente la tassazione sulle società, come si intenderebbe fare ad ottobre, rischia di portare gli interessi sui prestiti a livelli da giorno del giudizio, e al crollo del valore delle emissioni statali.
Quindi il piano di Trump e di Lighthizer funziona soltanto se il mercato borsistico statunitense continua a crescere quanto basta perché i dazi facciano capitolare la Cina. Ma Xi non può mollare tanto facilmente, neppure volendo. La Cina ha tutt'altri progetti, che sono scritti nello statuto del Partito Comunista Cinese; questo significa che la Cina, a livello collettivo, può solo considerare le cose nel lungo termine. La questione adesso riguarda l'autostima dei cinesi; non esiste che un colpo assestato dall'Arte dell'Accordo li costringa a suicidarsi, e a farlo velocemente, pubblicamente e in modo umiliante. Non è neppure nella natura di Xi. Xi ha messo su un animo d'acciaio. Animo che gli deriva dal fatto di provenire da una famiglia che non apparteneva al giro di quelle che contano; non sarà lui a cassare il "destino" della Cina così come viene definito dal Partito Comunista.
Quello che la Cina è intenzionata a fare è il compiere qualche mossa verso un'ulteriore apertura del mercato, verso le riforme e verso una maggiore capacità di attrarre imprese. Trump può anche dire che si tratta di una sua vittoria e smettere con la guerra; ma lo farà davvero? Le considerazioni di Bannon su una Cina intenzionata a "tirarla per le lunghe" senza introdurre cambiamenti autentici, e il suo commento per cui il vero scopo di tutto questo è la reindustrializzazione dell'AmeriKKKa, mettono qualche dubbio swulla prospettiva che si possa giungere presto ad una tregua. Il gruppetto dei guerrieri commerciali vuole lo scalpo, proprio.
Le due linee temporali in contrasto fra loro, quella delle pressioni ameriKKKane che si basano sulla perdurante percezione di un'economia solida e che hanno bisogno di una vittoria in tempi rapidi, e quella della politica cinese che ha bisogno di tempi lunghi, determineranno il risultato di questo braccio di ferro. I mercati statunitensi assistono al rifluire di un fiume di dollari dentro i beni rifugio delle azioni ordinarie statunitensi, cosa che sta tenendo a galla gli indici; tuttavia si tratta di un fenomeno effimero che avrà una fine. A quel punto potranno affermarsi altre tendenze verso la decrescita, tendenze di segno contrario e probabilmente all'insegna della recessione.
Nel più lungo periodo, se si potrà parlare di più lungo periodo, il "resto del mondo" si metterà al lavoro per costruire nuove vie e nuove strutture commerciali, proprio per aggirare gli USA e i loro dollari tossici e vulnerabili alle sanzioni. Il rosso di Trump uscirà prima che prenda forma concreta questo abbandono del dollaro?
Questa ultima analisi tuttavia omette di considerare il fatto che la prospettiva di una tregua o di una qualche vittoria in questa guerra commerciale viene ogni giorno falcidiata da parte di altra gente. Il puro sfruttamento della privilegiata posizione economica della sola AmeriKKKa da parte di Robert Lighthizer si è rivelato essere il posto ideale per mettere d'accordo i falchi della politica estera, che possono da lì perseguire il proprio nirvana politico, il ripristino dello stato sionista come potenza militare egemone in Medio Oriente, la distruzione dell'Iran, l'affossamento del progetto euroasiatico e la vendetta contro la Russia, colpevole du aver guastato la festa all'egemonia unipolare ameriKKKana riaffacciandosi in Medio Oriente.
"In aprile il Presidente degli USA ha detto che le sue armi avrebbero presto lasciato la Siria e che la decisione su quanto vi sarebbero rimaste sarebbe stata presa 'molto velocemente'," scrive Arkady Savitsky. "Ce ne andremo dalla Siria, probabilmente molto presto. Lasciamo che se ne occupino altri, ora," aveva detto Trump. "Invece John Bolton ha recentemente affermato che gli USA in Siria sarebbero rimasti" finché non se ne fossero andati gli iraniani... Non ce ne andremo fino a quando truppe iraniane si troveranno fuori dai confini dell'Iran, alleati e milizie compresi"... Secondo il Military Times [statunitense], questa dichiarazione "indicava un sostanziale cambiamento di assetto dalle correnti operazioni antiterrorismo a quello di una missione centrata sulle manovre geopolitiche e sulla guerra per interposizione."
Questo è il scondo allineamento mancato (per usare la terminologia di Vali Nasr) fra Trump e -stavolta- i falchi ideologici della sua politica estera.
