venerdì 31 luglio 2015

"...Enrico, ma ti ricordi come si stava bene alle Murate...? Io ci stavo così bene...!"


Le Murate, il vecchio carcere di Firenze in pieno centro.
"...Oh, ma sei scemo...?"
"...No, vedi, il fatto è questo: la vita fuori in quel periodo era un tale delirio tra spacciatori, politica e scontri di piazza tutti i giorni, che se ti beccavano per una bischerata qualsiasi e ti mandavano dentro per due o tre mesi era l'occasione per riposarsi, tirare un po' di fiato.
Intendiamoci: un posto da schifo, il minimo che potesse capitare erano i topi per i corridoi!
Solo che non era come oggi: le celle erano aperte parecchie ore al giorno e soprattutto ci si conosceva praticamente tutti.
Che vuoi, s'era sempre i soliti...!"

Come preparandosi alla battaglia.
Come ad un incontro d'amore.

Pietro, 22 settembre 1958 - 30 luglio 2015

mercoledì 22 luglio 2015

Firenze: Dario Nardella boccia il referendum sulla moschea


L'argomento dell'erigenda moschea fiorentina è stato trattato in questa sede talmente tante volte che i nostri lettori avrebbero ogni diritto di essersene stancati.
La nostra opinione è sempre la stessa: la moschea si deve fare, deve essere un edificio degno della città di Firenze -come degna della città di Firenze si volle a suo tempo che fosse la sinagoga di via Farini- e dunque deve avere caratteristiche monumentali ed una posizione centrale.
La sede in cui preferiremmo vederla sorgere è compresa tra largo Annigoni ed il viale di circonvallazione che porta a Piazza Beccaria, previa la demolizione degli edifici che vi sorgono e che ospitano dalla loro fondazione attività che molto hanno contribuito a i'ddegràdo e all'insihurézza della città di Firenze.
A fine luglio 2015 la pattuglia di politici "occidentalisti" che ciondola nell'amministrazione cittadina, ammutolita dagli scippi ideologici operati dai sedicenti avversari e praticamente da sempre sotto un fuoco di fila ininterrotto fatto di disconferme, smentite, aperte prese in giro e sincere attestazioni di disprezzo da parte della popolazione generale, avrebbe proposto per la terza o quarta volta un surreale "referendum cittadino" sulla materia.
Il borgomastro ha risposto un po' infastidito e secondo termini piuttosto razionali.
Soltanto una cosa merita una correzione: secondo Dario Nardella si dovrebbe far sì che "la moschea possa essere un modo di arricchimento del contesto culturale ed interreligioso della città e non uno strumento di lotta politica da parte dei musulmani". Noi invece pensiamo che "la moschea possa essere un modo di arricchimento del contesto culturale ed interreligioso della città ed uno strumento di lotta politica da parte dei musulmani".

martedì 21 luglio 2015

Alastair Crooke - Una nuova moda: giocherellare con la guerra per procura



Traduzione da Conflicts Forum.

