lunedì 30 luglio 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte I, Capitolo 1 - A servizio di Dio e degli interessi del popolo



Machell Stace (1810): Oliver Cromwell alla battaglia di Worchester (fonte: National Archives)

Il 17 settembre 1656 Oliver Cromwell, un puritano protestante che aveva combattuto una guerra civile in Inghilterra, depose ed uccise il re, e prese la parola davanti al parlamento inglese nelle vesti di nuovo Lord Protettore.
Cominciò rivolgendosi ai parlamentari protestanti che appoggiavano la rivoluzione: “Chi sono i nostri nemici, e perché ci odiano?”[i] Esisteva, disse, un asse del male nel mondo.
…Ci odiano perché odiano Dio ed ogni altra cosa buona… L’odio che hanno per noi proviene dalla profonda inimicizia che essi hanno per qualunque cosa serva la gloria di Dio e gli interessi del popolo, cose che essi sanno essere soprattutto e sopra ogni cosa protette e professate in questa nostra nazione -questo non lo diciamo per vanità- più che in ogni altra nazione del mondo[ii].
Egli disse loro che questo asse, quest’asse del male, aveva a capo una grande potenza -la Spagna cattolica- e spiegò che l’odio che i suoi compatrioti si trovavano ad affrontare era sostanzialmente un problema causato dal fatto che gli spagnoli avevano posto se stessi al servizio del “male”. Questo “male” era il male di una religione, il cattolicesimo, che “rifiutava il desiderio degli inglesi di godere di libertà fondamentali… che sottometteva gli uomini… sotto il quale non c’era libertà… e [sotto il quale] non poteva esistere ‘libertà di coscienza individuale’”[iii].
Dai tempi di Cromwell, la maggior parte del mondo anglofono ha iniziato a definire i propri nemici come “coloro che odiano la libertà e Dio”, privi di ogni senso morale e capacissimi di tutto pur di vincere. I “falchi” inglesi, spesso puritani e mercanti, a quel tempo desideravano che si mettessero in pratica politiche antispagnole in grado di minare l’autorità papale anche per scopi più propriamente politici, specialmente per aprire nuovi mercati al mercato inglese in espansione[iv].
Cromwell suggeriva che il problema, con il cattolicesimo, non era questione di religione di per sé, ma era determinato dalle pastoie che essa imponeva: l’imposizione di norme morali e condivise, la “mancanza di libertà” imposta dalla Spagna ai mercanti ed ai traffici inglesi: in sostanza, si trattava essenzialmente del rifiuto dei puritani verso i valori morali professati da una comunità ispirata dalla religione, che non avrebbero lasciato che i singoli individui si dessero anima e corpo all’impresa individuale ed al libero commercio.
Nel cattolicesimo essi vedevano un’etica che agiva più per conservare la continuità della società, e che sui concentrava su un codice morale immutabile che contemplava l’esistenza di responsabilità sociali nei confronti degli altri: qualcosa che non vedeva di buon occhio la ridefinizione della vita comunitaria attorno all’individualismo, ai vantaggi personali provenienti dal commercio e dal profitto, e al libero mercato. Non si trattava di un’etica in cui potesse riconoscersi il nascente capitalismo dell’epoca; ecco qual era il male, secondo la definizione del mondo anglosassone, che all’epoca lo condannò con la stessa veemenza con cui oggi condanna l’Islam.
Le parole di Cromwell simboleggiano l’etica protestante che ha portato l’Occidente a livelli di potenza mai raggiunti, e che ha informato di sé ogni visione politica europea nel corso degli ultimi trecento anni. Ha fornito alla politica occidentale molti dei suoi tratti salienti, ed anche uno degli strumenti fondamentali della sua potenza: il concetto di stato-nazione cui si è giunti nel XIX secolo, che indica una comunità di soggetti la cui volontà collettiva si è concretizzata in una sovranità laica che ha preso il posto di Dio.
Il potere doveva essere esercitato da una ristretta ed immensamente potente élite centralizzata, in grado di esercitare il monopolio della violenza tanto verso i nemici esterni quanto verso quelli interni. La stessa élite si avvaleva anche delle ulteriori competenze necessarie a limitare ed indirizzare comportamenti e discorsi della gente in molti modi differenti: una rete di pressioni, convenzioni sociali e regole stabilite dalle istituzioni e dagli interessi economici teneva sotto controllo il comportamento ed al tempo stesso rafforzava l’esistenza di una nazione intesa come famiglia unitaria ed omogenea a tutti i livelli sociali, che legittimava l’esistenza di un governo centrale forte.
Relazioni di potere come queste, insieme alla stampa, costituivano il “potere disciplinato ed unitario della modernità”[v]: costituivano un insieme di utensili infidi, che permettevano che  un insieme di cittadini ostentatamente “liberi” e “singoli individui” potesse essere mobilitato collettivamente sotto una guida egemonica a seconda della volontà espressa dallo stato-nazione. Nel complesso, uno strumento dai poteri immensi.
Quando ci incontrammo a Qom, il religioso iraniano fece riferimento proprio a questa concezione. Come Cromwell si era lamentato degli spagnoli e dei cattolici inglesi, intesi come opposti a coloro che “hanno servito la gloria di Dio e gli interessi del popolo”, lo hoyatoleslam ebbe a dirci che oggi erano i musulmani ad essere percepiti come coloro che si mettevano di traverso alla “volontà di Dio” rimanendo aggrappati ai fallimenti di un’etica religiosa statica e passatista.
Max Weber, nel suo saggio del 1905 intitolato l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, aveva identificato una credenza ampiamente diffusa ai suoi tempi e che risaliva ai tempi del calvinismo puritano, secondo la quale l’economia di mercato ed i cambiamenti di posizione sociale sono una manifestazione della “volontà d’Iddio”; vivere in comunione con Dio e provare speranza di salvezza significava dunque, pensava Weber, comportarsi da amplificatori dell’ondata di cambiamenti sociali scatenata dal capitalismo, e che a maggior ragione le credenze religiose non soltanto dovevano tollerare questi cambiamenti, ma perfino anticiparli.
Anche se parlano di “democrazia”, la democrazia ha un significato [per i leader occidentali, N.d.A.] solo se implica il concetto di essere umano che essi hanno fatto proprio. In un simile contesto, il loro concetto di stato-nazione non ha altro che una valenza strumentale, quel tanto che gli serve per raggiungere i loro obiettivi. Quando una nazione [musulmana] si incammina su un percorso diverso, immancabilmente va incontro alla resistenza del mondo occidentale[vi].
L’Occidente, sostiene il religioso, ha perso la consapevolezza di che cosa certe idee ed i vasti progetti che ne derivarono, sfociando nella costruzione dello stato-nazione del diciannovesimo e del ventesimo secolo, hanno significato per le società musulmane. “Soltanto dopo aver preso consapevolezza di questo, possiamo cominciare a cercare che cosa è andato storto”, concludeva.
Questo libro inizia a raccontare la storia dell’affermarsi della rivoluzione islamica proprio partendo da questo punto, dagli ultimi duecento anni che hanno rappresentato il percorso di costruzione dello stato-nazione. Sarebbe possibile far cominciare la ricostruzione anche da un’altra qualsiasi tra le tappe della storia dell’Islam, ma questo lavoro ha l’intento, già messo in chiaro nell’introduzione, di afferrare essenza e spirito che sottendono la crescente resistenza verso l’Occidente più che di tentare una ricostruzione propriamente storica.