Ed ecco il secondo fattore che va a incidere sui calcoli della guerra commerciale. In questo caso stiamo parlando di una massiccia espansione in corso d'opera di una determinata inziativa in politica estera, di cui sono autori Bolton ed altri. "Chiaramente Trump pensa che la sua strategia basata sull'esercizio del massimo della pressione porterà ad accordi storici, sia con la Corea del Nord che con l'Iran," scrive Vali Nasr: "Anche se gli sviluppi della situazione con la Corea del Nord hanno dato a Trump qualche motivo per sperare, questa non sarà una strategia vincente. All'ONU, all'inizio di ottobre... il Ministro degli Esteri della Corea del Nord ha rifiutato qualsiasi mossa verso una denuclearizzazione intesa come completa e incondizionata fine dei programmi nucleari e missilistici, a meno di tangibili concessioni da parte degli USA. La pressione, in altre parole, può aver convinto Kim Jong Un a intraprendere un dialogo, ma da sola non servirà a portare a Trump l'accordo che desidera. Nonostante l'accattivante offensiva di Trump, la sua amministrazione sembra stia cercando di ottenere quello che John Bolton ha chiamato 'un risultato in stile Libia', in riferimento all'accordo del 2003 con cui Muhammar Gheddafi abbandonò il programma nucleare libico e spedì fuori dal paese il know how."
Ad essere esposti a radicali pressioni in politica estera non sono solo la Corea del Nord e l'Iran; tutti quanti si trovano nella stessa situazione. Un'epidemia. il Segretario agli Interni degli USA, Zinke, a settembre ha ricordato minacciosamente che la marina statunitense è in grado di impedire ai russi di ottenere idrocarburi dal Medio Oriente: "Gli Stati Uniti sono in grado, treamite la nostra Marina, di mantenere aperte le vie marittime e, se necessario, di bloccarle... per assicurarsi che la loro energia non arrivi sul mercato". E poi: "La Russia deve interrompere lo sviluppo segreto di un sistema missilistico da crociera proibito o gli USA cercheranno di distruggerlo prima che diventi operativo," ha detto il 2 ottobre l'inviato di Washington alla NATO.
Il punto è questo: le guerre commerciali potrebbero cessare se la Cina concedesse a Trump l'accordo commerciale che vuole, e se l'Iran e la Corea del Nord concedesserto a Trump gli accordi sul nucleare che vuole. Ma questo non succederà, perché di mezzo ci sono concezioni geopolitiche contrapposte.
Xi, quasi di sicuro, non è contrario per principio a fare qualche concessione commerciale agli USA; la Cina potrebbe farne qualcuna anche senza contropartita. Solo che l'insistenza degli USA sulla questione di Taiwan, il continuo e aggressivo confronto dell'AmeriKKKa con i cinesi sul Mar della Cina Meridionale, le sanzioni contro la Cina per aver acquistato armamenti russi, l'imposizione di sanzioni in stile Magnitsky contro individui e imprese russe (che la Cina crede saranno presto estese anche al suo caso) adesso rappresentano un'altra dimensione della Guerra Fredda, militarizzata e ancor più finanziarizzata.
Sembra ormai inevitabile che si vada verso l'imposizione alla Cina di sanzioni in stile Magnitsky, datoo che Mike Pence ha detto che "la Cina ha influenzato e interferito nelle questioni interne degli USA e nelle elezioni" e ha rilevato che le intromissioni russe negli affari interni degli USA non sono nulla rispetto a quanto fatto dai cinesi. Sono questi gli ostacoli veri che ci sono in mezzo. E che fanno prepotentemente pensare a tutti gli osservatori che l'AmeriKKKa non punta solo a "scambi più equi" con la Cina, ma vuole anche dargli una regolata sul piano militare e tecnologico, su quello dell'influenza regionale e nel campo dei tentativi di costruire le infrastrutture necessarie a realizzare catene di rifornimento proprie (noti anche come Iniziativa "Belt and Road").
E se Trump arriva prima al punto di rottura, o se al tavolo da gioco il rosso non esce? Un editorialista finanziario ha sarcasticamente scritto:
Trump sta facendo tutto quello che può per mettere fine ai giorni in cui gli USA potevano prendere in prestito qualsiasi cosa volessero in qualsiasi quantità volessero. A dire il vero non è che esista una ricetta precisa... Non è che sia chiaro cosa si dovrebbe fare. Ma se si comincia facendo tutto quello che Trump sta facendo -battibeccare con tutti gli alleati, enfiare a ruota libera il deficit governativo proprio nel punto saliente della ripresa economica, abbandonare qualunque idea di responsabilità fiscale, minacciare sanzioni su tutto a tutti quelli che cercano di onorare l'accordo che Obama raggiunse con l'Iran (in questo modo quasi pregando in ginocchio chicchessia di trovare il modo di aggirare il sistema bancario statunitense per curare i propri affari), cacciare chiavi inglesi negli ingranaggi del commercio mondiale senza dire chiaramente cosa si vuole ottenere di preciso (a vantaggio di un paese che strutturalmente... deve vedersela con una bilancia commerciale in deficit).
Insomma, ecco quello che si potrebbe fare. Si potrebbe andare a finire sul nero...