martedì 7 ottobre 2008

Contro il calcio


Divergenze d'opinione in materia di ultras e diffide, Firenze, estate 2008

All'inizio di ottobre i giornali pubblicano la notizia di una retata nel napoletano. Fatta la doverosa tara sulla veridicità delle informazioni, cosa inevitabile in considerazione dell'abituale atteggiamento giornalaro che mescola imprecisioni e sciacallaggio, voglia di linciaggi e malafede in un cocktail micidiale e vergognoso, pare che rappresentanti istituzionali e ultras abbiano coordinato le giornate di scontri di piazza che hanno costellato l'"emergenza" rifiuti nel napoletano, nei primi mesi del 2008.
Da più di un secolo un gioco in cui ventidue tizi in mutande in mezzo ad un campo si contendono a pedate un arnese rotondo che non sta mai fermo costituisce argomento o pretesto per un continuum di relazioni sociali compreso tra la discussione amichevole e la guerra tra stati sovrani (è successo davvero, nel 1969). La pervasività dell'argomento è arrivata al punto che, discorrendone, è ammesso ormai che in alcuni contesti prenda la parola chi si riconosce nel minoritario campione di dissidenti per i quali le sei diagnosi sul menisco di Del Piero o la media gol a partita di Paulo Roberto Cotequinho non hanno alcun interesse, ma qui finisce il diritto al contraddittorio. Guai scoperchiare il calderone di bassezze che non appesta soltanto il calcio televisivo, ma che da decenni ha esteso la sua influenza fino all'ultimo dei campetti di periferia. Non soltanto i (moltissimi) soggetti che traggono a tutti i livelli un utile dal settore, ma anche gli spettatori occasionali, i tifosi per sentito dire che i lavoratori dei mass media scelgono con ogni cura quando devono intervistare qualcuno, dicotomizzano tra i cosiddetti "professionisti" oggetto di attenzione mediatica, riconosciuti come discutibili, ed il mondo di quelli che si chiamavano "amatori" (e che oggi non possono più essere definiti in questo modo, visto che i termini "amatore" ed "amatoriale" fanno pensare soltanto alla pornografia casalinga), considerati, come i ragazzini delle "scuole calcio", praticamente intoccabili: degli idealisti integerrimi che quando giocano ci mettono l'anima.
Chi scrive non è di questa opinione e ritiene che il mondo del calcio sia qualcosa da cui non farsi sfiorare neppure per sbaglio. Una realtà stigmatizzante dove la pretesa distinzione di "valori" e comportamenti tra professionisti mediatici e serie minori non esiste affatto.
Nel 1988, a sedici anni, frequentavamo nientemeno che il circolo ACLI di un paese a sud di Firenze; si potrà immaginare che clima cospirativo e che fervore di attività sovversive. Una sera di tarda primavera, verso le nove, dal campo da calcio dietro il circolo arriva un crescendo di strepiti, strilli e fracasso di varia natura. "Ma che succede là fuori?!" "Come, non lo sai? Tutti i giovedì c'è la partita degli amatori; va sempre a finire che rincorron l'arbitro e gli dànno un monte di botte...". In vent'anni non è che la situazione sia migliorata gran che; nelle giornate di ordinaria amministrazione gli spettatori dei campetti dànno di solito fondo, oggi come ieri, ad una panoplia di insulti degna d'un carrettiere dei bei tempi, che dalla mamma alla Madonna vanno a cercare parenti più o meno lontani e figure più o meno note dell'apparato divino cristiano con uguale e pittoresca disinvoltura. Questo, in giornate di ordinaria amministrazione. Nella pratica un niente, in campo e fuori, basta per passare all'azione contro il primo che càpita, arbitro, giocatore o tifoso che sia. Questo molto in sintesi e senza enumerare alcuno tra le centinaia di episodi -alcuni dei quali d'una violenza inaudita- che si verificano tutti gli anni proprio in serie minori e in campionati di ennesima categoria. Postulare un calcio professionistico discutibile ed uno non professionistico sano per definizione e dunque intoccabile vuol dire ammettere che i due settori siano praticamente stagni. Cosa assolutamente insostenibile per più motivi.