L’etica protestante e la demonizzazione degli ottomani

La dinamica etica protestante che Cromwell aveva con così poca fortuna opposto ad un cattolicesimo inteso come statico fu alla base dell’enfasi posta dal calvinismo di stampo puritano sul dovere che spettava a ciascun individuo, quello di utilizzare i propri talenti come se implicassero una chiamata divina. Questo diede nuova valenza e nuovo significato all’impresa economica ed al lavoro laico: servire il mondo contribuendo all’espandersi dei mezzi di produzione significava servire Dio, e prosperare materialmente in questo modo, nei traffici e nei commerci, era sicuro segno della grazia divina. Alla salvezza si arrivava col lavoro: in un ambiente del genere la considerazione sociale e la ricchezza ne avrebbero rappresentato secondo i calvinisti le naturali conseguenze.
In particolare i protestanti, in Europa ed in America, arrivarono a credere che Abramo, il comune progenitore di tutti i monoteismi, rappresentasse un simbolo di questa nuova consapevolezza. La disponibilità di Abramo ad abbandonare la sua casa, a recidere i propri legami familiari fino a sacrificare il proprio figlio Isacco costituiscono un esempio di totale disponibilità ad abbracciare i cambiamenti. E costituiscono anche un esempio di fede. Abramo aveva obbedito alla chiamata d’Iddio; Abramo aveva abbandonato le sue vecchie credenze; aveva abbandonato il mondo e le idee del passato che pure gli erano familiari, e si era diretto verso una nuova terra promessa. Affrontare i cambiamenti, cosa giustificata dalla sola fede assai più che dal ragionamento razionale, diventò una specie di sacramento[vii]. La nuova missione divenne “come quella degli ebrei a Caanan, ‘conquistare la terra e possederla’”[viii].
Nella Gran Bretagna di metà XIX secolo Richard Cobden e Jean Baptiste Say formularono la visione di come questo modo di pensare avrebbe condotto ad un periodo di pace di durata millenaria; il libero commercio avrebbe promosso la pace tra le nazioni, sulla base degli interessi comuni e della comune prosperità.  Jean Say scrisse che “la teoria dei mercati spargerà sicuramente i semi della concordia e della pace”, e Cobden credeva che la diffusione dei principi del mercato e del libero commercio avrebbe instaurato un ordine pacifico tra i liberi paesi d’Europa[ix]. In occidente questa è rimasta la perdurante concezione dell’utopia, nonostante il suo fallimento ripetuto più e più volte costituisse prova delle tragedie a cui essa ha dato origine.
Il protestantesimo ed il cattolicesimo negli ultimi tempi hanno perso molta dell’influenza che avevano sulla popolazione europea; al contrario questi principi ripropongono idee del protestantesimo originario la cui portata si è estesa ben al di là dei limiti della sfera religiosa. Questa etica si è fusa con le dinamiche del mutamento capitalista, ed i segmenti più importanti di questo costrutto sono gli stessi che sostengono il secolarismo moderno.
I secolarismi moderni aderiscono a valori morali che ritengono universalmente validi, e che come tali dovrebbero essere stabiliti ed innestati, se necessario con la forza, in tutto il mondo fino al momento in cui la storia, intesa fino a quel momento come un continuum lineare, non si chiuderà su se stessa ad immagine di trionfante circolo utopistico. Come le loro controparti cristiane, che enfatizzano quanto c’è di personale e di individuale nel loro rapporto con Dio, i secolarismi moderni apprezzano al di sopra di tutto il resto il concetto di scelta personale: americani, secolaristi e cristiani -tutte genti di Abramo ormai- considerano il loro percorso attraverso la vita come una serie di “scelte personali” da affrontare, che nel complesso determineranno il destino di ciascuno.
Anche se molti pensatori del XIX secolo non erano particolarmente religiosi, la loro idea che un “ordine” finisse per imporsi spontaneamente come frutto dell’azione di una “mano invisibile” che agisse nel libero gioco delle forze del mercato nel contesto di uno stato-nazione centralizzato e potente rappresenta in realtà la riaffermazione di una delle più potenti convinzioni spirituali prodotte dal mondo anglofono, e dunque dal mondo occidentale. Coloro che condividono queste convinzioni, che pur inconsapevolmente attengono allo spirituale, riescono ad essere individualisti ed ottimisti al tempo stesso.
Negli Stati Uniti i cambiamenti sociali -il declino delle élite della East Coast, l’asciesa del Sud e la mobilitazione di massa dei cristiani evangelici verificatasi negli ultimi trent’anni- hanno amplificato la potenza della visione protestante. Il Presidente George Bush, che ha incarnato credenze strettamente consonanti alle parole che Cromwell pronunciò nel 1656, ha promosso toni di ottimismo bellicoso che lo accomunano ad una forte corrente utopistica del cristianesimo nella convinzione che il male possa essere sconfitto. Al tempo stesso, egli attinge al tema apocalittico caro al cristianesimo degli inizi, che avverte di una imminente catastrofe, e a quello delle speranze laiche in un progresso senza soluzioni di continuità[x].
L’impatto con queste idee, e con la formicolante realtà della costruzione occidentale di uno stato-nazione in seno alla loro società, per i musulmani ha rappresentato un disastro, per non dire qualche cosa di più. L’ossessivo intento di costruire stati-nazione centralizzati, nel XIX e nel XX secolo, ha rappresentato una tragedia che ha fatto milioni di vittime, cosa che si è verificata anche in Europa e negli Stati uniti. Ma questo, in uno di quegli involontari contorcimenti della storia, ha anche facilitato il riemergere di un Islam rivivificato, che oggi sfida direttamente la concezione occidentale.
Le Grandi Potenze occidentali, forti e centralizzate, intrapresero nel XVIII secolo la missione di “sottomettere la terra e possederla”, ottimisticamente convinte del fatto che con l’apertura di liberi mercati avrebbero dato origine ad un ordine mondiale più prospero e pacifico.
Nel secolo successivo l’Impero Ottomano, che rappresentava la struttura istituzionale che abbracciava la maggior parte dei musulmani, fu sottoposto a massicci ed intensi attacchi, soprattutto nelle sue provincie occidentali. La marcia competitiva delle Grandi Potenze verso nuovi mercati poggiò senza dubbio sul militarismo dell’epoca e sulle nuove tecnologie di cui poteva disporre, ma fu il concentrarsi delle Grandi Potenze sullo sfruttamento dell’appartenenza etnica e confessionale, specie presso le comunità cristiane comprese nelle regioni occidentali dell’Impero Ottomano, intrapreso per isolare e creare nuovi stati cristiani che sorgessero nelle regioni controllate dall’impero, ad essere responsabile delle lotte più aspre, dei genocidi, dei massacri e delle deportazioni.