Nell'ultimo scritto abbiamo citato il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. "La questione è parte non secondaria della strategia che stiamo adottando sul terreno: se quel governo [Baghdad, N.d.A.] non fa quello che si ritiene faccia, dobbiamo cercare un'altra volta di mettere le forze di terra locali -sempre che vogliano ancora stare a nostro fianco- in condizioni di mantenere stabile il paese. Solo che non ci sarà un solo stato, in Iraq".
Poi abbiamo riferito che gli USA considerano lo YPG -un affiliato siriano al PKK- come caso esemplare per la messa in pratica di questa strategia. Abbiamo anche considerato che la pura e semplice prospettiva che lo YPG fondi un territorio curdo nel nord della Siria sarebbe sufficiente a sconvolgere politicamente tutta la regione.
Il governo turco è piuttosto sicuro che questo possa accadere, sicché ha reagito alzando il livello dello scontro ed ordinando immediatamente ad una divisione dell'esercito regolare di attraversare la frontiera per prendere il controllo della enclave di Jarabulus che si trova attualmente sotto il controllo di an Nusra, per evitare che cadesse nelle mani dello YPG. Un'incursione del genere, che dal punto di vista del diritto è un atto di  guerra, avrebbe senza dubbio scatenato una escalation da parte degli alleati della Siria. L'esercito turco ha risposto picche all'ordine governativo, ed ha avuto buon gioco considerando che l'esito incerto delle elezioni fa del governo attualmente in carica qualcosa che può occuparsi solo degli affari correnti.
Il 2 luglio 2015 il britannico Daily Telegraph ha riferito che "alti ufficiali di paesi del Golfo e di altri stati" avevano riferito al Telegraph che "Gli Stati Uniti hanno bloccato il tentativo da parte dei loro alleati mediorientali di consegnare per via aerea armi pesanti ai curdi [in Iraq] e che questi ultimi hanno annunciato che "avrebbero fatto da soli" rifornendo i curdi di armamenti anche se questo avrebbe significato aggirare le autorità irachene e i loro spalleggiatori ameriKKKani, che pretendono che tutte le armi arrivino per tramite di Baghdad".
Lo scopo ostentato di questa ulteriore "attivazione" dei curdi, a sentire quelli del Telegraph, è rappresentato dal metterli in condizioni di poter combattere lo Stato Islamico. Se si prosegue nella lettura però diventa chiaro che i paesi del Golfo vogliono armare specificamente i Peshmerga. E' bene essere chiari: la cosa non ha molto a che vedere con lo Stato Islamico, e qui il Telegraph racconta qualche balla. Lo scopo fondamentale è quello di puntellare un Barzani indebolito -che a quanto rivelano alcuni cablo diplomatici sauditi resi pubblici è un fedele alleato dell'Arabia Saudita, oltre che dello stato sionista- nella lotta in corso contro altre fazioni curde tra le quali c'è lo YPG che è ostile a Barzani, sta acquistando il predominio e resta vicino al Presidente Assad.
I paesi del Golfo si sono uniti anche loro al baraccone di quelli che attivano gente che gli faccia la guerra per procura, e le loro vere intenzioni sono chiare: aggirare Baghdad ed indebolirne l'autorità. In pratica, fare a pezzi l'Iraq come la Siria.
Di tutti i casi di "abilitazione" che alla fine riusciranno a ridurre in briciole l'Iraq  o la Siria, questo non è che un esempio. Ce ne sono altri: anche la Giordania sta pensando di armare le tribù sunnite della provincia di Anbar grazie a finanziamenti sauditi (fonte: Al Quds al Arabi, 29 giugno) e di servirsi di an Nusra, vale a dire di al Qaeda, per farle mettere in piesdi una "zona di sicurezza" a Daraa e nella Siria meridionale.
Anche in questo caso l'iniziativa viene presentata come utile a combattere lo Stato Islamico. Solo che se dovesse divenire realtà istituzionalizzerebbe i rapporti che ci sono tra le tribù sunnite giordane e quelle della provincia irachena di Anbar, che metterebbero in piedi un nuovo centro di potere in Iraq in contrapposizione a qualsiasi governo a guida sciita. E gli sciiti in Iraq sono la maggioranza assoluta, pari al sessanta o settanta per cento della popolazione. Su questa "espansione" dello stato giordano nelle zone arabe sunnite dell'Iraq e della Siria, che trasformerebbe la Giordania in un nuovo centro di potere sunnita, sono in corso accese discussioni. Un editorialista giordano ha scritto: "La Giordania, al pari di altri paesi del Medio Oriente, rischia di rimanere vittima di sabotaggio e frammentazione.... Oppure potrebbe dirsi essa stessa un incubatore per gli arabi sunniti. In sostanza, o ci espandiamo secondo una nuova modalità, o cessiamo di esistere!". Vari paesi europei in passato si sono baloccati con l'idea di una tresca del genere, allo scopo dichiarato di "bilanciare" l'influenza iraniana in Iraq.
I funzionari giordani si affannano a garantire che non hanno intenzione di mettersi contro Baghdad, eppure la Giordania, come gli stati del Golfo, considera Baghdad "l'espressione dell'aborrito settarismo che permea di sé le élite e l'attuale governo [iracheno]" (Al Quds al Arabi, 20 giugno).
Come ha recentemente scritto Foreign Policy,
Anche consegnare armi alle milizie sunnite rappresenta una decisione rischiosa. Prima di armare direttamente altre milizie di orientamento etnico o settario, sia i responsabili della politica statunitense che l'opinione pubblica dovrebbero capire meglio il passato dei nostri potenziali alleati, ed anche i loro possibili interessi per il futuro. E dovrebbero capire soprattutto quali potrebbero essere le conseguenze indesiderate dell'aver armato queste milizie sunnite.
Secondo documenti recentemente resi pubblici provenienti dal predecessore dello Stato Islamico, ottenuti durante un raid statunitense-iracheno nel 2010 e pubblicati dal Combating Terrorism Center di West Point fanno pensare che alcuni dei politici sunniti iracheni di maggiore importanza abbiano collaborato col predecessore dello Stato Islamico nel 2009, quando il gruppo attraversò il suo periodo peggiore. Alcune di queste rilevanti personalità possono aver collaborato con lo Stato Islamico a vantaggio proprio, altre a vantaggio della comunità sunnita, altre ancora per indebolire la presa dei curdi nelle aree etnicamente miste a nord del paese. La minaccia dello Stato Islamico oggi come oggi ha imposto la sordina a quest dinamiche, ma c'è da pensare che esse riemergeranno se e quando le condizioni di sicurezza saranno migliorate. Adesso, alcuni di quegli stessi uomini politici stanno facendo lobby negli Stati Uniti perché le milizie che fanno capo ai loro rispettivi feudi ricevano denaro ed armi...
Le voci ricorrenti affermano che lo Stato Islamico deve la posizione che occupa nella lotta politica a carattere settario in Iraq alla confusione che seguì il ritiro degli Stati Uniti. Fu quello il momento in cui i sunniti iracheni vennero lasciati a difendersi da soli dal dispotico governo centrale favorevole agli sciiti. La recrudescenza dello Stato Islamico in Iraq nel 2013 e nel 2014 si è verificata in u momento in cui la minoranza sunnita del paese era propensa ad accettare il gruppo [lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante] considerandolo un baluardo contro la marginalizzazione politica e contro la repressione per mano del governo allora presieduto da Nouri al Maliki.
Nei mass media e nei luoghi della politica statunitense questo modo di vedere le cose è stato predominante, per cui al Maliki e i suoi alleati sciiti nel governo iracheno portano  il marchio della colpa per aver soffiato sul fuoco delle nuovamente inasprite frizioni settarie, lo stesso che ha permesso allo Stato Islamico di affermarsi un'altra volta e di scatenare la brutale campagna che ha lasciato il mondo attonito.
I nuovi documenti pubblicati dal CTC invece indicano che le voci ricorrenti vanno considerate con attenzione. Sono ricchi di importanti implicazioni per comprendere lo scisma settario in corso in Iraq e di informazioni utili al dibattito attualmente in corso sul come stabilizzare il paese messo in ginocchio dalla guerra.
Insomma, i paesi del Golfo ed i loro alleati sembra abbiano l'intenzione di smontare pezzo a pezzo importanti compagini statali del Medio Oriente. Va detto che gli Stati Uniti ed i loro alleati, entro certi limiti, stanno cercando di dissuaderli dal procedere in questo senso, per esempio cercando di evitare che si scavalchi Baghdad mandando armi ai curdi. Solo che l'AmeriKKKa, l'Europa e lo stato sionista portano tutti parte della responsabilità e dei demeriti. La sala operativa che si trova a nord di Amnman "controlla", stipendia ed arma forze controllate da al Qaeda o an Nusra che dir si voglia, il cosiddetto "Esercito dello Hermon" in Siria, e ne fanno parte anche ameriKKKani e britannici, con lo stato sionista che "opera dietro le quinte". Per quanto tempo ancora gli stati europei pretenderanno di mandare in tribunale musulmani che sono cittadini europei -e di spedirli in galera a vita- per aver aiutato al Qaeda, quando loro stessi stanno facendo la stessa cosa?
Pare che i paesi del Golfo e i loro alleati, con lo stato sionista che agisce sottobanco, stiano portando a compimento la strategia esposta nel 1997 in "A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm" ["Un taglio netto: una nuova strategia per il dominio"] , un brogliaccio neo-con buttato giù dopo che nello stato sionista i laburisti erano stati sconfitti alle elezioni del 1996, anno in cui era salito al potere il Likud di Netanyahu. Nel documento si proponeva "...Di dare un taglio netto a slogan come quelli che cercano una 'pace generale' [era l'obiettivo del partito laburista, N.d.A.] in favore di un concetto tradizionale di strategia basato sull'equilibrio dei poteri".
L'idea di arrivare ad una pace generale con tutti i confinanti dello stato sionista fu abbandonata in favore del concetto di pace selettiva con alcuni paesi (la Turchia e la Giordania, per la precisione) e di implacabile antagonismo nei confronti di altri (Iraq, Siria, Iran). Il peso specifico dei suoi alleati strategici avrebbe sempre fatto sì che l'equilibrio dei poteri rimanesse favorevole allo stato sionista, che avrebbe potuto usare la posizione di vantaggio per rovesciare i governi dei suoi avversari strategici utilizzando qualche "terza forza" controllata sottobanco oltre al "principio di prelazione". "Ridisegnando" in questo modo "la mappa del Medio Oriente", lo stato sionista avrebbe "plasmato la realtà regionale" e secondo le affermazioni degli autori sarebbe arrivato "non soltanto ad arginare i propri avversari, ma a superarli".
Ci si riferisce spesso a questo "A Clean Break" vedendovi il prologo della guerra in Iraq, ma ci si dimentica spesso che il documento aveva proposto il rovesciamento del governo in Iraq soprattutto come mezzo per "indebolire, contenere ed infine mettere all'angolo la Siria".  Rovesciare Saddam in Iraq era solo una tappa in un cammino che doveva ostacolare e infine rovesciare il Presidente Assad nella confinante Siria. L'analista strategico statunitense Pat Buchanan così scrive: "Nella strategia di Perle, Feith e Wurmser il nemico per eccelelnza dello stato sionista è la Siria, ma la via per arrivare a Damasco passa per Baghdad".
Nel 2007, dopo la guerra del 2006 in cui lo stato sionista aveva fallito l'obiettivo di sbaragliare Hezbollah, il Daily Telegraph riportava un'affermazione di David Wurmser, il principale autore di "A Clean Break".
"Abbiamo bisogno di fare tutto quanto è in nostro potere per destabilizzare il governo siriano e sfruttare ogni singolo momento in cui esso dovesse sovraesporsi a livello strategico, ha detto David Wurmser, che di recente ha rassegnato le dimissioni dopo quattro anni in cui ha svolto le funzioni di consigliere per le questioni mediorientali per il vice Presidente Dick Cheney.
"Questo dovrebbe prevedere anche l'elevazione deliberata del livello dello scontro, per quel tanto che serve a rovesciare il governo se necessario". Secondo Wurmser la fine della presenza baathista a Damasco potrebbe innescare un effetto domino che finirebbe per coinvolgere anche Tehran".
Pare che l'Arabia Saudita ed i suoi alleati -con lo stato sionista che agisce da dietro le quinte- si siano in buona misura assunti la responsabilità di cercare di arrivare in fondo alla strategia descritta in A Clean Break. Il Presidente Obama ha pensato fosse necessario, dal punto di vista politico, assentire entro certi limiti al progetto, attenendosi comunque ad una "linea rossa" rappresentata dal non cacciare di nuovo e in modo determinante la macchina militare statunitense nel ginepraio mediorientale.
Che lo stato sionista voglia vedere Siria, Iraq, Iran e Libano frammentati in staterelli a carattere settario, tribale ed etnico è comprensibile: per quale motivo invece gli Stati del Golfo e i loro alleati nella regione dovrebbero dedicarsi con tanto impegno alla demolizione di grosse entità del mondo arabo?  L'accreditato studioso ed editorialista indiano Aijaz Ahmad ha spiegato in poche parole, in una intervista del 2011, che
...La Siria è l'ultimo rappresentante rimasto del nazionalismo arabo così come lo si intendeva storicamente. La Siria si definisce ancora oggi socialista. Nonostante abbia varato riforme neoliberiste di ampia portata, il settore statale vi è ancora dominante. La Siria bandisce, alla lettera, la religione dalla politica. Non riconosce l'esistenza di partiti politici religiosi. La Siria è nemico storico dello stato sionista per molte ragioni diverse... laica, democratica -beh, non proprio democraticissima, ma laica e nazionalista araba, di un nazionalismo laico, repubblicano, antisionista ed antimonarchico che segue una politica sociale ed economica piuttosto progressista: per esempio ha distrutto gli ultimi retaggi di feudalesimo in Egitto.
Ecco, la Siria è l'ultimo rappresentante rimasto di tutto questo. I sauditi, i qatarioti, le monarchie del Golfo odiano la Siria per vecchi motivi, la odiano in reazione al tipo di nazionalismo che essa rappresenta e questo odio è rinfocolato dal più recente allineamento compiuto dalla Siria sulle posizioni dell'Iran...
Dai giorni della Dottrina Truman il mondo sunnita considera l'Islam come un baluardo contro ogni forza insurrezionale, nazionalista o comunista che sia, in questa parte del mondo. Uno dei più importanti capi dei Fratelli Musulmani, con tutto un gruppo di aderenti, fu ben accolto da Eisenhower alla Casa Bianca. La sintonia con i Fratelli Musulmani risale a quei tempi... Ed è lo stesso processo che ha portato gli jihadisti in Afghanistan. L'Islam avrebbe combattuto il nazionalismo arabo e il comunismo... [gli imperialisti] li hanno sconfitti ovunque [grazie a questo accordo] e la Siria viene considerata un nemico dello stesso genere, ovvero l'ultimo nemico del genere che sia rimasto da sconfiggere.
Certo, qualcuno che storce il naso c'è sempre, c'era in Libia e c'era in Siria, per un sacco di ragioni. Ma in Siria erano davvero molto pochi ad essere scontenti. Storicamente i Fratelli Musulmani vi potevano contare su una base molto ridotta. Negli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta erano abbastanza potenti... Ma il governo li teneva a freno molto bene. Quindi, in Siria c'erano i Fratelli Musulmani, e molti intellettuali in esilio a Parigi, soprattutto a Parigi anzi, ed anche altrove... Gli ameriKKKani e l'Occidente sapevano fin dall'inizio che la loro unica possibilità in Siria sarebbe stata quella di impiantare una cosiddetta "zona liberata", magari al confine con la Turchia, che sarebbe potuta diventare una specie di Bengasi... che sarebbe potuta diventare terreno per intervenire militarmente.
Sapevano che non ci sarebbe stata alcuna insurrezione popolare del tipo che si è verificato in Egitto. In Siria sono in troppi a temere i Fratelli Musulmani. La Siria è un paese autenticamente laico, e di gran lunga: oltretutto il venticinque per cento della popolazione è fatto di minoranze di vario genere ed il fatto che il governo di Assad insista decisamente sul laicismo permette a questo venticinque per cento di confidare molto nello stato. Non c'era quindi alcun terreno utile. Tutto questo è stato orchestrato di proposito, fin dal principio.

lunedì 20 luglio 2015

Alastair Crooke - La situazione in Siria nel giugno 2015


Traduzione da Conflicts Forum.

"Quello che sta succedendo qui non ha nulla a che vedere con la costruzione di un oleodotto. Qui si lotta per costruire una vita libera e democratica"
Fehim Isik, giornalista e scrittore turco di primo piano, riguardo al corridoio controllato dai curdi con il sostegno statunitense nel nord della Siria (cfr. qui).

