venerdì 31 ottobre 2008

Scontri a piazza Navona: colpa della sinistra


Uno schieramento trozkista in piazza Navona, ottobre 2008

La compagine che "governa" nello stato che occupa la penisola italiana non lo ammetterebbe neppure sotto tortura, ma le sue fortune politiche dipendono pressoché per intero da un utilizzo massiccio e spudorato della propaganda, di cui onestà e correttezza sono le prime vittime. Un sacrificio sopportabilissimo, per gente che non sa neppure cosa siano.
Dopo una manifestazione di piazza contro la riforma della scuola vivacizzata dagli scontri innescati da un sedicente "blocco studentesco" presentatosi con furgone, amplificatori e un buon numero di mazze usate poi con molta generosità, il governo dello stato che occupa la penisola italiana ha riferito nelle sedi opportune per bocca di tale Nitto Palma. Palma ha ovviamente cambiato le carte in tavola addossando la responsabilità alla successiva reazione dei militanti di sinistra giunti sul posto, ed avrà buon gioco perché la copertura mediatica di cui godono certe versioni dei fatti è totale ed indiscussa.
Per qualche strano motivo l'uso di vere e proprie spranghe, all'apparenza prodotte praticamente in serie, e di caschi e visi coperti da parte di individui che si riconoscono nel "blocco" è passato pressoché incontestato, come incontestate sono passate per trent'anni intemperanze anche più estese e pianificate messe regolarmente in atto dal variegato mondo del pallonismo da cui il "centrodestra" trae suffragi utilissimi; nelle manifestazioni di segno opposto, solitamente, si trovano dozzine di cameramen debitamente istruiti affinché il rogo di una bandiera o quello di un fantoccio vengano percepiti dai sudditi come più infamanti, e come maggiormente biasimevoli, di intere guerre di aggressione. Figuriamoci se salta fuori anche solo un manico di scopa che cosa non succede.
Il modus operandi della propaganda è talmente usuale che a stigmatizzarlo si rischia per lo più di passare da inesperti, dunque chiudiamo qui.



martedì 28 ottobre 2008

Enrico Bosi e l'antirazzismo col Bignami


Il 27 ottobre 2008 si è tenuto in Consiglio comunale a Firenze un dibattito sul razzismo, proposto da Ugo Caffaz.
L'intervento del forzaiolo Enrico Bosi, secondo il quale i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana non sono razzisti ma "vogliono unicamente severità con gli stranieri che delinquono" è interessante perché intriso di incompetenza dalla prima all'ultima parola.
Cominciamo col notare che tutto l'intervento è incentrato su citazioni da Marzio Barbagli, "sociologo di sinistra con cattedra universitaria a Bologna". Un esponente del principale partito di governo è costretto a far proprio un lavoro prodotto dalla concorrenza. Il perché è presto detto: i think tank di riferimento, in cui scarseggiano gli accademici ed abbondano i denigratori, offrono da anni soltanto pezze d'appoggio a chi si è adoperato per i fini opposti, ossia per instaurare e mantenere nella penisola il clima che ben conosciamo. Dall'islamofobia al bellicismo più ebete, dall'appoggio all'operato di incoscienti pericolosi come Saakashvili alla denigrazione sistematica di popolazioni intere, non c'è stata direttiva del qualunquismo più basso e dell'americanismo più servile che il "centrodestra" non abbia entusiasticamente fatto propria, scodellandola ai sudditi tramite i "liberi" mass media più facilmente fruibili nella penisola. Adesso però, dopo anni trascorsi a tirar bordate impunite, c'è da nascondere le manine e da non fare la figura degli incolti, specie con le elezioni in AmeriKKKa che non promettono gran che di buono per i generalissimi da poltrona, sicché serviva qualcuno che ne sapesse effettivamente qualche cosa e che possibilmente non facesse proprio passare da mentecatti.
A sentire Enrico Bosi, Marzio Barbagli è capitato al momento giusto, con le sue "frequentazioni delle forze di polizia"; di tutto il lavoro del sociologo sono il primo aspetto citato, nonché l'unico, a testimonianza del fatto che oltre a derubricare a potenziale delinquente chi non combacia col profilo del suddito/consumatore medio (mogliaccàsa figliascuòla e il resto tuttolavoro, pallone, debiti, pornografia) gli "occidentalisti" proprio non ci vanno. "Chi sgarra va punito ed espulso immediatamente", si sgola Enrico. Si noti l'uso di un vocabolo preso pari pari dal più deteriore gergo malavitoso... da parte di un idolatra della "legge"; un momento di distrazione?
"Il professore Barbagli ha anche evidenziato nel proprio studio un aspetto della criminalità degli immigrati non adeguatamente pubblicizzato", continua Enrico Bosi, "E cioè che per alcune categorie di reati (stupro, rapina, omicidio, furto) le vittime sono più spesso altri stranieri". Non c'è aspetto deteriore della natura umana che gli "occidentalisti" non abbiano "adeguatamente pubblicizzato" nella loro campagna elettorale permanente; possibile che questo gli sia sfuggito? E' probabile che la questione non sia stata ritenuta prioritaria perché un reato è un reato solo quando commesso ai danni del suddito/consumatore medio su descritto. Se "si scannano tra loro" non ci vanno elettori di mezzo e si può anche lasciar correre: basta che non lascino chiazze di sangue sui muri dei quartieri bene.
Poco più sotto Enrico Bosi sottolinea il fatto che le preoccupazioni dei sudditi deriverebbero dal timore di subire "forme, anche poco palesi, di ingiustizia generate dall'azione di aiuto e di assistenza rivolta, spesso in modo preferenziale, agli stranieri". I sudditi sono incitati all'odio da mass media totalmente privi del senso di responsabilità sociale, pronti a lanciare, riprendere dal contesto reale e amplificare ulteriormente scellerate invidie da delirio persecutorio: a sentire certi sudditi ripetere impuniti le ciarle della propaganda, si dovrebbe invidiare la vita dei campi nomadi "dove tutto è gratis". Chissà in quanti, tra coloro che si riconoscono in certe affermazioni, hanno mai avuto a che fare con qualcuno che nei campi vive; come ai tempi del Terzo Reich, quando la propaganda riuscì a far diventare antisemite intere fasce di popolazione che non avevano mai avuto a che fare con un ebreo in vita loro. A bugie televisive di questo tipo l'"occidentalismo" deve quasi per intero le proprie fortune elettorali.
"...Per non parlare poi di quanti, apparentemente integrati nella nostra società o almeno da essa accolti si sentono padroni e pensano di essere in diritto di offendere le nostre tradizioni ed il nostro vivere civile". Qui il discorso si fa ancora più interessante. Chissà a quale "vivere civile" si riferisce Enrico Bosi: alle iene degli stadi o a quelle dei giornali? Alle sexy disco del Valdarno o ai bordelli di Montecatini? E le tradizioni quali sarebbero? La furibonda e ritualizzata guerra per bande chiamata calcio storico fiorentino? Il cattolicesimo alla don Cantini? E l'"integrazione" come la intendono gli "occidentalisti" che cos'è se non l'abdicare in blocco alla propria cultura per andare a ingrossare le fila rassicuranti degli isolati, degli indebitati, dei ricattabili da tutti i punti di vista?
Enrico Bosi ha la bontà di non negare -almeno per una volta- l'evidenza, affermando l'utilità dell'immigrazione. Siamo d'accordo: a sentire quelli come lui proprio "utile e basta" dovrebbe essere: ai manovali a nero questo si chiede, questo facciano, e non si azzardino a permettersi debolezze umane. Ovviamente il "costo della criminalità" non è né alto né insopportabile; perfino nei comunicati della Prefettura si trovano asserzioni e dati più realistici di quelli sciorinati dai politicanti. Notevole il richiamo esplicito di Enrico Bosi all'"utilità" degli stranieri per chi cerca "sesso a buon mercato"; chissà che non si riferisca a realtà che conosce bene.
Bosi conclude evidenziando come a Bologna sia straniero il 70% dei denunciati per spaccio. Il che significa in particolare due cose. La prima è che è straniero non il 70% degli spacciatori, ma il 70% di coloro che si fanno beccare.
In secondo luogo, la domanda di stupefacenti è in crescita esponenziale, e la cosa non stupisce perché da anni molte sostanze hanno i loro estimatori anche nelle più alte sfere della politicanza "occidentalista" (strepitoso e comicissimo fu, a suo tempo, il caso di Nicola Caldarone, dissoltosi nell'aria dopo un imbarazzante momento di notorietà). E alla domanda risponde una commisurata offerta, secondo gli schemi di base di quelle "leggi di mercato" che un "occidentalista" dovrebbe considerare intoccabili.
Interessante è anche la conclusione, in cui Bosi accenna ad un problema delle "seconde generazioni". Nella sua ottica l'estraneità ti bolla geneticamente: si resta dunque rumeni, albanesi o marocchini anche quando si nasce e si vive per decenni a un tiro di schioppo da piazza Signoria. La questione, a sentir lui, sarà "un problema" (di ordine pubblico, ovviamente: abbiamo già scritto che più in là certa gente non ci arriva) tra dieci anni e lo stato che occupa la penisola italiana, incluso senza verifica nel nòvero dei "paesi civili", dovrebbe "prepararsi in tempo"...


sabato 25 ottobre 2008

Codreanu è sempre qui, a Firenze a Casaggì!




L'ambiente giovanile del costruendo piddì con la elle conta a Firenze un microscopico e ininfluente gruppetto di gggiovani provenienti da Forza Italia e una più agguerrita e numerosa compagine che arriva da via Maruffi, sede cittadina di Alleanza Nazionale e di un sedicente "centro sociale di destra" che collabora alle iniziative del partito. Iniziative costituite invariabilmente dal planare in città di qualche papaverone senatorio o governativo, che viene a raccontare alla propria base come e qualmente la luna sia fatta di formaggio. Non senza qualche inciampo perché non troppi anni fa in uno degli alberghi-saleconvegni affittati da Alleanza Nazionale allo scopo suddetto senatori, capoccia e quant'altri vennero a diverbio coram populo, dando luogo ad una rissa vergognosa che ebbe anche strascichi in tribunale. Questo, perché un eventuale lettore che avesse la bruttissima abitudine di fidarsi della propaganda politica servita dai telegiornali abbia ben chiaro di che razza di individui stiamo scrivendo.
Altra cosa, ogni planata di questo tipo è accompagnata da un impiastramento di manifesti bianchi e blu appiccicati su tutte le superfici verticali raggiungibili e accompagnati da scritte a spray; il "degrado" e il "decoro urbano" sono praticamente l'unico argomento, insieme a goliardate tipo il calcio storico fiorentino, su cui i nemmen più fascisti del consiglio comunale monopolizzino il tempo a loro disposizione nelle sedi istituzionali; se ne apprezzi dunque, una volta di più, la coerenza.
Ovvio che la base quella vera il "centrodestra" se la coltiva da anni a tutte le ore del giorno, con ben più pervasivi ed efficaci sistemi; ma andiamo avanti.
Alla fine d'ottobre 2008 si tiene in città l'ennesima comparsata di politicanti centrodestrorsi, con relativa mobilitazione dei peones di via Maruffi. L'immagine che mostriamo viene dal blog della Casaggì di cui sopra, sul quale si pubblicizza l'avvenimento.
"Codrenu" è Corneliu Zelea Codreanu. Si noti: i neanche più fascisti di Firenze stimano un rumeno imbevuto di antisemitismo miseramente perito in galera su verosimile ordine di Carol II, che era a sua volta un personaggino alla Pahlevi dotato dello spessore umano e politico degni del medio calibro d'una qualunque cosca che si rispetti. Altro bell'esempio di coerenza per i commensali di un partito che ha costruito la propria fortuna elettorale recente su una vera e propria campagna di demonizzazione del popolo rumeno nella sua interezza.
A Firenze agisce allegra allegra una conventicola di incoscienti che, pur di raccattare qualche voto e di trovar qualcuno che faccia un po' di casino per conto terzi, addita a gente nata in Toscana alla fine del XX secolo un personaggio vissuto in Romania quasi un secolo prima. Di quale personaggio si trattasse, il contesto in cui agì, i risultati cui pervennero lui e la sua organizzazione politica lo spiegano lavori come il saggio di Zeev Barbu pubblicato da Ponte alle Grazie nel 1996, all'interno del volume I Fascisti.
La Romania dei primi anni del 1900 era fatta da un 80% abbondante di contadini peggio che sfruttati e da una élite terriera assenteista; la scarsissima classe media era costituita da piccoli gruppi professionali e commerciali giunti spesso dall'estero, complice il fatto che la Romania come nazione, nella quale l'elemento fondante ed unitario era dato dalla lingua, esisteva da pochi anni, e ricopriva un territorio fino a poco prima diviso fra tre imperi.
L'impatto dell'era dei nazionalismi e della modernità produsse una classe intellettuale ridotta, e spesso formatasi all'estero, che si dette praticamente per intero all'edificazione dei miti fondanti della nazione rumena contrastando in questo modo il rischio di una propria definitiva emarginazione dalla vita sociale. La vita contadina e la religione fornirono le basi per produzioni letterarie che esaltavano l'onestà e la purezza primigenia dei rumeni, avviandosi sulla strada delle "tradizioni inventate" messa bene in luce da Hobsbawm.
In questo contesto, la Romania uscì dalla prima guerra mondiale con un territorio più che raddoppiato, che comprendeva genti dai modi di vita differenziati e che pose un problema di governabilità cui si tentò di rispondere modernizzando sulla carta il sistema politico e introducendo il suffragio maschile. Il panorama politico mostrava un "centro" quasi vuoto, partiti populisti di destra, un piccolo partito socialdemocratico e un piccolo partito comunista. La popolazione in generale mancava di qualunque preparazione politica e i partiti in genere non avevano né una base sociale vera e propria né un elettorato stabile; spesso si coagulavano attorno a qualche personaggio noto e ne seguivano le sorti.
Corneliu Zelea Codreanu approfittò del terrore del comunismo diffuso in Moldavia e dell'antisemitismo alimentato dalle produzioni degli intellettuali nazionalisti per fondare insieme al mortifero visionario Ion Mota, nel 1920. la Garda de Fier. La Garda nacque come movimento universitario di assoluta minoranza; i suoi aderenti erano imbevuti di antisemitismo, imposto abitualmente con la forza. Nel 1923 Codreanu cominciò a entrare e uscire di galera a causa del largo uso della violenza politica. Affermò di aver avuto in carcere una visione dell'arcangelo Michele e ad introdurre rituali mistici per la coesione della Garda.
La Legione dell'Arcangelo Michele fu fondata nel 1927; la frase di "Codrenu" citata dall'anonimo casaggìno fu pronunciata all'atto della fondazione; la Legione non aveva infatti programmi, aderirvi richiedeva un determinato stato mentale improntato a "Fede in Dio", "Fede nella missione", "Amore reciproco" e "Amore per le canzoni". Un monumento di concretezza e di pragmatismo, come si vede, adattabilissimo alla Firenze del XXI secolo.
Organizzata in modo cospirativo, la Legione aveva la sua unità fondamentale nel cuib, il "nido", ripreso pari pari anche nella terminologia dall'attuale estrema destra peninsulare; il nome fu scelto per richiamare il bisogno -ma guarda un po' che originali- di sicurezza tipico degli adolescenti. La formazione politica si compendiava di storia, martirologio della Garda e dedizione assoluta a Codreanu. I capi emergevano per la loro dedizione assoluta al fondatore e per le loro doti di leadership, e costituivano una cupola governata da regole mistiche e militari al tempo stesso.
La Legione inculcava nei suoi appartenenti il senso di sacrificio e quello di dedizione spinti all'estremo, in un contesto sociale e politico in cui il ricorso alla violenza era abituale e privo di ogni inibizione. Il legionario "uccideva per essere ucciso" perché l'ideologia della Legione considerava la morte come un matrimonio mistico con la Natura, nella prospettiva della resurrezione cristiana. Tra il 1924 ed il 1937 i legionari assassinarono undici esponenti politici importanti, facendosi ammazzare in più di cinquecento. Nel 1936 un certo Stelesco, che aveva abbandonato la Legione, fu raggiunto nell'ospedale dove era ricoverato da quattro legionari che gli spararono centoventi volte prima di farne a pezzi il corpo e di baciarsi l'un l'altro ballandogli intorno.
Ad Azione Giovani si stima un personaggio che capeggiava orde di ragazzini addestrati e indottrinati per uccidere e -soprattutto- per farsi uccidere e che concepivano la cosa nell'inquadramento mistico che abbiamo accennato. Le tiritere antinegro, antirumeno, antizingaro, antitutto su cui Alleanza Nazionale contende l'esclusiva alla Lega non si preoccupano neppure troppo di nascondere un fatto di questo genere.
Nel 1937 i legionari erano circa duecentomila, la maggioranza dei quali tra i quattordici e i vent'anni. Nel 1938 Codreanu fece la finaccia che sappiamo, con tanti ringraziamenti da parte del re. Il suo posto fu preso da Horia Sima fino a quando, nel 1941, il generale Antonescu sradicò la Legione massacrandone i capi. Attualmente la costituzione rumena vieta la ricostituzione della Legione, considerata movimento fascista.
Nella Toscana del 2008 esistono individui sicuramente non quindicenni che additano agli adolescenti modelli come questo: violenza politica indiscriminata e soprattutto fine a se stessa, dinamiche settarie, antisemitismo d'accatto. Il tutto, espressione di un movimento politico già fuori dal mondo nell'epoca in cui nacque, servito in via Maruffi insieme col gin tonic.




