martedì 16 agosto 2016

Alastair Crooke - Trump ed i calcoli politici siriani come minaccia alla politica estera statunitense



Traduzione da Conflicts Forum.

Sì, come sappiamo anche noi tutti, Hillary Clinton ha ricevuto questa settimana l'investitura ufficiale come candidato presidenziale del Partito Democratico alle prossime elezioni. La sua candidatura è stata decisa dal partito molto tempo prima che la competizione avesse inizio, ed il partito ha usato ogni mezzo a disposizione, sia alla luce del sole che dietro le quinte, per essere sicuro che nulla, e men che meno la volontà popolare, intervenisse ad impedire che le cose andassero in questo modo.
Cosi si è espresso un commentatore statunitense in riferimento alla determinazione che lo establishment statunitense sta profondendo affinché lo status quo rimanga quello che è, vada come vada. Che cosa ha a che fare una cosa del genere con il Medio Oriente? Bene, sulla stessa falsariga e sempre lontano dalla pubblica ribalta, due influenti figure dello establishment hanno già staccato la spina agli arruffati e confusi tentativi fatti di straforo da Obama e da Kerry per mettere un freno alla "nuova" guerra fredda montante cercando un qualche modo per collaborare con i russi in Siria.
Secondo i timori dello establishment la collaborazione in Siria è cosa che non deve diventare un precedente per eventuali nuove occasioni di cooperazione con la Russia che potrebbero far scendere la tensione in altre zone, come l'Ucraina o le Repubbliche Baltiche.
Lo scorso venerdì allo Aspen Security Forum il direttore della CIA John Brennan ha detto: "...Abbiamo bisogno di avere una qualche certezza sul fatto che Assad si sta avviando al capolinea. Ci può essere un periodo di transizione, ma c'è bisogno che sia chiaro che Assad non fa parte del futuro della Siria. Finché questo non succederà, fino a quando non si sarà preso atto della necessità di questa transizione, i siriani moriranno e continueranno a morire."
Lunedi scorso il Segretario alla Difesa Ash Carter ha parlato dei risultati della tornata di colloqui tenuti da Kerry con il Presidente Putin a Mosca, nel corso dei quali pare sia stato raggiunto un qualche cauto accordo sulla costituzione di una sala controllo operativo congiunta in Giordania in cui dovrebbe rientrare personale russo e personale statunitense per la lotta contro lo Stato Islamico. A suo dire,
"Speravamo che [i colloqui di Kerry a Mosca] avrebbero favorito una soluzione politica e l'avvio di una transizione che mettesse fine alla guerra civile, che è fonte prima di tutta le violenze in Siria, e che poi combattesse gli estremisti e non l'opposizione moderata che invece deve fare parte del processo di transizione," ha detto Carter durante una conferenza stampa al Pentagono tenuta col generale Joseph Dunford, presidente dello Stato Maggiore congiunto. "Invece sono ben lontani da una cosa del genere."
Quando un inviato ha fatto notare a Carter che sembrava poco entusiasta per quanto stava facendo Kerry, lo stesso Carter ha risposto: "No, io sono vivamente compiaciuto dell'idea che i russi si schierino a nostro fianco e facciano le cose giuste. E penso che sarebbe stata una buona cosa se l'avessero fatto. Credo però che siamo lontani dal far assimilare ai russi quest'ordine di idee. Proprio a questo sta lavorando il Segretario Kerry."
La risposta di Carter ha spinto John Batchelor del The Nation<7i> a concludere: "Quale parte di 'no' Kerry non capisce? Gli hanno sbattuto la porta sul viso, e basta."