In primo luogo, il calcio televisivo ed il calcio chiacchierato forniscono una prima socializzazione alla materia anche a bambini piccolissimi, in un processo sociale in cui i meccanismi di identificazione nei confronti del campione di turno sono soltanto uno degli aspetti più noti, e probabilmente neppure il più importante. Il calcio mediatico rappresenta terreno comune per il sostenimento di atteggiamenti e di conversazione ed in molti casi è perfino materia di primissima importanza per la costruzione dell'identità personale in soggetti che lo praticano anche attivamente, nella scala in cui questo è loro possibile. Va dunque concepito come un fenomeno unico e senza distinzioni che sono in realtà funzionali solo al mantenimento di un'immagine presentabile e che non danneggi le sue quote di mercato. Anche in tempi in cui i gadget della serie A non avevano ancora appestato i luoghi più remoti del mondo (abbiamo visto maglie del Milan nello Yemen ed in Tagikistan) era facile trovare in giro ragazzini di otto-dieci anni capaci, al lunedi mattina, di ripetere in ordine cronologico tutti i goal degli incontri giocati la domenica precedente. Una nostra conoscenza, coetaneo negli anni Ottanta, accompagnava questo tipo di competenze ad un rapporto pressoché esclusivo con il pallone (solitamente un "Super Tele" rosso o blu) isolandosi dall'ambiente circostante e palleggiando per centinaia di volte tutte in fila, per interi pomeriggi. Non finì gran che bene: anni dopo il solito menisco incrementò di una unità il numero di quelli che se non era che mi facevo male al ginocchio a quest'ora giocavo in serie A. Anni dopo ancora, la diagnosi di un disturbo psichiatrico piuttosto serio mise nel suo caso fine anche alla prospettiva di un'esistenza equilibrata. E questo porta ad un'altra conclusione interessante. Il calcio come alimento per l'immaginario e per la quotidianità di soggetti portatori di potenziali disturbi del comportamento, secondo una prassi abitualmente facilitata dal contesto sociale.
Vito Piazza è stato l'ultimo direttore della scuola speciale Treves de Sanctis di Milano e nel 1992 ha scritto per Baldini & Castoldi un volumetto di racconti sulla sua esperienza. Uno dei protagonisti delle storie è un ragazzo di una quindicina d'anni nato nell'estremo sud della Sicilia. Normalissimo nell'aspetto e nei modi, tanto che Piazza si chiedeva perché mai fosse finito in una scuola destinata a persone di ben altra problematicità. I due scambiano qualche parola: dopo la scuola, il ragazzo giocava a pallone. A San Siro. Insieme a Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea... Tutti campioni di quegli anni che ogni pomeriggio, non avendo altro da fare, andavano a giocare con lui. Cos'era successo? Era successo che le persone con cui questo ragazzo si relazionava abitualmente, coetanei ma non soltanto, per anni e anni lo avevano rinforzato nelle sue convinzioni deliranti, per i motivi più vari. Contribuendo, probabilmente con piena consapevolezza, a ridurre ad un drop out un individuo che al contrario avrebbe avuto bisogno di robustissime iniezioni di realtà.
Al di là del caso limite su riportato, il calcio costituisce argomento monolitico di conversazione, e spesso anche di pratica extrascolastica e poi extralavorativa, di strati amplissimi di una popolazione che finisce in mille modi ad alimentare il gigantesco indotto della macchina mediatica che gli sta dietro, e dalla quale -ripetiamo- la partitella al campetto non è affatto altera res.
Un pomeriggio in un campo di allenamento permette di rendersi conto dell'esistenza consolidata di rapporti venali, di accessi nemmen tanto ritualizzati di aggressività e di competitività demenziale secondo schemi ricalcati sull'esempio mediatico fin dalle prime leve calcistiche per i bambini delle elementari. Sugli spalti si affollano genitori che considerano testualmente la pratica del calcio come una "scuola di vita", dove il vocabolo "vita" va inteso in senso "occidentale" di terreno di scontro nel quale sgomitare è lecito, imbrogliare un dovere, fregarsene di tutto il resto un postulato. Sicché vanno giù pesanti con consigli sanguinari e con propositi truculenti, di pari ferocia rispetto a quelli che è dato sentire negli stadi di prima divisione. I processi di socializzazione mediati dal calcio portano alla formazione di gruppi caratterizzati dalla polarizzazione e dalla diluizione della responsabilità individuale, costruendo in campo (in tutti i campi) e sulle tribune (su tutte le tribune) ambienti in cui può accadere -e spesso accade- di tutto.
La pretesa che la pratica diretta del calcio sia esente dagli immondi vizi del calcio mediatico, dunque, non sta in piedi. Anche perché per gli ultimi trenta e più anni il comportamento degli spettatori fuori e dentro gli stadi, con i report dettagliati di fatti di cronaca quasi sempre improntati a comportamenti piuttosto scomposti per non dir di peggio, ha costituito parte integrante del prodotto mediatico calcio, quello che interagisce quotidianamente, nei processi sociali, con la pratica del gioco e con i fenomeni che la accompagnano in campo e fuori.