giovedì 23 ottobre 2008

La scuola delle tre "I": arrivano i primi risultati


Avendo fatto tesoro delle lezioni di propaganda tipiche dei regimi totalitari e possedendo in proprio la malafede ciarliera da piazzista di aspirapolvere del midwest statunitense, l'"occidentalismo" politicante si avvale a meraviglia dei mezzi di comunicazione di massa, di cui sa sfruttare come pochi tutti i pregi e tutti i difetti.
Da qualche anno però esistono nuovi media, come quello su cui compare questo scritto, che permettono a chiunque abbia un po' di tempo e di senso critico di portare agevolmente alla luce gli spaventosi limiti della politicanza suddetta.
Silvio Berlusconi inonda la penisola italiana di propaganda da almeno quindici anni. Una propaganda sempre rinnovata, dagli slogan semplici, improntati all'efficientismo di tipo aziendale e diretti a stimolare le istanze più deteriori dei sudditi; di solito attinge a qualche evento proposto dall'incessante flusso mediatico, usando più spesso toni denigratori nei confronti della (presunta) concorrenza che non illustrando i (presunti) successi del committente. Esempio pratico: i prodromi della crisi mondiale e la gestione poco meno che bambinesca dell'ingresso nell'euro operata dal "centrodestra" si sono tradotti un un verticalissimo aumento dei prezzi al consumo, secondo un fenomeno sul quale uno stato contemporaneo ha poco o punto controllo. Questo non ha impedito ai pubblicitari di Berlusconi di attribuirne per intero il demerito, qualche anno fa, a Romano Prodi in persona e solo a lui. Un poster con tre o quattro articoli di largo consumo di cui si evidenziavano gli aumenti di prezzo in percentuale presentava in un brutto font maiuscolo lo slogan Finite le ferie, Prodi presenta il conto.
Gli eletti -e ancor di più i candidati- "occidentalisti" sono un campionario agghiacciante di guitti, sciacquette, maneggioni, casi umani, ignorantelli, pregiudicati, minus habentes, irresponsabili e zerbini dominato da individui la cui unica guida sono l'interesse privato e l'impunità. Come mai i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana si sentono rappresentati da elementi del genere?
Il successo della compagine non può certo basarsi sulle competenze effettive degli eletti, che sono se mai roba da occultare in silenzio; quindi poggia sostanzialmente sulla propaganda e sulla colpevole ignoranza dei sudditi, indottrinati da un controllo mediatico che non ha uguali al mondo; un controllo che si intreccia in circolo -dal suo punto di vista, virtuoso- con l'interesse economico dei mass media e che mantiene la penisola in condizioni artefatte di terrore sociale e di diffidenza quotidiana, che aizza i sudditi ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette contro nemici costruiti a tavolino e li sollecita alle forme più disgustose ed inutili di consumismo e di individualismo.
Al momento in cui scriviamo sono in corso proteste generazionali contro un ennesimo tentativo di riforma del mondo scolastico ed universitario di cui non ci interessa entrare nel merito.
Ci interessa invece mettere in luce il modo in cui la propaganda "occidentalista" si muove in questo frangente.
La generazione attualmente in piazza va dai quattordici ai venticinque anni ed ha praticamente trascorso la vita sotto l'influenza della propaganda berlusconiana, che certi campioni di fancazzismo vitellone schierati "per la libertà" hanno saputo trasformare in fonte di voti e di reddito, come avveniva nell'estrema destra degli anni Settanta in cui pare fossero in tanti a non vergognarsi affatto di presentarsi come "dirigenti giovanili" nonostante i quarant'anni incombenti.
Una propaganda che è facile presenti sul web vecchi documenti di se stessa, che rispolverati a distanza di qualche anno potrebbero anche generare vergogna. Non è questo il caso: la vergogna, gli "occidentalisti", non sanno neppure cosa sia.
A Lecce, Forza Giovani è rimasta ferma al 2001; classico caso di sito commissionato, eseguito, controllato e lasciato crepare in solitudine. Ne traiamo alcune immagini interessanti.


La prima mostra quattro studenti privi di caratteristiche estetiche memorabili. Si dividono due libri e votano Berlusconi "per garantirsi un futuro migliore". Da dove cominciamo? Dall'asserzione secondo cui il paladino del libero mercato, che specie sul piano finanziario è di suo è quanto più ondivago, fluttuante ed incerto esista, è in grado di garantire qualche cosa? Nei sette anni trascorsi da allora la condizione giovanile è riuscita solo a peggiorare: istituzionalizzazione del precariato e sfiducia generalizzata sono il condimento di condotte comportamentali improntate al consumo, caldeggiatissime dai mass media, che in tempi di ristagno economico diventano condotte comportamentali improntate all'indebitamento. Il tutto in un quadro in cui il disimpegno politico e sociale viene presentato come un dovere civico preciso: c'è sempre qualcuno in cravatta che ti spazza sotto il tappeto le vergognose ingiustizie sociali che l'"occidente" produce ed esporta. Se poi qualcuno si azzarda ad obiettare, lo stato che occupa la penisola italiana dispone sempre di trecentomila e più armati, ripartiti in cinque o sei corpi, da sguinzagliargli dietro con la compagnia delle telecamere: i comportamenti individuali e di gruppo finalizzati al consumo e all'indebitamento sono gli unici ad essere presentati come leciti.


La seconda immagine è ancora più interessante perché presenta i tre pilastri della scuola berlusconiana. Affermare che le attuali generazioni sono dotate di un'estesa incompetenza in tutti e tre i campi dell'Internet, dell'Impresa e dell'Inglese sarebbe un tirare sulla Croce Rossa; comunque concepita e comunque si tenti di riformarla, è l'istituzione scuola nella sua interezza ad uscire a pezzi dal confronto e dal contrasto col mondo esterno. La penisola italiana è un territorio unico al mondo perché è il solo nel quale l'ignoranza -che sia intesa come incultura o come modalità di rapportarsi con gli altri, o, più spesso, come un miscuglio delle due cose- non venga percepita come qualcosa di vergognoso. L'incultura e la maleducazione vengono legittimate dai media che ne presentano continui e martellanti casi, mentre legittimano con ogni mezzo l'individualismo più idiota; anni fa una fastidiosa campagna pubblicitaria per un servizio di informazioni telefoniche a pagamento arrivò a presentare come fuori dal mondo il protagonista dello spot, ritratto mentre, anziché avvalersi del servizio pubblicizzato, chiedeva un'indicazione stradale ad un passante per strada. I contenuti mediatici impattano su un aggregato di sudditi addestrati a recepirli senza obiezioni e a riprodurne le dinamiche nella vita reale; in concreto, ai responsabili ed ai protagonisti di una società ad avanzata industrializzazione vengono di continuo suggeriti comportamenti meschini, irresponsabili e distruttivi, con l'intento neanche troppo celato di scardinare alla base qualunque tipo di struttura sociale rischi di rallentare un processo di mercificazione sempre più perfezionato ed invasivo.
Questo l'ambiente di cui la scuola delle tre "I" è frutto ed artefice al tempo stesso. Il contrasto con realtà quotidiane più normali, come quella dei villaggi dello Yemen in cui si viene accolti da gruppi di bambini allegrissimi che per prima cosa ti mostrano i loro libri scolastici, non potrebbe essere più stridente e rivelatore.
Nel 2008 sono scesi in piazza proprio le generazioni che della scuola dalle tre "I" avrebbero dovuto trarre di che "garantirsi un futuro migliore". Contro questa generazione la propaganda "Occidentalista" impiega armi vecchissime e trucchetti da gabolista di vicolo. Uno dei più ricorrenti è il pubblicare lettere dei soliti cittadini da un pezzo arrivati alle comodità della pensione e del memorialismo, magari sul groppone di quella greppia-stato che a parole tutti disprezzano tanto: i manifestanti non sarebbero in grado di enunciare correttamente i motivi della loro protesta, né i contenuti della riforma. Non è certo strano. Le tre "I" alla base della loro istruzione non contemplano né l'analisi critica dei testi e documenti, né l'acquisizione di quelle competenze retoriche che li possano mettere in grado di comportarsi con efficacia davanti alle onnipresenti telecamere che al tg serale servono ai sudditi la Verità "occidentale". Competenze del genere si affinano con altri mezzi e con altre frequentazioni.
Altra arma, la contrapposizione tra chi "vuole studiare" e i "manifestanti". La nostra esperienza con licei ed affini si è conclusa da più di quindici anni, nel corso dei quali abbiamo visto qualcuno tra i "manifestanti" accedere ai medi gradi del baraccone politico, ma anche a quelli del lavoro e dell'impresa; ce ne sono stati anche di quelli che al primo affitto da pagare hanno arrotolato la bandiera della "contestazione", ma i destini dei "manifestanti" ci appaiono, a distanza di tempo, molto più variegati e in definitiva appaganti rispetto a quelli di quanti "volevano studiare".
Salvo poche eccezioni che fanno pensare a fulminazioni sulla via di Damasco (anche in senso letterale) abbiamo visto coloro che "volevano studiare", specie se donne, coltivare illusioni d'onnipotenza consumistica per spiaggiarsi in men che non si dica nella mediocrità servile dei sottoposti rancorosi o, peggio, monopolizzare in blocco quei settori di "studi" o "agenzie" dediti a pratiche tra il fumoso e l'inutile (a volte anche il nocivo) e che campano in blocco al rimorchio delle classi produttive. In altre parole, coloro che "vogliono studiare" rappresentano quasi per intero il vivaio elettorale dell'"Occidentalismo". Ma "vogliono studiare" davvero, i loro rappresentanti attuali? Verrebbe da chiederselo, perché i ranghi della politicanza "occidentalista" pullulano di individui che risultano studenti universitari da tempo immemorabile, e la nostra esperienza diretta ci suggerisce anche che, il più delle volte, il settore della politicanza sia quello cui si destinano di default i figli di famiglia non all'altezza delle aspettative, quelli che è bene non mandarli in fabrichéta per evitare che facciano troppi danni.
La scuola delle tre "I" sta producendo non cittadini ma sudditi, consumatori ricattabili ed isolati che la minima privazione colma di rabbiette isteriche e piccine e per i quali è normale che una scatola di biscotti conti più della vita di un essere umano. Perché il succo dell'integrazione "occidentale", in sostanza, è questo.



martedì 21 ottobre 2008

Giovanni Donzelli: un mago in Consiglio Comunale


Il mortale nemico della politicanza "occidentalista"...

Giovanni Donzelli, scuderia Aenne Racing nel campionato locale (consigliere di Alleanza Nazionale al Comune di Firenze), ha trenta e passa anni e ancora non ha trovato il tempo e la maniera di laurearsi. Ma questo lo sanno tutti; c'è perfino gente che di lauree ne ha prese due intanto che lui riordinava armadi pieni di camicine d'orbace, sbiancate con l'acqua di Fiuggi.
Quello che non tutti sanno -anche perché a nessuno frega nulla di come passa le giornate un consigliere di Alleanza Nazionale- è che con i suoi "comunicati stampa" e con le boiate che combina appena ha due minuti liberi, da un po' di tempo in qua riesce a rimediare per lo meno una lavata di testa alla settimana, ad opera di qualche altro consigliere imbestialito.
Dove sta l'arte magica? Sta nel fatto che da quando è in carica Giovanni opera ogni giorno trasmutazioni alchemiche di cose ed eventi. Si alza la mattina (con comodo, mica fa l'operaio in fonderia), legge "Il Giornale della Toscana" e ne trae alchemicamente quella categorizzazione del reale che poi, trasformata in "comunicati stampa" a pressoché esclusivo uso dei martiri di via Cittadella costretti per contratto a far giornata dietro a quelli come lui, finisce di solito per metterlo nei pasticci.
In concreto: "Il Giornale" titola "Panico a Wall Street"? O "Attentato nello Yemen"? O, ancora, "Il coming out di [scosciata qualunque]: si dichiara lesbica in diretta"? Nessun problema: le competenze alchemiche del Nostro trasformano qualunque evento in (1) denunce sulla dittatura degli Khmer Rossi, al potere a Firenze dal 1945 avanti Cristo e (2) pubblicità per Donzelli Giovanni, secondo la scuola classica di quella propaganda totalitaria che, a parole, i politicanti del centrodestra non perdono occasione per condannare.
Il problema sono i moltissimi avversari contro cui Harry Dònzell ha da battagliare, e che si chiamano Logica, Buon senso, Dignità, Competenza... tutti maghi di valore, contro i quali si spuntano parecchie bacchette.
Fino al Tu-sai-chi, l'innominabile.
Il Principio di Realtà.



domenica 19 ottobre 2008

Gli antizzìngari delle gazzette




Titolismo folle. Solo un esempio dei tanti prodotti ogni giorno.