Certo, gli hanno proprio sbattuto la porta sul viso. Una porta sbattuta in faccia anche ad Obama, e sbattuta di proposito. Tutto il rapporto di Kerry e di Obama con Sergej Lavrov e col Presidente Putin si basava sul presupposto di lasciare da parte la questione del futuro del Presidente Assad e di concentrarsi invece sul combattere le forze di quella che adesso si chiama an Nusra e dello Stato Islamico. Dall'inizio dell'anno a questa parte questi sono stati gli argomenti in discussione. Nulla per cui Brennan e Carter possano incendiarsi di entusiasmo. Porre condizioni alla collaborazione con i russi in modo che "si schierino a nostro fianco e facciano le cose giuste" significa pretendere che gli Stati Uniti dettino la linea in ogni particolare, ivi compresa la questione dell'allontanamento di Assad dal potere; questo mina ovviamente ogni tentativo di accordo con Mosca cui Kerry possa cercare di arrivare.
Sull'altro fronte, e al contrario di quello che John Batchelor fa pensare, è possibile che Kerry abbia una perfetta conoscenza del gioco di Carter e di Brennan: sembra che Kerry abbia fatto ogni sforzo per portare Mosca al tavolo della diplomazia e perché al centro della questione ci fossero gli accordi di cessate il fuoco. Un modo per prendere tempo perché Carter e Brennan invece hanno usato le aperture di credito ottenute per dare spazio alla riorganizzazione e al riarmamento dei ribelli siriani che combattono contro il governo. Kerry era perfettamente consapevole del fatto che gli USA hanno inviato agli insorti qualcosa come tremila tonnellate di armamenti dopo l'inizio dei cessate il fuoco a febbraio. Kerry aveva cercato di presentare in seguito la cosa ai russi come un fastidioso pasticcio amministrativo, qualcosa che aveva a che fare con la conclusione di un progamma di sostegno...
Un autorevole esperto degli eventi militari siriani, il blogger di Moon of Alabama, ha scritto: "Lo stato maggiore russo fin da aprile ha reso noto il fatto che Al Qaeda in Siria, vale a dire Jabhat an Nusra o Fateh al Sham, ed i vari gruppi jihadisti ad essa connessi stavano progettando un attacco su ampia scala contro Aleppo. Un comandante di al Qaeda ha confermato l'esistenza di questo piano a lungo termine in una riunione preparatoria tenuta assieme ai suoi uomini prima dell'attacco attualmente in corso".
"Questo getta una nuova luce sui lunghi colloqui che il Segretario di Stato Kerry ha avuto per mesi con la sua controparte russa. Gli Stati Uniti hanno cercato di esimere al Qaeda dagli attacchi russi e siriani, nonostante esista una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che reclama lo sradicamento di al Qaeda e la riconquista delle aree controllate dallo Stato Islamico. Gli Stati Uniti hanno poi abbozzato una controproposta: combattere insieme al Qaeda, con le forze russe e quelle siriane sotto comando statunitense. In questa sede abbiamo definito questa proposta come una fallace assurdità. Sembra ora che tutto questo servisse a tirare in lungo le discussioni, per dar modo ad al Qaeda di prepararsi per l'attacco adesso in corso [ovvero l'attacco diretto contro l'Esercito Arabo Siriano ed i suoi alleati intenti a togliere l'assedio a quella parte di Aleppo rimasta sotto il controllo jihadista]" scrive Moon of Alabama.
In ogni caso i lunghi negoziati di Kerry con i russi, che avessero o meno il fine essenziale di ottenere rispetto per le pedine statunitensi sul terreno all'indomani dell'intervento russo, sono serviti ad alleviare le pressioni esercitate su Obama da quei falchi statunitensi che insistono affinché gli USA attacchino direttamente lo stato siriano e il suo precedente in modo da indebolire la compagine statale o da portarla all'implosione.
Il punto è questo. I russi hanno seguito gli ameriKKKani in questo doppio binario  -anche se la cosa gli è costata qualche screzio con gli alleati- al tempo stesso rintuzzando senza sosta le obiezioni ameriKKKane (ed europee) nei confronti di un'operazione militare su vasta scala destinata a liberare Aleppo dall'assedio jihadista e a restituire sicurezza alla città. Il pieno ritorno di Aleppo sotto il controllo dello stato siriano rappresenterà un cambiamento strategico sostanziale. Sembra che le forze governative stiano riuscendo in questo intento, con un sostegno aereo considerevole da parte dei russi. Le perdite degli jihadisti sono pesanti.