Il rapporto tra le Grandi Potenze cristiane e gli attriti tra comunità diverse all’interno della società ottomana risale al 1569, anno in cui alla Francia vennero garantite le capitolazioni. Le capitolazioni negli anni successivi vennero assicurate ad altre potenze europee ed assunsero carattere permanente. Le potenze cristiane brigarono per essere chiamate “protettrici” delle minoranze cristiane sotto queste capitolazioni ideate apposta per produrre crepe nella costruzione politica ottomana. Con l’esortazione, l’incoraggiamento e spesso anche le armi fornite dalle potenze occidentali, le minoranze cristiane dell’impero su levarono a combattere per l’indipendenza.
Le guerre più aspre vennero combattute in quella che oggi è la Grecia, e nei Balcani. Entrambe le regioni erano comunità cristiane semiautonome, tra le province occidentali dell’impero. Secondo l’opera di Justin McCarthy Death and exile: the Ethnic Cleansing of Ottoman Muslims, 1821-1922, circa cinque milioni di musulmani europei vennero cacciati dalle loro abitazioni tra il 1821 ed il 1922[xi]. Questa deportazione forzata ha costituito il peggior esempio di pulizia etnica in Europa fino all’allontanamento dei tedeschi dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Un secolo di pulizia etnica e di omicidi trasformò quelli che un tempo erano i territori occidentali dell’Impero Ottomano da regioni a maggioranza assoluta musulmana a regioni a maggioranza cristiana. Soltanto tra il 1912 ed il 1920 si pensa che il 62% della popolazione musulmana dell’Europa sudorientale -Albania esclusa- sia scomparsa, sia fuggita, sia stata uccisa o costretta all’esilio.
Gli europei erano portati a credere che le identità e le affiliazioni che entrassero in competizione con la loro rappresentassero un fattore di indebolimento e di minaccia per l’omogeneità necessaria al rafforzamento dell’affermazione di un governo centrale forte, e quando si dava il caso della loro presenza le potenze occidentali come la Germania, che per tutto questo periodo rappresentò il principale alleato dell’Impero Ottomano, incoraggiarono i gruppi politici “riformisti” e gli stati nascenti a spazzarle via, nel sangue e senza pietà.
L’agire in modo spietato era giustificato da quasi tutti gli ufficiali tedeschi di stanza nei territori ottomani durante l’ultimo periodo dell’impero tramite le espressioni di disprezzo cui indulgevano nei confronti di questo o quel gruppo etnico con cui venivano a contatto. Alla base di questi sentimenti c’erano il senso di superiorità attribuito alla cultura europea e l’idea che esistesse una gerarchia razziale in base alla quale i dettami naturali avrebbero fatto sì che i gruppi razzialmente più deboli fossero destinati a scomparire dalla storia[xii].
La pressione militare degli occidentali contro l’Impero Ottomano si accompagnava ad incessanti richieste di riforme. Il corpus di riforme varato nel 1856 fu in realtà messo insieme da Lord Stratford, ambasciatore inglese, ed imposto agli ottomani; come ha notato lo storico Donald Bloxham, in tutte le richieste di riforme avanzate dagli inglesi era costante quella a favore della liberalizzazione dei mercati. Come Bloxham[xiii] fa notare poi, la “riforma” pretesa da francesi ed inglesi affinché fosse loro assicurato il controllo della politica fiscale ottomana al fine di assicurarsi la restituzione di crediti in sofferenza vantati dai paesi occidentali “di fatto inibì per lo stato Ottomano la facoltà di sviluppare la propria economia”[xiv].
Questa continua pressione sui leader ottomani affinché mettessero in atto riforme aveva origine in un esperimento di ingegneria sociale di vasta portata, messo a punto in Inghilterra con l’obiettivo di liberare la vita economica da ogni controllo politico e sociale. L’obiettivo venne raggiunto stabilendo una nuova istituzione, il libero mercato, e pretendendo ad un tempo che si indebolissero le istituzioni di natura sociale e che venissero meno i mercati socialmente più radicati che un tempo erano esistiti in Inghilterra. Questo brusco stacco nella vita economica, causato dalla creazione del libero mercato, è stato definito “la Grande Trasformazione”.
La Grande Trasformazione ha fatto venire meno le continuità culturali ed istituzionali in Inghilterra ed il suo dispiegarsi in tutto il mondo si è tradotto in sconvolgimenti economici, caos sociale ed instabilità politica in paesi anche molto diversi tra loro[xv]. Le economie dei paesi occidentali non sono emerse tramite una serie di riforme progressive, come quelle pensate per gli ottomani da Lord Stafford; si fecero strada grazie ad un utilizzo massiccio del potere statale per l’imposizione dello stravolgimento sociale che il libero mercato richiedeva. Lo stato ottomano non possedeva da nessun punto di vista un simile potere perché era organizzato secondo criteri di delega dell’autorità piuttosto che secondo quelli di un suo accentramento.
Credere che il libero mercato sia sorto “naturalmente” dopo che sono stati eliminati gli ostacoli artificialmente posti ad esso significa credere in un mito. Come notato da John Gray, è dubbio che in Inghilterra si sarebbe arrivati alla sua imposizione se la voce del popolo fosse stata in grado di protestare in modo articolato contro la miseria che questa operazione di ingegneria sociale aveva prodotto[xvi]. Qualunque fosse lo scopo che gli europei si prefiggevano insistendo a quel modo sulle riforme, sicuramente non ne facevano parte né la diffusione della democrazia né ottenere il consenso popolare.
Gran parte della demonizzazione dell’Impero Ottomano, dipinto[xvii] come il “grande malato” della regione, e le conseguenti pressioni esercitate in favore delle riforme, alla luce della ricerca storica più recente sono risultate essere in larga misura un costrutto eurocentrico. Mettere particolare enfasi nell’evidenziare come l’Impero Ottomano non condividesse una certa esteriorità europea fatta di coerenza e di proponimenti comuni e che di conseguenza venisse bollato come “decaduto” in Europa, ha portato la visione occidentale della storia a dipingere la “ascesa dell’Occidente” come un qualche cosa di ineluttabile.