Un articolo de "IlFirenze" del diciannove ottobre riesce a produrre due cialtronate in un colpo solo. Chi legge il titolo qui riportato, senza porre attenzione al minuscolo occhiello o al testo che c'è sotto, non può che concluderne che Graziano Cioni, esponente del piddì senza la elle ed assessore al chissacché per il comune di Firenze, ha tentato di rapire una bimba e che per questo deve essere condannato. Fin qui la prima cialtronata.
La seconda è contenuta nel testo. Si tratta di un articolo non firmato, che si intenderebbe di ricostruire una vicenda il cui effettivo svolgersi pare sia stato piuttosto distante dallo script preconfezionato con cui politicanti "occidentalisti" e giornalini vari spiegano ai sudditi dello stato che occupa la penisola italiana come funziona il mondo e come devono votare. In parole povere il 25 ottobre 2005 nessuno ha tentato di rapire nessuno, ma pur di non avere la decenza intellettuale di fare a meno di uno dei più criminosi luoghi comuni coi quali i giornalini fanno tiratura, gazzettiere e titolista riescono in prodigiose arrampicate sugli specchi affermando che l'assoluzione della "nomade" è stata chiesta per carenza di prove sul mancato rapimento. Vale a dire: il rapimento di bambini è la normale attività delle "nomadi": solo per questo caso non sono state reperite prove sufficienti ad incarcerarne un'altra, impedendole così di rovinare con la sua presenza l'estetica di Firenze, città salotto.
Rimarcare episodi come questo, dopo un paio di volte, rischia di diventare noioso; è tuttavia bene farlo perché la sistematica distorsione della realtà ha portato da molto tempo i mass media a livelli di tale abituale e ributtante mendacia dal far seriamente e sinceramente rimpiangere la Pravda. La prassi con cui i pennisti agiscono è sempre uguale e contempla sempre la denigrazione di soggetti percepiti come (1) poco al corrente dei propri diritti e (2) facilmente macinabili con il solito mix di effetto primacy e recency. In tutti i casi in cui nessuno va in bestia e non ti slega dietro un avvocato particolarmente mordace, si può sempre dire che ci si è sbagliati, e scriverlo in caratteri minuscoli qualche tempo dopo secondo una prassi formalmente ineccepibile ma di nessuna efficacia comunicativa. Il che significa che a "passare" è sempre e comunque il rafforzamento di luoghi comuni e leggende metropolitane.



venerdì 17 ottobre 2008

Paolo Amato contro la Zingara Rapitrice


Paolo Amato è uno dei tanti pittoreschi personaggi coautori e condòmini del clima deafferentato e demenziale in cui sguazzano a meraviglia politicanti e mass media. A furia di denunciare mostri inesistenti è finito a scaldare una poltrona nel parlamento romano, il che significa che la lezione del dottor Goebbels in materia di controllo mediatico e carrierismo politico continua a funzionare a meraviglia.
La descrizione sprezzante dell'attuale stato di cose e la confutazione di chi ci mangia abbondantemente sopra è una delle ragioni d'essere di questo blog e del corrispondente sito, per cui usciamo sùbito dal generico e passiamo a descrivere l'evoluzione di una certa vicenda cui Paolo Amato ha tirato la volata.
Tre anni fa, Paolo Amato diresse una lettera aperta al borgomastro di Firenze che, a sentir lui e tutto il resto dei suoi commensali alla Greppia della Libertà, non ha fatto sufficiente tesoro della lezione nazionalsocialista in materia di Untermenschen e di ordine pubblico.
Nero su bianco, Paolo Amato denunciava il tentato rapimento di un bambino ad opera di due non meglio definite "zingare" e coglieva l'occasione per deplorare l'utilizzo del denaro pubblico fatto dal Comune "verso i Rom". Quest'ultimo è un dettaglio secondario: che gli unici soldi pubblici bene spesi siano quelli per le guerre, la gendarmeria e le galere è uno dei leitmotiv del "pensiero" occidentalista che monopolizzano la comunicazione politica di Paolo Amato e dei suoi, sicché da questo punto di vista la lettera aperta è solo un esempio tra tanti.
Ora, in materia di "zingare rapitrici" esiste una forte discrepanza tra la giurisprudenza e le persone assennate da una parte, e tutto il resto dell'universo dall'altra, primi tra tutti i politicanti cialtroni ed i mass media al loro servizio. I primi sono molto scettici sull'argomento, i secondi sono al punto di ritenere connaturata a determinate categorie sociali la propensione alla sottrazione di minori.
Cosa succederebbe se sostenessimo in questa sede che gli ebrei rapiscono i bambini cattolici per ucciderli ritualmente? Sarebbe folle? Eppure per secoli i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana si sono bevuti storie come questa.
Il problema è che l'"occidentalismo" si basa essenzialmente sull'edificazione di un nemico metafisico, un nemico assoluto e irredimibile che nel concreto viene costruito partendo da soggetti scarsamente edotti circa i propri diritti e circa la possibilità di farli valere. Un modus agendi ormai standardizzato in cui media e politicanti cooperano ed in cui incompetenza, furbizia, malafede e vigliaccheria si compenetrano in un cocktail che produce utili politici ed elettorali per chi lo elabora, e rovina spesso la vita in modo irrimediabile per chi lo subisce.
Tre anni dopo, è arrivata la richiesta di proscioglimento avanzata non da un tribunale del popolo composto da islamocomunisti nogglòballe, ma da un Pubblico Ministero al servizio dello stato che occupa la penisola italiana.
Il numero di vicende come questa che sta giungendo alla stessa conclusione è molto alto e non fa assolutamente notizia. L'allarmismo alimentato secondo la prassi sopra descritta, in compenso, ha permesso ad intere schiere di incompetenti in malafede di sedere laddove risuonarono le voci di un La Pira, di un Matteotti, di un Pertini.


giovedì 16 ottobre 2008

Bianca Maria Giocoli, Enrico Bosi e Massimo Pieri al Columbus Day


Il Comune di Firenze ha spedito la Commissione Cultura a New York in visita ufficiale, in occasione del Columbus Day.
Il Columbus Day ricorda l'arrivo di Cristoforo Colombo e l'inizio dell'epoca delle conquiste; è una festa che in AmeriKKKa è particolarmente sentita da svariati appartenenti alla comunità culturale che riconosce le proprie radici nella penisola italiana. La Repubblica Bolivariana del Venezuela la considera giorno festivo, ma l'ha realisticamente ribattezzata "Giorno della resistenza indigena".
Tra i commissari in gita Bianca Maria Giocoli, Enrico Bosi e Massimo Pieri hanno allungato il giro fino alla località di Manhattan denominata Ground Zero, teatro di uno dei più controversi e radicali interventi urbanistici degli ultimi anni. Un'operazione messa in pratica con un sistema che, se usato da statunitensi in località meno fornite di negozi di lusso, avrebbe preso il nome di obliterazione dell'obiettivo o addirittura di operazione chirurgica, ma che essendo stata portata a termine nel centro di una delle metropoli simbolo dell'"Occidente" ebbe a suo tempo l'altisonante e indignata definizione di attacco alla civiltà. Chiunque sia stato a mettere in piedi il tutto -un evento che come pochi altri ha visto nascere foreste intere di complottismi e di dietrologie- ha provocato 2750 morti di una morte orribile, correntemente indicati come vittime, laddove il corrispettivo afghano od iracheno, che abbiamo ad oggi motivo di presumere almeno cinquecento volte più alto ed in costante aumento dal 2001 in avanti, si è dovuto accontentare dell'asettica definizione di perdite collaterali. L'AmeriKKKa ha metabolizzato in modo molto rapido l'accaduto, che in capo a ventiquattr'ore era già divenuto casus belli contro l'Afghanistan e, in prospettiva, contro tutto il mondo. Il resto è storia nota, ed è una storia che parla di guerre demenziali, di distruzioni folli, di assoluta incompetenza, di miopia politica, arroganza, piccineria e propaganda mendace a vagonate intere. Fatto sta che dell'Undici Settembre, rapidamente trasformato in film celebrativi come quello di Oliver Stone, da anni in AmeriKKKa in generale e a New York in particolare nessuno vuol più sentir parlare. Così come, per quanto è dato di sapere, nessuno vuole più sentir parlare di George Bush. L'unico estimatore su cui "il peggior presidente della storia della federazione" possa a tutt'oggi contare si chiama Silvio Berlusconi, il soggetto cui Giocoli, Bosi & Pieri devono sostanzialmente la propria fortuna politica e che dunque non è possibile contraddire nemmeno quando sarebbe proprio il caso di farlo.
Accodatisi al medesimo americanismo di complemento, i consiglieri di Forza Italia hanno lanciato un proclama stringato ma pedestre:

«Siamo qui per celebrare il giorno di Colombo, figlio dell'Italia. Questo anniversario rappresenta la nascita dell'America, il paese della libertà! L'11 settembre non sarà mai dimenticato e noi siamo qui per testimoniarlo. La guerra al terrorismo non può cessare! Vita l'Italia, viva gli Usa»

Le occasioni in cui le trasferte della Commissione Cultura sono state passate a pettine fitto dai politicanti "occidentalisti" che siedono in Consiglio Comunale praticamente non si contano; potremmo far loro il verso e chiederci quanto sia costato inviare a New York i tre lanciaslogan in oggetto. Tuttavia, dal momento che non siamo come loro, ci accontenteremo di passare a pettine fitto il loro proclama. Tre righe criticabili in modo praticamente filologico: parola per parola!
Le origini di Cristobal Colòn sono piuttosto dubbie; a Genova ne contendono i natali città spagnole e di Corsica. Ad ogni modo, un genovese del XV secolo aveva ottimi motivi, sociali e geopolitici, per non sentirsi "figlio" del paese cui i tre consiglieri lo ascrivono d'ufficio. Anzi, asserire un qualsiasi coinvolgimento dello stato che occupa la penisola italiana nei "meriti" di Cristobal Colòn è una forzatura storica bella pesante; un po' come se si accampassero meriti per le operazioni dell'Apollo 11 dal momento che Michael Collins è nato a Roma.
Il 12 ottobre 1492 non nacque alcun astratto "paese della libertà". L'avvistamento dell'isoletta di Guanahani (oggi nelle Bahamas) da parte degli europei segnò al contrario l'inizio di secoli orribili per la popolazione nativa, schiavizzata e sterminata dalle malattie prima e ancora che dalla violenza dei nuovi e non richiesti ospiti, capeggiati solitamente dalla hidalguìa guerrafondaia formatasi sotto le ali della Reconquista.
L'11 settembre, praticamente, è già finito nel dimenticatoio. Perfino nel dimenticatoio della politicanza "occidentalista" che ha approfittato della vicenda per tentare di chiudere i conti con ogni sorta di dissenso. La traduzione mediatica e politicante dell'11 settembre nello stato che occupa la penisola italiana è in buona misura responsabile dell'attuale situazione sociale, che può vantare "conquiste di libertà" ributtanti, quali la pratica introduzione del reato d'opinione e lo sdoganamento del razzismo e delle idee genocide. Tutti "progressi" per i quali mass media e politicanti "occidentalisti" non hanno smesso di adoperarsi un momento. Di questo stato di cose Giocoli, Bosi e Pieri sono effettivamente, oltre che consapevoli comprimari, anche dei degni testimoni; almeno su questo punto si deve dar loro ragione.
"La guerra al terrorismo non può cessare"? Vadano a dirlo alle popolazioni mediorientali e centroasiatiche bombardate per anni in nome dei sondaggi elettorali. Una delle caratteristiche più repellenti della politicanza "occidentalista" è rappresentata proprio da questi proclami da stratega da caffè, che arrivano immancabilmente da gente sazia, viziata, benvestita e capace di incompetenze siderali. Tanto a farsi quindici giorni filati senza chiuder occhio, a scivolare sui ventri aperti, a lasciare gambe ed occhi in qualche pietraia ci va sempre e comunque qualcun altro. La "guerra al terrorismo" ha messo in luce non i pregi, ma i vergognosi limiti dell'"occidentalismo" yankee, per il quale non è immorale gettare centinaia di miliardi nel pozzo senza fondo dell'occupazione irachena, ma destinarne cinque o sei all'assistenza sanitaria pubblica. E' perfino finito il tempo in cui una guerra d'aggressione poteva tirare la volata all'economia.
"Vita l'Italia, viva gli Usa" [così nell'originale, n.d.a.] Sì, viva, viva. E domenica alla Roma gliele suoniamo cinque a zero.

Il numero di persone che dell'AmeriKKKa ha un concetto assai meno idilliaco è in crescita esponenziale. Pensando a loro, riportiamo qui un classico della musica klezmer nato proprio dalla terrificante esperienza di vita nella New York dell'emigrazione aschenazita.


Di grine Kuzine
(Leiserowitz / Schwartz)

tzu mir iz gekumen a kuzine,
shein vie gold iz sie geven di grine.
Beckelach vie roite pomerantzen,
fiselach vus beyten sich tzum tantzen.

Herelakh vizaidn-veb gelokte
tseindelakh vi perelakh getokte;
Eigelakh vi himl-bloi in friling
lipelakh vi karshelakh a tsviling.

Nisht gegangen iz zi nor geshprungen,
nisht geret hot zi nor gezungen.
Lebedik un freylekh yeder mine,
ot azoy geven iz mayn kuzine.

Un azoy ariber zaynen yorn,
fun mayn kuzine iz atel gevoren.
Peydis hot zi yorn lang geklibn,
biz fun ir iz gornisht nit geblibn.

Haynt az ikh bagegn mayn kuzine,
un ikh freg ir, «`s'makhstu epes grine?»
Zifst zi op un ikh leyn in der mine —
«brenen zol columbus's medine.»


La giovane cugina

Da me è venuta una cugina
giovane e bella come l'oro
guance come arance rosse
e piccoli piedi che ti invitano a danzare.

Piccole orecchie dalla pelle di seta
e denti come una collana di perle;
occhi blu come il cielo in primavera,
piccole labbra come ciliegine gemelle.

Quando camminava pareva danzare
e non parlava, cantava.
Allegra e felice in ogni momento
così era mia cugina.