Il Segretario alla Difesa statunitense Ashton Carter, durante una riunione della Commissione Difesa della Camera dei Rappresentanti dello scorso diciassette giugno ha rivolto ai presenti una domanda: "Cosa succede se alla fine l'esistenza di un Iraq multiconfessionale non risulta possibile?". Rispondendo a se stesso, Carter ha poi detto: "La questione è parte non secondaria della strategia che stiamo adottando sul terreno: se quel governo [Baghdad, N.d.A.] non fa quello che si ritiene faccia, dobbiamo cercare un'altra volta di mettere le forze di terra locali -sempre che vogliano ancora stare a nostro fianco- in condizioni di mantenere stabile il paese. Solo che non ci sarà un solo stato, in Iraq". Nella stessa occasione il generale Dempsey, presidente dello Stato Maggiore Congiunto, ha confermato quando riferito da Carter precisando che esistono dei limiti a quello che l'AmeriKKKa può fare per rendere stabile un paese piagato dagli attriti settari e dall'avanzata dello Stato Islamico.
La discussione in genere era centrata sull'Iraq, ma c'è da star sicuri che i due avrebbero detto lo stesso della Siria. Quello che hanno detto, in sostanza, è che una politica da seguire non ce l'hanno. Nessuno dei due ha presentato la spartizione dell'Iraq di per sé come una politica, ma di fatto entrambi la stanno assecondando.
Per la Siria invece parlano i grafici: i dati del Comando Supremo statunitense riferiti agli ultimi dieci mesi mostrano che su un totale di 1774 attacchi aerei condotti dalla coalizione in Siria non meno di 1187, pari al 67% del totale sono avvenuti in zone in cui ha combattuto lo YPG curdo, l'equivalente siriano del PKK. Soltanto l'11% degli attacchi aerei, pari ad un totale di 191, ha colpito le roccaforti dello Stato Islamico a Raqqa e a Deir ez Zor.
Ecco una mappa dei tre "cantoni" curdi siriani: a sinistra Afrin, Kobane al centro e Jazira, "l'isola", a destra.
Con l'aiuto di intensi bombardmenti ameriKKKani lo YPG a potuto prendere Tell Abyad. Le forze curde, spalleggiate da alcuni elementi non curdi, sono arrivate a cinquantasei chilometri da Raqqa, la capitale del califfato. A quanto pare sono riuscite anche a prendere il controlo di Ain Issa, un incrocio strategico sulla direttrice nord-sud che da Tell Abyad porta a Raqqa e sulla famigerata autostrada M4 che per lo Stato Islamico costituisce un'importante arteria per il traffico diretto da est ad ovest, da Mosul ad Aleppo. Sulla mappa Ain Issa non figura come tale, ma è rappresentato dall'area rosa divisa dalle due strade in direzione nord-sud ed est-ovest, a metà percorso tra Tell Abyad e Raqqa.
Dopo i recenti successi dello YPG la mappa adesso appare così; le aree controllate dai curdi sono segnate in giallo.
Ci si chiede adesso se lo YPG riuscirà a prendere Jarabulus, che è un altro punto di frontiera importante fra Turchia e Siria, conseguendo il completo controllo della frontiera meridionale turca con i centodieci chilometri che separano Jarabulus da Anfrin e dal Mediterraneo. La zona compresa tra Kobane e Anfrin non è a dominanza curda, sicché lo YPG può ambire ad unificare i territori della fascia curda solo se collabora con altri gruppi etnici, che è poi quello che ha fatto fino ad oggi.
Tutto questo si accorda bene col discorso che Ashton Carter ha fatto al Congresso, parlando di "mettere le forze di terra locali" in grado di stabilizzare il paese. Il personale militare statunitense è rimasto molto impressionato dallo YPG -nonostante si tratti di una affiliazione del PKK- in occasione dell'assedio di Kobane: lo YPG era stato integrato nelle operazioni militari statunitensi e dirigeva direttamente gli attacchi aerei ameriKKKani sulle posizioni dello Stato Islamico. I militari statunitensi affermarono all'epoca che avrebbero continuato a mantenere contatti con lo YPG anche dopo la conclusione degli scontri a Kobane, a maggior rabbia del Presidente Erdogan.
In effetti cooptare lo YPG potrebbe rappresentare una efficace soluzione su misura al dilemma ameriKKKano sul come comportarsi con la Siria: tagliare le linee di rifornimento dello Stato Islamico grazie allo YPG per creare una zona proibita allo Stato Islamico lungo il confine turco, anche se Tell Abyad non è certo l'unico punto di ingresso in Turchia su cui lo Stato Islamico possa contare e ci sono chiare prove del fatto che la "via turca" per jihadisti viaggiatori fa ancora ottimi affari perché altri punti di passaggio sono intervenuti a colmare la perdita.
In Turchia, e non c'è da meravigliarsene, sono schiattati di rabbia. Il giornalista turco Fehim Taştekin scrive: "Quando le Formazioni per la Protezione del Popolo Curdo (YPG) hanno cacciato lo Stato Islamico da Tell Abyad il Presidente Tayyip Erdogan, altri leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ed i mass media vicini al governo hanno reagito istericamente. Tra i loro forsennati scenari "Uno stato curdo in formazione nel nord della Siria con l'aiuto degli Stati Uniti", "Pulizia etnica curda a spese di arabi e turkmeni", "Apertura di un corridoio per portare al Mediterraneo il petrolio del nord dell'Iraq". Un articolo sul Partito dell'Unione Democratica è arrivato anche oltre: "Il PYD è più pericoloso [dello Stato Islamico]".
In breve, quella che dal punto di vista militare potrebbe essere una soluzione pratica per "fare qualcosa" sul piano tattico contro lo Stato Islamico rischia di trasformarsi in un incubo politico: alimentare la prospettiva di uno stato o staterello curdo che viene instaurato nel cuore del Medio Oriente darà il via a carrettate di grattacapi sul piano politico e le conseguenze andranno ben oltre la Siria settentrionale: si "risolve" una parte di un problema, ed ecco che ne salta fuori un altro. Tutto questo inoltre avrà pesanti ripercussioni sulla politica curda in Iraq.
Nella Siria meridionale sta succedendo la stessa cosa. Cooptare una formazione armata ad hoc ha creato una crisi di diverso genere, che per quanto riguarda il punto di vista ameriKKKano minaccia di peggiorare ulteriormente le cose. In questo caso dobbiamo far riferimento all'accordo tra Arabia Saudita e Turchia, per cui la Turchia si prende la responsabilità di mettere insieme una formazione armata guidata da al Qaeda (ovvero an Nusra) per catturare Idlib e stringere su Damasco da nord, mentre la "sala comando" ad Amman (in cui "fanno il loro dovere" sia i sauditi che i giordani, come ha esplicitamente riconosciuto l'editorialista saudita Jamal Kashoggi) controlla una coalizione guidata da al Qaeda (di nuovo an Nusra) che occupa l'area della Siria adiacente il monte Hermon, ovvero il Golan, con l'obiettivo di impadronirsi dell'autostrada Quneitra-Damasco. Il controllo di questa strada, in ipotesi, dovrebbe aprire ai ribelli la strada per la periferia sud di Damasco fino a Ghouta ovest: da lì essi dovrebbero circondare le truppe governative schierate a difesa della capitale.
Ecco spiegata la risposta dei sauditi ad Obama: "Occhio che noi ci muoviamo in piena autonomia". L'unica cosa a non tornare perfettamente è il fatto che la "sala comando" per il fronte sud non è per intero frutto dell'impegno saudita. "Il fronte meridionale dei ribelli è controllato dal distaccamento avanzato del Comando Supremo statunitense in Giordania, che si trova a nord di Amman, e vi coopera personale militare ameriKKKano, giordano, saudita, qatariota e britannico. Il centro di comando ha messo insieme otto milizie piuttosto mal assortite e le ha raggruppate nello Jaysh Hermon. Alcune tra queste formazioni sono state accozzate malamente, senza che ve ne fosse bisogno, e soprattutto nonostante le loro propensioni tutt'altro che desiderabili. I loro nomi sono: Libero Esercito Siriano, Brigata Sayf al Sham, Brigata Gesù Cristo (i musulmani rispettano Gesù considerandolo uno dei loro profeti), Fronte an Nusra (la filiazione siriana di Al Qaeda), Ahrar al Sham (un gruppo estremista con legami con an Nusra e con lo Stato Islamico) ed Ajnad al Sham (una formazione i cui combattenti hanno preso alla battaglia per la conquista di Idlib)". Tutto questo ce lo racconta il sito web Debka, legato aI servizi segreti dello stato sionista. 
Sembra che questa accozzaglia messa malamente insieme alcune settimana fa si sia presa qualche licenza rispetto ai dettami della propria sala comando, e imperversando per la Siria sia finita a minacciare un paesino vicino al Jebel Druze, l'ancestrale e montagnosa zona di cui i drusi sono originari. I drusi in Siria sono oltre settecentocinquantamila e l'incidente si è verificato a pochi giorni di distanza dal massacro di una ventina di drusi commesso da an Nusra a Qalb Lawzeh, un villaggio nella provincia nordoccidentale di Idlib. An Nusra considera i drusi come degli apostati, passibili di uccisione se non si convertono allo wahabismo. I drusi della Siria sono entrati in stato d'allarme, e così hanno fatto i drusi del Golan sotto occupazione sionista, che hanno attaccato una autoambulanza uccidendo uno degli jihadisti feriti che essa trasportava, verosimilmente appartenenti ad an Nusra.
Lo spettro di una banda guidata da an Nusra che fa il diavolo a quattro nei villaggi drusi vicino al Golan per aprirsi una strada verso il Libano ha allarmato a tal punto la popolazione  drusa che essa si è mobilitata a fianco del Presidente Assad e del governo. Secondo il LA Times l'importante religioso druso siriano Sheikh Yousef Jarboo ha detto in un'intervista del giugno 2015 che i drusi "avrebbero resistito con ogni mezzo possibile". Secondo il religioso ventisettemila combattenti drusi hanno preso le armi, in formazioni inquadrate nell'esercito siriano.
In breve, il cosiddetto esercito dello Hermon è uscito dal controllo. Debka riferisce anche che "il comando basato in Giordania incaricato di coordinare le iniziative dei ribelli fornisce loro armi, equipaggiamenti, denaro ed anche piani per l'azione militare. Il comando li tiene a bada, impedendo loro di uscire dal seminato, minacciandoli di privarli degli armamenti o di tagliare le paghe dei combattenti". Si tratta della stessa cosa che lo stato sionista ha minacciato di fare, tagliare le paghe dei propri combattenti per procura nel caso essi avessero attaccato i drusi. Amos Harel di Haaretz accenna ad una perdita di controllo da parte dello stato sionista su quanto avviene alla frontiera settentrionale; Debka invece è più schietto: "[Il Primo Ministro ed il Ministro della Difesa dello stato sionista] sperano, col fiato sospeso, che il comando in Giordania riesca a mantenere il controllo delle milizie ribelli e che i drusi non restino danneggiati dai combattimenti nelle zone attorno ai loro villaggi ed alla frontiera con lo stato sionista. Garantire la sicurezza dei drusi è fondamentale per lo stato sionista, se non vuole ritrovarseli ammassati in fuga disordinata alla frontiera. Non esiste comunque alcuna garanzia del fatto che una milizia raccogliticcia come l'esercito dello Hermon, in cui ogni banda si comporta secondo ideali e metodi propri, sia sufficientemente disciplinata da attenersi ad una qualche regola. I massimi livelli del governo sionista devono prepararsi a qualche brutta sorpresa".
La solita vecchia storia. Le "sale controllo" che sovrintendevano alla guerra jihadista contro l'Unione Sovietica in Afghanistan usarono il denaro per cercare di "imporre la disciplina" ai mujaheddin a libro paga, trovandosi poi a scoprire che tutti quei soldi li avevano tenuti buoni giusto la mezz'ora che era durata la riunione, sciolta la quale avevano fatto esattamente quello che gli pareva. I tentativi di dare ad Al Qaeda una patina di "moderazione" non potevano ovviamente finire che così: non ha funzionato in Afghanistan, perché mai dovrebbe funzionare in Siria. Sarebbe sbagliato pensare che al Qaeda se ne starebbe in disparte nel caso il Presidente Assad cadesse, e che lascerebbe così spazio a moderati graditi all'Occidente. Al Qaeda è Al Qaeda e ci si deve attendere che prenda il potere. Com'è possibile pensare altrimenti? L'ex direttore della CIA Michael Morell ha avvertito a metà giugno: "In base all'esperienza che ho fatto con al Qaeda, penso proprio che non si debbano infrangere gli accordi stretti con essa. Il Pakistan ha provato a farlo, e quelli di Al Qaeda gli dicevano 'Noi non vi attacchiamo se voi non ci attaccate', ma significa scherzare col fuoco. Se si infrange un patto, anche al Qaeda farà lo stesso... Credo che per gli Stati Uniti e per l'Occidente Al Qaeda rappresenti una minaccia peggiore dello Stato Islamico".
Ed ecco quali sono i bei risultati delle iniziative dei sauditi in Siria, oggi come oggi. La Turchia ha mandato con puntualità e successo un esercito di diecimila combattenti guidati da an Nusra all'attacco di Idlib solo perché si ritrovassero attaccati di sorpresa dallo Stato Islamico, che li ha tagliati fuori dalle linee di rifornimento. Quello che è stato chiamato "Esercito di Conquista" ha poi perso slancio e disciplina man mano che venivano resi pubblici i risultati delle elezioni politiche in Turchia. Ci ha messo del suo anche la "sala comando" giordana, lanciando il proprio "esercito" dello Hermon contro il fianco sud della Siria solo per ritrovarsi con la maggior parte dei drusi che prendevano le armi a fianco di Damasco e con l'esplodere di scontri con le cellule dormienti dello Stato Islamico nella Siria meridionale.
Davanti al fallimento di una politica generale si cerca sempre di reagire dividendo il problema in segmenti più piccoli: chissà che la soluzione non si trovi, alla fine, risolvendoli uno alla volta. Solo che a favore di questo modo di agire ci sono pochi e magri successi; al contrario, esso ha fama di creare più gravi e lunghi problemi in prospettiva futura. Si potrebbe considerare il Libano come un esempio a questo riguardo.