Insomma, perché mai Brennan e Carter stanno agitandosi tanto e sono tornati alla vecchia tiritera dell'"Assad deve lasciare" accompagnata da considerazioni strappalacrime del tipo "ci troveremo davanti al fatto che i siriani muoiono... e continueranno a morire" perché Assad, non ha lasciato il potere, proprio nel momento in cui la pretesa di spodestarlo è meno realistica che mai, ammesso che lo sia mai stata?
Quest'ultimo interrogativo, vale a dire a cosa serva tutto questo, ci riporta al punto di partenza: la ferma intenzione dello establishment, democratico e repubblicano, di mantenere lo status quo "con ogni mezzo a sua disposizione". Esso intende anche mantenere, sempre con ogni mezzo a sua disposizione, lo status quo in politica estera. Alcuni leader repubblicani hanno fatto proprio questo intendimento al punto da accantonare le politiche di parte e da sostenere il candidato democratico. Lo scatto di nervi della CIA e del Dipartimento della Difesa su citato in effetti riguarda ben più che la sola Siria. Esso fa parte del tentativo di presentare Trump come un "burattino di Putin", come il "candidato del Cremlino" e come "agente di fatto" (questo, in mezzo alle altre offese).
Alcune potenti figure intendono chiaramente spedire su un binario morto qualsiasi tentativo di calmare questa "nuova" guerra fredda. Gli interrogativi di Trump sull'ostilità verso la Russia, sulla ragion d'essere della NATO e sul costo che per gli USA rappresenta l'essere una potenza mondiale egemone hanno fatto loro gelare il sangue.
Non riesce forse a capire questo Trump, pare dicano queste figure da ancien régime, che un riavvicinamento ed un'intesa con Putin in questo momento potrebbero mandare a gambe all'aria tutto quanto e far collassare tutta la politica estera ameriKKKana? Senza una chiara minaccia russa -minaccia che nella politica di palazzo statunitense è diventata un discorso fisso- che significato ha la NATO? E senza la NATO, perché mai l'Europa dovrebbe "schierarsi a loro fianco e fare le cose giuste"? E se Damasco, Mosca e Tehran riescono ad uscire dal conflitto siriano rafforzate in termini di credito e di prestigio politico, che prezzo dovrà pagare l'ordine mondiale a guida statunitense, basato sulle statunitensi regole?
In particolare, se coloro che lo rifiutano e decidono di rimanere fuori dall'ordine globalizzato scoprono che è possibile farlo e ne risultano rafforzati e dotati di maggior influenza? Se l'ordine politico attuale inizia a perdere colpi, quale futuro attendono la finanza globale a guida statunitense, che è ricca di interconnessioni e che al momento è piuttosto disastrata, e la governance mondiale?
Dovranno morire ancora più siriani non perché il Presidente Assad non è stato spodestato, ma perché lo establishment statunitense intende far sì che la guerra in siria continui fino a quando Hillary -così esso si augura- non si insedierà alla presidenza. Lo establishment farà ogni cosa in suo potere per essere sicuro che Hillary ce la faccia, e perché la possibilità di mantenere l'AmeriKKKa entro l'alveo della sua tradizionale politica estera non le sia preclusa una volta che avrà iniziato il mandato presidenziale.
Il pasticciato tentativo -che nasce ai piani alti- di suggerire che Putin intenda indebolire l'Occidente e che Trump rappresenterebbe lo strumento con cui egli intende raggiungere il suo scopo non è soltanto una boutade da campagna elettorale; è una cosa mortalmente seria e molto pericolosa. Anche questa osservazione sono in pochi a farla, per il timore di essere bollati come "utili idioti" di Putin. La Russia farà i suoi calcoli, ma non ci sorprenderemmo se dovessimo prima o poi constatare che ha messo da parte gli indugi e si sta preparando ad una guerra fredda più serrata, o anche ad una guerra vera e propria.