Tempo dopo ho rivisto mia cugina
lavorava giorno e notte, sembrava finita,
i suoi debiti la facevano appena mangiare
una vita di lavoro l’aveva distrutta.

Oggi quando incontro mia cugina
e le domando: come stai, tu la sempre bella?
Lei sospira e io le leggo in faccia la risposta
"Possa bruciare la terra di Colombo!"



martedì 14 ottobre 2008

Dacia Valent tra le Zeta: i DonZelli, i GranZotto e il troppo Zelo


Il sito/blog di Dacia Valent non è tra le letture quotidiane di chi scrive; è un sito cui dare un'occhiata ogni tanto, ricordando di quanto di interessante è capitato di leggervi in passato. All'inizio di ottobre la Valent vi ha pubblicato un veementissimo scritto in cui si scagliava contro i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana, condito con dovizia di improperi di vario genere. Nulla che possa aiutare a sostenere costruttivamente alcuna tesi, cosa rimarcata da un commento che abbiamo intitolato "Soprattutto non troppo zelo" corredandolo del link ad un post pubblicato in questa sede, in cui gli stessi argomenti erano svolti in modo più costruttivo e sperabilmente un po' più efficace.
La cosa interessante è che il post della Valent, pubblicato su un sito che con ogni probabilità è tra i più occhiutamente spulciati dai Commissari Telematici di orientamento destrorso, ha fatto il giro del web, planando sulla scrivania dei due signori in oggetto, rispettivamente consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Firenze, e giornalista de "Il Giornale".
Il primo, Giovanni Donzelli, non aspettava di meglio, essendo reduce da una settimana praticamente infernale.
Un "gruppo" su Facebook, nato per stizza ad opera di tale Giulio Benati in cui si ripetevano tiritere calunniose e più volte smentite sul conto di Graziano Cioni, assessore in quota PD, ha messo insieme qualche centinaio di iscritti. Tra i quali figurava Donzelli stesso, probabilmente ancora poco edotto su quanto comodi siano i nickname quando ci si vuole divertire un po'. Preso praticamente a bastonate da un Graziano Cioni pochissimo disposto a sorvolare, Giovanni Donzelli non aveva potuto far altro che cincischiare ed annaspare impacciato, peggiorando definitivamente le cose lasciando che "IlFirenze" gli attribuisse l'asserzione di aver sottoscritto anche un "gruppo" intitolato "aiutiamo le ninfomani" e di aver tolto l'adesione solo dopo le recriminazioni della sua fresca sposa. Un episodio sicuramente insignificante, ma che rivela di quali profondi interessi sia capace un esponente del partito d'Iddio, della Patria e della Famiglia; di quale cultura umanistica sia imbevuto, di quali impegnative letture, di quali elevati interessi.
Nel complesso una figuraccia di quelle da (non) raccontare ai nipoti, anche se i media mainstream non se ne sono occupati praticamente per niente. Giovanni Donzelli si è trovato comunque costretto a rimediare. E a rimediare alla svelta, maledizione.
Meno di due giorni dopo, il sito dei comunicati stampa del Comune di Firenze ospita la requisitoria del Nostro contro Dacia Valent, minacciata di sfracelli sottoforma delle solite querele; le querele, nell'ottica politicante, sono doppiamente importanti: in primo luogo hanno sostituito il confronto dialettico, su modello di quanto accade in AmeriKKKa: da una parola in su, querele come se piovesse. In secondo luogo, parrebbe di capire che vivono di vita propria e che hanno un comportamento simile a quello dei gavettoni di ferragosto: quando ne hai schivata una devi cercare di appiopparne un'altra: se non puoi beccare chi te l'ha tirata, almeno becca qualcuno che sta nella squadra avversaria. Anche questo potrebbe essere un buon metro per valutare come passano le giornate i politicanti, specie quelli affezionati alla Sicurezza© , alla Libertà© e alle Forze dell'Ordine© .
L'imbeccata al Donzelli l'ha passata Luigi Curci, ventiseienne laureando di Barletta. Tra laureandi ci si intende bene: quello del laureando è uno stato di attivazione poco sotto all'estasi, talmente esaltante e piacevole che Giovanni Donzelli vi permane da tempo immemorabile. Detto en passant Luigi Curci usa come descrizione del proprio blog una frase tolta da una canzone dei 270bis intitolata Settembre Nero, in cui si dicono cose parecchio perentorie sulle "iene di Sharon". Decisamente la svolta sionista imposta a mitra puntato da Gianfranco Fini fatica ad affermarsi!
Dal momento che per le discipline della legge e della giurisprudenza proviamo un disinteresse ampiamente sovrapposto con la diffidenza, non abbiamo idea di quali siano le basi su cui può reggersi l'ammissibilità di una querela basata su "firme" raccolte "negli atenei". Abbiamo però motivo di ritenere che il codazzo di commenti raccolti dal post di Dacia Valent sia stato prodotto da individui perfettamente in grado di reggere il suo passo quanto a bassezza argomentativa (si va poco più lontano del "negra di merda"; come base per sentirsi superiori a chicchessia non è poi un gran che), e che Giovanni Donzelli avrebbe potuto trovare senza problemi uno o due sistemi più costruttivi di trascorrere in Palazzo Vecchio una mezz'oretta del tempo per il quale è stipendiato. Uno o due milioni, di sistemi più costruttivi.
Paolo Granzotto si è occupato della questione sull'edizione on line de "Il Giornale" del quattordici ottobre, accanendosi sostanzialmente contro la statistica: dopo decenni di campionati di pallone in cui spalti gremiti di elettori da non irritare fanno in coro il verso della scimmia a qualunque giocatore africano tocchi palla -e qui ci fermiamo perché esempi del genere riempirebbero paginate intere e perché del calcio abbiamo già diffusamente trattato- per una volta si è risentito qualcuno della parte avversa. Una volta soltanto, nell'ottica "occidentalista", è probabilmente già una volta di troppo.
E' interessante anche notare che secondo Google l'espressione "italiani di merda" ricorre come tale 8220 (ottomiladuecentoventi) volte nel momento in cui scriviamo; Azione Giovani intende procurare lavoro a tutti gli studi legali della penisola?
Dal nostro punto di vista abbiamo tutte le ragioni per ritenere che i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana non abbiano alcun motivo per considerarsi superiori all'ultimo dei pastori del Pamir; ne abbiamo diverse, anzi, per affermare l'esatto contrario. Tuttavia abbiamo trattato la materia, e continueremo a farlo, senza fare uso di espressioni eccessivamente colorite; non ce n'è bisogno, e comportandoci in questo modo ci auguriamo non tanto di essere più efficaci, quanto di annoverare lettori che della cialtroneria "occidentale", della sua "libertà" e della sua "sicurezza" ne hanno decisamente abbastanza.


venerdì 10 ottobre 2008

Alain de Benoist, gli orizzonti della mondializzazione


Ottobre 2008. Da Uòll Strìtt in là, le borse paiono il macello comunale a causa dei sanguinosi ribassi. Un tantinello di crisi per un'economia finanziarizzata che da un bel po', ma proprio da un bel po', aveva perso ogni contatto con la realtà. In attesa che i cacciaballe in cravatta che per chissà quale motivo in "Occidente" -ed anche altrove, purtroppo- godono di maggior prestigio e rispettabilità di un manovale si inventino qualche cosa di carino (se non di credibile) per continuare a cacciare balle come prima e soprattutto per seguitare a non fare uno stracazzo di nulla a giornate intere, si ripubblica qui un articolo risalente al 1997. Un articolo ancora attualissimo e capace di fornire spunti di riflessione.
Nella Repubblica Islamica dell'Iran chi indossa una cravatta è generalmente malvisto. Un motivo deve pur esserci.