domenica 19 luglio 2015

Alastair Crooke - Hamas sta andando in soccorso del vecchio ordine arabo?


Traduzione da Conflicts Forum.

Zvi Bar'el scrive provocante su Haaretz:
Difficile spiegare perché quelli che scrivono di gossip si siano persi la love story dell'anno: lo stato sionista e Hamas si sono rimessi insieme... Adesso Hamas può di nuovo recitare la parte di quello che arriva in soccorso dello stato sionista. Grazie a Hamas, lo stato sionista può evitare di intraprendere colloqui di pace, e colloqui vantaggiosi per giunta, perché quando si arriva a Hamas non c'è bisogno di parlare dell'abbandono di insediamenti o del ritiro da questo o quel terrritorio. Hamas non va a rompere le scatole ai tribunali internazionali, il crescente boicottaggio dello stato sionista non lo tocca in alcun modo, e in generale Hamas non ha alcuna smania di addivenire ad uno straccio di accordo di pace con lo stato sionista. Hamas e Gaza se ne tornano buoni, e lo stato sionista può andare in giro a dire che finalmente a Gaza tutto è tranquillo e che non esiste alcuna urgenza per proseguire nel processo di pace".
Bene, tutto può essere: lo stato sionista sarebbe il primo a trarne vantaggio. Solo che oggi come oggi Hamas sta correndo in soccorso degli emiri, dei re e degli autocrati del Medio Oriente, non soltanto dello stato sionista.
In questo periodo è d'uso specificare che gli attuali disordini nel mondo arabo non hanno nulla a che vedere con lo stato sionista e di sicuro i sionisti esprimono considerazioni simili con un certo orgoglio; solo che non è del tutto vero. I motivi per cui l'Islam sunnita sta attraversando l'odierna crisi (si legga qui) hanno molto a che vedere con lo stato sionista, perché le radici della crisi attuale vanno cercate risalendo nel tempo fino al 1948. Si tratta in verità della storia di un lento declino, del lento sfasciarsi, del lento perdere credito delle vecchie élite ottomane a suo tempo tagliate a misura per i nuovi stati nazionali che i signori Sykes e Picot misero in piedi scarabocchiando col lapis copiativo sulla cartina dopo la Grande Guerra.
In questo nuovo ordine poteva anche esserci posto per re e governanti vari, ma era il retaggio ottomano di per sé a non avere alcuna credibilità già ai tempi dell'accordo Sykes-Picot. Semplicemente non esisteva alcun contratto sociale tra governanti e governati perché le potenze coloniali avevano sistemato le cose in modo che nei nuovi stati nazionali i governanti sarebbero sempre stati soggetti al pericolo di scissioni confessionali, etniche o tribali e per questo avrebbero continuato ad avere bisogno del sostegno delle potenze coloniali. I governanti post ottomani ebbero così poca scelta: si comportarono in modo repressivo e violento e non vi fu mai alcun contratto sociale cui attenersi.
Le crisi che hanno definitivamente schiantato le élite arabe sono state quella del 1948 e quella del 1967. La Nakba, la catastrofe, fu una sconfitta monumentale che prostrò l'animo di tutti gli arabi. Il declino delle leadership arabe innescato da quelle umiliazioni, mai alleviate, non ha avuto sosta fino ad oggi, quando il suo manifestarsi ha iniziato a prendere i sembianti di un'agonia.
Deboli come sono, quasi tutti i leader della regione si sono aggrappati al cosiddetto "processo di pace" come se fosse una loro personale scialuppa di salvataggio in grado di farli figurare come paladini della causa palestinese, di tenere buone le masse e di permettergli di continuare a restare aggrappati al potere letteralmente con le unghie.
Il problema è che adesso la scialuppa non esiste più, fatta sparire dalla campagna elettorale del Primo Ministro Netanyahu in cui si asseriva che mai sarebbe stata permessa la nascita di uno stato palestinese, e dalla conseguente presa di distanza del Presidente statunitense Obama. Il processo di pace, dunque, non è più un pretesto valido e l'ipocrisia con cui i leader arabi hanno governato rischia di venire fuori, a meno che essi non riescano a tenere calma la situazione.
I paesi del Golfo, la Giordania e l'Egitto non vogliono rogne in Palestina perché devono pensare a superare le turbolenze del momento. L'ultima cosa che desiderano è proprio trovarsi gente in tumulto e nelle piazze perché la televisione fa vedere che a Gaza è in corso un'altra guerra. E poi hanno comunque altre gatte da pelare: far fuori Assad e mettere i bastoni tra le ruote al riavvicinamento tra USA ed Iran, cosa per cui contano sull'aiuto dello stato sionista, sia in zona che a Washington. L'ultima cosa che vogliono è proprio che la situazione in palestina si riscaldi di nuovo, a sparigliare le carte in tavola.
Sicché, come scrive Bar'el,
"...Il sogno sta già prendendo forma: una tahdiya, un cessate il fuoco a lungo termine di cinque o anche dieci anni, l'apertura al materiale da costruzione in entrata dei valichi di frontiera di Gaza, la costruzione di un porto e magari anche il permesso di far funzionare un aeroporto. Nulla di meglio di un bel matrimonio di interesse, specialmente oggi che l'Egitto ha conferito a Hamas, anche se non al suo braccio militare, il sigillo della propria approvazione. "Abbiamo bisogno di dialogare con Hamas", dicono in tanti. Una sottolineatura diretta con precisione, che invoca il dialogo con Hamas, non con i palestinesi in generale. Non con Mahmoud Abbas, non con l'Autorità Palestinese di cui è alla guida che in fondo non è controparte in nessun campo".
Amos Harel, anch'egli di Haaretz, nota che "lo stato sionista considera ufficialmente Hamas come un nemico, lo ritiene per intero responsabile di ogni attacco proveniente da Gaza e risponde rabbiosamente ad ogni tiro. In pratica, però, adotta una politica opposta". Secondo Harel lo stato sionista ha motivo di pensare che potrebbe convenire di più arrivare per via indiretta a qualche accordo di massima con Hamas, che non obblighi Netanyahu a fare concessioni politiche dal momento che in pubblico egli non ammette di aver riconosciuto di fatto Hamas come una controparte. In questo contesto si colloca l'aumentato attivismo di rappresentanti del Qatar [il corsivo è di Conflicts Forum] che non si stanno dedicando soltanto alla ripresa delle attività economiche nella striscia di Gaza".
Un esperto leader di Hamas, Osama Hamdan, ha confermato il fatto che Hamas ha ricevuto una "proposta scritta" per una tahdiya, per una tregua a lungo termine, una tregua di cinque anni. Il movimento potrebbe anche spedire a breve termine una risposta altrettanto formale. Si direbbe che anche Hamas sia pronto ad una mossa del genere perché Hamas è impegnato a reprimere la nascente ribellione salafita e a sopravvivere ad una situazione economica al collasso oltre che al pugno di ferro che si è abbattuto sui Fratelli Musulmani in tutta la regione.
Abu Mazen ha reagito alla prospettiba di una tahdiya minacciando per l'ennesima volta le dimissioni. In un altro scritto su Haaretz intitolato E' finita l'epoca dell'Iran, è iniziata quella del BDS Peter Beinart spiega con chiarezza quali sono i veri timori dello stato sionista e la reazione irata di Abu Mazen. Lo stato sionista è seriamente preoccupato per la campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni e vuole che la situazione a Gaza resti calma, per cercare di togliere l'arma del BDS dalle mani di Abu Mazen.
Che cosa sta succedendo, poi? Innanzitutto c'è il fatto che l'implacabile ostilità dell'Araba Saudita nei confronti dei Fratelli Musulmani e di Hamas pare si sia alquanto placata dopo la morte di Re Abdullah. L'atteggiamento dei sauditi nei confronti dei Fratelli Musulmani è passato dalla assoluta ostilità ad un generico scetticismo, calmierato dalla disponibilità ad allearsi con il movimento in determinate circostanze. Lo Yemen ne è un caso particolare perché l'Araba Saudita vi sostiene e vi arma Al Islah, in lotta contro Ansar Allah. Anche l'Egitto, messo sotto pressione dagli alleati, ha modificato obtorto collo il proprio atteggiamento.
Per questo Hamas si sta rivolgendo allo stato sionista ed al tempo stesso sta andando in soccorso di tutto il sistema post ottomano e del tallone di Achille inflittogli nel 1948 e nel 1967. Hamas gli garantirà che non succederà nulla, e il Qatar ricostruirà Gaza.
Di primo acchito si potrebbe anche sostenere che Hamas si sta semplicemente comportando in modo pragmatico. Il movimento negli ultimi anni ha perso tutti i suoi protettori, e per giunta in un momento in cui le difficoltà per gli abitanti di Gaza arrivavano all'estremo. La cosa è piuttosto semplice: c'è bisogno di soldi. L'occasione per ripristinare i rapporti con Riyadh passando sopra al passato, rappresentata dall'ascesa al trono del nuovo re, dev'essere sembrata di quelle da cogliere al volo e sembra che il muto cenno di Salman permetterà al Qatar di ricominciare a fare esercizio di benevolenza nei confronti di Gaza e di Hamas. Solo qualche mese fa il Qatar doveva vedersela con l'isolamento politico decretatogli contro dagli altri appartenenti al Consiglio per la Cooperazione nel Golfo a causa della sua vicinanza a Hamas... col tempo le cose cambiano.
Se prescindiamo dalla prospettiva immediata, notiamo anche un'altra dinamica in azione. Non troppi anni fa, nel 2006, Hamas era solo un movimento di liberazione che lottava per la fine dell'occupazione e per il ripristino dei diritti dei palestinesi. Dopo allora però si lasciò attirare da Erdogan, all'epoca Primo Ministro turco, nelle questioni della politica siriana. A Damasco si capì che Hamas stava con Erdogan nelle sue prime mene ordite per portare i Fratelli Musulmani al potere in Siria; il progressivo coinvolgimento di Hamas nel conflitto siriano e la sua partigianeria arrivarono al punto che combattenti di Hamas si confrontarono direttamente con Hezbollah sul campo di battaglia ad Al Qusayr. Va ricordato che proprio Hezbollah e i suoi seguaci libanesi avevano generosamente offerto ospitalità ed aiuto ai loro commilitoni palestinesi, quando questi furono espulsi dalla Giordania.
Hamas si era schierato in una guerra, quella in Siria, in cui la Palestina non aveva coinvolgimento diretto ma aveva comunque molto da perdere, in particolare lo zoccolo duro della propria base di sostenitori. Hezbollah invece ha preso parte al conflitto partendo da una base diversa: dapprincipio perché il Libano aveva propri cittadini sotto il fuoco nell'area a cavallo del confine (in Siria esistono cittadine abitate da sciiti libanesi) e poi perché il Libano è man mano diventato una retrovia strategica per il conflitto siriano.
In Siria abbiamo assistito ad una sempre maggiore parzialità da parte di Hamas e più in generale dei Fratelli Musulmani. Hamas oggi sostiene direttamente i bombardamenti sauditi contro lo Yemen mentre la filiazione yemenita dei Fratelli Musulmani Al Islah è alleata con al Qaeda e sta combattendo direttamente contro Ansar Allah con le armi che riceve dall'Arabia Saudita.
La regione, purtroppo, è polarizzata in due campi contrapposti e si può pensare che Hamas e i Fratelli Musulmani non sfuggiranno a quest'ordine di cose. C'è del vero in questo, ma il fatto che questo importante movimento si sia lasciato almeno parzialmente trascinare da una campagna a guida wahabita volta all'erosione dell'influenza iraniana in Siria, in Libano, in Iraq e nello Yemen ha come conseguenza una mutazione sostanziale delle sue caratteristiche al punto che oggi come oggi non è più possibile dire con certezza per quale parte esso stia.
A Gaza gli appartenenti a Hamas combattono contro i salafiti. In Yemen ed in Siria invece combattono a loro fianco. Hamas è un movimento di resistenza o un'organizzazione per l'amministrazione locale? L'esperimento amministrativo di Mossul e dell'Anbar è diventato un modello da seguire o qualcosa da ripudiare? I Fratelli Musulmani sono un movimento importante, ma oggi come oggi da che parte stanno? Difficile dirlo. Chissà se loro stessi lo saprebbero dire.