La situazione ha conosciuto un peggioramento molto recente.
Negli ultimi anni i soldi che contano -quelli del miliardario australiano Rupert Murdoch- si sono comprati in blocco il format del più importante campionato professionistico. Roba che arriva a pagamento e che crea indotto fino alle yurte kirghise, ai paesini del Senegal. La tutela dell'interesse del signor Murdoch passa attraverso un'esigenza molto elementare: lo spettacolo non deve essere disturbato né nella qualità, né nei tempi. Niente fumogeni, niente striscioni capaci di distogliere clienti sensibili alla correttezza politica e via di questo passo. Gli spettatori devono limitarsi ad un lavoro da comparse. Comparse che per giunta pagano anche, e nemmeno poco. Chiaro che il supporter calcistico, da trent'anni abituato a comportarsi come gli pare e legittimato in questo dalla generale acquiescenza (acquiescenza dovuta sostanzialmente al denaro che i tifosi muovono) accolga molto male la fine della situazione che gli ha fornito praticamente tutto il proprio bagaglio culturale, modelli di consumo per primi. I gruppi strutturati e gerarchici che hanno prosperato nella brodaglia sociale delle periferie, nel nulla culturale tanto diffuso quanto caldeggiato e addirittura apertamente promosso dal potere politico e da quello economico, gli individui che da una vita utilizzano le competenze sociali fornite dal calcio per rapportarsi con quanto rimane dell'esistente vedono ridurre drasticamente l'efficacia degli strumenti con cui hanno costruito la propria realtà. Il prodotto mediatico li espelle: dalla sera alla mattina li trova controproducenti e li mette all'angolo senza misericordia. Un comportamento da figlio ingrato.
Contemporaneamente a questo profondo cambiamento, che ha preso a pretesto la morte di Filippo Raciti e si è tradotto nella militarizzazione degli stadi e dei loro dintorni tale che andare a vedere una partita ricorda un po' l'attraversare il confine tra Palestina ed Israele, i gruppi più o meno formali detti "tifoserie organizzate" hanno cominciato a trasferirsi altrove, cercando occasioni meno blindate e trovandole nelle altre serie del campionato, in cui si sono intensificate le occasioni di intervento per la gendarmeria. Occasioni di intervento che ricevono puntuale copertura mediatica, proprio come prima.
La questione non è soltanto sociopsicologica. Ha anche risvolti economici di primaria importanza ai quali si dovrebbe dedicare uno scritto a parte, così come andrebbe fatto per i rapporti tra mondo del calcio in generale e mondo politico. Lo stesso andrebbe fatto con l'intera costellazione di fenomeni paracalcistici e con la loro funzione di convogliatore dell'aggressività verso obiettivi relativamente poco disturbanti per il potere costituito. Qui è solo il caso di affermare che il calcio nella sua interezza rappresenta a tutti i livelli un vero e proprio ostacolo all'ampliamento delle proprie prospettive ed all'arricchimento dei propri interessi culturali e delle proprie esperienze sociali perché intrappola rapidamente sia il praticante che lo spettatore in un contesto in cui la definizione polarizzata dell'identità con l'aggressività decerebrata che ne consegue e la ripetizione ecoica di quanto riportato dalle fonti mediatiche hanno il sopravvento su tutto il resto, imponendo l'adesione a ruoli semplicistici caratterizzati da poche variabili, i cui valori possono essere rappresentati secondo spietate scale di tipo discreto: ad esempio, in ambienti sociali vastissimi non è ammesso che ad un ragazzino il calcio non interessi. Chi confermasse questo disinteresse rischierebbe di trovarsi nella situazione ritratta in Ovosodo (1997) dove il protagonista Piero Mansani ricorda: "Vivevo in un ambiente che non ammetteva sfumature: un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio...!". Il calcio va inteso dunque come una possente forza che livella verso il basso grazie alla doppia presenza e alla doppia pressione di fonti mediatiche e di gruppi sociali, come agenzia di formazione di schiavi integrati, di consumatori invece che di individui, di gruppi omogenei spinti alla sostanziale condivisione di meri comportamenti di consumo.