Gli orizzonti della mondializzazione
Alain de Benoist

Oggi tutti parlano di mondializzazione: un fenomeno basilare del nostro tempo, la cui importanza è ulteriormente accresciuta dal fatto che in genere lo si considera inevitabile. Essa sembra infatti imporsi come un movimento di trasformazione del mondo sul quale nessuno è più in grado di intervenire, una sorta di grande ondata che si staglia, irreversibile, sull’orizzonte di almeno varie generazioni. Gli anglosassoni preferiscono parlare di «globalizzazione», ed è interessante sapere che questo concetto è stato messo in circolazione oltre Atlantico da alcuni strateghi del marketing di massa che, a partire dagli anni Ottanta, hanno cominciato a parlare di «prodotto globale» o di «comunicazione globale», facendo in tal modo allusione al principio secondo cui la stessa merce deve, in virtù della stessa pubblicità, raggiungere quanto prima il maggior numero possibile di clienti potenziali, non adattandosi alle diverse culture bensì veicolando una cultura globale.
Qual è il significato esatto che va attribuito al termine «mondializzazione»? Malgrado le numerose opere pubblicate di recente sull’argomento (1), la nozione rimane confusa. Per gli uni, la mondializzazione è prima di tutto un fenomeno di superamento dello Stato nazionale. Per altri, essa definisce un nuovo tipo di contrapposizione tra il capitale e il lavoro, indotto dalla finanziarizzazione del capitale, o esprime un nuovo spartiacque tra lavoro qualificato e lavoro non qualificato. Alcuni vi vedono l’irruzione nel commercio mondiale di nuovi attori provenienti dal Sud, nonché la strategia di globalizzazione delle società multinazionali, altri mettono l’accento sull’ampliamento degli scambi dovuto all’integrazione dei servizi nel commercio mondiale, ma anche sulla grande trasformazione innescata dalla rivoluzione informatica. A quale di queste interpretazioni occorre dare priorità?
A nostro avviso, è opportuno innanzitutto distinguere tra mondializzazione culturale e mondializzazione economica e finanziaria. Si tratta di due fenomeni che si sovrappongono in larga misura ma non si confondono l’uno con l’altro.
Una delle caratteristiche più evidenti della mondializzazione economica è legata all’esplosione degli scambi e dei flussi finanziari. Il commercio internazionale cresce oggi più in fretta delle produzioni nazionali (PIL). Nel 1990, la percentuale degli scambi internazionali ammontava già al 15% del PIL mondiale; in soli cinque anni, fra il 1895 e il 1990, le esportazioni mondiali sono aumentate del 13,9%. Nel trentennio 1960-1989, gli scambi di merci sono raddoppiati, mentre i flussi di capitali si moltiplicavano per quattro.
Contemporaneamente, la natura dei flussi finanziari si è modificata: il continuo sviluppo degli investimenti diretti all’ estero è stato affiancato da un’ esplosione dei movimenti di capitale a breve termine. Questi investimenti diretti aumentanO, a loro volta, più velocemente della ricchezza mondiale: il loro .tasso di crescita annua è passato dal 15% del periodo 1970-1985 al 28% del 1985.1990, periodo durante il quale essi sono quadruplicati in volume, passando dai 43 miliardi di dollari del 1985 ai 167 miliardi del 1990. Si assiste così all’avvento di un’economia globale, con una parte crescente del prodotto nazionale lordo direttamente dipendente dal commercio estero e dai flussi di capitali internazionali.
L’altra grande caratteristica è il ruolo crescente dei computers e dell’ elettronica. Riducendo il costo delle transazioni a lunga distanza e consentendo di conoscere in tempo reale in qualunque località del globo le informazioni che concorrono alla formazione dei prezzi, la cui conoscenza un tempo richiedeva, in alcune piazze finanziarie, intere settimane, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono ormai una mobilità senza precedenti dei flussi finanziari. Sulle borse interconnesse, il sole non si corica più: i capitali si spostano alla velocità della luce da un capo all’altro del globo, alla ricerca del miglior esito dell’investimento. Si noti che questa globalizzazione è esclusivamente finanziaria: il mercato dei capitali è infatti l’unico in cui l’arbitrato istantaneo abbia un senso. Grazie alla mobilità istantanea resa possibile dall’interconnessione informatica, le transazioni sul mercato dei cambi hanno conosciuto una crescita fantastica, e raggiungono oggi i mille miliardi di dollari al giorno. Queste somme provengono dalle disponibilità bancarie, dalle tesorerie delle ditte multinazionali, dalla massa dei capitali flottanti e dalle somme detenute da società finanzia, rie espressamente costituite per dedicarsi a tale esercizio. Il fondamento del sistema risiede negli sbalzi dei cambi, che da un giorno all’altro, o addirittura da un’ ora all’ altra, possono rappresentare guadagni di plusvalore considerevoli, assai superiori a quelli che derivano dalle attività industriali o commerciali classiche. In funzione dell’anticipazione dei tassi di cambio, l’informatizzazione consente lo spostamento virtuale immediato di notevoli masse di capitali, che sfuggono quasi completamente alle banche centrali. Per definire il fenomeno si è parlato, con ragione, di «economia-casinò». Ne risultano un’accresciuta instabilità monetaria ed una tendenza dei tassi d’interesse ad allinearsi verso l’alto ai maggiori rendimenti assicurati dalla valorizzazione mondiale del capitale. Un certo numero di studiosi collocano il punto di partenza della mondializzazione agli inizi degli anni Settanta, segnati dal duplice choc petrolifero e dalla crisi del sistema internazionale dei cambi. È infatti in quel periodo che si verificano il rallentamento della produttività e del tasso di crescita nei paesi industrializzati, una progressiva saturazione della domanda dei classici beni di consumo durevoli, dei quali il rinnovamento diventa la componente principale, e l’appesantimento della costrizione finanziaria esterna, mentre l’abbandono dei cambi fissi e l’esplosione del deficit dei pagamenti americani producono la moltiplicazione dei prodotti finanziari puramente speculativi.
Il processo prosegue negli anni Ottanta con l’esplosione del debito pubblico, che favorisce lo sviluppo di un ampio mercato di capitali, e soprattutto con l’ondata di deregulation che, partita dall’America reaganiana, si estende rapidamente all’insieme dei paesi sviluppati. Gli Stati cominciano allora a battere in ritirata dinanzi alla folgorante ascesa della dinamica di integrazione finanziaria sopprimendo barriere doganali, intermediazioni e regole: provvedimenti che, liberalizzando completamente il mercato dei capitali, permettono di effettuare arbitrati a livello mondiale e aprono il mercato dei crediti di Stato e delle grandi società agli operatori esteri. Nel frattempo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, la scomparsa quasi improvvisa del sistema sovietico e il passaggio brutale dei paesi comunisti al sistema del capitalismo selvaggio si traduce nell’irruzione di altri due miliardi e mezzo di persone nel mercato mondiale, diffondendo l’illusione di un pianeta unificato, in cui esisterà un unico blocco.
Questa serie di eventi deve essere tuttavia collocata all’interno di una cronologia molto più lunga. Lungi dal rappresentare un’aberrante deviazione dal sistema capitalista, o dal poter essere interpretata come una novità radicale o addirittura come il risultato di un complotto, la mondializzazione si situa infatti nel solco di una dinamica secolare caratteristica della natura medesima del capitalismo. «La tendenza a creare un mercato mondiale è inclusa nel concetto stesso di capitale», osservava Karl Max già nel secolo scorso (2). Da questo punto di vista, Philippe Engelhard non ha torto quando scrive che «la mondializzazione certamente non è che l’ultimo fuoco d’artificio dell’esplosione della modernità occidentale» (3). Essa consacra in effetti il compimento di tutta una serie di metamorfosi che hanno ritmato, lungo l’intero corso della sua storia, un’economia mercantile strutturata sin dall’origine dall’apertura degli scambi in un clima di individualismo e di universalismo fondato sulla metafisica della soggettività e sulla valorizzazione del solo successo materiale. Comincia con la fioritura del commercio di lungo corso all’epoca delle città-Stato italiano, nel XIV secolo, e prosegue con le grandi scoperte e la rivoluzione industriale, e poi con la colonizzazione. Già fra il 1860 e il 1873, l’Inghilterra era riuscita a creare un abbozzo di sistema commerciale mondiale. Nel luglio del 1885, Jules Ferry dichiara dinanzi alla Camera dei deputati che «la fondazione di una colonia è la creazione di un mercato». Alimentando la disintegrazione delle culture e delle società tradizionali africane e asiatiche, la colonizzazione favorisce la penetrazione dei prodotti occidentali e apre nuove succursali al commercio, prassi che sarà abbandonata solo quando si dimostrerà non più redditizia, cioè quando le colonie inizieranno a costare più di quanto in precedenza non avessero reso (4).
Anche l’istituzione del mercato è storicamente indissociabile da un va sto moto di internazionalizzazione degli scambi. Nella teoria economica classica, quale è enunciata nel XVIII secolo, già si esprime la convinzione che la libera circolazione dei beni e dei servizi sfocerà in una parificazione de sistemi produttivi e dei livelli di vita. Il capitalismo appare pertanto noma de sin dall’inizio. In questo senso, come nota Jacques Adda, la mondializzazione «non fa altro che restituire al capitalismo l’originaria vocazione transnazionale più che internazionale, che consiste nell’infischiarsene delle frontiere e degli Stati, delle tradizioni e delle nazioni, per assoggettare meglio ogni cosa all’unica legge del valore» (5). Tuttavia, anche se è indiscutibile chI la mondializzazione rappresenta per vari versi solo una brusca accelerazione di un processo secolare, è altrettanto certo che essa presenta un certo numero di caratteristiche di novità, che possiamo rapidamente passare in rivista.
Oltre alla rivoluzione informatica, di cui abbiamo già fatto cenno, oltre al fatto che, negli scambi internazionali, sono ormai i prodotti manifatturieri a predominare sulle materie prime, bisogna innanzitutto registrare la straordinaria autonomizzazione della sfera finanziaria rispetto alla produzione economica propriamente detta. La grande deregolamentazione borsistica degli anni Ottanta ha segnato l’avvento di un capitalismo che non prevalentemente industriale, bensì speculativo. Secondo alcune stime, la mas sa monetaria attualmente in circolazione nel mondo ha un valore quindici volte superiore a quello della produzione. Questa «bolla» finanziaria raccoglie fondi provenienti sia dall’economia privata che dall’economia pubblica e sociale, si tratti della gestione del debito pubblico degli Stati o dei fondi-pensione, ed impone logiche speculative e illegali: la droga e la corruzione diventano elementi strutturali del nuovo ordine economico.
Un altro fatto nuovo è la mercantilizzazione generalizzata. Le transazioni oggi investono settori in precedenza ad esse estranei. La cultura, i servizi: le risorse naturali, i prodotti della proprietà intellettuale entrano in regime di libero scambio. Il gioco del mercato agisce nel senso di una trasformazione di tutte le cose in valute. Quel che entra nel sistema come cosa viva ne esce come merce, prodotto morto. Ma soprattutto gli attori non sono più gli stessi. Ieri erano principalmente gli Stati. Oggi sono le società multinazionali a dominare gli investimenti e il commercio, mentre i mercati finanziari impongono le proprie regole e le banche controllano un settore finanziario sempre più slegato dall’economia reale. Si passa così da un mondo organizzato attor. no agli Stati nazionali ad un’«economia-mondo»strutturata da attori globali. Si tratta di una trasformazione essenziale. Ancora pochi decenni fa, gli Stati nazionali borghesi costituivano il contesto politico e sociale naturale di gestione dei sistemi produttivi nazionali. La concorrenza intercapitalistica si svolgeva fondamentalmente tra gli Stati. La caratteristica dominante del sistema capitalista era la sua territorializzazione, cioè il radicamento all’interno dei limiti di una nazione industriale. Il mercato, pur in espansione, era innanzitutto nazionale, e anche per le ditte dotate di filiali all’estero la centralità strategica dell’impresa-madre situata nella nazione di riferimento era un dato indiscusso. Infine, il Terzo mondo non era ancora entrato nel sistema industriale, ed esisteva un contrasto assoluto tra i centri industrializzati e le periferie.
Oggi, l’integrazione mondiale del capitale ha fatto esplodere i sistemi produttivi nazionali e ne ha avviato la ricomposizione come altrettanti segmenti di un sistema produttivo mondializzato. Le diverse componenti della produzione si disperdono ormai in un contesto spaziale lontano dalle origini geografiche dell’impresa, e talvolta persino indipendente dal suo controllo finanziario. I prodotti incorporano componenti tecnologiche di provenienza talmente varia che. non vi si possono più riconoscere né il contributo specifico di ciascuna nazione né la nazionalità della forza-lavoro impegnata nella produzione delle merci. Robert Reich fa notare ad esempio che, quando un abitante degli Stati Uniti acquista dalla General Motors un’automobile che paga 20.000 dollari, di questa cifra meno di 800 dollari finiscono a produttori americani. La mondializzazione produce quindi una riorganizzazione dello spazio planetario, che si contraddistingue in primo luogo per una deterritorializzazione generalizzata del capitale. Si passa da uno «spazio di luoghi» a uno «spazio di flussi», ovvero dal territorio alla rete (6). La rete non corrisponde più ad alcun territorio ma si colloca all’interno del mercato mondiale, emancipandosi da qualunque costrizione politico-statuale. Per la prima volta nella storia, lo spazio dell’economia si separa dallo spazio del politico. Questo è il senso profondo della mondializzazione.
Abbiamo parlato di imprese multinazionali. La comparsa di società industriali capaci di pensare subito il proprio sviluppo su scala planetaria e di mettere in pratica strategie mondiali integrate è infatti uno dei tratti più caratteristici della mondializzazione. Le società multinazionali sono imprese che realizzano oltre la metà della loro cifra d’affari all’estero. Nel 1970 se ne contavano 7.000. Oggi sono 40.000 e controllano 206.000 filiali, ma danno lavoro a solo il 3% della popolazione mondiale (ossia a 73 milioni di persone). Per farsi un’idea dell’importanza che hanno assunto, basta sapere che da sole hanno realizzato, nel 1991, un volume d’affari superiore alle esportazioni mondiali di beni e servizi (4.800 miliardi di dollari), che controllano direttamente o indirettamente un buon terzo del reddito mondiale, e che le 200 più importanti fra di esse monopolizzano da sole un quarto dell’attività economica mondiale. Si noti inoltre che quasi il 33% del commercio mondiale si svolge ormai tra filiali della stessa ditta e non fra ditte diverse. Queste imprese reti dispongono di risorse che sfidano l’immaginazione. Il volume di affari annuo della General Motors (132 miliardi di dollari) supera il prodotto nazionale lordo dell’Indonesia. Quello della Ford (100,3 miliardi di dollari) sopravanza il PNL della Turchia; quello della Toyota, il PNL del Portogallo; quello dell’Unilever, il PNL del Pakistan; quello della Nestlé, il PNL dell’Egitto. Queste società, la cui origine nazionale è diventata un riferimento . meramente formale, hanno da tempo imparato a sostituire ad obiettivi di redditività minima obiettivi di massimizzazione dei ricavi finanziari, quali che siano le conseguenze sociali. Sono gruppi finanziari più preoccupati del controllo di mercati e brevetti che della produzione, che collocano la maggior parte dei profitti in valuta o in prodotti derivati invece di redistribuirli agli azionisti o investirli in attività che creino posti di lavoro. Essendo più ricche di parecchi Stati, non trovano difficoltà nel comprare uomini politici e corrompere funzionari.
Per fronteggiare la concorrenza, le ditte multinazionali hanno sviluppato una nuova strategia. Giacché i profitti tratti dalla produzione non trovano più sbocchi sufficienti negli investimenti classici, hanno dovuto trovare nuove destinazioni per l’eccedenza di capitali flottanti, onde evitarne quella svalutazione massiccia e brutale che si era verificata negli anni Trenta. La lotta per le fette di mercato le ha dunque spinte ad incorporare nella massa salariale mondiale una manodopera poco qualificata e debolmente remunerata, per godere di un vantaggio di costo assoluto (7). Mentre i paesi occidentali di un tempo si accontentavano di sfruttare il mercato interno dei paesi del Sud, trasferendone le attività artigianali nelle proprie industrie, le multinazionali riesportano verso i mercati occidentali prodotti assemblati o fabbricati sul posto a basso prezzo. La mondializzazione si realizza perciò attraverso il rimpatrio di una parte dell’attività economica nei paesi del Sud, una riorganizzazione planetaria del ciclo produttivo e la mobilitazione di una manodopera locale trasformata in lavoro salariato. Questa delocalizzazione, chi si è generalizzata a partire dagli anni Ottanta, non è altro che l’estensione riorganizzazione del rapporto salariale a livello mondiale, cioè un passo avanti verso la creazione di un mercato mondiale del lavoro. Va da sé che, in questa prospettiva, per drenare i profitti verso i centri di decisione incaricati della loro collocazione, si impone la libertà dei movimenti di capitali, processo che ha il duplice effetto di ridurre le capacità di accumulazione locale di contenere l’aumento del potere d’acquisto. (8)
In parallelo, si assiste all’irruzione nel commercio mondiale di nuovi al tori provenienti dall’Asia e, in misura minore, dall’ America latina e dall’e impero sovietico. È un’altra novità. In passato, lo squilibrio dei costi salaria fra il Nord e il Sud si accompagnava in genere a sproporzioni nella produttività e nella qualità dei prodotti. L’emergere dei nuovi paesi industrializzati e la comparsa di multinazionali in alcuni paesi del Sud hanno radicalmente modificato questa situazione. Nel 1995 il reddito pro capite di Singapore ha già superato quello della Francia, e il fenomeno appare in via di intensificazione. Va rimarcato che il successo dei nuovi paesi industrializzati non depone affatto a favore della fondatezza delle tesi liberali “miracolo asiatico” getta infatti le radici prima di tutto in uno specifico potenziale culturale (9), nel quale anche il nazionalismo fa la sua parte, si tratti del Giappone, della Cina, della Corea o di Singapore, e si spiega inoltre con il volontarismo delle politiche industriali dei paesi in questione, i quali non solo non si sono allineati alla teoria dei vantaggi comparativi che avrebbe imposto loro di specializzarsi nelle produzioni per le quali avevano i costi relativi più bassi, senza preoccuparsi della domanda effettiva, ma al contrario si sono rivolti prioritariamente alle produzioni che sono oggetto di una forte domanda su scala mondiale.