sabato 18 luglio 2015

Firenze. Una sera di luglio n'i'ddegràdo e nell'insihurézza.


Negli ultimi anni la moda "occidentalista" di propagandare istanze da distopia texana mandando a passeggio per i centri storici soldati e gendarmi in montura da guerra ha preso campo anche in municipalità la cui amministrazione dice di appartenere a ben altro orientamento politico.
La cosa è molto apprezzata dalle gazzette: i nostri lettori sanno bene che quella che a Firenze viene venduta ai semafori dagli stessi extracomunitari su cui infierisce ad ogni numero presenta immagini di gendarmi e mezzi della gendarmeria ogni volta vi sia il minimo pretesto.
Ovvio che le persone serie siano di altro avviso e naturale che lo scrivano sui muri, dove altre persone serie possono leggerlo gratis.
Lo stato che occupa la penisola italiana schiera e stipendia centinaia di migliaia di armati ed uscire di casa senza la patente di guida consente a tutt'oggi di essere sanzionati dagli appartenenti ad almeno sette formazioni. Ora, da tempo tra i vari "non ci sono alternative" e "è l'Europa che ce lo chiede" c'è anche la soppressione pura e semplice di alcune di queste formazioni e la radicale razionalizzazione delle restanti.
Questa particolare declinazione dei concetti fondamentali di "più mercato" e "più galera" non prospetta l'immediato spostamento di denaro dalle tasche di chi ne ha poco a quelle di chi ne ha molto e soprattutto non offre occasione per mostrare gendarmi che si accaniscono contro bersagli facili. Per questi motivi il suo iter legislativo conoscerà sicuramente ogni sorta di ostacolo e le gazzette eviteranno con ogni cura di dedicarvi troppa attenzione.
Comunque, nell'estate 2015 qualcuno pensa sia il caso di rivolgersi con poca educazione agli armati su descritti. La foto viene dalla fiorentina e centralissima via Alfani e come è nostra abitudine la riportiamo per mettere per quanto possibile i bastoni tra le ruote alla pratica politica "occidentalista" e agli irritanti "valori" dei ben vestiti che la propagandano. 
Ci sono tuttavia due obiezioni da rivolgere all'autore dell'invito: la prima entra nel merito, la seconda è di tipo schiettamente linguistico.
A fine novembre 1994 iniziarono ad essere arrestati gli appartenenti ad una formazione armata dedita ad attività in cui si mescolavano criminalità comune ed abiezione: ne facevano parte appassionati di fucili d'assalto, appartenenti alla gendarmeria e fautori di metodi efficaci e radicali per l'eliminazione di presenze sgradite. Il meglio dei valori "occidentalisti" concentrati in un pugno di persone. Importantissima, nella stessa ottica, la presenza di una poco vestita che cercò di trarre ulteriore lucro dal suo ruolo di sguattera e di gregaria, fornendo a gazzette e gazzettieri gli unici contenuti in cui si dimostrino attendibili.
In quel periodo chi scrive frequentava per motivi di studio la città di Bologna, centrale nelle vicende del gruppo: nelle vie del centro gendarmi e personale militare erano una presenza abituale.
Per molti mesi e soprattutto senza che ci fosse bisogno di sprecare vernice per invitare al dileggio, la popolazione mise in atto mutamenti prossemici che era impossibile non notare.
Questo significa che era sufficiente indossare una livrea da portiere d'albergo per essere gelidamente tenuti a distanza.
In ultimo, una piccola obiezione sulla grafia che a Firenze incontra senz'altro la disapprovazione dei puristi. La demilanesizzazione della lingua ha trovato da diversi anni testimoni che operano in suo favore se non con successo, almeno con convinzione; una cosa di cui il comunicatore coscienzioso dovrebbe tenere conto. 

giovedì 16 luglio 2015

Alastair Crooke - "Questa non è la rivoluzione dello Stato Islamico. Questa è una rivoluzione sunnita".


Indonesia, 20 giugno 2014. Manifestazione in favore dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante.

Traduzione da
Conflicts Forum.

Una versione rivista di questo scritto è stata pubblicata su Energy Intelligence nel giugno 2015.

"Questa non è la rivoluzione dello Stato Islamico. Questa è una rivoluzione sunnita"
Anonimo combattente sunnita iracheno

"28000 a favore dello Stato Islamico e 6000 contro. Ecco il risultato di una valutazione della versione in arabo di Al Jazeera su quanti dei suoi spettatori guardano con favore all'operato dello Stato Islamico in Siria ed in Iraq".
Edizione in arabo di Al Jazeera, maggio 2015

L'importante quotidiano saudita Al Hayat nel maggio 2014 ha svolto un sondaggio da cui risulta che il 92% degli interpellati ritiene che "lo Stato Islamico rispetti i valori dell'Islam e la legge sacra"
Al Hayat, luglio 2014

"QUalunque intervento militare a fianco del governo Maliki verrebbe considerato come un atto di guerra contro l'intera comunità degli arabi sunniti"
Sheikh Nasser bin Hamad al Khalifa, ex ambasciatore del Qatar negli Stati Uniti, mentre ammonisce gli USA nell'imminenza dell'inizio dei bombardamenti a guida statunitense contro lo Stato Islamico in Iraq, giugno 2014

"Lo Stato Islamico è una componente essenziale di quanto andiamo realizzando... Abbiamo messo insieme lo Stato Islamico per difendere la nostra religione, la nostra ricchezza, la nostra terra e la nostra gente"
Sheikh Ahmed al Dabash, veterano comandante dell'insurrezione sunnita in Iraq e fondatore dell'Esercito Islamico in Iraq in un'intervista al Telegraph, giugno 2014

"Voglio dire all'AmeriKKKa e al mondo che questa non è la rivoluzione dello Stato Islamico. Questa è una rivoluzione sunnita. Chiediamo all'Unione Europea e all'AmeriKKKa di sostenere la gente sunnita. Noi non siamo terroristi".
Anonimo combattente sunnita intervistato dalla BBC, giugno 2014

"Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante è quanto di meglio sia successo a molte tribù sunnite dal 2008 ad oggi"
NOW Lebanon, ottobre 2014

"Se il massacro di sunniti innocenti in Iraq e in Siria prosegue, verrà il giorno che tutti gli arabi sunniti dall'Atlantico al Golfo abbracceranno lo Stato Islamico"
Sheikh Nasser bin Hamad al Khalifeh, ex diplomatico qatariota, in un Twitter di giugno 2015

"Noi non vogliamo ammettere che dentro di noi c'è qualcosa di profondamente sbagliato... Non esiste alcuna cospirazione straniera: sono sessant'anni che facciamo errori... O forse sono cent'anni, gli errori dei cento anni passati da quando i colonizzatori hanno tracciato gli irrealistici confini del mondo arabo. Il fatto è che errori su errori si sono andati accumulando e che il crollo era inevitabile... Dobbiamo chiederci 'cos'è che è andato male?', è tempo che ci facciamo un esame di coscienza. Quelli che chiamano in causa una cospirazione straniera stanno chiudendo gli occhi davanti alla verità e non riescono a vedere gli errori che abbiamo commesso. Non è che la tirannia è qualcosa che si ammanta con l'ingannevole concetto di 'stabilità'?"
Da "Cos'è che è andato male? Nei nostri errori il perché dello Stato Islamico", dell'influente editorialista saudita Jamal Kashoggi, pubblicato su Al Arabiya nel luglio 2014

"Continuiamo a rifiutare la realtà, purtroppo... E' da un po' che abbiamo posto la questione del 'cos'è che è andato male' ed è tempo che cominciamo a cercare dentro noi stessi"
Lo stesso Kashoggi citato dal Financial Times, settembre 2014

"Come possono i nostri studiosi replicare allo Stato Islamico... e a tutti gli altri parassiti che sono cresciuti prosperi ai margini dell'Islam, quando i suoi germi si sono sviluppati in mezzo a noi, dentro le nostre case, quando siamo stati noi a nutrirne la retorica e il pensiero fino a quando non sono diventati grandi?"
Turki al Hamad, un liberale saudita molto popolare, citato dal Financial Times nel settembre 2014.