domenica 14 agosto 2016

Alastair Crooke - La Turchia si rivolgerà alla Russia? Che ne sarà del suo neoottomanismo?


Traduzione da Valdai Discussion Club, 5 agosto 2016.

A quanto sembra la svolta è già in atto. Il primo incontro ai massimi livelli dopo l'abbattimento dell'aereo militare russo sopra i cieli siriani avvenuto lo scorso novembre ha avuto luogo questa settimana. I vice primi ministri di Turchia e Russia si sono incontrati a Mosca per gettare le basi per un altro vertice ad agosto, in cui il presidente Putin ed Erdogan -nella ex capitale San Pietroburgo- sanciranno il nuovo riavvicinamento.

Con questa mossa Erdogan sta solo giocando la carta russa contro gli Stati Uniti e la NATO, o sta davvero cambiando orientamento? Di sicuro i vertici dello AKP stanno facendo ampio ricorso ad una retorica centrata sulla asserita complicità statunitense nel fallito colpo di Stato, al punto che rimangiarsi quanto detto sarebbe ormai imbarazzante per il partito. Se i turchi davvero intendono cambiare orientamento, la cosa avrebbe una portata strategica estremamente rilevante. Significherebbe l'indebolimento dell'ultimo autentico caposaldo dell'egemonia statunitense in Medio Oriente, e significherebbe anche la rottura della catena con cui la NATO circonda la Russia.
E del neoottomanismo che ne sarà? La natura peculiare delle ambizioni di Erdogan, al tempo stesso turche, nazionaliste ed islamiche di orientamento sunnita non collimano facilmente con il concetto che i russi hanno della sicurezza in Medio Oriente o in Asia Centrale. Questa è la cosa essenziale. Il Presidente Putin vorrà essere sicuro che Erdogan non stia solo mettendo in piedi la faccenda per ottenere maggiori concessioni dall'Occidente, o per mettere i russi contro gli statunitensi. La Russia si è adoperata pazientemente per arrivare a collaborare con gli USA in Siria, e non ha certo intenzione di gettar via gli sforzi compiuti.
Dunque, il neoottomanismo di Erdogan quali caratteristiche ha? E perché costituisce un potenziale problema non da poco?
Uno dei suoi aspetti è particolarmente evidente ed è il revanscismo. Nell'agosto 2014 Piotr Zalewski notava che Ahmet Davutoglu appena prima di diventare ministro degli esteri nel 2009 aveva detto con una certa concisione: "Noi siamo i nuovi ottomani". "Qualunque cosa abbiamo perso tra il 1911 e il 1923, qualunque sia la terra da cui ci siamo ritirati, tra il 2011 ed il 2023 vi torneremo, per incontrare di nuovo i nostri fratelli." In altre parole, noi (intesi come la Turchia) torneremo ad essere una grande potenza sunnita.
Già ho esposto nei dettagli, in un'altra occasione, le ambizioni turche di rimettere le mani sugli antichi vilayet ottomani di Aleppo e di Mossul, e sugli sforzi compiuti per radicare le etnie turche degli uiguri e dei turkmeni nel nord della Siria e per schierare truppe turche nell'Iraq settentrionale; lo scopo a lungo termine è quello di tornare ad essere una grande potenza sunnita.
Valga a titolo di esempio il fatto che lo scorso anno il giornale turco Takvim ha annunciato che "Aleppo [era destinata a diventare] l'ottantaduesima [provincia della Turchia]: "una zona cuscinetto sarà costituita nel nord della Siria; una zona comprendente la città di Aleppo che sarà sotto totale controllo turco. [Una volta che] gli USA e la Turchia hanno siglato gli 'accordi di Incirlik' l'equilibrio politico e militare ha cominciato a cambiare con rapidità [...] i giornali statunitensi hanno scritto che 'la nuova mappa [della Siria] sarà tracciata durante l'incontro di Erdogan con Obama".
Secondo la mappa del nord della Siria pubblicata in prima pagina da Takvim quella che si sarebbe preparata a diventare la "ottantaduesima provincia" comprendeva non solo Aleppo, ma anche Idlib e il nord di Latakia. Ora, la riannessione di questi territori non è più un'opzione praticabile. Il corso degli eventi, in Siria ed in Iraq, è cambiato in seguito all'intervento russo.