La mondializzazione, beninteso, modifica la concorrenza fra le nazioni, perché, a partire dal momento in cui le imprese e i capitali sono liberi di spostarsi, la competitività delle imprese nazionali non si confonde più automaticamente con quella delle nazioni. Non vi è infatti alcun motivo per cui lo spazio transnazionale nel quale si muovono le grandi imprese debba coincidere con l’organizzazione ottimale degli spazi nazionali. La posizione di un paese nel mondo si definisce allora esclusivamente in virtù del livello di capacità competitiva delle sue produzioni sul mercato mondiale, essendo i suoi imprenditori tenuti a situarsi in tale mercato in funzione del miglior rapporto rendimento/rischio o vantaggio/costo. Al limite, non essendo più le nazioni nient’altro che punti nello spazio di produzione delle grandi imprese, la stessa nozione di vantaggio comparativo diventa obsoleta. L’unica risorsa a disposizione degli Stati è quindi il ripiegamento su politiche di pura competitività, a detrimento delle esigenze di coesione sociale. È esattamente quanto è accaduto in Europa dagli anni Ottanta in poi, prima sotto l’influenza delle teorie liberali applicate da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, poi per effetto dei «criteri di convergenza» del trattato di Maastricht. Questo aggiustamento alle esigenze della mondializzazione ha assunto le forme che sappiamo: deregolamentazione e liberalizzazione generalizzate, priorità assegnata alle esportazioni sul mercato interno, privatizzazione delle imprese pubbliche, apertura agli investimenti internazionali, determinazione di prezzi e salari da parte del mercato mondiale, soppressione graduale degli aiuti e delle sovvenzioni, nonché riduzione delle spese accusate di frenare la competitività, come quelle destinate all’educazione, alla protezione sociale o alla difesa dell’ambiente. Uno dopo l’altro, gli Stati europei hanno adottato una politica rigidamente monetari sta, detta di deflazione competitiva, che consiste nel lottare contro l’inflazione grazie a tassi di interesse elevati ed ha avviato come risultato più evidente il rallentamento della crescita e l’aumento de la disoccupazione; nel frattempo, i capitali finanziari, meno tassati dei redditi da lavoro, partecipavano sempre meno alle spese generali della collettività.
La crisi del debito ha costretto nello stesso periodo i paesi del Terzo mondo a operare una correzione di rotta analoga: i programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale hanno spinto la maggior parte di essi ad applicare le stesse ricette dei paesi industrializzati, con risultati ancor più catastrofici. Le organizzazioni internazionali sono state poste al servizio della mondializzazione. La funzione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale è quella di imporre la deregulation, di gestire il flottaggio delle monete e di assoggettare le economie del Terzo mondo all’imperativo assoluto del servizio del debito. Il G7 cerca di coordinare: politiche di gestione della crisi dei principali paesi sviluppati, senza affrontare i problemi di fondo; ma un ruolo del tutto particolare spetta alle organizzazioni incaricate della supervisione del commercio mondiale.
In passato, i negoziati commerciali fra Stati riguardavano un ristretto numero di prassi nazionali, come le quote di importazione, le tariffe doganali, il controllo dei movimenti di capitali, e via dicendo. Oggi, le poste in gioco nella diplomazia commerciale si proiettano molto al di là dei problemi di frontiere ed investono le istituzioni interne dei paesi: la struttura del sistema bancario, i termini del diritto di proprietà privata, la legislazione sociale, la regolamentazione in materia di concorrenza, di concentrazione o proprietà industriale. Il principio sottostante a questi negoziati è che il commercio internazionale deve associare nazioni che possiedono più o meno stesse istituzioni, che si muovono in direzione di regimi di proprietà e regi lamentazione uniformi, perlopiù ricalcati sulla legislazione statunitense e mirati a ridurre l’incertezza e i rischi degli investimenti diretti all’estero. A trarne giovamento è il potere negoziale delle società multinazionali, le quali acquisiscono una nuova capacità di pressione che permette loro di esigere sgravi regolamentari, salariali o fiscali per guadagnare redditività e competitività. In definitiva, «attraverso un numero crescente di negoziati locali. e internazionali, le società vengono poste di fronte a una richiesta di trasfomazione delle loro regole e istituzioni interne, onde conformarsi a un modello imposto dall’esterno» (10). Le clausole del Gatt o dell’Organizzazione mondiale del commercio vanno pertanto ben al di là dei tradizionali obiettivi degli accordi di libero scambio; mirano per prima cosa a promuovere la mobilità del capitale. Gli accordi a cui conducono riguardano in realtà la libertà di circolazione dei capitali, mirando ad instaurare nuovi diritti di proprietà internazionali per gli investimenti all’estero e a creare nuove restrizioni ai regi lamenti nazionali e governativi. Come scrive Ian Robinson, «gli accordi di libera circolazione dei capitali possono essere intesi come strumenti che, in nome della riduzione degli ostacoli al commercio, alterano o consentono di rinegoziare le leggi, le politiche e le prassi che fanno da ostacolo sulla via di un’economia di mercato planetaria» (11).
Va infine registrata un’ altra novità, non trascurabile perché consente di capire la natura della mondializzazione culturale: il capitalismo non vende più soltanto, come ieri, merci e beni; vende anche segni, suoni, immagini, software, connessioni e collegamenti. Non si limita ad ammobiliare le case, colonizza l’immaginario e domina la comunicazione. Mentre negli anni Sessanta la società dei consumi si nutriva ancora di beni materiali identificabili come le automobili e gli elettrodomestici, il sistema che Benjamin R. Barber ha proposto di chiamare «McWorld» come MacIntosh o McDonald costituisce un universo essenzialmente virtuale, nato dalla intensificazione di flussi transnazionali d’ogni genere, che convergono nel produrre un’omogeneizzazione dei modi di vita. «I sostegni del sistema McWorld», precisa Barber, «non sono le automobili, ma il parco di attrazioni Eurodisney, la rete musicale Mtv, i films hollywoodiani, i programmi informatici. Insomma, concetti e immagini oltre agli oggetti» (12).
La mercantilizzazione generalizzata instaura il consumo pubblicitario spettacolare come forma unica di integrazione sociale, esacerbando nel contempo il sentimento di esclusione e gli impulsi aggressivi in chi non ha i mezzi per accedervi. Essa contribuisce, mediante un diluvio di immagini e suoni universali, ad accentuare l’uniformazione ormai a buon punto dei modi di vita, la riduzione delle differenze e delle specificità, l’omogeneizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti, lo sradicamento delle identità collettive e delle culture tradizionali. Ma fa anche di più: modifica addirittura la nostra percezione dello spazio e del tempo. Sotto il controllo dei satelliti in orbita geostazionaria, sotto l’influenza degli imperi economici che moltiplicano alleanze e fusioni, sotto l’effetto delle «autostrade dell’informazione» che veicolano anche nei punti più lontani del pianeta la medesima subcultura globale, il pianeta si restringe. Dominato da monopoli sempre meno numerosi e sempre più potenti, lo spazio in cui circolano merci, investimenti e capitali si va progressivamente unificando. Mentre sino ad oggi tutte le società avevano abitato il tempo nella successione dei momenti e nella continuità della durata, questa distinzione si cancella. La rivoluzione tecnologica del «tempo reale» accelera la circolazione dei flussi materiali e immateriali, senza possibilità di godere di punti di riferimento o di effetti prospettici, e questa compressione del tempo fa dell’immediatezza l’unico orizzonte di senso rimasto. René Char diceva: «sopprimere la lontananza uccide». Il ravvicinamento prodotto dalle nuove tecnologie della comunicazione schiaccia esseri e cose, confonde forme ed istanti. Stiamo in effetti assistendo a una ridefinizione della realtà. Internet ne è un buon esempio. Mentre i sistemi di comunicazione classici si limitano a mostrare quel che accade altrove, Internet permette agli utenti di spostarsi virtualmente in quell’altrove. L’abitante del sistema McWorld vive nello stesso momento ovunque e in nessun luogo; Internet inaugura un nuovo modo di vita che si potrebbe chiamare nomadismo elettronico ma che è anche un: forma di colonialismo elettronico, dal momento che «in fin dei conti, la potenza di Internet sta nel fatto che [...] consente a tutto il mondo di pensare e scrivere come i nordamericani», secondo la giusta osservazione di Nelson Thall, successore di Marshall McLuhan all’università di Toronto.
La mondializzazione non deve dunque essere confusa con la semplice internazionalizzazione, sistema creato e organizzato dagli Stati per definire le forme dei loro rapporti internazionali (13). Essa si definisce semmai come passaggio da un’economia internazionale concepita come un aggregato di economie nazionali e locali, distinte dai rispettivi principii di funzionamento e di regolamentazione, a una vera e propria economia di mercato planetaria, governata da un sistema di regole uniformi, nel senso inteso da Karl Polanyi (14).
Essa descrive «l’interdipendenza crescente che unisce fra di loro tutte le componenti del nostro spazio-mondo, per condurle verso un’uniformità un’integrazione sempre più esigenti» (15). A pilotarla sono nuovi attori extrastatali ed extranazionali, che aspirano unicamente a massimizzare i propri dividendi e profitti pianificando ed ottimizzando l’organizzazione planetaria delle loro attività ed eliminando tutto quel che può fare da ostacolo al loro libertà d’azione. E questi nuovi autori, che rafforzano un po’ ogni giorno la loro autonomia, sono sempre più indipendenti, a tal punto da costituire un unico immenso organismo mercantile.
Una volta che si è colta la natura esatta della mondializzazione, è facile comprenderne le conseguenze. La prima è un tragico aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Al giorno d’oggi, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione. Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40%: dal 1950 ad 01 il commercio mondiale è stato moltiplicato per undici, la crescita economi per cinque. Ebbene, durante lo stesso periodo, non solo non si è verificato un innalzamento regolare del livello di vita media, ma si è viceversa assistito. ad un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente. Il PIL reale per abitante nei paesi del Sud ammonta oggi a solo il 17% di quello del Nord. Il mondo industriale, che non rappresenta più di un quarto dell’umanità, detiene l’85% delle ricchezze della Terra. I paesi membri del G7 rappresentano l’ 11 % della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta. Da sola, la città di New York consuma più elettricità dell’intera Africa subsahariana. Fra il 1975 e il 1995, la ricchezza statunitense è aumentata nel complesso del 60%, ma questo aumento è stato accaparrato dall’ 1 % della popolazione. Un’ultima cifra rivelatrice: il patrimonio dei 358 miliardari in dollari oggi presenti sul pianeta supera i redditi annuali cumulativi dei due miliardi e trecento milioni di individui più poveri, ovvero l’equivalente di quasi la metà dell’umanità. Si può dunque constatare che più vi è ricchezza, più vi sono poveri; il che confuta la teoria liberale in base alla quale tutta la società dovrebbe finire per beneficiare dei profitti ottenuti dai più ricchi. In realtà, restituendo alle forze del mercato un quasi monopolio, la mondializzazione contribuisce allo sviluppo delle diseguaglianze e dell’emarginazione, minacciando la coesione delle società. Nel contempo, il colonialismo continua ad esistere in modo informale. L’aiuto al Terzo mondo ha perfezionato la tecnica del prestito e dell’usura come strumento di controllo. L’organizzazione mondiale del commercio ingiunge ormai ai paesi del Sud di accordare un trattamento “nazionale” agli investimenti esteri, eliminando qualsiasi ostacolo rappresentato dalla legislazione sul lavoro, sull’ambiente o sulla salute. Ma ovunque sono stati adottati, i sistemi liberali di adeguamento strutturale hanno provocato un aggravamento delle condizioni di esistenza della maggior parte della popolazione e l’intensificazione dell’instabilità sociale, che a sua volta ovviamente causa la fuga dei capitali: il che permette di constatare il carattere fondamentalmente parassitario della mondializzazione. I paesi che rifiutano di accettare queste pretese vengono messi ai margini, tenuti in disparte e alla fine espulsi dai circuiti internazionali. Ovviamente, queste conseguenze non si fanno sentire solamente nei paesi del Sud. Nel Nord, la mondializzazione si traduce in un’aspra concorrenza transnazionale che, per il tramite delle esportazioni e degli investimenti diretti, provoca una consistente riduzione delle remunerazione e dei posti di lavoro. Tutti i beni o servizi prodotti localmente che potrebbero essere realizzati altrove diventano vulnerabili alla pressione esercitata dal capitale per ottenere una riduzione dei salari e degli oneri sociali, mentre 1’aumento dei costi del lavoro legato alla rarefazione del capitale umano e all’incidenza dell’invecchiamento demografico incita gli imprenditori a trasferire l’attività in paesi dalla manodopera meno cara e più flessibile. Poiché le produzioni competitive dei paesi in via di sviluppo sono soprattutto quelle che includono molta manodopera non qualificata, quest’ultima viene ad essere incoraggiata e nel contempo sfruttata nel Sud e gradatamente privata dell’impiego nei paesi del Nord, fatto che contribuisce alla crescita di una disoccupazione strutturale. In mancanza di sbocchi commerciali adeguati, per raggiunger dimensioni sufficienti a sopravvivere sui mercati globali le ditte sono costrette a sottrarre fette di mercato ai concorrenti migliorando di continuo] propria competitività: il che innesca un continuo processo di ristrutturazione industriali e riduzioni di personale (downsizing) che hanno effetti devastanti sul piano sociale. Eppure, le delocalizzazioni sono solo all’inizio. Nel 1990 i manufatti esportati dai nuovi paesi industrializzati dell’Asia sud-orientale verso i paesi dell’OCDE non rappresentavano più dell’ 1,61 % del PIL di ti paesi, ma il fenomeno è in crescita: fra il 1970 e il 1990, la quota dei paesi emergenti negli scambi dell’Ocde è passata dallo 0,70% al 6,44%. A questo ritmo, fra vent’anni potrebbe raggiungere il 55%.
La rivoluzione industriale aveva consentito di integrare il personale non qualificato nella società globale. La mondializzazione tende invece ad escluderne sistematicamente chi non ha i requisiti adatti. Rispetto all’andamento precedente del capitalismo, si tratta di una rottura fondamentale, che rimette in discussione tutti i compromessi sociali adottati dallo Stato assistenziale keynesiano. Mondializzazione salariale e globalizzazione finanziaria agiscono infatti sinergicamente per rovesciare il corso della politica economica e sociale che aveva patrocinato i decenni di crescita del dopoguerra. Durante il trentennio di prosperità durato sino a metà degli anni Settanta, che corri sponde all’apogeo del sistema fordista, il capitalismo era stato costretto a venire a patti con le rivendicazioni sociali formulate nelle società industriali e con la volontà degli Stati di gettare le basi di un ordine economico internazionale. Lo Stato assistenziale aveva rappresentato il risultato di quel compromesso storico fra capitale e lavoro, cioè dell’adeguamento delle strategie del capitale ad un certo numero di esigenze sociali. La mondializzazione ha stracciato quel contratto sociale. A partire dagli anni Settanta, la logica economica del capitalismo ha cominciato a staccarsi dalle preoccupazioni sociali: causando una rimessa in discussione generalizzata della gerarchia dei salari e dei meccanismi di solidarietà collettiva.
Questo distacco tra economia e società va di pari passo con lo smembra. mento della coppia Stato assistenziale/classi medie, attorno alla quale era stata costruita la crescita dei decenni precedenti. Sotto l’effetto della mondializzazione, si assiste all’ascesa di un modello di società a clessidra in cui la grande maggioranza degli abitanti scivola verso il basso per effetto della precarietà, mentre la ricchezza si polarizza nelle alte sfere che segna la destrutturazione del ceto medio, ovvero di quelle classi «che pure non solo erano state create dai capitalismi del primo Novecento, ma avevano costituito la base della loro crescita» (16), Nel trentennio della prosperità le classi medie avevano costantemente consolidato la loro posizione, favorendo l’integrazione di frazioni sempre più vaste della popolazione e quindi una riduzione relativa delle diseguaglianze. È questo modello di una classe media destinata ad estendersi progressivamente e irreversibilmente agli strati popolari ad essere rimesso oggi in discussione. Da ciò risulta una profonda trasformazione dei rapporti di classe e d’interesse all’interno dei paesi capitalisti. Alla destrutturazione delle classi medie corrisponde infatti una tendenza analoga fra gli strati popolari, costretti ad assistere alla crisi dei tradizionali strumenti di difesa perché i sindacati, di fronte alle società multinazionali abituate a giocare sulle differenze dei salari sul mercato mondiale, non dispongono della forza di pressione che sono abituati a mettere in campo nei negoziati con le controparti pubbliche.
Questa evoluzione equivale ad una formidabile regressione, poiché riproduce situazioni di supersfruttamento paragonabili a quelle che il movimento operaio aveva dovuto combattere nella fase pionieristica del capitalismo industriale. Karl Marx, malgrado la sua difettosa filosofia della storia, aveva visto che la logica di accaparramento passionale presente nel capitalismo sfocia nella reificazione dei rapporti umani. L’ironia della storia vuole che, proprio nel momento in cui il sistema comunista sovietico è crollato, le sue tesi ritrovino una certa pertinenza dinanzi a una logica del profitto che si impone senza il minimo ritegno: la disoccupazione e la povertà tornano ad essere come nel XIX secolo dati sociali strutturali, la precarietà e l’emarginazione si estendono giorno dopo giorno, i redditi da capitale continuano a crescere a discapito di quelli da lavoro, le garanzie ottenute dai lavoratori dopo decenni di lotte vengono rimesse in discussione una dopo l’altra.
Un’ultima conseguenza della mondializzazione è la crescente impotenza degli Stati nazionali. Sotto l’effetto dell’accelerazione della mobilità internazionale del lavoro, della mondializzazione dei mercati e dell’integrazione delle economie, i governi vedono ridursi a vista d’occhio le possibilità di azione macroeconomica. In materia monetaria il loro margine di manovra è quasi nullo, dal momento che i tassi di interesse e di cambio sono ormai soggetti all’autorità di banche centrali indipendenti che assumono le proprie decisioni in funzione dell’evoluzione dei mercati: un paese che decidesse una diminuzione unilaterale dei tassi d’interesse assisterebbe immediatamente a una fuga di capitali verso paesi che offrono maggiori possibilità di guadagno. Inoltre, la capacità di mobilitazione monetaria delle banche centrali è diventata inferiore al volume delle transazioni: la Banca di Francia, nel luglio 1993, ha perso in una sola giornata di attacco speculativo contro il franco tutte le riserve di cambio di cui disponeva. In materia di bilancio, gli Stati vedono ugualmente ridursi i margini di libertà, a causa di un elevato indebitamento pubblico, che vieta qualsiasi rilancio non concertato. In materia di politica industriale, infine, per resistere alla concorrenza i governi non hanno altra soluzione se non cercare di attirare le imprese estere a suon di sovvenzioni e trattamenti fiscali privilegiati, il che le pone alla mercè delle esigenze delle multinazionali.