"Non possiamo intervenire efficacemente in una regione dove sono così in pochi a condividere i nostri obiettivi"
Tom Friedman, New York Times, maggio 2015

Le varie citazioni qui riportate fanno tutte riferimento ad una profonda crisi dell'Islam sunnita. Che cosa sta succedendo, dunque?
A nostro modo di vedere sono finalmente venute alla luce le fratture e le tensioni che da tempo esistevano nel mondo sunnita. Le vecchie certezze, i vecchi confini, le vecchie affiliazioni, modi di essere ormai consolidati da tempo stanno tutti mostrando segni di cedimento e lasciano persone deluse ed arrabbiate, pronte ad inveire contro un mondo che esse sentono non essere più come lo conoscevano e come volevano che fosse. Quello che era "il mondo intorno a loro" è diventato "la cosa che ci sta facendo questo", che sta distruggendo i punti fermi della vita su cui esse avevano basato le proprie sicurezze. Ogni cosa, ogni cosa di per sé è diventata nemica.
L'Islam nella sua interezza sta reinventandosi daccapo in modi nuovi, ma come la storia suggerisce a questo si arriva di solito rifacendosi alle narrative archetipiche dei popoli, ad una sorta di introspezione che porta al più profondo essere di un popolo che viene poi trasformato conferendogli un significato contemporaneo, in modo che riesca bene o male a conferire senso e comprensibilità in termini metastorici alle attuali e difficili condizioni di un determinato popolo, fornendo al tempo stesso una soluzione alla crisi in atto.
Tuttavia c'è da pensare che ancora non si sia arrivati a questo punto. Siamo ancora nella fase in cui la gente, apparentemente esasperata da pressioni psicologiche ben reali, cerca fisicamente di uccidere i demoni e i draghi che la affliggono, senza capire ovviamente che essi non possono essere uccisi nel vero senso del termine.
In situazioni tanto tese esistono due elementi primordiali. Oggi come oggi di metafisica non si parla molto, tuttavia certi assunti metafisici che tutti diamo per scontati, in maniera più o meno inconscia, sono i fondamenti di tutta la nostra ideazione, che da essi deriva. Molti musulmani, sia laici che praticanti, si sentono in trappola tra due metafisiche opposte, e si sentono letteralmente squarciare da questa schizofrenia culturale.
La metafisica islamica si basa sulla comprensione del paradosso della unicità all'interno della diversità. Nonostante l'apparente molteplicità della vita, tutti gli esseri condividono l'energia vitale, infusa in ogni cosa in un modo o nell'altro e che ci circonda tutti dandoci ogni giorno prova della sua facoltà creatrice. Siamo tutti parte di una matrice pulsante di vita, se vogliamo siamo pixel di consapevolezza, nel più ampio quadro della consapevolezza del cosmo. In questa prospettiva la vita nella sua interezza ha un fine ultimo ed è intrinsecamente dotata di scopi, se nulla interviene ad impedirle di svilupparsi nella direzione cui è destinata. In breve, la nostra appartenenza all'umanità è data tutto questo: il microcosmo acquista senso grazie al macrocosmo.
Fino al Rinascimento anche gli europei condividevano la stessa metafisica, spodestata però quasi del tutto dalla metafisica dei Lumi che statuisce il mondo attorno a noi come morto ed inerte, e il nostro cosmo privo di qualunque significato e di qualunque fine che non sia quello che gli umani gli conferiscono tramite l'attività della loro mente e che proiettano sugli oggetti che li circondano. Dunque, sono le nostre competenze cognitive che conferiscono significato al mondo e non tutto quello da cui siamo circondati: la nostra stessa esistenza nell'ordine cosmico altro non è che un curioso accidente della chimica, che non ha alcun significato di per sé.
Il passaggio da una metafisica all'altra in realtà è stato essenzialmente la conseguenza di una decisione deliberata favorevole agli assunti suscettibili di verifica empirica e scientifica, che non la conclusione su quale delle due fosse maggiormente vera. I primi fisici, i primi matematici dell'epoca dei Lumi come Isaac Newton utilizzavano una metodologia empirica, ma il contesto in cui collocavano la scienza era quello comune ai primi scienziati musulmani ed era caratterizzato da una cosmologia significante.
Oggi molti musulmani vivono presi tra due sistemi, due sistemi progressivamente polarizzatisi e ideologicizzatisi. Sono costretti a studiare le scienze pratiche basandosi sugli assunti della metafisica scientifica moderna e probabilmente passano anche la loro vita lavorativa adattandosi a questa ottica immanente. La loro vita familiare invece cercano di viverla secondo valori fondati sull'altra metafisica, quella che impone di armonizzarsi a quel mondo vivente e dotato di significato che è tutto attorno a loro e di cui essi non sono che un limitato e contingente elemento in un sistema di reti che continuamente mutano e interagiscono.
In Medio Oriente la crisi è iniziata negli ultimi secoli, con l'irrompere dell'ideologia laica che deriva dalla metafisica dei Lumi. Deve essere chiaro che la laicizzazione fu forzata, soprattutto in Turchia e in quello che all'epoca si chiamava Persia, e che vi si giunse in modo distruttivo. Le conseguenze oggi sono che alcuni musulmani sono del tutto laici, altri tengono un piede in ciascun campo, altri ancora insistono tenacemente a ravvivare la primitiva cosmologia islamica, sia come base per la scienza che come modo di essere. La cosa che difficilmente viene notata è che mentre settori dell'islam sunnita si sono accostati alla metafisica dell'Illuminismo europeo o l'hanno del tutto fatta propria come l'islam turco, altri settori come quello dei Fratelli Musulmani hanno consapevolmente intrapreso programmi sociali ed economici molto laici per incrementare l'attrattiva delle proprie piattaforme, mettendo la sordina alla dottrina islamica. L'Occidente prova naturalmente una certa attrazione per gli "islamici laici", ma farebbe bene a capire anche il motivo per cui altri musulmani considerano che questa tendenza metta in pericolo l'essenza stessa dell'Islam.
Quale importanza ha tutto questo? Intanto, l'ambivalenza a tutt'oggi presente in alcuni settori dell'Islam sunnita, per cui si trascorre parte della vita facendo riferimento ad una certa metafisica, e parte facendo riferimento ad un'altra, implica anche il fatto che la linea che separa le due visioni del mondo non è così difficile da attraversare. Non è difficile per esempio che ad un certo punto un musulmano laico ed europeo si riveli come barbuto takfiro; una crisi personale può bastare come fattore scatenante.
Gli occidentali si mostrano sempre sconcertati per come un musulmano cresciuto in una società laicizzata possa improvvisamente trasformarsi in un islamico radicale. A differenza dell'Occidente, dove i cosiddetti Lumi hanno del tutto spazzato via la precedente cosmologia rinascimentale -si è fatta piazza pulita anche dell'ambiguità dei Newton- nell'Islam non è successo nulla del genere. Negli anni Venti del passato secolo ci si è arrivati vicini, ma per molti musulmani permane a tutt'oggi una lotta metafisica individuale che coinvolge anche molti musulmani laici. Quando i "valori" laici sembrano voler avere la meglio a tutti i costi, come sta succedendo in questi anni, la situazione diventa ancora più difficile.
Il secondo importante punto debole nasce dal socialismo e dal laicismo, che in Turchia, in Egitto ed in Persia dagli anni Venti dello scorso secolo in poi diventarono una minaccia per l'esistenza stessa dell'Islam sunnita. Gli islamisti di oggi, spiazzati dall'assalto alla 'Umma, al califfato, all'Islam stesso intrapreso da Ataturk hanno consapevolmente adattato il loro Islam affinché agli occhi dei giovani potesse competere con le attrattive del laicismo. Dall'altra parte hanno invece iniziato ad elaborare una nuova identità islamica che si opponesse in maniera polarizzata al laicismo e di cui sono esempi l'adozione dello hijab o la pratica devozionale in pubblico. Il risultato più evidente di tutto questo è stato uno scivolare verso l'interpretazione letterale -la stessa interpretazione letterale cui si era fatto ricorso per distogliere i giovani dall'Islam- oltre ad un'aumentata enfasi sugli aspetti rituali, intesi come modo per distinguersi rispetto a chi impronta la propria esistenza al laicismo.