L'aspetto più spinoso della questione, almeno per la Russia, è costituito piuttosto dalla portata turca ed islamica delle ambizioni neoottomane della Turchia. Paradossalmente, su questo punto Erdogan ha molto in comune con il movimento Hizmet di Fehtullah Gulen. Le vicende della comunanza di vedute tra Erdogan e Gulen e del loro accordo nella fondazione dell'AKP sono complesse, e complesse sono anche le vicende della loro inimicizia e degli scontri che hanno avuto in seguito. Tuttavia entrambe le ideologie nascono da radici nazionaliste, islamiche e liberalconservatrici simili. Ancor più precisamente, i due condividono il paradigma del ritorno all'ottomanismo, che è stato ben descritto da Ahmet Davutoglu parlando di una "grande restaurazione" in cui "abbiamo bisogno di abbracciare totalmente gli antichi valori che abbiamo perduto". Davutoglu continuava parlando in termini agiografici dei legami storici che accomunavano le genti turche, nonostante le "nuove identità che nei tempi moderni ci sono state ritagliate addosso con la forza". Questi storici legami, questi valori cui si riferiva l'ex Primo Ministro comprendevano ovviamente anche la lingua turca, l'Islam ed il califfato.
Le origini di Gulen risalgono al movimento Nur, una corrente islamica riformista e modernista ispirata dagli scritti del religioso ed attivista politico Said i Nursi. Il movimendo di Gulen opera in campo sociale ed educativo e almeno in prima istanza non è un movimento politico, anche se interagisce con i governi e porta avanti quella che potrebbe a buon diritto essere considerata un'attività diplomatica verso paesi occidentali ed islamici come se fosse un'entità politica consolidata.
L'obiettivo della cemaat, della comunità di Gulen, con quest'enfasi sulla scienza, sulla tecnologia, sull'economia occidentale di libero mercato, è quello di formare e di influenzare le future élite nazionali, che parleranno inglese e turco, e di favorire l'inclusione nel blocco occidentale. "Le materie religiose sono completamente assenti dai loro curricula. [Gli insegnanti della cemaat] non professano mai apertamente la filosofia dell'Islam, ma la vivono. Per esempio, gli insegnanti delle scuole del movimento devono essere educati, irreprensibili e rispettosi. Una condotta improntata a questa etica pretende dai missionari duro lavoro, accettazione dello hizmet insani ("servizio umano") oppure disponibilità nei confronti degli altri," nota lo studioso franco-turco Bayram Balci. Si tratta di un'organizzazione molto ricca, con think tank, scuole e case editrici sparse in tutto il mondo, anche se le scuole si concentrano per lo più nei Balcani ed in Asia Centrale.
Balci spiega che si tratta davvero di "un movimento missionario. La sua missione è reinstaurare l'Islam in una regione che per gli ultimi settant'anni è stata controllata da una potenza atea e persecutoria. A questo fine le Nurcu, le comunità che aderiscono alla dottrina Nur, impiegano metodi simili a quelli dei gesuiti. E come i gesuiti le Nurcu hanno sviluppato un metodo di reclutamento elitario. Vorrebbero cambiare la società per mezzo della formazione, ed intendono la formazione come una supervisione complessiva sugli allievi, dentro e fuori scuola. Il movimento missionario intrattiene anche ottimi rapporti con le popolazioni in cui si insedia, con l'intento di convertirle".