L’omogeneizzazione delle identità

Nel 1908 i “riformatori” assunsero la guida dello stato ottomano. La principale organizzazione politica al governo, detta Giovani Turchi, ne assunse il controllo. I principali esponenti dei Giovani Turchi
…erano esplicitamente atei, ed erano cresciuti alla scuola del pensiero laico occidentale, nella quale si erano imbevuti del positivismo antireligioso di pensatori come Auguste Comte, ed avevano fatto proprio il darwinismo sociale tanto in voga tra i nazionalisti europei di fine secolo. Questi principi non soltanto fornirono loro una giustificazione ideologica per allontanare i cristiani, ma facendo venire meno negli autori di questo gesto ogni concetto di fratellanza religiosa, portarono i leader politici [dei Giovani Turchi] a cominciare a pensare anche alla distruzione dell’identità nazionale curda[xviii].
Nel percorso verso l’adozione del modello di stato egemonico in Europa, fondato sul concetto di omogeneità etnico-nazionale, tra l’autunno del 1914 e la primavera del 1915 gli esponenti di massimo livello dei Giovani Turchi presero una serie di decisioni che avrebbero condotto alla decimazione della popolazione cristiana armena dell’impero. Questo a sua volta preparò il terreno alla repubblica turca laica di Mustafa Kemal, detto Ataturk, ed alla conseguente distruzione dell’Islam come principale fonte di identità e di legittimazione da lui operata.
Ataturk si adoperò per portare a compimento quanto scritto nell’agenda, esplicitamente atea, dei Giovani Turchi: eliminare l’idea di fratellanza religiosa mettendo in cattiva luce l’Islam ed abolendo il califfato. Quella del califfato era una struttura istituzionale che faceva dei credenti musulmani un’unica comunità transnazionale e che simboleggiava anche la successione dell’autorità, trasferita nel corso delle generazioni dall’Inviato Muhammad fino al Califfo in carica.
Nel corso della prima guerra mondiale venne massacrato circa un milione di armeni ottomani, su una popolazione imperiale di due milioni ed una di quattro milioni in tutto il mondo. Un milione o più di vittime armene sono l’equivalente, o qualcosa di più, delle perdite inflitte all’Impero Britannico nel corso di quella guerra: in proporzione, dato il totale della popolazione armena ammontante a quattro milioni di persone, rappresentano qualcosa di molto più grave. La maggior parte delle vittime fu uccisa sul posto, destino che accomunò molti uomini e ragazzi, o deportata verso sud, nei deserti dell’Iraq e della Siria di oggi. Lungo il percorso della deportazione venivano fatte oggetto di massicce e ripetute vessazioni: stupri, rapimenti, mutilazioni, esecuzioni arbitrarie, morte per stenti, per fame e per sete.
Molti tra coloro che erano riusciti ad arrivare nei campi di concentramento nel deserto vennero uccisi nel 1916[xix]. Gruppi di deportati vittime dell’inedia venivano legati insieme e gettati da colline dentro i fiumi dove finivano per annegare; altri venivano fatti asfissiare accendendo fuochi all’imboccatura di una caverna, uccidendo così fino a cinquemila persone ammassate all’interno.
Bloxham afferma con chiarezza che “l’ideologia del nazionalismo, squisitamente occidentale, fu l’idea importata che condusse al genocidio: l’idea di ‘dividere con linee nette, rendere omogenei, organizzare i popoli perché fossero uniformi secondo un dato criterio… per competere, sopravvivere e svilupparsi. Questo si verificò anche sull’esempio, ed in risposta, ai movimenti etnico-nazionalisti dei Balcani”[xx].
Nonostante il massacro degli armeni spicchi per il numero e per la natura sistematica delle decimazioni, i vertici dei Giovani Turchi avevano segnato per la pulizia etnica anche altri gruppi: un quarto di milione di assiri vennero sterminati e vennero uccisi greci e curdi, nel corso di una lotta di tipo autenticamente darwiniano per sopravvivere e per non diventare una di quelle razze di retroguardia che l’evoluzione condanna a scomparire.
A Kemal (Ataturk) sarebbe spettata la continuazione del processo di omogeneizzazione intrapreso, allontanando la superstite popolazione armena prima, i greci dell’Anatolia poi ed infine i curdi, prima di prendersela con l’Islam per completare la trasformazione in senso “moderno” ed unitario dell’identità turca.