9 commenti:

  1. Non c'è dubbio che molte delle cose che hai scritto sono vere; però ti inviterei anche a non cadere nell'eccessivo integralismo anticalcistico, che presenta lati ugualmente negativi. Ti sta parlando, come sai, un appassionato di calcio ed anche un tifoso di una data squadra, il quale certe cose ha cercato sempre di non perderle di vista seppur mantenendo, coscientemente, fieramente e ostentatamente la propria passione. Ovviamente questo mio breve intervento non vuole essere nessuna sorta di "difesa" del calcio e dei suoi protagonisti; lungi da me, ad esempio, appassionarmi agli outings fascisti di Abbiati, Buffon e compagnia brutta. Però gli eventi sociali che si svolgono nel e attorno al mondo del calcio, in tutto il mondo, non meritano certo di essere liquidati, ma analizzati e compresi. Senza andare troppo lontano, ti faccio un esempio vicino a entrambi: se al CPA durante le cene e in altre occasioni vi sono masse di giovanotti che inneggiano alla Fiorentina e riempiono la saletta "ante-cinema" per vedere -al CPA!- le partite in diretta trasmesse dalla Sky di Murdoch, come intendi comportarti e giudicare? E' un centro "popolare", il CPA, o dovrebbe essere un centro snobistico autogestito? Andando un po' oltre, cosa ne pensi della repressione poliziesca e istituzionale effettuata nei confronti degli Ultras delle varie squadre, bollati, stigmatizzati, messi ai margini e incarcerati in massa? Questo a prescindere dalle colorature "politiche" delle varie curve; ma tutto questo esprime comunque cose che vanno ben al di là del semplice "gioco del calcio". Sei naturalmente più che libero, come del resto fanno centinaia di migliaia di persone anche in questo paese "pallonaro", di non amare il calcio e anche di disprezzarlo; non sei a mio parere libero di demonizzarlo. Ti inviterei a tale parere non solo a leggerti con attenzione gli scritti di Osvaldo Soriano, ma anche, che so io, un dimenticato libro di Renato Curcio intitolato "WKHY" (edizioni Sensibili alle Foglie). Nessuno ti chiederà mai di appassionarti alle vicende dei 22 giovanotti in campo dietro a una palla, ma di non fermarti ai tuoi odi, questo sì, te lo chiederei volentieri. Ed è una cosa che non riguarda solo il calcio. A mio parere, fossilizzarsi nei propri odi e farne, per modo di dire, "bandiera", non è mai bene. Saluti carissimi!

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  2. "E' un centro "popolare", il CPA, o dovrebbe essere un centro snobistico autogestito? "


    Fàacciano pure: i pensieri qui espressi non sono mai stati un mistero anche se il loro integralismo di fondo, mai nascosto, è mitigato da certe pensatine innocentissime, come quella di recare in via Villamagna un bandierone rumeno di quattro metri per tre in occasione degli ultimi europei...
    Siamo seri: in ogni sede e ovunque avvenga, lo spettacolo di ultratrentenni dalla vita produttiva e senza problemi cognitivi noti che berciano ad un teleschermo come se arbitri e allenatori potessero sentirli è semplicemente pazzesco!