Tecnicamente la cemaat, cui si pensa aderiscano circa tre milioni di appartenenti, fa capo ad un orientamento sufi che è più culturale che filosofico, ma a differenza della maggior parte degli orientamenti sufi è veementemente anti sciita ed ostile nei confronti dell'Iran. Sotto certi aspetti la cemaat ha caratteristiche simili a quelle della massoneria. Unirsi alla cemaat in Turchia o in Asia Centrale è spesso stato il modo per avere un lavoro sicuro o uina promozione, ed in ultima analisi un posto nella élite. Non è troppo difficile capire perché questo movimento, con la sua liberale enfasi sull'insegnamento dell'inglese e delle discipline scientifiche e il suo orientamento aperto e favorevole all'economia occidentale basata sul libero mercato, possa incontrare il favore di un governo statunitense che stia cercando di plasmare il futuro del mondo islamico.
Le origini di Erdogan al contrario si trovano nel Millî Görüs, il Movimento per una Prospettiva Nazionale, che aveva i suoi serbatoi naturali tra gli osservanti uomini d'affari di provincia e i coltivatori. All'inizio ostili ai seguaci di Gulen, visti come pericolosi forieri di forze laiche, i sostenitori di Erdogan si separarono dal Millî Görüs dopo il colpo di stato del 1997 e fondarono lo AKP insieme con seguaci di Gulen.
Che cosa hanno in comune dunque Gulen ed Erdogan? Nonostante tutti gli scontri che hanno avuto in seguito, hanno sempre condiviso una visione molto simile su ciò che implica una prospettiva neoottomana.
Bayram Balci ha scritto una tesi di dottorato sulle scuole della cemaat ed ha notato che il movimento di Gulen si adopera per il conseguimento di tre obiettivi. In primo luogo, la turchificazione dell'Islam; poi l'islamizzazione dell'ideologia nazionale turca, ed infine l'islamizzazione della stessa modernità. Un compito non da poco.
In breve, Gulen tende alla realizzazione di un nuovo movimento globale islamico di ampia portata. Nel 1997 dichiarò che "la Turchia [...] oggi supera i sessanta milioni di abitanti. Con i turchi che vivono in Asia Centrale si arriva a centoventi, centotrenta milioni. Se si riesce ad abbattere la muraglia cinese e ad unirsi con i turchi che vivono laggiù, arriveremo a trecento milioni". Sotto certi aspetti le critiche che gli vengono mosse sono fondate: lo Hizmat è uno stato parallelo che  si infiltra senza chiasso e si insedia nei centri di potere fino a quando lo stato si abbandona supino alla sua presa senza fare resistenza.
L'obiettivo panturanico di Gulen trova piena condivisione da parte di Erdogan. Le differenze, profonde, sono nei metodi. Il presidente turco non avrebbe alcuna remora sulla creazione di una 'umma, di una comunità di credenti, interamente turca e che comprenda tutti i popoli turanici dalla Cina occidentale fino all'Europa orientale. Erdogan è stato zelante nel rivolgersi a tutte le popolazioni turche: nel 2009 ha definito la presenza cinese nello Xinjiang "una sorta di genocidio". Bulent Arinc, cofondatore dello AKP e poi vice Primo Ministro ha detto: "noi abbiamo legami storici molto profondi con i nostri fratelli nel paese degli Uiguri" ed ha affermato che in Turchia esiste una comunità uigura che ammonta a trecentomila persone.
Erdogan si è anche dedicato ad una silenziosa opera di turchizzazione dei Fratelli Musulmani, l'importante movimento islamico arabo; ha fatto opera di convincimento perché adottasse il modo turco di accostarsi alla modernità ed il concetto turco del ruolo che gli islamici devono ricoprire nella società contemporanea. Nelle elezioni presidenziali egiziane, ad esempio, i Fratelli Musulmani hanno basato la propria campagna su una piattaforma unica incentrata sul progresso socioeconomico e sull'economia di mercato liberale piuttosto che sui valori della giustizia e dell'Islam. Tutto su istanza di Erdogan, e sulla base del suo avvertimento che il benestare di Washington avrebbe immunizzato i Fratelli Musulmani da qualunque ritorsione occidentale.
Certo, i motivi della rottura tra Erdogan e Gulen sono svariati, a cominciare dal fatto che i sostenitori di Gulen hanno cercato di capitalizzare lo scontento antigovernativo all'indomani delle proteste in Gezi Park nel 2014 per finire ai dossier su casi di corruzione capaci di portare alla caduta del governo. Erdogan ha dichiarato guerra, ed ha intrapreso l'epurazione dal paese dei sostenitori di Gulen.