Nell'Islam sunnita l'interpretazione letterale è sempre stata presente, soprattutto nei momenti di crisi e mai come orientamento della maggioranza. Dopo il 1920 invece l'Islam sunnita è diventato sempre più letterale, e in materia di religione ha iniziato anche ad enfatizzare l'esteriorità: i Fratelli Musulmani vedono il concetto di attivismo politico e sociale come il percorso per eccellenza che conduce alla religiosità; l'attivismo sociale viene considerato un "rituale religioso". Passo dopo passo, l'Islam sunnita è diventato sempre di più una questione di adesione letterale. Adesso siamo giunti all'adesione estrema, rappresentata dallo Stato Islamico. Difficile trovare qualcosa di più aderente all'interpretazione letterale del neowahabismo dello Stato Islamico.
Questo è uno degli aspetti della crisi. Nell'areale sunnita esiste comunque quello che viene a volte chiamato "Islam laico", che è un orientamento dell'Islam consumista ed orientato al mercato. Ne sono esempi lo AKP in Turchia e la élite neoliberista che comanda negli Emirati Arabi Uniti. Ci si deve comunque chiedere se questa variante dell'Islam continuerà nel proprio percorso laico o se assisteremo al suo rientrare nell'alveo di uno dei percorsi storici dell'Islam, data la maggior enfasi che essa pone sull'interiorità. Il dilemma è questo: cos'altro può fare l'Islam sunnita se non secolarizzarsi? Nello Stato Islamico esso ha già raggiunto il limite dell'interpretazione letterale, ma il processo che può ricondurlo ad un percorso storico è reso difficile dal fatto che per molti sunniti esso rappresenta in qualche modo un avvicinarsi all'Islam sciita, inteso come quanto di più lontano esista dall'interpretazione letterale.
L'altra grande frattura presente nell'Islam sunnita ha a che fare con il concetto di stato. L'Impero Ottomano non ha mai fatto riferimento al concetto occidentale di stato nazionale, inteso come struttura che ad ogni livello prevede "una sola autorità, una sola legge, una sola forza armata" e che ha bisogno di molta omogeneità interna in materia di stirpe, confessione religiosa ed estensione territoriale per poter stipulare un contratto sociale credibile. Per gli ottomani non c'è mai stato niente di simile: il loro Medio Oriente era un mosaico di confessioni, popoli e lealtà differenti in disordinata contesa tra loro e spesso sovrapposte, che si estendevano senza troppo ordine ora al di qua, ora al di là dei confini. Gli ottomani erano venuti a capo della situazione permettendo che lo spazio della politica venisse occupato da diversi livelli confessionali, tribali ed etnici in cui l'autorità, la legge, l'ordine ed il potere religioso esistenti in un dato spazio geografico si sovrapponevano, e permettendo anche che queste autorità sovrapposte sconfinassero da una divisione amministrativa all'altra. Da un certo punto di vista la cosa funzionava abbastanza bene, ma il modello occidentale dello stato-nazione permetteva di esercitare il potere statale con un'efficienza molto maggiore e con conseguenze letali.
Dopo la prima guerra mondiale gli europei misero in piedi degli stati nazionali in Medio Oriente ignorando il miscuglio demografico e confessionale che essi racchiudevano. Anzi, in buona parte di quello che era stato l'Impero Ottomano essi inventarono stati il cui governo, pensavano, avrebbe avuto bisogno di un continuo aiuto occidentale. In genere le vecchie élite ottomane vennero promosse a "famiglie reali" e messe a capo di questa nuova sistemazione politica. Il problema è che la multiformità, le contraddizioni e i contrasti intrinseci alla nuova sistemazione fecero sì che si potesse venirne a capo soltanto con un utilizzo aggressivo di quel monopolio della violenza e di quel diritto esclusivo alle armi che sono strumenti dello stato nazione come viene inteso in Occidente. Quella che mancava era l'omogeneità nazionale, che sola avrebbe permesso la stipula di un "contratto sociale" tra governanti e governati. In assenza di questo, tutto il sistema dei paesi arabi è finito screditato agli occhi dei popoli.
Il sistema che sta crollando oggi è questo. In un certo senso stiamo assistendo agli ultimi spasimi del sistema ottomano, e questa è la parte politica della crisi mediorientale che si aggiunge alla crisi metafisica. La crisi politica tocca tasti molto profondi della psiche sunnita -che sono gli stessi tasti che va a toccare lo Stato Islamico e che sono sensibili nella mentalità di molti dei musulmani sunniti di oggi. I sunniti si considerano "la maggioranza" non soltanto in termini assoluti, in cui sono effettivamente maggioritari, ma anche e soprattutto perché erano "la maggioranza" all'epoca delle dispute che seguirono la morte di Muhammad, la maggioranza che scelse il primo califfo destinato a succedergli.
In questo senso i sunnti assumono il fatto che loro era il primo stato islamico, che fu da loro realizzato: in qualche misura, "lo stato"  è loro; è stato sunnita e deve essere sunnita. Il concetto ha valenza missionaria e legittimista: in questo contesto gli sciiti erano e sono a tutt'oggi considerati dei refrattari, dei nemici dello stato sunnita e dei perenni pericoli alla sua esistenza. In questo c'è del vero, ma si tratta di concetti molto più complessi di quelli cui rimanda l'affermazione pura e semplice. Il senso di missione e di legittimità a proposito dello stato, di conseguenza, è stato molto consolidato tramite le istituzioni dell'Impero Ottomano e con l'edificio post imperiale messo in piedi dalle potenze coloniali.
Adesso gli stati sunniti, le istituzioni e le forme di governo stanno perdendo pezzi ovunque: in Egitto, in Turchia, in Arabia Saudita, presso i Fratelli Musulmani... I sunniti ne sono consapevoli e si sentono usurpati: si sentono messi ai margini, loro che una volta erano un impero, e vivono questa situazione con risentimento. Più di ogni altra cosa gli pesano il crescente potere e l'ascesa dell'influenza sciita e della Repubblica Islamica dell'Iran in particolare. Il clima psicologico in cui politiche di portata mondiale si trasformano in conflitto tra tendenze islamiche e in attriti settari è questo. Questo è dal punto di vista psicologico il fattore essenziale capace di trasformare professionisti europei od occidentali tra i più laici, ad esempio un medico, in sostenitori dello Stato Islamico. E' una specie di impulso viscerale, la pretesa dei sunniti di riavere indietro quello che hanno sempre percepito come cosa loro.
Come per le epoche passate, questa crisi interna all'Islam ha bisogno di una spiegazione. La spiegazione che lo Stato Islamico offre è la stessa che offrirono a suo tempo figure sunnite come Ibn Tayymiyah all'epoca della conquista mongola: l'Islam ha abbandonato le proprie radici, ha perso la propria forma, e deve essere raddrizzato da tutte le storture.
Secondo questo modo di ragionare l'Islam è afflitto da demoni che ne minacciano l'esistenza: eresie, innovazioni inopportune, deviazioni, fino all'eccesso di etereogeneità. La sua anima è in pericolo. I demoni lo stanno corrodendo e stanno portando la loro influenza al di là di ogni limite per indebolire la missione dei sunniti e per indebolire l'Islam sunnita in sé. Per molte persone sul piano psicologico questi demoni hanno acquisito una definitiva concretezza.
Molti musulmani sunniti sono attratti da idee del genere, che ritraggono l'Islam minacciato da qualche quinta colonna. Diventano propensi a vedere dappertutto tracce dell'espansionismo sciita e dell'eresia che lo sottende. Di conseguenza si sentono attratti per il progetto che lo Stato Islamico indica come contromossa, il prospettato "stato sunnita" ed arrivano a considerare lo Stato Islamico come un elemento correttivo necessario per fermare il decadomento dell'ordine arabo.
Purtroppo non esiste nessuno Hermes in questo caso, che giunga ad avvertire Eracle che i demoni che sta cercando di uccidere nell'Oltretomba non sono reali ma solo il prodotto della sua immaginazione, che come tale non può essere propriamente ucciso.
Nulla è facile, in questa situazione. L'Iran è davvero sulla breccia, la sua influenza è davvero in espansione: su questo non ci sono dubbi. Quello che invece non è chiaro è se l'attuale crisi dell'Islam sunnita debba essere in primo luogo attribuita all'ascesa dell'Iran o se essa non rifletta piuttosto la colliquazione del vecchio ordine ottomano ed il dilemma metafisico esistenziale dell'Islam sunnita.
Nel XVI secolo la fissazione degli europei sul fatto che demoni e trame diaboliche stessero divorando il tessuto della società cattolica preannunciò il considerevole mutamento di civiltà che si avvicinava, rappresentato dall'Illuminismo. Chissà che la simile ossessione sunnita, particolarmente nei paesi del Golfo, non stia preannunciando anche per il Medio Oriente un mutamento altrettanto tumultuoso.