Il nazionalismo etnico e le identità costruite

In un diverso contesto in cui si affrontava il tema delle identità in costruzione Edward Said, il famoso scrittore e pensatore palestinese, in una conferenza tenuta a Londra nel 2001[xxi] sul tema “Freud ed il non-europeo” sottolineò esplicitamente come le cose sarebbero potute andare diversamente se il fondamentalismo occidentale avesse preso un’altra strada invece di essere quello che è.
Edward Said fece riferimento al tema che impegnò Sigmund Freud negli ultimi anni della sua vita, e che si ritrova nel suo “Mosè ed il monoteismo” sul significato di ebraicità. Secondo Said, Freud come ebreo era costretto a vedersela con un paradosso: perché per gli ebrei era tanto difficile riconoscere che Mosè non era ebreo ma egiziano, o riconoscere che le sue idee circa l’esistenza di un solo dio non erano affatto una sua innovazione ma derivavano da quelle di un non ebreo, il faraone Akhenaton. Per quale motivo un assunto tanto evidente si rivela tanto difficile da riconoscere, e perché era sempre stato sottaciuto?
Said sosteneva che Freud aveva di fatto provato ad aprire verso l’esterno l’identità ebraica sottolineando il fatto che Mosè era egiziano, cosa che lo rendeva diverso dal popolo ebraico che ne aveva fatto la propria guida. Il riferimento di Freud all’origine non ebraica del monoteismo -monoteismo che è fondamento dell’ebraismo ed al tempo stesso base della sua asserita unicità- serviva alla stessa cosa, ad aprire l’ebraismo al riconoscimento cosciente dei contributi non ebraici che vi avevano affluito.
Il “non europeo”, nel ruolo di Mosè e di Akhenaton, suggerisce che l’ebraismo non emerse da solo, ma a partire da altre etnicità ed altre identità; questo, sostiene Said, lascerebbe molti spazi di manovra a chi volesse ascrivere alla terra di Palestina gli elementi non ebrei dell’ebraismo, tanto passati quanto odierni. In altre parole Golda Meir, il Primo Ministro israeliano, non avrebbe avuto bisogno di denegare l’identità palestinese con la sua dichiarazione del 1969 in cui asseriva che non esisteva nulla di simile ad un popolo palestinese. Avrebbe avuto a disposizione tutta la flessibilità e tutte le possibilità di scelta necessarie ad abbracciare tutte le diversità che nella storia avevano preceduto la fondazione dello stato ebraico, ma scelse di non farlo e di far invece muovere il pendolo nella direzione opposta.