Queste ultime non si accontentano di scavalcare le frontiere. Come abbiamo visto, esse riescono a far modificare anche i contesti legislativi che in teoria dovrebbero regolamentare le loro operazioni. Tasse o salari troppo alti, condizioni di lavoro socialmente troppo pesanti le fanno fuggire. Ne consegue che «qualunque forma di regolamentazione può essere vittima di pressioni al ribasso del mercato, semplicemente perché le imprese multinazionali vedono in essa un costo» (17). Il potere fiscale degli Stati dunque non è più sovrano ma contrattuale, in quanto inevitabilmente negoziato con un capitale sempre più erratico, e quindi sempre più in grado di dettare le condizioni. «Nessun governo, anche nel Nord», spiega Edward Goldsmith, «esercita più alcun controllo sulle imprese multinazionali. Se una legge dà fastidio alla loro espansione, esse minacciano di andarsene, e possono farlo su due piedi. Sono libere di spostarsi in tutto il pianeta per scegliere la manodopera meno cara, l’ambiente meno protetto dalla legge, il regime fiscale meno oneroso, i sussidi più generosi. Non c’è più bisogno di identificarsi in una nazione o di lasciare che un attaccamento sentimentale ostacoli i loro progetti. Sono completamente fuori controllo» (18). In definitiva, aggiunge Jacques Adda, «la globalizzazione finanziaria può essere analizzata come un processo di aggiramento delle regole instaurate dagli Stati più sviluppati nel quadro di un sistema multilaterale di regolamentazione dell’economia mondiale» (19).
L’economia mondializzata fa pesare sugli Stati nazionali costrizioni così forti che gli strumenti d’azione tradizionalmente utilizzati da questi ultimi perdono gradualmente ogni efficacia. Sempre più in difficoltà nel controllare la ricchezza, essi si vedono privati di una leva politica essenziale: la pianificazione coerente del territorio; e dal momento che tutti i sacrifici di bilancio in campo sociale appaiono come altrettanti indebolimenti della capacità competitiva in campo economico, non riescono più neppure a svolgere i compiti di gestione degli accordi sociali fondamentali. Le classi politiche scivolano nell’impotenza e lo Stato cambia ruolo: rinunciando alla mediazione sociale, si limita alla gestione territoriale di flussi che lo scavalcano. Ridotto a spettatore, non è altro che «una sorta di cancelliere che registra decisioni prese altrove» (20). È un cambiamento rivoluzionario, che sgretola uno dei fondamenti della politica moderna, la sovranità statale. Come scrive Bertrand Badie, «la mondializzazione spezza le sovranità, trafigge i territori, malmena le comunità costituite, sfida i contratti sociali e rende obsolete talune concezioni della sicurezza internazionale [...] Per cui la sovranità non è più quel valore fondamentale indiscusso che era un tempo, mentre l’idea di ingerenza cambia lentamente, ma decisamente, connotazione» (21). Non appena salta la valvola della sovranità, sprizza il problema dell’identità, con tutti gli effetti di anomia sociale connessi. Anche i principi democratici vengono colpiti. Fra la perdita di sovranità degli Stati nazionali e l’indebolimento della democrazia esiste infatti un rapporto diretto: da un da un lato, la mondializzazione tende a generalizzare l’appartenenza multipla a discapito della lealtà legata alla cittadinanza; dall’altro, la legittimità che la classe dirigente trae dal fatto di essere eletta dal popolo dei cittadini viene messa in discussione nel momento stesso in cui essa non ha più gli strumenti necessari per frapporsi tra le esigenze del capitale e i bisogni dei corpi sociali. Inoltre, anche la libera circolazione dei capitali restringe il campo del controllo democratico sulle politiche economiche e sociali, dal momento che tali politiche sono soggette a vincoli esterni ai quali i governi non possono sottrarsi, e che il potere di decisione si trasferisce nelle mani di attori economici mondiali che non devono rendere conto a nessuno. La cittadinza diviene perciò inoperante e priva di senso; tanto che ci si può chiedere cosa voglia dire «prendere il potere» in un mondo come questo. La mondializzazione non è lo «Stato universale» di cui Ernst Jünger aveva creduto di intravedere la nascita nella fusione progressiva della «stella rossa» e della «stella bianca», vale a dire dell’Est e dell’Ovest (22). Essa è prima di tutto il frutto di una modernizzazione che assume la forma di piani aggiustamento strutturale miranti ad integrare ogni singola società nel mercato mondiale. Si tratta di una modernizzazione che si presenta come una posta alla crisi della modernità nata dall’illuminismo (23), ma la risposta che offre consiste esclusivamente nell’autonomizzazione radicale dell’economia mercantile, nella finanziarizzazione del capitale e nella parallela ascesa della conoscenza. L’idea generale che la sorregge è che la scienza consentirà di capire tutto, l’ expertise tecnica di risolvere tutto e il mercato di acquistare tutto. Ma le cose non vanno così. Karl Polanyi aveva pronosticato che il mercato avrebbe distrutto la società. È quel che sta accadendo. Il «dolce commercio», che secondo Adam Smith avrebbe dovuto pacificare i rapporti umani, trapianta la guerra persino all’interno dello scambio. La dittatura dell’economia e la priorità del privato nella conduzione degli affari pubblici portano alla dissoluzione del regime sociale. L’universo della deregolamentazione generalizzata produce il livellamento verso il basso delle culture, tutte quante ridotte ad un unico denominatore consumistico. «L’occhio senza pregiudizi», ha fatto osservare Jünger già oltre trent’ anni fa, «è sorpreso dalla vasta conformità, sempre crescente, che sommerge a poco a poco tutti i paesi non solo come monopolio dell’una o dell’altra potenza concorrente, ma come stile globale» (24). «Lo choc contemporaneo della mondializzazione», scrive Philippe Engelhard, «è conseguenza di un liberalismo universalista che, ad onta delle apparenze, detesta le differenze. Il suo programma impliclito è quello di un’omogeneizzazione del mondo attraverso il mercato, e dunque lo sradicamento sia dello Stato nazionale che delle culture [...] La realizzazione della società liberale non sopporta né le scorie culturali né le appartenenze comunitarie. Il programma liberale massimalista punta allo sradicamento delle differenze di qualunque natura, perché esse sono di ostacolo al grande mercato e alla pace sociale. In realtà, non è soltanto la scoria culturale ad essere di troppo, ma anche il fatto sociale [...] La logica della modernità occidentalc risiede fondamentalmente nella non cultura universale del tutto mercato» (25).
Ma la mondializzazione non è nemmeno l’universalità. Ne è anzi, per certi aspetti, il contrario, perché l’unica cosa che universalizza è il mercato cioè una modalità di scambio economico che rimanda a un momento della storia di una cultura ben precisa. Da questo punto di vista, la mondializzazione non è altro che l’imperialismo di un Occidente mercantile che si è gonfiato sino a raggiungere le dimensioni del pianeta, un imperialismo interiorizzato da coloro che lo subiscono. La mondializzazione è l’imitazione di massa dei comportamenti economici occidentali. È la conversione dell’intero pianeta alla religione del mercato, i cui teologi e grandi sacerdoti predicano come fine ultimo la redditività (26). Non è un universalismo dell’essere ma un universalismo dell’avere. È l’universalismo astratto di un mondo disgregato dove gli individui sono definiti esclusivamente dalla capacità di produrre consumare. Per questa via il capitalismo si propone di riuscire là dove il comunismo aveva fallito, giustizia sociale messa a parte, ovviamente: creare un pianeta senza frontiere abitato da un «uomo nuovo». Ma quest’uomo nuovo non è più il lavoratore o il cittadino, è il consumatore integrato, che condivide il destino comune di un’umanità priva di spessore connettendo: con Internet o recandosi al supermercato. «Lo scrittore portoghese Miguel Torga», ricorda Zaki Laïdi, «definiva un tempo l’universale come “il locale meno i muri”. Voleva dire che i valori dell’universalità potevano essere promossi e difesi solo se, prima, le persone si sentivano innestate in una solida realtà locale. La mondializzazione sviluppa invece una dinamica inversa. Gli individui si sentono sradicati dal globalizzazione, privi di potere sulle cose, e si sforzano di conseguenza di erigere dei muri, per quanto fragili e risibili» (27).
Sul piano psicologico, così come gli Stati diventano impotenti, gli individui hanno in effetti oggi la sensazione di essere espropriati del proprio da logiche troppo forti, da processi sempre più rapidi, da costrizioni sempre più pesanti, da variabili tanto numerose da impedir loro di capire a che livello si situano le loro azioni. Il fatto che questo fenomeno si verifichi in un momento in cui l’uomo si sente sempre più solo, abbandonato a se stesso e tutte le grandi visioni del mondo sono crollate, non fa che accentuare questa sensazione di vuoto generalizzato. «La mondializzazione», scrive ancora a ragione Zaki Laïdi, «riproduce stranamente il meccanismo freudiano della folla presa nel moto del contagio-panico. Contagio nella misura in cui la mondializzazione sviluppa il conformismo e l’uniformità. Panico perché tutti si sentono soli di fronte a logiche che non riescono a controllare» (28). La mondializzazione rassomiglia, da questo punto di vista, ad un puzzle di immagini sminuzzate: non si aggrappa ad alcuna visione del mondo, si vieta qualunque rappresentazione, e i poteri pubblici, che la dichiarano irreversibile, non sanno proporne alcuna forma di accettazione simbolica. «Il nocciolo del problema della mondializzazione dipende dall’interazione fra un mondo senza frontiere e un mondo privo di punti di riferimento [...] E questa dialettica [...] a spiegare la crisi del senso e, perciò, a rafforzare la nostra percezione di un mondo disordinato» (29). Viene da pensare alla terribile frase scritta da Péguy nel 1914, poco prima di morire: «Tutti sono infelici nel mondo moderno».
Beninteso, più la mondializzazione avanza a livello planetario, più le società aggredite cercano di ricostruire i propri particolarismi, di riprendere coscienza della propria personalità; ma fanno fatica. Alcune si inventano identità nuove di zecca. Altre cercano disperatamente di ricrearsi un’identità fittizia in un mondo in cui tutto diventa pura esteriorità. Molti adottano forme d’azione convulse, alimentate da frustrazioni d’ogni genere, che sfociano irrimediabilmente nell’irredentismo e nella xenofobia. Si assiste allora allo scontro che Benjamin R. Barber riassume nella formula «Jîhad contro McWorld». Da un lato un pianeta in via di uniformazione, progressivamente omogeneizzato dal commercio e dalla comunicazione globale; dall’altro, raccolti sotto la semplice etichetta di «Jîhad», tutto un insieme di soprassalti e affermazioni aggressive di identità etnica o religiosa, che danno via un po’ ovunque a guerre civili e conflitti tribali (30).
Questa fiammata di convulsi identitarismi si può capire, non essere altro che la conseguenza, tutto sommato logica, della trasformazione dell’intero pianeta in «società aperta»: un eccesso di apertura causa inevitabilmente un eccesso di chiusura. La reinvenzione del tribalismo, del parentelismo, del clanismo o dell’etnismo esacerbato, può essere interpretata come un disperato tentativo di reagire a una minaccia di esproprio. Ma è evidente che non è possibile sostenere reazioni di questo genere, che, per i loro processi, si screditano da sé. Sarebbe anzi molto più giusto considerarle, come fa Barber, qualcosa di inevitabilmente legato alla mondializzazione. Da un lato, infatti, queste due forze in apparenza antagonistiche si giustificano a vicenda traendo spunto dai rispettivi eccessi per imporre eccessi di segno opposto: l’aggravamento delle ineguaglianze risultante dalle costrizioni dell’economia generalizzata spinge i più poveri all’estremismo, e a seguito delle guerre etnoreligiose l’irruento McWorld s’impossessa con sempre maggior forza delle menti. Dall’altro, esse costituiscono, per vari versi, due forme diverse, soft e hard, della medesima tendenza totalitaria, poiché si congiugono per soffocare ogni forma di democrazia e di partecipazione attiva dell’insieme dei cittadini alla vita pubblica. Colpisce poi il fatto che alcuni movimenti fondamentalisti, che rifiutano la modernità delle idee e pretendono di difendere i propri valori dall’Occidente, di fatto si aprano a tutte le produzioni tecnologiche e culturali occidentali: i Taleban afghani o i protagonisti dei conflitti etnici dell’ Africa nera non esitano a collegarsi con la Cnn, portare dei jeans e a bere Coca-Cola.
In questo modo, gli estremi si toccano. Già nel 1920 il linguista russo, Nicolas S. Troubetzkoy ha constatato la paradossale parentela del cosmopolitismo e dello sciovinismo. «Basta considerare effettivamente lo sciovinismo e il cosmopolitismo», scriveva, «per accorgersi che fra i due non, c’è nessuna differenza radicale, che sono solo due gradi, due aspetti di u unico, identico problema» (31). Il cosmopolitismo, aggiungeva, nega le differenze nazionali sulla base di un’idea dell’umanità che rinvia ad un modello specifico; invita l’umanità civilizzata a formare un’entità unica limitandosi a universalizzare il modello di una civiltà particolare, la civiltà occidentale implicitamente considerata lo «stadio» più avanzato della civiltà in generale. «Esiste pertanto», concludeva, «un parallelismo totale fra gli sciovinisti e i cosmopoliti [...] La differenza sta semplicemente nel fatto che lo sciovinista prende in considerazione un gruppo etnico più ristretto di quello considerato dal cosmopolitismo» (32). Entrambi conoscono un unico, identico criterio di giudizio: «Ciò che ci assomiglia è meglio e migliore di ciò che è diverso da noi» (33).
È chiaro che la crescita incontrollata del capitalismo finanziario non l’unica via d’uscita dalla crisi che il mondo oggi conosce, e che devono esse messe a punto delle regole che consentano di reagire a tutti i livelli contro le forme attualmente assunte dalla mondializzazione.
Innanzitutto, è assolutamente possibile regolamentare i mercati finanziari a livello internazionale. L’idea di imporre una tassa sui movimenti finanziari in valuta, avanzata dal professor Tobin, si è già fatta strada. Una tassa dello 0,05% sulle operazioni di cambio mondiali scoraggerebbe un certo numero di operazioni speculative a brevissimo termine e produrrebbe un’entrata di 150 miliardi di dollari l’anno, vale a dire il doppio dell’attuale ammontare degli aiuti internazionali. Una somma di questa portata permetterebbe ad esempio di costituire un fondo mondiale di protezione sociale o di difesa dell’ambiente. Si potrebbero inoltre creare organizzazioni internazionali incaricate di gestire l’economia mondiale in modo diverso da quanto accade attualmente, le quali avrebbero il compito di imporre la redistribuzione di una parte sostanziosa dei profitti della mondializzazione a vantaggio di chi ne è vittima. Philippe Engelhard propone di creare una moneta mondiale.
Essendo la fluttuazione delle monete il fondamento della circolazione finanziaria planetaria, il ritorno a un metro di valore internazionale stabile impedirebbe una speculazione che si nutre principalmente degli scarti di cambio. Tuttavia, se si ammette che «il fenomeno di mondializzazione appare come una rivincita dell’economico sul sociale e sul politico» (34), risulta ovvio che la risposta alla mondializzazione non può essere soltanto economica. Ci si deve pertanto porre il problema di come colmare lo squilibrio determinato dalla mancanza di organizzazioni politiche e sociali in grado di tenere sotto controllo il prodigioso sviluppo dell’economia mondiale.
Se si parte dal principio che la politica deve controllare e regolare l’economia, se ne deduce che l’intervento politico su un’economia planetaria deve essere condotto a livello mondiale. In altri termini, giacché l’economia si è mondializzata, la politica dovrebbe fare altrettanto; ma sappiamo che lo Stato mondiale è una chimera e che la sua creazione, dalle modalità quantomeno nebulose, solleverebbe più problemi di quanti non riuscirebbe a risolverne (35). D’altro canto, ostinarsi a contrapporre lo Stato nazionale alla mondializzazione sarebbe un duplice errore. In primo luogo perché la mondializzazione non fa altro che estendere all’intero pianeta un processo di omogeneizzazione che le burocrazie statali hanno già ampiamente avviato a livello nazionale (fa, cioè, in grande quel che lo Stato nazionale ha già fatto in piccolo). In secondo luogo, e soprattutto, perché lo Stato nazionale costituisce oggi il livello di intervento e di decisione maggiormente paralizzato dallo stesso processo di mondializzazione. Soggetto a costrizioni esterne che superano di gran lunga le sue capacità, lo Stato nazionale non è più in grado di affrontare da solo i problemi globali. Far credere che esso possa ancora decidere in modo sovrano di aprire o chiudere le frontiere ai flussi finanziari, o che sia possibile ricostruire una società solidale al riparo di mura destinate ad isolare i suoi abitanti dal mondo esterno, è una visione utopica oppure una menzogna (36).
L’Europa politica, e in una prospettiva più ampia la regionalizzazione di un certo numero di grandi insiemi continentali, potrebbero invece costituire un antidoto alla mondializzazione. Pur senza essere una panacea (in quanto esiste sempre il rischio che, tramite gli investimenti diretti, i paesi coinvolti debbano subire la concorrenza interna di società multinazionali esterne alla zona), l’integrazione europea potrebbe permettere di rispondere ai bisogni di mercati sufficientemente vasti e di costituire un polo di dimensioni adeguate a fronteggiare i flussi finanziari mondiali. Lo spazio economico europeo è potenzialmente il primo mercato del mondo in termini di popolazione e di livello globale del potere d’acquisto. Un’autorità politica europea, consentendo di dirigere e coordinare le politiche monetarie e di bilancio, faciliterebbe l’abbandono di politiche di crescita orientate verso l’esterno a profitto di uno sviluppo autocentrico, che non comporterebbe l’abbandono della protezione sociale. La moneta unica, utilizzata consapevolmente per ridurre le prerogative del dollaro, diventerebbe in tal caso un elemento di impotenza e di ritrovata sovranità. Bisognerebbe però incamminarsi verso un’ Europa davvero sovrana, in cui ogni tappa dell’integrazione dei mercati nazionali sia accompagnata da una capacità superiore di affermazione e di decisione, e non verso un’Europa mercantile costituita come un semplice spazio di libero scambio. E per adesso le cose non stanno in questi termini: le attuali istituzioni europee possono essere tanto un polo di resistenza alla mondializzazione quanto un vettore di tale processo, ed è giocoforza constatare che gli atti comunitari imposti agli Stati membri non discendono da una vera sovranità europea (37).
Rimane, infine, il livello della vita quotidiana. Rimane il livello locale, l’unico in cui gli uomini politici possono ancora scorgere gli effetti della propria politica. Dinanzi alla mondializzazione degli scambi e all’universalizzazione dei segni, di fronte alla lama che fa tabula rasa di tutte le differenze e di tutti i valori, rimane la singolarità delle forme. Rimangono le lingue, le culture, un legame sociale che va pazientemente ricreato nell’esistenza di ogni giorno. Philippe Engelhard ha scritto a questo proposito che «la riabilitazione della politica passa, in un momento o in un altro, attraverso una ricostruzione della società e della cultura, e viceversa. A condizione di considerare la cultura non come un dato statico ma come una tensione creativa, portatrice di senso, e come un approfondimento dell’arte di vivere insieme» (38). Jean Baudrillard ha recentemente fatto notare che «ogni cultura degna di questo nome si perde nell’universale. Ogni cultura che si universalizza perde la propria singolarità e muore. Accade così con quelle che abbiamo distrutto assimilandole a forza, ma anche con la nostra nella sua pretesa di universalità». Per poi aggiungere: «Tutto ciò che fa evento oggi si fa contro l’universale, contro questa universalità astratta» (39). E una lezione da meditare e soprattutto, da mettere in pratica.