venerdì 10 luglio 2015

Alastair Crooke - Il giocoliere ha rotto un piatto: Obama e la caduta di Ramadi



Traduzione da Conflicts Forum.

Il piatto che si è rotto, qui, è Ramadi. E il giocoliere è il Presidente Obama, intento alla giocoleria del "bilancio dei poteri" in Medio Oriente dove invece delle maniere forti ha cercato di andare un po' in sordina, cercando di imporre un'altra piega ad eventi che stanno trascinando l'AmeriKKKa verso circostanze in cui dovrà usare massicciamente il proprio apparato militare. La dottrina militare di Obama, sostanzialmente, è questa. Esiste poi un'altra giocoleria che va in conflitto con la prima ed in cui Obama è parimenti impegnato. Si tratta del gioco dei poteri a Washington. Per raggiungere i suoi scopi in Medio Oriente Obama può anche andare di sordina in caso di paesi particolari o dei loro vertici, ma è chiaro che alcuni stati mediorientali (non soltanto lo stato sionista) hanno messo in campo un simile potenziale e lo stanno usando contro di lui a Washington. Lo stato sionista dispone senza dubbio di capacità del genere, e circolano voci (come questa) sul fatto che anche l'Arabia Saudita, che ha effettuato grossi investimenti in think tank e imprese di pubbliche relazioni nella capitale statunitense, sia riuscita a fare una campagna acquisti dentro la temibile macchina politica di cui lo stato sionista dispone a Capitol Hill. Sia lo stato sionista che l'Arabia Saudita vogliono che le sanzioni contro l'Iran restino in vigore. I due paesi, insieme, sono un nemico temibile.
Un tempo questi giochi di potere, che usassero le buone o le cattive, erano prerogativa dell'Occidente. Adesso non è più così. I paesi non occidentali non sono più spettatori passivi che si fanno stordire dai giochetti che gli si ordiscono contro. C'è un numero crescente di questi sotterfugi (la guerra delle informazioni, quella della telematica) che si sta ritorcendo contro l'Occidente. La "guerra su piani molteplici" che i membri della NATO temono così tanto altro non è che la guerriglia delle informazioni inventata in Occidente, che gli viene rivolta contro e che viene utilizzata contro di esso.
Insomma, il piatto-Ramadi si è rotto, e questo scompiglia tutta la giocoleria di Obama e anche la sua dottrina in politica estera, secondo cui alla forza si dovrebbe ricorrere come extrema ratio, che le azioni di forza il più delle volte non hanno portato il credito politico previsto e che una proiezione morbida del potere che contempli la guerra geofinanziaria e la proliferazione della giurisdizione statunitense rappresenta lo strumento più potente con cui l'AmeriKKKa può influenzare a proprio favore l'equilibrio mondiale dei poteri, in modo da mantenerne bene o male l'equilibrio -o meglio, in modo da potervi conservare l'attuale status quo privilegiato. Includere l'Iran in questo equilibrio, e nel controllo del sistema finanziario e commerciale mondiale cui tendere con la proiezione morbida, costituisce l'essenza stessa della dottrina Obama ed è il caso che dimostra i vantaggi di una proiezione morbida ben diretta. Il caso ha tutte le caratteristiche tipo dell'eredità che Obama spera di lasciare.
Obama vuole sopra ogni altra cosa che si arrivi ad un accordo con l'Iran. Per raggiungere questo obiettivo il Presidente, senza tanto chiasso, ha allentato la presa della lobby sionista che voleva minare la sua ambizione. Ci è riuscito spiegando al Consiglio per la Cooperazione nel Golfo che un accordo con l'Iran gioverebbe alla sua sicurezza, e poi presentando al Congresso Netanyahu come uno smaccatamente sopra il rigo, cui nessun membro del Congresso minimamente responsabile può pensare di accostare se stesso o la presidenza per quello che riguarda i negoziati con l'Iran. Isolare Netanyahu indebolisce anche l'Arabia Saudita, che aveva tratto qualche vantaggio indiretto in occasioni come quella presentatasi lo scorso marzo, quando il Primo Ministro dello stato sionista aveva aspramente rampognato l'Iran davanti a centinaia di deputati statunitensi esterrefatti. Obama gli ha reso pan per focaccia quando ha scavalcato il Primo Ministro dello stato sionista e si è rivolto direttamente al popolo, in una intervista diffusa l'ultima settimana di maggio nello stato sionista dal Channel Two, in cui chiedeva sostegno per la sua linea politica.
Il Presidente degli Stati Uniti ha cercato, con un certo successo, di confinare la possibilità dei suoi avversari di interferire sulle negoziazioni con l'Iran alla sfera della politica interna, ovvero al Congresso. Sembra comunque che Obama sia sempre ben consapevole dell'influenza e del denaro di cui dispone la lobby saudita e sionista; ha evitato di provocarla e continua anzi a mostrare un atteggiamento morbido. Nella sua intervista a Channel Two Obama spiega con calma perché la "opzione militare" nei confronti dell'Iran non è di fatto una possibilità praticabile. "Un intervento militare non risolverebbe il problema [del nucleare iraniano]. Anche se gli Stati Uniti vi prendessero parte, si riuscirebbe a rallentare per un po' il programma nucleare iraniano ma non certo ad eliminarlo". Obama ha indorato la pillola facendo crescere di un quindici per cento le risorse destinate all'assistenza militare dello stato sionista e proteggendo incessantemente lo stato sionista presso le Nazioni Unite, nello specifico quando lo stato sionista è stato accusato di aver infranto i diritti umani dei bambini a Gaza. Obama si muove come se fosse sulle uova: concede qualche cosa qui, toglie qualcosaltro là.
Si diceva del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo. Dal CCG Obama ottiene quello che vuole -ovvero l'impegno a mettere un limite all'influenza di Netanyahu sull'affare Iran, ma si mostra anche accomodante, concede qualche cosa. Asseconda il disegno del nuovo re di Riyadh, che vorrebbe spazzare via gli Houthi nello Yemen, asseconda la richiesta dei sauditi e dei sunniti in genere che vogliono che il coinvolgimento dell'Iran nella lotta allo Stato Islamico in Iraq venga drasticamente ridimensionato, nonostante tutti siano d'accordo nel considerare i contingenti iraniani come l'unica forza che gli si oppone efficacemente, e infine chiude un occhio sull'operazione congiunta tra Turchia ed Arabia Saudita per organizzare in Siria un nuovo esercito guidato da al Qaeda, il cosiddetto "Esercito della Conquista".
Ed ecco che Ramadi cade nella mani dello Stato Islamico. Nello stesso periodo, a peggiorare ulteriormente le cose, l'asse turco-saudita non si limita a fare qualche pressione in Siria, ma scatena migliaia di jihadisti raccattati fin dal Turkmenistan e dalla Cecenia per smembrare letteralmente il paese (cfr. qui). Per l'AmeriKKKa è uno shock: da un momento all'altro tutta la politica contro lo Stato Islamico diventa sospetta: perché gli USA hanno chiuso un occhio sui concentramenti di jihadisti in Siria e sullo Stato Islamico che marciava su Ramadi?
  Sembra che il Presidente fosse concentrato sulla giocoleria del fronte interno e si sia distratto dalla giocoleria mediorientale, dove i piatti hanno cominciato a sfuggirgli di mano e a fracassarsi per terra.
Detto con più chiarezza, ammassando jihadisti in Siria Arabia Saudita e Turchia hanno mandato in pezzi il fragile equilibrio di Obama e tolto di mezzo qualsiasi possibilità di una soluzione politica della crisi siriana, almeno fino a quando non si sarà conclusa questa nuova prova di forza. Il Presidente Assad, e con lui la maggioranza del popolo siriano, non accetterà mai di venire a patti con alcuno di questi nemici mortali, al Qaeda e Stato Islamico. Sauditi e turchi possono aver sperato che le loro pedine sul terreno avrebbero organizzato un blitzkrieg contro Aleppo che avrebbe finito per smembrare il paese una volta per tutte, ma nel tentativo di arrivare a questo sono riuscite soltanto aqd inasprire il conflitto perché né la Russia, né l'Iran né la Cina accetteranno mai che la Siria cada preda dei takfiri. Turchia ed Arabia inoltre rischiano forte sul piano della sicurezza interna. E' possibile che assisteremo ad interventi diretti anche più massicci da parte delle potenze alleate della Siria; in questo caso, la Siria diventerà ancora di più l'arena di un conflitto in cui sono coinvolti attori esterni.  
Sembra che il Presidente degli Stati Uniti sia stato troppo fiducioso sul tipo di gruppi armati che si scatenavano in Siria ed in Iraq, e che non abbia saputo prevedere le conseguenze che avrebbe avuto il tenere un atteggiamento conciliante nei confronti del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, che di fatto lo ha incastrato. A chi gli ha chiesto lumi sulla passività delle forze statunitensi a fronte della presa di Ramadi da parte dello Stato Islamico, ha risposto che "in privato, mi dicono i militari che non vogliono farsi vedere mentre si accaniscono contro le posizioni sunnite in quella che è una guerra settaria, perché si rischierebbe di fare cosa sgradita agli alleati nel Golfo". Insomma, compiacere il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo ha danneggiato molto il buon senso, e come ha scritto qualcuno che ha assistito ai fatti dall'interno, ha lasciato Washington con una brutta gatta da pelare.
"...Il riferimento per capire quale sia la politica statunitense oggi è dato da quanto succede a Ramadi. Se, come sembra possibile, le milizie irachene [ovvero proprio le formazioni che gli Stati Uniti hanno cercato di escludere dalla partita] riescono a riconquistare la città, gli statunitensi tireranno un sospiro di sollievo e non penseranno più che sia tanto necessario rivedere un approccio fatto di raid aerei e di campagne di addestramento organizzate con tutta calma. Se invece lo Stato Islamico riesce a tenere la città cresceranno le pressioni volte a far sì che gli USA schierino altre truppe assieme ai loro alleati iracheni. Al Pentagono si sta sempre più facendo strada l'idea che vada fatto, anche se alla Casa Bianca ancora non ne vogliono sapere. Un altro dilemma, presente ed irrisolto per gli USA, è fino a che punto deve arrivare il coordinamento con l'Iran per le operazioni in Iraq. Nel corso degli ultimi incontri con gli iraniani nell'àmbito dei negoziati dei "cinque più uno" sul nucleare, nessuno ha sollevato la questione. Da scambi a carattere privato avuti con funzionari superiori siamo venuti a sapere che essi considerano un accordo con l'Iran come la premessa perché si arrivi ad una soluzione ai conflitti in corso nell'area, in particolare in Siria e nello Yemen. Si mette molto l'accento sul fatto che non si sta cambiando orientamento diventando favorevoli all'Iran, ma si pensa comunque che un accordo sul nucleare potrebbe portare frutti che vanno ben al di là del contesto immediato. Queste tesi in cui si concatenano cause ed effetti, comunque, continua ad essere vista con molto scetticismo a Capitol Hill".
Non è che ci sia molto altro che Obama possa fare oltre a cercare di mostrarsi accomodante verso Mosca e verso Tehran, nella speranza di ritrovare un equilibrio che consenta di rintuzzare i guadagni territoriali dello Stato Islamico in Iraq e di contrastare al Qaeda (Jabat al Nusra) e lo stesso Stato Islamico all'offensiva in Siria.
Sermbra che il tentativo sia già in corso. Kerry si è recato a Sochi per parlare con il Presidente Putin non soltanto dell'Ucraina, ma anche di altre cose. A Washington è sempre più apprezzato, almeno presso le conventicole realiste se non presso i potenti settori neocon, il fatto che per quello che riguarda l'Ucraina è Mosca ad avere in mano la maggior parte delle carte. L'atteggiamento dei paesi anglosassoni nei confronti di Putin non è cambiato, ma al tempo stesso l'Ucraina è diventata un po' l'elefante in mezzo alla strada, che impedisce il raggiungimento di altri obiettivi in altri teatri in cui è per forza richiesta la collaborazione o almeno l'acquiescenza dei russi. 
Anche a Sochi gli Stati Uniti si sono mostrati accomodanti per quel che riguarda i principi del secondo incontro di Minsk, come il percorso da seguire per arrivare ad un assetto federale per l'Ucraina: una soluzione che preveda una federazione fuori dalla NATO è sempre stata la soluzione di preferenza per Vladimir Putin. I giornalisti a Sochi hanno chiesto a Kerry cosa ne pensasse delle ultime dichiarazioni del Presidente Poroshenko sulla necessità di riprendere i combattimenti attorno alla città di Donetsk che è in mano ai ribelli filorussi. Kerry ha risposto: "Non ho letto il suo discorso. Non sono entrato nel merito. Ne ho solo sentito parlare a tratti nella giornata di oggi. Solo che se il Presidente Poroshenko sta dicendo che ora come ora dobbiamo impegnarci in un atto di forza, dobbiamo senz'altro dirgli di pensarci due volte prima di imbarcarsi in un'impresa del genere, perché gli accordi di Minsk ne risentirebbero gravemente. E noi saremmo molto preoccupati per le conseguenze che oggi come oggi un'iniziativa simile potrebbe avere". Parole del genere vogliono dire che gli Stati Uniti hanno cambiato registro.
Il problema è se Obama o Kerry riusciranno a convincere sia l'Iran che Putin -entrambi molto scettici- che l'AmeriKKKa contro lo Stato Islamico intende fare sul serio. Sia in Iran che in Russia si pensa che l'AmeriKKKa veda ancora i takfiri un po' come qualcosa di suo. Se il colpo riuscisse gli USA si libererebbero di un grosso peso, ma soprattutto è necessario che l'AmeriKKKa arrivi ad un accordo sul nucleare con l'Iran. Senza accordo, il retaggio di Obama sembrerebbe davvero esile. E non va dato per scontato che con l'Iran si arriverà ad una soluzione su tutti i piani.