La guerra archeologica delle identità

Il carattere potenzialmente aperto dell’identità ebraica individuato da Freud viene contrapposto da Said al netto definirsi dell’identità ebraica che invece fu la realtà nel periodo che seguì i ragionamenti di Freud, risalenti agli anni Trenta. Prima dei sionisti erano stati i Giovani Turchi a modellare l’identità dello stato ottomano su quella di una sua nuova “razza” turca, che doveva servire da modello per una “grande trasformazione” della società in marcia verso la modernità; un’operazione oggetto in Occidente di un’ammirazione ai limiti dell’adulatorio, in quanto atto di leadership determinata.
Il massacro e la deportazione da parte dei turchi di armeni, assiri, greci e turchi nondimeno
…rappresentò un caso di quello che succede quando dichiarati intenti di nazionalismo etnico vengono portati al loro estremo nel contesto di una società multinazionale. Un caso che resta uno dei momenti più ricchi di implicazioni per la storia contemporanea… che anticipò i massacri e la disgregazione della Yugoslavia dopo la fine della Guerra Fredda, per tacere di innumerevoli episodi intermedi … [compresa] la cacciata degli arabi da Israele nel 1948[xxii].
Said considerò che “la fondazione di Israele in un territorio non europeo diede incarnazione politica all’identità ebraica in uno stato che fece proprie delle posizioni politiche e legali particolarissime, al fine di isolare tale identità da qualunque elemento non ebraico”[xxiii].
Quando il Primo Ministro israeliano dichiarò che i palestinesi non esistevano, e lo Stato d’Israele iniziò a macchinare con i mezzi della cultura e dell’archeologia per fabbricare un’identità ristretta e sigillata, Israele si mise semplicemente a seguire l’uso occidentale di costruire il mito di una comunità nazionale unita ed omogenea, con le sue riscoperte radici ebraiche e con la sua identità israeliana, la cui sovranità poteva legittimare le azioni ed il militarismo di uno stato centrale potente e militarizzato.
Gli inglesi avevano fatto lo stesso a partire dai tempi della guerra civile nel diciassettesimo secolo. Per legittimare la loro lotta contro le “pastoie monarchiche” e per consentire all’imprenditoria commerciale privata di raggiungere gli orizzonti cui aspirava, i rivoluzionari si rifecero alle leggi ed alle istituzioni delle tribù germaniche così come figuravano nelle descrizioni di Tacito, e a partire da queste testimonianze dell’antichità costruirono una narrativa storica secondo la quale gli anglosassoni del settimo ed ottavo secolo erano un popolo libero, e che le libertà cui Cromwell aveva fatto riferimento nel suo discorso al Parlamento andavano cercate in queste antiche tradizioni[xxiv].
L’identificazione degli anglosassoni con una razza, ovvero un’identificazione genetica anziché culturale, arrivò successivamente. Il “razzismo scientifico” ottocentesco che si reggeva sul darwinismo dette origine al concetto di vero Inglese nato. Daniel Defoe derise corrosivamente  questo mito artefatto in una poesia del 1701 in cui suggeriva che l’Inghilterra era una nazione di immigrati, una “razza bastarda” più che una “razza inglese”. Defoe, allo stesso modo di Freud dopo di lui, perorava una visione aperta dell’identità inglese che ne riflettesse lo spirito comunitario, anziché la definizione nazionalista e su base razziale che più tardi, nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, si sarebbe rivelata tanto distruttiva.
Nella sua conferenza, Edward Said ha messo in luce gli estremi cui può giungere un’operazione di consolidamento di una identità nazionale; ha evidenziato l’utilizzo da parte di Israele di una scienza come l’archeologia per edificare una narrazione storica attorno a cui costruire una propria identità ebraica unitaria, in modo opposto a quanto fatto da Freud che utilizzò invece i dati storici per costruire un’altra identità, egiziana e non ebraica, per Mosè.
L’utilizzo dell’archeologia nel tentativo di costruire un’identità ebraica che si ponesse al di sopra di ogni altra, fa notare Said, non è stato possibile senza contrasti; ha provocato la nascita di una resistenza il cui obiettivo era quello di contrattaccare e di conservare gli strati che sedimentandosi avevano dato origine all’identità palestinese: è nato una sorta di “movimento di resistenza” a base archeologica. 
Anche l’Occidente ebbe a suo tempo la flessibilità necessaria e la possibilità di abbracciare tutte le storiche diversità dell’Impero Ottomano, ma decise di non farlo, allo stesso modo dei sionisti. Le potenze occidentali avevano deliberatamente esacerbato, e posto su un piano internazionale, la questione dei cristiani armeni intesi come minoranza significativa all’interno dell’impero: però il sostegno occidentale ai diritti dei cristiani venne meno appena esso entrò in contrasto con gli interessi economici dell’Occidente.
Prima il silenzio e poi la denegazione accolsero i massacri armeni. Sembra che Adolf Hitler abbia chiesto nel 1939 ai suoi generali, in una discussione in cui si trattava dei polacchi, “Dopo tutto, chi è oggi che parla della distruzione degli armeni?”[xxv] Gli israeliani, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, hanno difficoltà perfino ad ammettere che questi eccidi abbiano avuto luogo. Va da sé che sofferenze di portata tanto vasta, e l’indifferenza ed il silenzio con cui il mondo le accolse, orientarono le inziative che seguirono da parte di Ataturk. Il suo programma basato su una “modernizzazione muscolare” assunse agli occhi degli europei tutti i crismi della soluzione ai “problemi di popolazione” tipici del processo di realizzazione di ogni nuovo stato occidentalizzato.
Sappiamo anche che i collettivi sionisti dell’anteguerra erano influenzati dai Giovani Turchi. Ze’ev Jabotinsky, leader dell’ala revisionista del sionismo, aveva lavorato alla redazione di una rivista per l’organizzazione dei Giovani Turchi chiamata jeune Turque. Sappiamo anche che le “soluzioni territoriali” ai “problemi di popolazione” utilizzate dopo il 1918 nei territori dell’ex Impero Ottomano, che molto dovevano al genocidio armeno, erano considerate un modello da David Ben Gurion nel 1941, riguardo alla futura organizzazione etnica dello Stato di Israele[xxvi].
Questi collettivi sionisti prevedevano il trasferimento -ossia la pulizia etnica- degli arabi di Palestina, tra l’altro anche verso i deserti attorno a Deir ez Zor e ad Aleppo in quella che oggi è la Siria, ed in cui gli armeni deportati avevano concluso venti anni prima la loro miserevole esistenza[xxvii].
Quando il movimento sionista prefigurò la creazione di uno stato ebraico in Palestina, invocò la “redenzione” religiosa di un’antica patria come legittimante tale stato. Ma come ha scritto lo storico israeliano Ilan Pappé
…Questa era la versione ufficiale, e non c’è dubbio che essa esprimesse in modo sincero le motivazioni della maggior parte di coloro che costituivano la leadership del movimento sionista; ma oggi, con atteggiamento più critico, possiamo vedere che la determinazione dei sionisti a stabilirsi in Palestina anziché in altri luoghi altrettanto plausibili come strettamente interconnessa al millenarismo cristiano del diciannovesimo secolo ed al colonialismo europeo. Le diverse società missionarie protestanti ed i governi europei si misero a competere tra loro sul futuro di una “Palestina cristiana” che volevano strappare all’Impero Ottomano. I più religiosi tra quanti in Occidente aspiravano a questo, videro nel ritorno degli ebrei una tappa nella realizzazione dei disegni divini[xxviii].
Il paradosso, come nota Pappé, è che Eretz Israel, il nome che la Palestina assume nella religione ebraica, era stata venerata nei secoli da generazioni di ebrei come luogo di pellegrinaggio, ma non era mai stata vista come un vero e proprio stato. “In altre parole, il sionismo ha laicizzato e nazionalizzato l’ebraismo”[xxix]. Dunque non è l’ebraicità a costituire un problema, ma il nazionalismo laico ed aggressivo alla base del sionismo; da parte nostra abbiamo considerato che proprio questo aspetto, il nazionalismo laico, è un retaggio che proviene direttamente dalla tradizione del puritanesimo cristiano.
I tremendi massacri e le operazioni di pulizia etnica degli ultimi due secoli hanno inviato al mondo musulmano un segnale molto forte: che nessuno si attenda che l’ingiustizia di quanto i popoli musulmani hanno dovuto passare venga mai riconosciuta in Occidente. Ogni cosa sarà semplicemente cancellata dalla memoria. La giustizia di una causa non è abbastanza per giustificarne il sostegno: nessun paese occidentale si è davvero mosso per sostenere gli armeni, gli assiri, i curdi, o i cinque milioni di musulmani che prima di loro subirono la pulizia etnica in Europa.
Gli europei erano troppo coinvolti dalla loro visione redentrice della trasformazione sociale, della modernizzazione e del libero mercato liberale per fornire qualcosa di più di un’occasionale stretta di mano alle sofferenze umane. Il nuovo stato turco che stava allora emergendo era troppo importante per i loro interessi: la lezione dell’Armenia, per i musulmani, fu che nessuno li avrebbe aiutati, altro che loro stessi. Le loro vittime sarebbero state considerate poco o nulla. E pose anche una questione circa il pensiero occidentale: che cos’era che gli aveva permesso di diventare tanto distruttivo, mentre ancora indulgeva alla convinzione che l’Occidente agisse per i più grandi interessi del benessere dell’uomo.
La risposta, cominciarono a pensare gli islamici, va cercata nel modo in cui gli occidentali si pongono davanti al pensiero. In altre parole, nella loro tendenza a farne un utilizzo strumentale. Un modo di pensare razionale, durante la carestia delle patate in Irlanda tra il 1846 ed il 1852 in cui si stima sia morto di fame un milione di persone, avrebbe creduto che le prime preoccupazioni delle autorità britanniche fossero quella di mantenere le condizioni del libero mercato nella produzione del cibo e di eliminare la carestia dai loro territori.
Quando fu fondato il nuovo stato turco, uno dei suoi generali, Kiazim Kavabekir, poteva dire quello che Golda Meir avrebbe detto dei palestinesi: “in Turchia non sono mai esistiti né un’Armenia né un territorio abitato da armeni. Gli armeni che vivevano in Turchia hanno commesso omicidi e massacri, e sono fuggiti in Iran, in America ed in Europa.”[xxx].
Secondo una prassi tipica dei procedimenti di fabbricazione di identità unitarie messa in cantiere in Occidente, in Turchia a nessun sito archeologico è permesso oggi di attestarsi come appartenente alla civiltà armena, con buona pace dei tremila anni di presenza armena in regioni della Turchia odierna. La “guerra archeologica dell’identità”, che Edward Said indica come intrapresa da Israele nel contesto palestinese, in Turchia è già stata combattuta.
Il progetto di turchizzazione è nettamente razzista: l’espulsione massiccia verso la Grecia di oltre un milione di greci ortodossi abitanti dell’Anatolia in cambio di trecentottantamila greci musulmani avvenuto nel 1923, le continue angherie contro gli armeni e gli assiri e la completa denegazione dell’identità turca sono tutte espressione di un “nazionalismo seccamente escludente”[xxxi].
Dal 1923 in poi, la repressione del nazionalismo curdo e dell’identità curda assunse un carattere predatorio ed indiscriminato. Ataturk riempì il sud est curdo di amministratori turchi, fece insediare nelle terre curde veterani di guerra turchi, proibì l’uso della lingua curda nei tribunali e, cosa più importante, bandì la lingua curda dalle scuole, negando a tutti gli effetti una educazione formale ai bambini curdi[xxxii].