    "Cosa ne pensi della repressione poliziesca e istituzionale effettuata nei confronti degli Ultras delle varie squadre, bollati, stigmatizzati, messi ai margini e incarcerati in massa?"


    Questa repressione si è messa in moto alla grande, guarda caso, in contemporanea dell'arrivo dei quattrinoni murdochiani. Un fatto che nelle molte analisi disponibili su i'ppallone pare sia sfuggito a molti. Un esempio? Sempre il solito: risale a due anni fa la faccenda della volante della gendarmeria incendiata allo stadio di Firenze. Silenzio assoluto sulla vicenda in tutte le sedi istituzionali. Se, nello stesso periodo, si osava uscir di casa armati di spray a scrivere "Morte all'AmeriKKKa" su qualche muro, in capo a sette od otto minuti s'era nelle confortevoli stanze di via Zara. E attenzione alle finestre.

    La "politica in curva" è argomento appositamente evitato, nel post, perché richiederebbe un paio di mega in formato testo solo per un'indagine a volo d'uccello anche a voler fare le cose in modo raffazzonato.

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  3. Ma questo, sia pure in senso discretamente lato, è un blog politico, e ovviamente certe tematiche, sia pur molto complesse, non possono essere evitate, o comunque evitate a lungo.

    Il tuo "integralismo di fondo", come lo definisci, lo conosco: ma, mi dispiace, non trovo assolutamente lo spettacolo di ventenni, ultraquarantenni o ottantacinquenni che urlano davanti a un teleschermo più pazzesco, o ridicolo. Altrimenti dovrei trovare ridicoli o pazzeschi anche quegli immigrati africani che in un bar di Livorno, il 1° giugno del 2002 mentre traslocavo, facevano la stessa identica cosa davanti ai goal del Senegal che massacrava la Francia allora campione del mondo. Certo, mi potresti dire, loro sono immigrati, anche una partita di calcio può essere occasione di riscatto per non dire di vendetta eccetera eccetera; ma allora qui si cade davvero nel razzismo alla rovescia. Berciare e sgolarsi è permesso e comprensibile per gli immigrati, mentre è vietato e ridicolo per i trentenni o quarantenni "occidentali"?

    No, mi dispiace, qui non ci sto. O le cose sono ridicole e cretine in tutte le occasioni, anche mettere il bandierone rumeno al CPA per gli Europei, oppure non lo sono mai ed è opportuno, pur mantenendo anche il proprio dislike nei confronti del calcio, porsi sotto una diversa angolazione, e magare cercare di capire gli altri, senza assolutismi, integralismi o ogni altra sorta di "ismi".

    Anche tu sai come la penso io: gli integralismi mi fanno ribrezzo. Si può amare l'Iran, la sua cultura e la sua gente senza dover amare quella faccia di merda di Khomeini e i barbogi di quella sua religione di merda come le altre; scusami se colgo l'occasione per parlarti fuori dai denti; così come si può parlare in termini (anche molto) critici della società occidentale senza demonizzarne programmaticamente gli aspetti e senza ricorrere, ad esempio, a enunciati di un fascista come De Benoist. Meglio avresti fatto a metterci qualche pensiero di Sbancor, a mio parere.

    Tornando al calcio, può darsi anche che la repressione poliziesca si sia messa in moto assieme ai soldi di Murdoch, ma ci sono anche altri aspetti. Lo sai chi era l'idolo riconosciuto dei ragazzi delle banlieues parigine e di altre città francesi in rivolta contro la polizia di Sarkozy, la famosa "racaille" o racaglia come la chiami tu a volte? Era Zinedine Zidane, cabilo, autore della testatona a Materazzi eccetera eccetera. Un calciatore. Alla recentissima rivolta a Palermo (molto ma molto simile a quella francese, anche per la "molla" dei ragazzi morti mentre erano inseguiti dalla polizia) si sono viste sui muri le stesse scritte che si vedevano quando sono successi i fatti di Raciti e Gabbo Sandri; logico pensare che i protagonisti di quella rivolta siano -almeno in parte- gli stessi che formano gli ultras del Palermo. E via discorrendo. Un'altra lettura che ti consiglio caldamente e urgentemente è "Il derby del bambino morto", edizioni Derive/Approdi. Bisognerà, amico mio, che ti pigli un po' per mano e ti conduca negli inferi del calcio, che personalmente trovo infinitamente più interessanti di quel cazzo di Kirghizistan! :-PPP