Note

1 Cfr. in particolare Robert Reich, L’économie mondialisée, Dunod, Paris 1993; François Chesnais, La mondialisation du capital, Syros, Paris 1994; Jacques Adda, La mondialisation de l’économie, 2 voll. (1:Genèse; 2:Problèmes), La Découverte, Paris 1996; Samir Amin, Les défis de la mondialisation, L’Harmattan, Paris 1996; Anton Brender, L’impératif de solidarité. La France face à la mondialisation, La Découverte, Paris 1996; Jean-Yves Carfantan, L’épreuve de la mondialisation. Pour une ambition européenne, Seuil, Paris 1996; François Chesnais (a cura di), La mondialisation financière. Genèse, coût et enjeux, Syros, Paris 1996; Elie Cohen, La tentation hexagonale. La souveraineté à l’épreuve de la mondialisation, Fayard, Paris 1996; Philippe Enghelard, L’homme mondial. Les sociétés humaines peuvent-elles survivre?, Arléa, Paris 1996.
2 Karl Marx, Principi di una critica dell’economia politica.
3 Philippe Enghelard, op. cit., pag.. 543.
4 «Il susseguirsi degli eventi», scriveva MarcelL Mauss nel 1920, «va nella direzione di una moltiplicazione crescente dei prestiti, degli scambi, delle identificazioni sin nel dettaglio della vita morale e materiale» (La nation, in Oeuvres, III, Cohésion sociale et divisions de la sociologie, Editions de Minuit, Paris 1969, pag. 625.
5 Jacques Adda, op. cit., vol. 1.
6 Cfr. Bertrand Badie, La fin des territoires, Fayard, Paris 1996.
7 Cfr. Charles-Albert Michalet, Le capitalisme mondial, Presses Universitaires de France, Paris 1985.
8 «La liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di capitali», scrive Samir Amin, «l’adozione dei cambi fluttuanti, gli alti tassi d’interesse, il deficit della bilancia dei pagamenti americana, il debito estero del Terzo mondo, le privatizzazioni, costituiscono, assieme, una politica perfettamente razionale che offre ai capitali fluttuanti la prospettiva di una fuga in avanti nella collocazione finanziaria speculativa, aggirando il pericolo principale, quello di una massiccia svalutazione dell’eccedenza di tali capitali» (Les vrais enjeux de la mondialisation, in «Politis-La Revue», ottobre-dicembre 1996, pag. 70).
9 Philippe Engelhard, op. cit., pag. 23, nota a tale proposito che sono «i popoli il cui sistema culturale è stato meno brutalizzato dalla modernità occidentale o che, quantomeno, si sono aperti ad essa con prudenza, [che] sembrano ottenere i migliori risultati economici. È il caso del Giappone, ma anche di taluni popoli dell’ Asia sud-orientale e della Cina».
10 Suzanne Berger, Le rôle des Etats dans la globalisation, in «Sciences humaines», settembre-ottobre 1996, pag. 55.
11 Ian Robinson, Mondialisation et démocratie: un point de vue nord-américain, in «M», marzo-aprile 1996, pag. 16.
12 Benjamin R. Barber, Internet et tchador, même combat, in «La Vie», 14.11.1996, pag. 58; cfr. IDEM, Djîhad versus McWorld, Desclée de Brouwer, Paris 1996.
13 Già Marcel Mauss aveva notato che «l’internazionalismo degno di questo nome è il contrario del cosmopolitismo. Non nega la nazione. La mette al suo posto. Inter-nazione è il contrario di a-nazione» (La nation et l’intemationalisme, testo del 1920, in «Oeuvres. III», cit., pag. 630.
14 Cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1984.
15 Bertrand Badie, Mondialisation et société ouverte, in «Après-demain», aprile-maggio 1996 pag. 9.
16 Pierre Noël Giraud, L’inégalité du monde. Economie du monde contemporain, Gallimard-Folio, Paris 1996.
17 Ian Robinson, art. cit., pag. 19.
18 Edward Goldsmith, Seconde jeunesse pour les comptoirs coloniaux, in «Le Monde diplomatique», aprile 1996 [tr. it. V. in Processo alla globalizzazione, Arianna Editrice, Casalecchio, 2002].
19 Jacques Adda, op. cit., vol. 1, pag. 94.
20 Riccardo Putrella, in «Le Monde diplomatique», maggio 1995. Sul modo in cui la mondializzazione riduce i poteri degli Stati nazionali, cfr. anche Kenishi Ohmae, The Borderless World, Harper Collins, New York 1990; Vincent Cable, The Diminished Nation-State, in «Daedalus», primavera 1995; Kenishi Ohmae (a cura di), The Evolving Global Economy. Making Sense of the New World Order, Harvard University Press, Cambridge 1995.
21 Bertrand Badie, Mondialisation et société ouverte, cit., pag. 9.
22 Cfr. Ernst Jünger, L’Etat universel, Gallimard, Paris 1962 [tr. it. Lo Stato mondiale, Guanda, Parma 2000]. Jünger si richiamava ad un’evoluzione che «fa pensare che la differenza tra la stella rossa e la stella bianca non sia altro che lo sfavillio che accompagna il levarsi di un astro all’orizzonte. Basta che salga nel cielo, e l’unità si svela» (pag. 35).
23 Cfr. Gustave Massiah, Quelles réponses à la mondialisation?, in «Après-demain», aprile- maggio 1996, pag. 6.
24 Ernst Jünger, op. cit., pag. 34.
25 Philippe Engelhard, op. cit., pagg. 199,250,256. L’autore aggiunge: «Ma poiché le differenze sono indubitabili, quelle delle ricchezze, dei talenti o di qualunque altra cosa, bisognerà che gli individui diventino assolutamente indifferenti [...] Questa indifferenza, che può sembrare da alcuni punti di vista insopportabile, è latente nel paradigma neoclassico che postula l’assoluta separabilità delle funzioni di preferenza degli attori. In altri termini, le mie scelte devono essere assolutamente indipendenti da quelle del mio vicino, e non comparabili ad esse [...] Questa indifferenza, che culmina nella separabilità assoluta delle funzioni di preferenza degli attori, è strettamente legata alla negazione del dato culturale. Ogni appartenenza culturale o comunitaria sarebbe infatti tale da stabilire una connivenza fra le preferenze degli individui del gruppo. Il principio di separabilità sarebbe rimesso in discussione» (ibidem, pagg 251 e 256).
26 Cfr. in proposito Philippe Lançon, L’économie, comme théologie de la contrition, in «Libération», 3.6.1996, pag. 5.
27 Qu’est-ce que la mondialisation?, in «Libération»,1.7.1996, pag. 6. Cfr. anche Zaiki Laïdi, Un monde privé de sens, Fayard, Paris 1996; IDEM, Pour une pédagogie de la mondialisation in «Après-demain», aprile-maggio 1996.
28 Ibidem.
29 Pour une pédagogie de la mondialisation, cit., pag. 4.
30 Sono state queste reazioni convulse a suggerire la tesi di Samuel Huntington secondo cui il mondo si starebbe dirigendo verso una guerra tra le culture o le civiltà (The Clash of Civilizations?, in «Foreign Affairs», estate 1993; The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996 [tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1998]). Tesi che bisogna maneggiare con precauzione, se è vero che non è tanto la cultura che determina la specificità dei conflitti, quanto piuttosto «la specificità dei conflitti che condiziona il ruolo del fattore culturale e la percezione culturale che ne hanno gli attori stessi» (Panajotis Kondyus in «Frankfurter AlIgemeine Zeitung», citato in «Courrier international», 10.10.1996, pag. 42.
31 Nicolas S. Troubetzkoy, L’Europe et l’humanité, Mardaga, Liège-Siprimont 1996, pag 47.
32 Ibidem, pag. 49.
33 Ibidem, pag. 65.
34 Jacques Adda, op. cit., vol. 1, pag. 62.
35 Cfr. Danilo Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, FeltrinelIi, Milano 1995.
36 Va notato anche che la resistenza alla mondializzazione non implica necessariamente il richiamo alla territorialità tipico degli Stati nazionali. Un gran numero di dinamiche sociali particolaristiche si ribellano alla territorialità. Citiamo solo l’esempio del fondamentalismo islamico, che rifiuta qualsiasi radicamento ad una nazione particolare. Molte solidarietà identitarie, religiose, etniche, linguistiche o culturali sono anche solidarietà transnazionali. Da questo punto di vista lo Stato nazionale, minacciato contemporaneamente dalla mondializzazione e dalle nuove forme di particolarismo, appare un orizzonte identitario. almeno in parte superato (cfr. Bertrand Badie, Entre mondialisation et particularismes, in «Sciences humaines», maggio 1996, pagg. 22-25).
37 Cfr. Arlette Heymann-Doat, Les institutions européennes: pôle de résistance ou facteur d’accélération?, in «Après-demain», aprile-maggio 1996, pagg. 44-45.
38 Philippe Enghelhard, op. cit., pag. 365.
39 Jean Baudrillard, Le mondial et l’universel, in «Libération», 18.3.1996, pag. 7