Queste iniziative provocarono una rivolta che esplose nel 1925: fu duramente sedata ricorrendo ad un utilizzo smodato della forza. Molte persone vennero impiccate, alcuni villaggi vennero rasi al suolo e si registrarono massacri veri e propri.
Il motivo della rivolta era dato dalla determinazione di combattere per l’identità curda. Lo stato turco, dal 1923, cominciò semplicemente a rifiutare di riconoscere che i curdi fossero mai esistiti: fino agli anni Novanta diventarono noti con il nome di “Turchi di montagna”. Allo stesso modo i palestinesi venivano inizialmente chiamati con il termine generico di “arabi” dai politici israeliani che si rifiutavano di chiamarli palestinesi.
Per mettere insieme una nuova identità turca, i Giovani Turchi seguirono le orme degli europei. Rifacendosi ad un passato remoto, i Giovani Turchi ritrassero la loro razza come la fondatrice di una delle grandi civiltà dell’Asia, nel contesto di una narrazione storica che escludeva i curdi senza eccezioni. La ricerca sulla storia curda fu messa fuori legge; il nome dei villaggi curdi fu rimpiazzato con l’equivalente in lingua turca così come sarebbe successo ai villaggi palestinesi, i cui nomi furono sostituiti da nomi ebraici. Diventò illegale dare ai bambini nomi curdi, e le canzoni curde finirono fuorilegge[xxxiii].
Per certi aspetti però le deportazioni, la pulizia etnica e gli assassinii contro le minoranze avevano nel progetto di edificazione di una repubblica turca laicizzata portato avanti da Ataturk un ruolo meno centrale rispetto a quello che avevano avuto per i Giovani Turchi che lo avevano preceduto. Al centro delle preoccupazioni di Ataturk, tra il 1920 ed il 1923, c’era il bandire dalla Turchia l’etica derivante dall’Islam concepito come appartenenza condivisa. Era un qualcosa che sia lui che i Giovani Turchi suoi compagni consideravano come un’appartenenza che configgeva con l’affiliazione alla nazionalità turca e come un ostacolo ed un limite al loro progetto militante, ed a suo modo fondamentalista, di “modernizzazione” in senso occidentale.
Il fondatore della Turchia Ataturk viene ritratto in Occidente come un leader musulmano illuminato che rispecchiava le sintesi occidentali nel credere che l’eliminazione di ogni limite di natura religiosa, sociale e comunitaria al libero mercato, tramite la creazione di un potente e centralizzato stato laico nel cuore stesso del mondo musulmano, avrebbe rappresentato un modello per tutte le società musulmane da quel momento in poi.
Il sostegno occidentale non sorprende, dal momento che il progetto di Ataturk corrispondeva in modo tanto preciso alle visioni utopistiche dell’Occidente circa i tempi futuri. La presa di posizione occidentale rende chiaro anche che in Occidente si era capito molto poco sul perché gli islamici e la maggior parte dei musulmani considerino la laicizzazione forzata della Turchia e la fine del Califfato in modo del tutto diverso.


Il modernismo laico e la nascita ideologica della Resistenza

Questo aspetto, la laicizzazione forzata della Turchia, fu quello che più di ogni altro avrebbe paradossalmente reso più agevole la nascita di un’ideologia sunnita incentrata sulla resistenza. Insieme alla sfida posta dal materialismo laico di stampo marxista spinse parte della gerarchia sciita ad accettare un’inedita reinterpretazione dello sciismo inteso come ideologia rivoluzionaria, destinata a sconfiggere un altro autocrate laicizzatore e modernizzatore come lo Shah di Persia.
Quando nel primo dopoguerra Mustafa Kemal prese a descrivere, con insistenza e con toni infiammati, l’Islam come “il simbolo dell’oscurantismo”, “il cadavere putrefatto che avvelena le nostre vite” e “il nemico della civiltà e della scienza”[xxxiv] scioccò ed atterrì i musulmani di tutto il mondo. Per il linguaggio che utilizzava avrebbe potuto benissimo essere Cromwell alle prese con il “male” della Spagna cattolica o del Papa.
La Turchia era allora la sede dell’Impero Ottomano. Ed era anche la sede del califfo, che i musulmani sunniti consideravano successore del Profeta Muhammad. Fu come se un corrosivo attacco contro la cristianità fosse stato lanciato partendo dall’interno delle mura vaticane.
La rabbia acida di Kemal, ed il disprezzo per l’Islam che provenivano addirittura dal cuore del mondo islamico sunnita rappresentarono un deliberato spregio contro i musulmani, e contro la fratellanza musulmana rappresentata dal carattere transnazionale dell’istituzione del califfato e dalla sua autorità sui musulmani sunniti di tutto il mondo (gli sciiti considerano invece fonte di autorità, e connotata dal ruolo di guida, la successione degli Imam).
Ataturk, l’eroe dell’Occidente, il fondatore della Turchia moderna, era un dittatore. Era un militare, ed un militare tutto d’un pezzo, tranne che nei confronti dei superiori che lo consideravano rissoso ed arrogante. Ufficiali prussiani avevano praticamente monopolizzato l’addestramento nella scuola ufficiali turca fin dalla fine del XIX secolo e non erano soltanto degli addestratori: erano ufficiali d’élite che riflettevano nella loro carica gli ideali del militarismo prussiano e della guerra tecnica, allo stesso modo della loro convinzione della superiorità culturale europea.
Gli ufficiali turchi come Mustafa Kemal (Ataturk), che si trovarono esposti a quest’etica militare tedesca nel momento della sua massima sicumera e della sua massima tronfiezza, si imbevvero di un militarismo che li portò a considerare la classe militare e l’etica militare che si accompagnava ad essa come i simboli della mentalità che si addiceva alle imprescindibili guide necessarie ad ogni società in via di modernizzazione.
Mustafa Kemal era un uomo dotato di arroganza, di insensibilità e di disprezzo per le donne e per l’Islam in quantità colossali, rissoso e gran bevitore. Tutte cose che nel corso dei suoi ultimi anni aumentarono la distanza tra lui ed il suo stesso popolo finché si trovò a vivere isolato e solitario nella ex residenza del sultano, fino a quando non morì di cirrosi epatica nel 1938[xxxv].
Lo stato turco creato da Ataturk negli anni compresi tra il 1920 ed il 1923 si fondava sulla potenza militare e sull’etica militare. In qualche misura ricordava grosso modo il fascismo. Rimase per molti anni una dittatura che impiegava il terrore e la propaganda a proprio piacimento, potendo contare su uno stato monopartitico e sull’esercito per ottenere proseliti coatti.
Dopo aver subito abolito il califfato, in quanto “imbarazzante per il mondo civilizzato”, qualcosa che “sarebbe stato uno zimbello agli occhi di un mondo civile intento a godere delle benedizioni della scienza”[xxxvi] , Kemal utilizzò il potere militarizzato e dittatoriale per eliminare puramente e semplicemente ogni pubblica espressione della cultura islamica. Il vestire, la musica e l’educazione islamici vennero messi fuori legge e sostituiti da modelli occidentali. Venne anche intrapreso un programma di chiusura delle moschee: molte di esse furono sprangate e lasciate in abbandono, mentre altre diventarono magazzini o scuole.
La musica tradizionale venne soppressa e sostituita con una specie di “opera” nuova di zecca. I simboli islamici furono rimossi ovunque fosse possibile rimuoverli. I vestiti tradizionali ed il velo furono proibiti. Perfino il linguaggio scritto venne “modernizzato” utilizzando i caratteri latini e scrivendo all’occidentale, da sinistra a destra, invece che da destra a sinistra nel tradizionale stile arabo.
Il modello occidentale non diventò una fonte di ispirazione, ma un qualcosa da copiare servilmente -ed il risultato fu a volte quello di una parodia dell’Europa- con l’esercito turco insaccato in uniforme russe, armato con fucili belgi e spade inglesi che montava corsieri ungheresi e si esercitava alla francese[xxxvii].  Tutti gli aspetti dell’occidentalizzazione venivano rinforzati con rigore, in tutti gli àmbiti del vivere.
Essere moderni, civili e prosperi significava concepire l’Islam come un insormontabile ostacolo al progresso, e significava fare propri in modo acritico i costumi, le istituzioni e la cultura occidentali. Le espressioni sprezzanti di Kemal nei confronti dell’Islam hanno avuto vita lunga: ancora oggi riecheggiano nei discorsi occidentali, anche se coloro che le utilizzano non conoscono le conseguenze dei propositi per cui nacquero a suo tempo.
Porre fine per decreto al califfato, che esisteva dalla morte del Profeta Muhammad, fu un’azione distruttiva che traumatizzò i musulmani sunniti di tutto il mondo. La fine del califfato fu percepita come qualcosa che rivelava la debolezza dell’islam e come una prova del declino della cultura islamizzata, la fucina di culture, pensiero e storia associata all’Islam.
L’abolizione del califfato ebbe ripercussioni in tutto il mondo. Ci furono disordini ed un’insurrezione in India, e re Fuad d’Egitto e gli Hashemiti cercarono di rivendicarlo, ma  loro sforzi furono vani.
Ad alcuni intellettuali musulmani però la fine del califfato, nonostante fosse un’umiliazione per le aspirazioni politiche e religiose di tipo islamico, aprì l’opportunità di ridefinire e di re incasellare la umma. Per questi pensatori, che si riunirono in una conferenza al Cairo nel 1926, la destabilizzazione dell’Islam, la fine dei legami con le politiche dinastiche e con la  oscura realpolitik dei capi di stato, nonostante potesse costituire un trauma dal punto di vista simbolico, paradossalmente lasciava anche libero l’islam di diventare un nuovo e forte fattore identitario.
Man mano che si sviluppavano idee di questo genere, sci si accorse che la umma poteva essere ripensata come una moderna comunità virtuale dell’epoca di internet, con aspirazioni etiche verso un ordine globale giusto, equo e compassionevole e verso una nuova visione della politica e dei comportamenti personali incentrata sulla comunità. Si presentava l’opportunità di riformulare il concetto di comunità come veniva inteso dai musulmani. Il concetto di comunità, la umma, doveva diventare l’opposto della linea di pensiero che sottostava allo stato-nazione di tipo occidentale. Doveva incarnare la scelta rifiutata dall’Occidente: doveva rappresentare un costrutto identitario aperto che riflettesse le diversità delle comunità da cui era sorta, piuttosto che seguire le rigide definizioni identitarie e la valorizzazione dell’appartenenza etnica associate allo stato-nazione basato sul nazionalismo razziale tipico del pensiero occidentale.
Questa concezione avrebbe sostenuto l’identità strutturata come una rete ed in senso orizzontale di una comunità musulmana potente e transnazionale, in grado di tutelare al meglio le società musulmane ed i musulmani che vivevano in stati-nazione laicizzati di tipo occidentale. Il concetto di rete comunitaria, dotata di poche strutture formali, provvedeva anche a proteggere e garantire meglio i musulmani in un’epoca caratterizzata dalla spoliazione e dal dominio occidentale tanto dalle pressioni esercitate dagli stati-nazione d’Occidente quanto dai loro governanti fantoccio nelle società musulmane. Sarebbe divenuta anche la fonte di legittimazione per una resistenza all’imposizione del pensiero occidentale sempre più determinata. Avrebbe contribuito all’apertura di un dibattito sul futuro dello stato-nazione e sugli obiettivi della politica.