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  4. "non trovo assolutamente lo spettacolo di ventenni, ultraquarantenni o ottantacinquenni che urlano davanti a un teleschermo più pazzesco, o ridicolo."

    Ah no? Eppure basta neppure fare, ma solo immaginare, una cosa semplicissima.
    Immaginare una telecamera che riprende la scena. Ed immaginare di rivedersi il filmato. Magari togliendo l'audio. La scena vira dal pazzesco allo spaventoso puro e semplice.


    "Berciare e sgolarsi è permesso e comprensibile per gli immigrati, mentre è vietato e ridicolo per i trentenni o quarantenni "occidentali"?"

    I vocaboli "vietato" o "permesso" fanno pensare ad un'ottica "giuridica" sul problema che non appartiene al post in questione! L'ideale sarebbe comunque che nessuno, né "occidentale" né "immigrato" fosse costretto a trovare soddisfazione in così poco. Nel caso delle squadre di prima divisione, viene meno ormai -e da decenni- perfino la questione del campanilismo: è normalissimo che un club di prima divisione non abbia in rosa neppure un calciatore originario -o domiciliato, in casi sempre più frequenti- nella città cui fa capo la ragione sociale del club.


    "No, mi dispiace, qui non ci sto. O le cose sono ridicole e cretine in tutte le occasioni, anche mettere il bandierone rumeno al CPA per gli Europei, oppure non lo sono mai"

    "Portato", non "messo". Esiste invece una quantità di cose che sono ridicole e cretine o serie e intelligenti a seconda delle circostanze. Eccome, se ci sono!


    "Si può amare l'Iran, la sua cultura e la sua gente senza dover amare quella faccia di merda di Khomeini e i barbogi di quella sua religione di merda"

    Considerazione senz'altro interessante, se non fosse per il fatto che in questa sede il vocabolo "Iran" non è (ancora) stato usato! C'è una discreta differenza anche tra "conoscere" -anzi, "tentare di sapere su qualcosa il minimo per potersi difendere dai cialtroni dei mass media"- e "amare".


    "senza ricorrere, ad esempio, a enunciati di un fascista come De Benoist. Meglio avresti fatto a metterci qualche pensiero di Sbancor, a mio parere."

    Nessuna conoscenza di Sbancor, per il quale si imporrebbe un vilissimo ricorso a Wikipedia. Col risultato di contrariare, magari, qualcun altro che ha tutti i diritti ad avere delle riserve su quest'altro signore.


    "Lo sai chi era l'idolo riconosciuto dei ragazzi delle banlieues parigine e di altre città francesi in rivolta contro la polizia di Sarkozy, la famosa "racaille" o racaglia come la chiami tu a volte? Era Zinedine Zidane..."

    In questo modo pare che Io Non Sto Con Oriana disprezzi coram populo gli abitanti delle banlieues, cosa che non corrisponde al vero.
    Zidane è stato sulle bandiere di una costellazione di rivolte urbane incapaci di produrre alcunché al di là dell'esplosione di rabbia, giustificata finché si vuole. Il che porterebbe acqua alle tesi dei detrattori integrali del calcio; e questo introduce nuovamente la questione, volutamente evitata in quanto complessa e non liquidabile a livello (e a tempi) di blog, dei rapporti tra politica e fenomeni sociali correlati al calcio.


    "Bisognerà, amico mio, che ti pigli un po' per mano e ti conduca negli inferi del calcio, che personalmente trovo infinitamente più interessanti di quel cazzo di Kirghizistan! :-PPP"

    L'espressione "inferi del calcio", azzeccatissima, è perfetta definizione della realtà favorita dai processi di socializzazione messi in moto dal calcio stesso. Proprio di inferi si tratta!
    Come specificato nel post, le realtà apparentemente remote del mondo non sono affatto immuni dal fenomeno; tutt'altro.