Fin qui il terreno dello scontro diretto. Erdogan però ha anche un modello di nuovo ordine islamico molto diverso da quello di Gulen. Ha già messo il cappello sulla corrente principale dei Fratelli Musulmani che già erano sotto la sua influenza e che all'indomani della "Primavera Araba" sembrava fosse in grado di conseguire risultati politici sostanziali in tutto il mondo arabo. Si trattava di una piattaforma politica praticamente già pronta, con milioni di seguaci e l'indispensabile organizzazione sul terreno suddivisa in cellule diffuse in tutto il mondo arabo.
Col susseguirsi degli eventi la principale corrente dell'islamismo arabo di cui i Fratelli Musulmani fanno parte è diventata ogni volta più intransigente e puritana dal punto di vista dottrinale, avvicinandosi al modello salafita. Non voleva più intromissioni di sufi o di personalità alla Gulen. Non sentiva la necessità di "permeare di sé" i centri di potere secondo lo spirito della cemaat. Se la base politica già esistente dei Fratelli Musulmani avesse in qualche modo potuto abbracciare -a livelli diversi e con Erdogan a controllare l'operazione- l'apparato militare dei movimenti jihadisti, agendo separatamente ma in vista dello stesso obiettivo di fondo (la costituzione di uno Stato Islamico), la nuova 'Umma non avrebbe potuto che impadronirsi del mondo islamico.
In Siria Erdogan ha utilizzato in massima parte questo approccio. I turchi si atteggiavano a "moderati" sul piano politico internazionale, mentre sostenevano gli jihadisti sul terreno. Gli jihadisti wahabiti sono stati mandati perché, come bulldozer, spianassero i detriti della vecchia cultura islamica sunnita levantina, e con essi la storica idea di una Siria tollerante; ai "moderati" sarebbe poi spettato il compito di infilarsi nel vuoto lasciato dalle scavatrici jihadiste colmandolo con un Islam intransigente, puritano e salafita, al tempo stesso però "moderno" sotto il punto di vista della finanza, della scienza e dell'affermarsi del progresso in campo sociale, alla maniera di Hamas.
Questo grandioso piano non è approdato a nulla di fatto, né in Siria né in Egitto. Ora, sono tramontate anche le relative ambizioni? Il problema per Putin è proprio questo. Erdogan si atterrà davvero alla sua idea di fare della Turchia una potenza globale neoottomana con una radicata influenza in Europa, nel Caucaso, in Russia, in Asia Centrale e nello Xinjiang? Volterà le spalle alle truppe d'assalto wahabite che stanno spazzando via il vecchio panorama culturale e gli antichi edifici, facendo posto al suo ordine nuovo? Smetterà di addestrare gli jihadisti sul versante nord del Caucaso, gli uiguri, gli uzbeki, gli albanesi? O stiamo forse assistendo soltanto ad una pausa temporanea che è un'espediente?
Le vere intenzioni del presidente Erdogan rischiano di essere messe alla prova molto presto. Il ministro degli esteri Sergej Lavrov ha detto il 22 luglio che
Lo sviluppo delle relazioni tra Russia e Turchia dipenderà dalla loro collaborazione in Siria e dal fatto che la Turchia prenda contromisure contro quanti usano il suo territorio per finanziare i terroristi in Siria... Molto dipenderà da come lavoreremo insieme per la ricomposizione della crisi siriana... Nel corso dei colloqui sulla crisi in Siria abbiamo fornito molte prove del fatto che il territorio turco viene utilizzato per rifornire i terroristi e per far passare combattenti in Siria. Tutte cose che restano sul tavolo.
Adesso che abbiamo ristabilito i rapporti diplomatici, sarà difficile ignorare le prove che abbiamo prodotto; speriamo che i nostri interlocutori turchi inizieranno a darci delle risposte e prenderanno le misure necessarie ad impedire che il loro territorio venga utilizzato per alimentare la guerra fratricida in corso in Siria.