I missionari della modernità e la rinascita del pensiero islamico

Lo storico dell’Islam Karen Armstrong ha riassunto l’essenza della visione del futuro del Profeta Muhammad come la costruzione di una comunità ordinata secondo giustizia, in cui tutti gli appartenenti, anche i più deboli e vulnerabili, vengono trattati con assoluto rispetto. L’esperienza del costruirla e del viverci costituirebbe una conferma di verità conosciute da tutti e conferirebbe ai suoi appartenenti una corrispondenza intima con il divino, dal momento che essi stanno vivendo nel modo in cui Dio ha stabilito che gli esseri umani vivano[xxxviii].
L’essenza dell’Islam è dunque rappresentata dall’impegno (jihad) a vivere nel modo stabilito da Dio. Per i musulmani, la giustizia sociale in politica è la virtù essenziale dell’Islam: gli affari di stato non sono qualcosa che non ha a che vedere con la spiritualità, ma l’essenza stessa della religione. L’esperienza del costruire e del vivere in una comunità autenticamente islamica, l’occuparsi dei suoi problemi (la politica) ed il successo nel realizzare una società giusta costituiscono per i musulmani il percorso che conduce a Dio. I musulmani si  accostano al divino attraverso la quotidiana messa in pratica della giustizia, dell’equità e della compassione, piuttosto che attraverso la fede di un San Paolo. Da ciò deriva il fatto che il benessere della umma, la comunità dei credenti, è una questione della massima importanza[xxxix].
Kemal affrontò armato di mazza questa pietra d’angolo, tentando una deliberata ed articolata distruzione della comunità musulmana, la comunità dei credenti fondata dal Profeta perché fosse essa stessa percorso verso il divino. L’attacco colpiva forse il punto cardine della consapevolezza che il Profeta aveva offerto al mondo.
Non sorprende che i musulmani abbiano preso la cosa come un attacco all’Islam, perché proprio di questo si trattava. Ed è chiaro anche per quale motivo i cristiani occidentali ed i modernisti laici non se ne sono resi conto e non accordano con nessuna ipotesi che asserisca il carattere anti islamico della laicizzazione di Ataturk.
Dai tempi di Cromwell, ma più che mai in particolare durante il XIX secolo, tramite una massiccia operazione di ingegneria sociale gli europei hanno perseguito l’obiettivo di slegare la vita economica dal controllo sociale e politico per liberare le energie dinamiche dell’individualismo, rendendo il singolo individuo responsabile soltanto del proprio benessere, anziché pretendere che esso ne facesse parte anche alla comunità.
Per i cristiani occidentali e per il loro retaggio puritano lottare per i cambiamenti e per le riforme non era, e non è, qualcosa che si oppone all’anelito religioso, ma un modo per dare ad esso la sua massima espressione. Rappresenta la fiduciosa risposta di Abramo al cambiamento, e la chiamata di Dio come la intendono i calvinisti, perché vengano utilizzati i talenti individuali che Dio ha concesso a ciascuno. La prosperità ed i benefici materiali che nascono dall’impresa individuale sono segno della grazia di Dio in cui si trova l’individuo che ha prosperato. E la potenza che tutto questo ha conferito alle società occidentali ha sembrato costituire, nell’ottica del loro retaggio protestante, la prova che i loro sistemi sociali erano stati eletti da Dio affinché fungessero da missionari della modernità nei confronti di tutti gli altri.
Queste argomentazioni sono sopravvissute in Occidente anche dopo che le dottrine su cui si basavano sono cadute in disuso o hanno trovato una loro sintesi nel modernismo laico. L’idea che ciascun cristiano dovrebbe sentire personalmente la chiamata di Dio, come fece Abramo, ha per più di tre secoli esercitato la sua stretta sulla vita occidentale. Questo ha fatto sì che la relazione dei cristiani con il loro dio si individualizzasse in misura sempre maggiore ed ha plasmato un concetto dinamico della religione, a misura dei cambiamenti radicali pretesi dalle politiche economiche basate sul libero mercato.
L’Islam rappresenta qualche cosa di opposto. Il Corano pretende dai credenti una condotta comportamentale precisa: gli esseri umani devono comportarsi gli uni con gli altri secondo giustizia, equità e compassione. Esso ha dunque subordinato appetiti ed istinti umani, così come l’intera attività economica nel suo insieme, a questa pretesa che passa avanti a tutto. La politica diventa quello che i cristiani chiamerebbero un sacramento, ed il suo obiettivo è l’impegno per il perseguimento di questi valori fondamentali.
Gli scambi politici e sociali quotidiani diventano il terreno in cui i musulmani possono aprirsi verso una maggiore comprensione di Dio. Crescere vicini a Dio ed alla realtà è reso possibile dallo sperimentare i suddetti valori fondamentali che agiscono, modificandolo, sul comportamento umano. Questo, a sua volta, schiude la strada ad un più efficace intervento del divino nelle questioni umane.
La visione islamica non è statica, ma intende il progresso soprattutto in senso di benessere comunitario più che di sviluppo individuale compiuto con le proprie forze. Anche il successo e le attività economiche individuali sono qualcosa cui Dio chiama, ma alla chiamata si deve rispondere rimanendo al servizio di tutti, non per isolarsi perseguendo la causa del vantaggio del singolo. La situazione politica della comunità dei credenti, definita in termini di radicamento di questi valori fondamentali, diventa la cartina di tornasole della condizione umana e dell’essere o meno in grazia di Dio.
Si tratta di due visioni contrastanti; Ataturk rinforzò la secolarizzazione e l’abolizione del califfato fu considerata dai musulmani come un attacco all’essenza stessa dell’Islam. La storia della rivoluzione islamica emergente è in gran parte una storia della risposta dell’Islam ad un pensiero occidentale costruito attorno all’individualismo ed alla relazione personale con il divino,  cui si contrappone il focalizzarsi dell’Islam sul fatto che voglie ed appetiti del singolo vanno controllati all’interno di un sistema che assegna la priorità ad una comunità giusta ed equa, mezzo attraverso cui gli individui possono raggiungere l’esperienza divina.
La concezione di Muhammad ed il suo contributo affermano che gli individui si accostano a Dio facendo l’esperienza di valori vissuti a livello comunitario, e non tramite la sola fede.
Quanto successe in Turchia fece da catalizzatore per scatenare ed infondere energia ad una mobilitazione islamica. Una mobilitazione basata su una rinascita del pensiero islamico centrata sull’essere umano, sulla comunità e sul comportamento. Gli islamici credono che l’Islam diventerà la visione del mondo e la grande narrativa del futuro, in opposizione ad una narrativa occidentale  che si sfilaccia nel mondo postmoderno.
Nel prossimo capitolo prenderemo in esame i primi appelli per una resistenza armata islamica e l’ideologia che li accompagnava, e tenteremo di abbozzare delle distinzioni tra le varie correnti che comprendeva.  Il capitolo successivo tratterò di come questa ideologia islamica in evoluzione venne modellata ed estesa ulteriormente per opera della Rivoluzione Iraniana, ed in particolar modo con l’apporto specifico del pensiero sciita. Il capitolo tratterà anche dell’ascesa dell’influenza di quello che ho indicato con il nome di “sciismo politico”. Infine, a chiusura di questa parte del libro, considereremo l’impatto avuto da queste influenze su due movimenti di resistenza, Hezbollah ed Hamas.
Portare come esempi Hezbollah ed Hamas non significa sminuire od ignorare gli altri movimenti islamici; si tratta di due gruppi significativi, uno sunnita e l’altro sciita, con cui si vuole mostrare in che modo alcuni dei temi della resistenza hanno trovato incarnazione pratica in due movimenti che hanno tra loro radici molto diverse.



[i] Citato da Walter Russell Mead, God and Gold: Britain, America and the Making of the Modern World, New York: Alfred Knopf,Random House, 2007, p. 21.
[ii] Ibid.
[iii] Ibid.
[iv] Ibid.
[v] Janet Afary e Kevin Anderson citano Michel Foucault, in Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islam, Chicago: University of Chicago Press, 2007, p. 15.
[vi] Hojatoleslam Dottor Mohammad Sobhani, intervista con l'autore a Qom, Iran, settembre 2007.
[vii] Walter Russell Mead, God and Gold, pp. 243–45.
[viii] Walter Russell Mead, God and Gold, p. 53; citazione da una recensione della History of England di McAulay.
[ix] Ibid., pp. 6–7.
[x] John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, pp. 33 and 117.
[xi] Justin McCarthy, Death and Exile: The Ethnic Cleansing of Ottoman Muslims, 1821–1922, Princeton, NJ: Darwin Press, 1995, p. 164.
[xii] Donald Bloxham, The Great Game of Genocide: Imperialism, Nationalism and the Destruction of the Ottoman Armenians, Oxford: Oxford University Press, 2007, p. 117.
[xiii] Ibid., p. 35.
[xiv] Ibid., p. 36.
[xv] John Gray, False Dawn: The Delusions of Global Capitalism, London: Granta, 2002, p. 18.
[xvi] Ibid., p. 8.
[xvii] Da Caroline Finkel tra gli altri: ‘Myths of Ottoman Decay’ è un saggio incluso in Gerald MacLean (ed.), Re-Orienting the Renaissance: Cultural Exchanges with the East, Basingstoke, UK: Palgrave Macmillan, 2005, p. 155.
[xviii] Donald Bloxham, The Great Game of Genocide, pp. 19–20.
[xix] Ibid., p. 1.
[xx] Ibid., p. 59, citazione da Mark Levene, ‘The Limits of Tolerance: Nationstate Building and What it Means for Minority Groups’, Patterns of Prejudice 34(2): 21.
[xxi] Edward Said, Freud and the Non-European, London: Verso, 2003.
[xxii] Donald Bloxham, The Great Game of Genocide, pp. 110–11.
[xxiii] Edward Said, Freud and the Non-European, p. 43.
[xxiv] Walter Russell Mead, God and Gold, pp. 48–51.
[xxv] Robert Fisk, The Great War for Civilisation: The Conquest of the Middle East, London: HarperCollins, 2005, p. 405.
[xxvi] Donald Bloxham, The Great Game of Genocide, p. 111.
[xxvii] Robert Fisk, The Great War for Civilisation, p. 452.
[xxviii] Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oxford: Oneworld Publications, 2007, p. 12.
[xxix] Ibid., p. 10.
[xxx] Peter Balakian, The Burning Tigris: The Armenian Genocide and America’s Response, New York: HarperCollins, 2003.
[xxxi] John Tirman, ‘Ataturk’s Children’, Boston Review, dicembre 1997 gennaio 1998.
[xxxii] Ibid.
[xxxiii] Ibid.
[xxxiv] Bobby Sayyid, A Fundamental Fear: Eurocentrism and the Emergence of Islamism, London: Zed Books, 1997, p. 59.
[xxxv] Andrew Mango, Ataturk: The Biography of the Founder of Modern Turkey, (I ed.), New York: Overlook Press, 2000.
[xxxvi] Ataturk in un discorso pronunciato nel 1927; citato da Bobby Sayyid, A Fundamental Fear, p. 59.
[xxxvii] C.A. Bayly, The Birth of the Modern World, 1780–1914: Global Connections and Comparisons, Oxford: Blackwell Publishers, 2004, p. 17.
[xxxviii] Karen Armstrong, Islam: A Short History, London: Phoenix Press, 2001, pp. X–XI.
[xxxix] Ibid., p. 6.

Nessun commento:

Posta un commento