    La bibliografia di cui si dispone, NON consultata per questo post, comprende tra le altre cose i volumi di Carlo Petrini ("Nel fango del dio pallone", "Il calciatore suicidato" e le recenti raccolte di aneddoti sulle alte virtù morali degl'idoli delle folle) un "Manuale del giuoco del Calcio" edito nel 1935 da Bemporad, rivelatore nelle pagine in cui, nero su bianco, sottolinea la fondamentale importanza del denaro per la costituzione di una squadra competitiva.

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  5. Scrissi qualcosa di analogo, una volta... http://kelebek.splinder.com/post/10839226

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  6. Erat in manibus anche quello scritto, Miguel; la differenza principale, nelle conclusioni, sta nel fatto che è legittimo supporre che anche "giocare a pallone senza Murdoch" sia diventato praticamente utopistico, per i motivi che si è su cercato di evidenziare, sia pure in minima parte.

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  7. Permettimi di segnalarti, per quanto poco possano valere, le mie più sfrenate congratulazioni. Non solo per il contenuto, eccellente, ma soprattutto per la forma. Certo, qualche virgola in più non avrebbe guastato, ma l'assenza - se si eccettua, ironia della malasorte, l'« inividui» finale - di refusi è sbalorditiva.
    Per quanto ne so, solo Miguel riesce a fare altrettanto.

    A proposito di Miguel, e del suo post citato sopra, una profonda ed amara osservazione mi sembra la seguente.
    Per vedere questi giovani maschi, bisogna pagare uno spietato magnate australiano, proprietario di 175 quotidiani nel mondo, ognuno dei quali ha sostenuto pubblicamente la guerra in Iraq. Lo so che non c'entra, ma c'entra.
    Ti confesso di non aver mai collegato, sebbene il farlo sia ovvio, il calcio all'Anticristo. Se intendiamo quest'ultimo come sinonimo di - a scelta oppure in blocco - globalizzazione, imperialismo, degenerazione, evoluzionismo, satanizzazione (= anti-islamismo oggi e anti-cristianesimo ieri), insomma rincoglionimento sia del singolo che della collettività, la frase sottostante pecca d'eccessiva modestia.
    La "politica in curva" è argomento appositamente evitato, nel post, perché richiederebbe un paio di mega in formato testo solo per un'indagine a volo d'uccello anche a voler fare le cose in modo raffazzonato
    Voglio dire che è politica anche la definizione "bei tempi", in una panoplia di insulti degna d'un carrettiere dei bei tempi, che dalla mamma alla Madonna vanno a cercare parenti più o meno lontani e figure più o meno note dell'apparato divino cristiano con uguale e pittoresca disinvoltura. Erano davvero bei tempi.

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  8. Per INSCO... No, infatti, la differenza è importante.

    Più che altro, è che io non ho avuto una formazione calcistica infantile, per cui non mi permetto di giudicare ciò che non conosco: a pelle, non condivido nemmeno lo spirito calcistico amatoriale.

    Però tendenzialmente io ho sempre fatto da osservatore distaccato (e lievemente ironico) nelle situazioni collettive; e quindi non posso nemmeno condannare ciò che sono incapace di apprezzare.

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  9. ...Allora; intanto gli inividui son tornati individui, com'è giusto che sia!



    Secondariamente, la materia-calcio è interessante perché proprio la sua pervasività e il suo tendere ad infilarsi in ogni tipo di discorso la rende difficilmente evitabile, almeno in Toscana. Le annotazioni -parzialissime ed incomplete- qui riportate derivano essenzialmente da esperienza personale in contesti sociali infantili prima, adolescenziali e adulti poi. In cui s'è avuto spesso modo di constatare come esso calcio (un altro argomento altrettanto in voga, ma in tono un po' minore, è l'automobilismo di Formula Uno) abbia rappresentato humus per comportamenti e storie di vita come quelle cui si è fatto cenno.

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