venerdì 12 agosto 2016

Pour une nuit en août



Comme on voit sur la branche au mois de may la rose,
en sa belle jeunesse, en sa premiere fleur,
rendre le ciel jaloux de sa vive couleur,
quand l’Aube de ses pleurs au poinct du jour l’arrose;
la grace dans sa feuille, et l’amour se repose,
embasmant les jardins et les arbres d’odeur;
mais batue ou de pluye, ou d’excessive ardeur,
languissante elle meurt, feuille à feuille déclose.
Ainsi en ta premiere et jeune nouveauté,
quand la Terre et le Ciel honoroient ta beauté,
la Parque t’a tuee, et cendre tu reposes.
Pour obseques reçoy mes larmes et mes pleurs,
ce vase plein de laict, ce panier plein de fleur,
afin que vif et mort ton corps ne soit que roses.

Pierre de Ronsard

venerdì 5 agosto 2016

A Dario Nardella sulle intitolazioni toponomastiche ad Oriana Fallaci


Con un piede nella fossa Oriana Fallaci non si preoccupava solo di pallonieri maneschi, ma anche di vignette satiriche. Le vignette sono rimaste, per fortuna della satira e del residuo raziocinio della "scrittrice", nell'empireo delle pessime intenzioni.
Qualcuno ebbe la prontezza di precederla a dileggio, ma il risultato è realistico visto che dal 2001 in avanti le gazzette si strappavano l'un l'altra qualunque roba portasse la firma di quella donna.


Buongiorno signor Sindaco.

Sono nato a Firenze nel 1972 e vivo nella zona di via Erbosa. Ho letto il 4 agosto 2016 della decisione di intitolare questo, quello e quell'altro ad Oriana Fallaci.
L'unica cosa che avrebbe senso fare sarebbe lasciare quella donna dove si trova, al cimitero.
In Oriana Fallaci non c'è nessuna idea, e tantomeno alcuna idea discutibile. c'è stato al massimo un individuo totalmente egoriferito, una elegantona di quelle, per intenderci, capacissima di lasciare il SUV in terza fila bloccando l'accesso alle ambulanze e, di ritorno da qualche bottega di lusso, buona di andare in bestia e di pretendere di avere anche ragione.
Quella donna ha trascorso decenni disprezzando quella Firenze che dovrebbe, non si capisce bene per quale motivo, renderle omaggio.
Un esempio su tutti. Le giornate del Social Forum del 2002, in occasione delle quali le produzione gazzettistiche di quella lì raggiunsero picchi difficilmente eguagliabili di frenastenia nel corso di una lunga operazione mediatica vòlta a rendere presentabile ciò che presentabile non era, rimangono tra le più belle della vita di molte persone serie che non possono che accogliere una decisione del genere con sincero ed aperto disprezzo.
L'azione politica del Partito Democratico non ha ormai alcunché, neppure a livello simbolico, che la distingua da quella dei suoi sedicenti avversari. Avversari che in quell'occasione tanto fecero e tanto dissero da sfracellarsi contro una realtà così ostile e così disconfermante da trovarsi ridotti a Firenze ad una realtà marginale e disprezzata.
Ci voleva il PD, a tirarne fuori dalle fogne le istanze più ripugnanti, ebefreniche, repellenti e sostanzialmente sifilitiche, dall'insihurezzeddegràdo in avanti.
Da questo punto di vista i "grandi fiorentini" o gli individui che hanno comunque recato allo stesso modo lustro alla città non mancano davvero, da Alessandro Pavolini ad Amerigo Dùmini,  passando -perché no- da Pietro Pacciani.

Dal quindici settembre prossimo ci sarà dunque un motivo in meno per essere orgogliosi di Firenze.
Non resta che prenderne atto.

Saluti.